L’ORGIA DI PRAGA – PHILIP ROTH

Roth-copertina libro

Philip Roth, “L’orgia di Praga”, traduz. di Vincenzo Mantovani, Einaudi, 2006, ISBN 88-06-15822-8

Praga, anni ’70. Occupazione sovietica. Il celebre scrittore ebreo americano Nathan Zuckerman (che come noi lettori di Roth ben sappiamo è il suo alter ego) vi si reca per rintracciare un manoscritto inedito di un ebreo di lingua yiddish massacrato dai nazisti.

In sole 48 ore (e in 82 pagine di libro) Zuckerman sperimenta la soffocante cappa censoria in cui vivono gli scrittori in una città in cui “metà della popolazione è occupata a spiare l’altra metà” ed in cui (come gli spiega un suo amico praghese) ” i lavori umili vengono eseguiti dagli scrittori, dagli insegnanti e dagli ingegneri edili mentre l’edilizia è diretta da ladri e ubriaconi”

Il clima è surreale, le situazioni in cui Zuckerman si ritrova kafkiane tanto da fargli annotare nel taccuino: “Quando una mattina Nathan Zuckerman si svegliò da sogni inquieti scoprì di essersi trasformato nel suo letto nell’uomo che spazza i pavimenti in un caffè della stazione […] quando si sveglia la mattina e si rende conto di dove si trova e si ricorda in che cosa l’hanno trasformato, comincia ad imprecare e non la smette più”

Accortosi quasi subito di essere lui stesso spiato e pedinato, Zuckerman è ad un passo dal somigliare in maniera inquietante (ma anche ironica e ambigua, come spesso in Roth) al protagonista de “Il Processo”.

Quando due poliziotti vengono a prelevarlo per rispedirlo in America comunicandogli che è un ospite indesiderato e che deve ritenersi fortunato a cavarsela in questo modo, Nathan chiede al Ministro della Cultura che lo accompagna all’aeroporto: “perchè questi poliziotti? Io non ho commesso alcun reato” e si sente rispondere “lei ha commesso diversi reati” ma non ne specifica nemmeno uno.

Lucido e grottesco, dolente ma con tratti di lugubre erotismo, “L’orgia di Praga” è l’emblematico epilogo della trilogia composta da “Lo scrittore fantasma”, “Zuckerman scatenato” e “La lezione d’anatomia”

Un librino che gli appassionati di Roth non dovrebbero perdersi.

LECCORNIE MONOVOCALICHE

Non esistono solo i “Versetti satanici” di Rushdie, ma anche i versetti monovocalici di Varaldo.

Varaldo, copertina libro

 

“All’alba Shahrazad andrà ammazzata. Capolavori in versetti monovocalici” di Giuseppe Varaldo, edito da Vallardi nel 1993 è un gioiellino oggi, temo, introvabile.
Si tratta di 209 pagine strepitose contenenti sonetti monovocalici che fanno un originale ritratto di 40 grandi opere della letteratura mondiale. Queste e numerose altre acrobazie di scrittura in un libro su altri libri, e personaggi. Il librino ha la prefazione di Umberto Eco e la post-fazione di Stefano Bartezzaghi. Roba, insomma, da leccarsi i baffi.

Ero convinta di averlo perso (il librino è davvero minuscolo) e dopo averlo inutilmente cercato per mesi in tutta la casa, mi ero ormai rassegnata alla dolorosa perdita.

E invece ecco che ieri, frugando nelle librerie alla ricerca di tutt’altro, ecco che mi casca addosso da uno scaffale dove si trovava nascosto dietro libroni molto più grandi di lui.

Sono così felice del ritrovamento che voglio offrirvi almeno qualche leccornia tratta dal capitoletto
Monoversi monovocalici

Sono singoli endecasillabi che seguono la regola del monovocalismo. Ognuno di essi è una definizione, un conciso riassunto, un commento o una parafrasi di un’opera letteraria del Novecento.
Sigmund Freud, L’interpretazione dei sogni
Rivivi lì gli psichici dissidi

Alberto Moravia, Gli indifferenti
Cinici vip, intrighi, grigi figli

Ernest Hemingway, Per chi suona la campana
Dalla Spagna “da dan” fa la campana

Dino Buzzati, Il deserto dei tartari
Tarda l’armata tartara a passar.
Sono Drogo: lo scontro non godrò

Samuel Beckett, L’innominabile
Per Beckett l’N.N. essente è

Vincenzo Consolo, Il sorriso dell’ignoto marinaio
‘Sto nostromo non noto gongolò

Gabriel Garcia Marquez, Cent’anni di solitudine
In siti mitici, di figli in figli

Ma vi assicuro che questo è solo un assaggio di tutte le prelibatezze apparecchiate da Varaldo…smile!!!

ALICE JAMES: QUANDO MORIRE DIVENTA UN’ARTE

Alice James (1848-1892)

E’ stato ristampato, a distanza di vent’anni dalla prima pubblicazione in Italia, il Diario che Alice James tenne dal 1889 al 1892, data della sua morte.
Sorella di due grandi personalità come lo scrittore Henry James e del filosofo e psicologo William James, affine a loro per intelligenza, cultura ed ambizione, Alice era però una donna cui l’epoca e l’ambiente rendevano impossibile anche solo sperare di potere realizzare le proprie aspirazioni. Da lei ci si aspettava che, come le altre donne della media e alta borghesia americana, si sposasse, facesse figli, diventasse una perfetta padrona di casa. Come sua madre.
Alice però rifiutò questo destino, e lo fece reagendo in un modo che come ha scritto Laura Lepri su Il Sole 24 Ore del 3/9/2006 “avrebbe fatto la gioia di Sigmund Freud”. Alla morte del padre, alla quale era stata legata da fortissimo amore-odio, e che era privo di una gamba, si inchiodò su una sedia dalla quale non si sarebbe più alzata. Decise insomma di diventare paralitica. Da quel momento e da quella postazione iniziò tutto un turbinio di amicizie, conoscenze, relazioni epistolari, riflessioni assistita, dal 1873, dalla forte, affettuosa Katherine, che le farà da madre, amica, governante e infermiera.

Cominciò a tenere segretamente un diario nel 1889. In esso annotava le sue riflessioni sulla cronaca, la politica e la cultura dell’Inghilterra dove si era trasferita definitivamente assieme al fratello Henry. Ma nel diario descriveva anche se stessa con feroce autoironia definendosi “dittatore paralizzato” e”zitella inacidita” preparandosi al grande evento della sua vita: la propria morte.

Costantemente tentata dall’idea del suicidio, con la morte ci giocava; la immaginava, ci scherzava su, temeva solo di non gustarla appieno, morendo nel sonno. La malattia e la morte sono l’espressione della sua competizione e della sua realizzazione. Non essendole concesso di distinguersi in altro modo, sceglie di distinguersi “per differenza”. Fino a che, il 31 maggio del 1891, potè scrivere nel diario:

“Tutto arriva a colui che sa attendere! Può darsi che le mie aspirazioni fossero stravaganti, ma oggi non posso lamentarmi che non si siano brillantemente realizzate!”

Quel giorno, un medico londinese le aveva diagnosticato un tumore al seno. Finalmente qualcosa di concreto.

Da quel momento Alice cura la regia di uno spettcolo che sarà costituito dalla sua “uscita di scena”, cioè dalla sua morte.
Un solo pensiero la affligge: non potervi assistere lei stessa: “Visto che il battesimo mi è stato negato dai miei genitori, il matrimonio da uomini insensibili e ciechi, è un peccato che non possa assistere a questa mia prima ed ultima cerimonia”. E ancora: “la difficoltà del morire sta nel fatto che la cosa non si può raccontare ai propri amici, e allora dov’è il divertimento?”

Alla sua morte, la fedele Katherine fece stampare privatamente quattro copie del diario: una per se ed una per ciascuno dei fratelli ancora in vita e che erano completamente all’oscuro dell’esistenza del diario.
William ne fu felice. Henry invece, che aveva un terrore folle della pubblicità e che difendeva ossessivamente la propria privacy ne rimase atterrito.
In una lettera al fratello William espresse una grande apprezzamento per le doti letterarie di Alice, ma poi non se la sentì di conservare pagine in cui si parlava tanto anche di lui. E poco dopo bruciò la copia in suo possesso.

Si deve sempre a Katherine se esso è arrivato sino a noi. Nel 1934, ormai ottantaquattrenne, Katherine ne incoraggiò la pubblicazione ufficiale. Il diario di Alice ottenne un immediato successo di critica e Virginia Woolf lo segnalò fra i libri che meritavano di essere letti.

Scrive Maria Antonietta Saracino nella sua acuta, sensibile e documentata prefazione:
“Morire può dunque essere davvero un’arte, una vocazione? […] Con il suo atteggiamento di sfida verso l’ordine sociale, verso la razionalità borghese che allontana da sé la morte come fa con i pazzi e gli anormali, Alice, in realtà, è della vita che sta gridando tutto lo scandalo.

Parlando di sé, parla di infinite altre donne come lei che a questo scandalo non sono riuscite a sottrarsi scrivendone, rende giustizia anche a tutte coloro che, non godendo del privilegio di un cognome famoso, dalla Storia sono state condannate al silenzio”.

Alice James, Il Diario 1889-1892,Traduz. e introduz. di Maria Antonietta Saracino, Nutrimenti, Roma, 2006,

LA MORTE INDIFFERENTE. PROUST NEL GULAG – JOSEPH CZAPSKI

Copertina libroJoseph Czapski
La morte indifferente. Proust nel Gulag


Titolo originale: Proust contre la déchéance. Confidences au camp de Griazowietz


Prefazione di È. de la Héronnière, postfazione di G. Herling, traduzione di M. Zemira Ciccimarra

Con quattro immagini del quaderno del campo
ed. L’Ancora del Mediterraneo, Napoli 2005
ISBN 88-8325-152-0
Pubblicato da una piccola e raffinata casa editrice napoletana, “La morte indifferente” è un breve ma preziosissimo libretto.

E’ un libro che non è stato mai scritto dal suo autore ma, come dice Edith de la Héronnière nella prefazione “è stato raccontato, e afferrato al volo per essere trascritto da dita irrigidite dal freddo”.

Joseph Czapski, nato a Praga da famiglia aristocratica polacca, di educazione raffinata; pittore e scrittore, dopo una lunga permanenza a Parigi torna a Varsavia, dove si trova quando scoppia la guerra. Il 29 settembre 1939 viene fatto prigioniero dai russi e internato prima nel campo di Starobielsk e poi, nel maggio 1940, trasferito a Griazowietz scampando così, per puro caso, al massacro di Katyn perpetrato dalla polizia sovietica.

Nel gulag Czapski organizza, assieme ad altri prigionieri, conferenze di argomento storico e letterario (“Abbiamo cercato di riprendere un certo lavoro intellettuale che ci doveva aiutare a superare la prostrazione e l’angoscia e a preservare le menti dalla ruggine dell’inattività”) e lui stesso tiene conferenze sulla pittura francese e polacca e sulla letteratura francese ed in particolare all’opera di Proust.

Non ha il supporto di alcuna biblioteca, non ha alcun libro relativo al tema. Nella sua conferenza dunque Czapski non ha a sua disposizione, per rievocare il mondo di Proust e di “Alla ricerca del Tempo perduto” altro strumento che la memoria; quella memoria che è una delle architravi dell’opera di Proust; per illuminarlo, nient’altro che la luce del suo ricordo. Ed è così che facendo rivivere Proust, la sua opera, il suo mondo, Czapski riesce a vivere e a far vivere i suoi ascoltatori. E questo lo sa con tale certezza che “la morte gli diviene indifferente”.

Czapski parla dunque ai suoi compagni di prigionia dei sui primi, difficili approcci con l’opera di Proust, rievoca il contesto, gli avvenimenti artistici e letterari che fanno da sfondo alla stesura dell’opera; si addentra nella biografia di Proust, così indistricabilmente intrecciata al romanzo. Analizza lo stile, il linguaggio, i personaggi; cita interi brani della RTP. Tutto e sempre affidandosi solo alla memoria.

Robert Czapskj

Liberato nel 1941, trasferitosi definitivamente a Parigi, muore nel 1993 lasciando una notevole opera pittorica e letteraria.

Di saggi su Proust sono ormai stracolme le librerie, ma questo di Czapski è prezioso perchè è una grande metafora del potere che ha l’arte di restituire agli uomini la dignità negata e calpestata dalla guerra. Il suo titolo originale infatti è — non a caso —“Proust contre la déchéance”, e cioè “Proust contro il degrado”.

Scrive Czapski nell’introduzione:

“Vedo ancora i miei compagni ammucchiati sotto i ritratti di Marx, Engels e Lenin, sfiniti dopo una giornata di lavoro al freddo, con temperature che raggiungevano i quarantacinque gradi sotto zero, che ascoltavano le nostre conferenze su temi tanto lontani dalla nostra realtà di allora.

E pensavo con emozione a Proust, nella sua camera surriscaldata dalle pareti di sughero, che si sarebbe assai stupito, e forse commosso, di sapere che a vent’anni dalla sua morte un gruppo di prigionieri polacchi, dopo una giornata intera trascorsa nella neve, al freddo, ascoltavano con vivo interesse la storia della duchessa di Guermantes, della morte di Bergotte, e tutto quello che riuscivo a ricordare di questo mondo di preziose scoperte psicologiche e di bellezza letteraria”

Io credo che Proust non avrebbe potuto immaginare omaggio più grande.

(La copertina del libro riproduce una pagina del quaderno originale. Cliccare sull’immagine per ingrandirla)

Joseph Czapski, foto

Joseph Czapski

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