Enrique Vila-Matas
Parigi non finisce mai
Traduz. dallo spagnolo di Natalia Cancellieri
Feltrinelli, I Narratori, 2006, pag. 226
ISBN 88-07-01704-0
Cominciamo dal titolo, che è una citazione da “Festa mobile” di Hemingway:
“Parigi non finisce mai e i ricordi di chi ci ha vissuto differiscono tutti gli uni dagli altri […]. Parigi ne valeva sempre la pena e qualunque dono tu le portassi ricevevi sempre qualcosa in cambio. Ma questa era la Parigi dei bei tempi andati, quando eravamo molto poveri e molto felici”
L’ultimo libro dello scrittore Enrique Vila-Matas, autore di una vasta opera narrativa, vuole essere infatti “una revisione ironica dei due anni trascorsi in quella città quando ero giovane e durante i quali, a differenza di Hemingway, che lì era stato “molto povero e molto felice”, ero stato molto povero e molto infelice” (pag. 10)
La Parigi che emerge da queste pagine è insieme concreta e mitica, paesaggio dell’anima e luogo di apprendistato letterario. E’ popolata da decine di altri autori del presente e del passato tra cui Perec, Barthes, Borges, Malraux, Joyce, Gertrude Stein, Scott Fitzgerald e naturalmente da lui, il leggendario Hemingway, idolatrato da Vila-Matas al punto da volergli somigliare anche fisicamente e da Marguerite Duras, sua padrona di casa e bizzarra consigliera di scrittura.
In un racconto a tratti esilarante, denso di rimandi metaletterari, giochi di specchi e continui balzi temporali, Vila-Matas ripercorre le tappe della progettazione e della stesura del suo primo romanzo “L’assassina letterata”. Rievoca i giorni in cui si chiedeva se fosse meglio, per un aspirante scrittore spagnolo, autoesiliatosi dalla Spagna franchista e in cerca di immagine e di identità nel mondo intellettuale parigino porsi come situazionista o patafisico o esistenzialista o oulipiano. Ci rende partecipi dei suoi dubbi sul come si fa a diventare scrittori, sull’esistenza o meno di regole, sull’individuazione di un metodo creativo. Perchè “Parigi non finisce mai” è (anche) un libro sulla scrittura, sulle difficoltà e le angosce di chi è certo del proprio desiderio ma non delle proprie capacità e perciò si porta sempre appresso il foglietto-feticcio in cui Marguerite Duras, forse per levarselo di torno con tutte quelle domande sulla scrittura, gli ha frettolosamente scarabocchiato alcune regole per diventare “un bravo scrittore”. Ancora ignorava, il giovane Vila-Matas, (lo apprenderà dopo tanti anni dopo dalla stessa Duras) che “dubitare è scrivere” (pag.173) e che “come diceva già Hemingway […] le cose più importanti non si raccontano mai” (pag. 178)
L’ironia è la nota dominante e il leit motiv di tutto il libro perchè l’ironia è “la più alta forma di sincerità” ma anche “un modo per assentarsi” (pag.218) ed è proprio l’ironia “che ci consente di eludere le delusioni per il semplice motivo che si rifiuta di farsi illusioni” (pag.82).
Come recita il risvolto di copertina, la scrittura di Vila-Matas è allo stesso tempo “intimista e sperimentale, elegante e sfrontata”. Dietro l’apparente leggerezza di pagine di piacevolissima e scorrevole lettura si coglie una sorta di malinconica rassegnazione al proprio destino di scrittore.
“Lei scriva, non faccia nient’altro, nella vita” era il consiglio (“il criminale consiglio”) che Raymond Quenau aveva dato anni prima a Marguerite Duras e che lei a sua volta trasmette al suo inquilino-apprendista scrittore.
Così facendo. scrive Vila-Matas, Marguerite Duras “condannò anche me alla stessa sorte […]. Credo di poter dire di essere andato a Parigi solo per imparare a scrivere a macchina e ricevere il consiglio criminale di Quenau” (pag.225)