UN FINALE TRAVOLGENTE

Che cosa di meglio, per concludere un anno ed iniziarne un altro, che un finale travolgente? Quello del Primo Atto dell’ Italiana in Algeri di Rossini, per esempio. Nella storica incisione di Claudio Abbado con i Wiener Philarmoniker ed un cast straordinario tra cui il mio a-ma-tis-si-mo Ruggero Raimondi, qui nel ruolo di Mustafà.

Dell’ Italiana in Algeri Stendhal ha scritto che "questa musica fa dimenticare tutta la tristezza del mondo"

Copertina CD
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Gioacchino Rossini, L’ITALIANA IN ALGERI

Ruggero Raimondi, Mustafà; Patrizia Pace, Elvira, Frank Lopardo, Lindoro; Agnes Baltsa, Isabella; Enzo Dara, Taddeo; Anna Gonda, Zulma; Alessandro Corbelli, Haly
Orchestra dei Wiener Philarmoniker, Direttore Claudio Abbado
Registrazione in studio effettuata in occasione di una serie di rappresentazioni dell’opera alla Staatsoper di Vienna nel 1987, con regia, scene e costumi di Jean-Pierre Ponnelle

NELLA RETE DEI MAGHI – MARIANNE KRULL

Copertina libro
Marianne Krüll, NELLA RETE DEI MAGHI. Una storia della famiglia Mann, traduz. Mirella Torre Casalino, p. 397, Bollati Boringhieri, 1993, ISBN 88-339-0805-4

Si, ancora Mann. Ma questa volta non soltanto Thomas.

Il post n. 133 del blog akatalepsia di Clelia Mazzini su “La montagna incantata” di Thomas Mann mi ha sollecitato molte riflessioni sia letterarie che personali e mi ha spinto a tirar giù dallo scaffale della mia libreria dedicato alle opere dei e su i Mann questo volume la cui attenta lettura è secondo me decisamente irrinunciabile per chiunque sia interessato alla loro opera letteraria.

Marianne Krüll —il cui cognome è, per una singolare coincidenza, uguale a quello del protagonista dell’ultimo romanzo di Thomas Mann “Le confessioni del cavaliere d’industria Felix Krull, rimasto incompiuto per la morte dello scrittore—, berlinese, è una sociologa tedesca particolarmente interessata ai temi della famiglia, agli aspetti teorici della terapia familiare, alle tematiche femminili.

Scrive la Krüll all’inizio della sua prefazione:

“… loro, i maghi della famiglia Mann, con tutte le maschere e tutti i travestimenti che hanno assunto sia nella realtà della loro esistenza sia in quella delle loro opere letterarie. “Mago” fu l’appellativo dato a Thomas Mann dai sui figli, […]. Del pari un mago fu il fratello Heinrich, l’altro scrittore della famiglia della medesima generazione, considerato da molti addirittura più grande del ben più famoso fratello. E Klaus — che portava anche i nomi di Heinrich e Thomas — divenne l’ “apprendista mago” del padre e dello zio […] Da sempre mi hanno affascinata non soltanto le singole opere di Thomas, Heinrich e Klaus Mann, ma l’intera rete che essi hanno tessuto, dalla quale si lasciarono portare e sollevare, ma dalla quale capitò loro anche di cadere, trascinando con sé altre persone”

Le storie di Klaus e dei fratelli Thomas ed Heinrich (rispettivamente padre e zio di Klaus) presentano straordinarie somiglianze, continui avvicinamenti ed allontanamenti, un intreccio di amore, odio, rispetto e frustrazione, sentimenti inespressi che si irradiano e coinvolgono tutti i rami della famiglia per circa tre generazioni. Di questa storia familiare la Krüll individua i lati nascosti, i modelli fondamentali dell’inconscio familiare che, essa scrive “si sono trasformati non soltanto per Klaus, ma per molti altri prima di lui, insieme a lui e dopo di lui, in una trappola fatale” (p.19).

Il “filo rosso” dell’intero lavoro della Krüll è costituito, secondo quanto lei stessa dichiara, dal suicidio di Klaus, morto a quarantadue anni. Alla studiosa interessa la catena che collega questo suicidio all’impressionante numero di suicidi avvenuti nella famiglia Mann nelle generazioni precedenti a quella di Klaus e che finirono per costituire, con tutte le storie di colpe, sfiducia, odio presenti in molti eventi familiari, una sorta di vera e propria rete di modelli.

Suicidi, conflitti tra fratelli, pulsioni omosessuali latenti (Thomas) o dichiarate ed agite (Klaus ed Erika), una ricorrente fantasmatica dell’incesto (l’amore di Heinrich per la sorella Clara, quello di Klaus ed Erika, l’ambiguità, l’ambivalenza del rapporto tra Thomas ed il figlio Klaus) emergono dalle pagine di questo libro in un continuo intreccio tra analisi di documenti della storia della famiglia Mann e la genesi, le storie, i personaggi delle opere letterarie di Thomas, Heinrich e Klaus. Lo sguardo di Marianne Krüll non trascura nulla, nemmeno particolari apparentemente secondari ma il suo non è uno sguardo banalmente voyeuristico o alla ricerca dell’episodio o il particolare piccante. L’autrice si accosta alla vita delle tante persone che popolano il volume (tre famiglie numerose, figure femminili interessantissime, tra le quali Julia da Silva Bruhns, Clara, Julia, Katia ed Erika Mann) con la serietà della studiosa ma anche con grande empatia e comprensione. Nonostante il libro sia ricchissimo di riferimenti bibliografici e citazioni di documenti di famiglia la lettura risulta coinvolgente ed appassionante come quella di un romanzo. Lo stile è piano ma non piatto, l’architettura del libro sapiente.

Il volume è corredato da una documentazione iconografica molto ampia (e le fotografie sono riprodotte con grande cura), una ricchissima bibliografia.

Ed infine, per non perdersi in questo vero e proprio labirinto familiare e potere seguire agevolmente le vicende dei suoi componenti, troviamo “dulcis in fundo”, in una tasca interna della copertina, tre grandi ed accuratissime mappe con gli alberi genealogici delle tre famiglie: i Mann, i Bruhns (la famiglia materna di Thomas, Heinrich, Carla e Julia) ed i Pringshein (la famiglia di provenienza di Katia Mann, moglie di Thomas e madre di Klaus ed Erika).

Quando ho letto per la prima volta questo libro, almeno un decennio fa, conoscevo (credevo di conoscere) ed amavo già tutte le opere dei Mann. La lettura del testo della Krüll ha però messo sottosopra tutto quello che credevo di avere capito; mi sono ritrovata a “rileggere” mentalmente i romanzi in particolare di Thomas con occhio completamente diverso da prima; i deliri amorosi di Von Aschembach nei confronti di Tadzio o l’incesto dell’“Eletto” o le vicende di molti personaggi dei racconti hanno acquistato un senso che non avevo mai nemmeno sospettato. Mi sono rimessa a leggere, ed ho ricominciato daccapo.

Mi ricordo che avevo consigliato questo libro ad una mia amica antropologa le cui ricerche sono volte in particolare allo studio delle parentele, anch’essa appassionata delle opere dei Mann: mi ha poi riferito di essere rimasta impressionata e spiazzata quanto me …

PARIGI, BREL, MATISSE

Ho chiesto a Brel di dedicare a matisse una delle sue più belle canzoni "parigine". Lui ha subito detto entusiasticamente si.

Allora ecco qua uno dei gioiellini scovati frugando nella stanza dei tesori di Youtube. La qualità audio è buona, quella video un po’ meno ma si terrà conto, nevvero, dell’epoca di registrazione e poi… come si diceva una volta… "l’importante è il pensiero" 

Jacques Brel

La valse à mille temps


Au premier temps de la valse
Toute seule tu souris déjà
Au premier temps de la valse
Je suis seul mais je t’aperçois
Et Paris qui bat la mesure
Paris qui mesure notre émoi
Et Paris qui bat la mesure
Me murmure murmure tout bas


……………………………

Il testo integrale qui

IL TERZO TEMPO

Nel “Doctor Faustus” Thomas Mann dedica pagine stupende ad una delle più belle ultime Sonate per pianoforte di Beethoven, la n. 32 op. 111.

spartito

Questa Sonata di Beethoven, contravvenendo alla regola strutturale della Forma-Sonata classica che prevedeva un’architettura tripartita (tre tempi + una eventuale Coda), è costituita soltanto da due tempi: il “Maestoso” e l’ “Arietta”. Scrive Thomas Mann:

“Kretzschmar ce la fece sentire molto bene, sia pure al suono sgangherato dello scadentissimo pianino di cui disponeva (…) nello stesso tempo ci esponeva con spirito caustico la motivazione data dal maestro stesso per aver rinunciato a un terzo tempo in corrispondenza col primo. Interrogato in proposito dal domestico, Beethoven aveva risposto che non aveva avuto tempo, e perciò aveva preferito allungare un pochino la seconda parte. Non aveva avuto tempo! E con “calma” l’aveva detto. Evidentemente il disprezzo contenuto in quella risposta era passato inosservato, ma era giustificato dalla domanda”

(Thomas Mann, Il Doctor Faustus, Meridiani Mondadori, pag.69)

AL NATALE NON SI DÀ FUGA

“Non so se alcune consuetudini del Natale siano comuni a tutte le città in cui si celebra; ma suppongo che non differiscano granchè; ad esempio gli acquisti di cibo, segno palese della sensazione di deperimento che coglie i vivi; il recitato rafforzamento del vincolo domestico: infatti si usa mettere assieme, in modo che a me pare indecoroso, nonni, avi, nipoti parenti acquisiti in guise non di rado ambigue; ma scusa questa usanza il panico che sottende, la sensazione che ogni volta si sta facendo la conta, come su un vascello che affondi; ma non affondi per tempesta o naufragio, ma per una sua intrinseca vocazione ad affondare.” (p.11)

“…Ma si sa che al Natale non si dà fuga: in nessun modo” (p.12)

(Giorgio Manganelli, Il Presepio)

Libro non solo da spigolare — come ho fatto  io adesso — ma da leggere e da rilegger tutto, da tirar fuori ogni anno ai primi freddi. Come si fa con coperte e piumoni.


GLAMOUR AND EXPRESSION

"Cabaret", il musical di Bob Fosse tratto dal romanzo "Goodbye to Berlin" di Christopher Isherwood ambientato nella Berlino del 1931.

Ecco qui "Mein Herr" — una delle canzoni più famose — in due bellissime interpretazioni.

Quella di Liza Minnelli tratta dal film del 1972 e quella di Ute Lemper in concerto.
Due artiste bravissime, dotate di fascino, voce, capacità tecniche ed interpretative.
Però nella interpretazione di Ute (tra i suoi tanti CD ce n’è anche uno intitolato "Berlin Cabaret Songs") io sento, "vedo" il Kurt Weil da lei tante volte inciso, "Il Macinapepe" di Erika Mann, l’espressionismo, George Grosz e Fritz Lang… Nell’interpretazione di Liza Minnelli, che pure trovo superba… no.

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Mi ricordo bene il film di Bob Fosse, un grande momento musicale e cinematografico. Ma guardando quelle imagini di YouTube, mi è tornato in mente di aver visto a Parigi, in 78, in un « cabaret » molto somigliante al Kit Kat Klub berlinese, il « cabaret » Pigall’s di Parigi, Ingrid Caven. L’egeria di Fassbinder, affascinante nella sua lunga roba nera di Saint Laurent. Uno spettacolo indimenticabile. C’erano tutte le grandi personalità del mondo nictalope parigino. Una tradizione finalmente che ci porta ad interrogarsi sulla nostalgia del Berlino anni trenta, caratteristica degli anni 70/80. Nostalgia e fascino, caduti nelle stesso tempo della caduta del muro di Berlino. Quale senso si potrebbe dare ad un eventuale ritorno di quella nostalgia oggi ? « Willkomen, bienvenue, welcome, in cabaret, au cabaret, to cabaret.» Si può vedere in YouTube Ingrid Caven : Alles aus Leder.

Angèle (Terres de Femmes)
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Angèle, non me lo faccio dire due volte. Non aspettavo altro 🙂

Cliccate qui e trovate Ingrid Caven che canta "Alles aus leder"

E qui sotto Joel Grey in « Willkomen, bienvenue, welcome, in cabaret, au cabaret, to cabaret.»

SUITE FRANCESE – – IRÈNE NÉMIROVSKY

Irène NÉMIROVSKY , Suite francese,  a cura di Denise Epstein e Olivier Rubinstein, Postfazione di Myriam Anissimov, Traduz. di Laura Frausin Guarino, Adelphi, 2005, ISBN 88-459-2016-X

Ho appena concluso la lettura del volume Adelphi contenente il testo di “Temporale di giugno” e di “Dolce”, le prime due parti di un progetto che Irène Némirovsky intendeva strutturare come una sinfonia in cinque tempi e che rimase interrotto. Rimando, per la recensione del libro, ai tanti  articoli che si trovano  in rete.

Da parte mia, dico solo che “Suite francese” è un libro magnifico e struggente. Il ritratto spietato di una Francia abulica, vinta e occupata ed una tenera storia d’amore tra una sposa di guerra francese ed un giovane ufficiale nazista.
Ma il volume Adelphi — curato da Denise Epstein, una delle due figlie di Irène Némirovsky — contiene anche dell’altro, e quest’altro è costituito dagli appunti di Irène sullo stato della Francia durante la guerra e sul suo progetto di scrittura, da frenetiche e drammatiche lettere scritte tra gli anni 1936-1945 e da una densa postfazione di Myriam Anissimov.

Conoscere la tragica fine della Némirovsky e di suo marito, la lettura di queste “appendici” contenute nel volume non può, io credo, non influenzare chi approccia oggi il romanzo della Némirovsky. A me non è stato possibile neanche per un momento dimenticare che lei andava scrivendo quelle pagine sulla guerra, sui nazisti, sulla Francia vinta ed occupata dai tedeschi, sulle leggi razziali in tempo reale, in presa diretta e con la piena consapevolezza — in questo, Iréne mostra una incredibile lucidità — di avere i giorni contati e del fatto che per lei molto realisticamente non ci sarebbe stato futuro. E’ questo uno di quei casi in cui è estremamente difficile tener distinto il giudizio critico sull’opera narrativa dalle vicende personali dell’autore.

Irène Némirovsky“Giuro qui di non riversare mai più il mio rancore, per quanto giustificato, su una collettività di uomini, quali che siano la razza, la religione, le convinzioni, i pregiudizi, gli errori”. Così scrive Iréne Némirovsky il 28 giugno del 1942 nel diario che contiene gli appunti del libro al quale sta lavorando febbrilmente e che cinquantanni dopo verrà pubblicato con il titolo di “Suite francese”. Il 13 luglio, appena un mese dopo, verrà arrestata dai gendarmi francesi come ebrea e straniera. Nonostante abitasse in Francia dal 1920 non aveva infatti mai ottenuto la cittadinanza francese ed a nulla le valse l’essersi battezzata e l’essere già una scrittrice molto nota (“Mio Dio, cosa mi combina questo paese? Dal momento che mi respinge, osserviamolo freddamente, guardiamolo mentre perde l’onore e la vita” aveva scritto, sempre nel diario, il 21 giugno).

Internata dapprima nel campo di concentramento di Pithiviers, nel Loiret, il giorno seguente viene fatta salire con altri deportati sul convoglio n. 6 diretto ad Auschwitz. Viene registrata nel campo di sterminio di Birkenau ma, debole e stremata (Irène soffriva, tra l’altro, di asma cronica) passa nell’atroce infermeria di Auschwitz. Morirà nella camera a gas il 17 agosto 1942. Qualche mese dopo il marito Michel Epstein subirà la stessa sorte.

In “Dolce” (la seconda parte di “Suite francese”) aveva scritto: “per quanto rapidamente e felicemente potesse concludersi la guerra, quanti poveri infelici non avrebbero mai visto quella fine benedetta, quel giorno di resurrezione?”.

Come scrive Myriam Anissimov nella postfazione, la storia stessa della pubblicazione di Suite française ha del miracoloso e merita di essere raccontata: il manoscritto, contenuto in una valigetta, seguì le bambine Elisabeth e Dénise — anch’esse ricercate dai nazisti — negli anni di fuga e in tutti i nascondigli ma soltanto molti, molti anni dopo trovarono il coraggio di leggere quelle pagine scritte dalla madre con una grafia minuscola per risparmiare l’inchiostro e sulla pessima carta del tempo di guerra. Quella lettura era per loro troppo dolorosa. Alla fine però decisero, le due sorelle, di salvare l’ultima opera della madre. Quando nel 2004 Suite française venne pubblicato in Francia divenne subito un caso letterario ed ottenne addirittura il prestigioso Prix Renaudot. I giurati, assegnando il premio a titolo postumo, per Irène Némirovsky avevano infranto il loro rigido regolamento

 

SCOCCIATORI

Quinto Orazio Flacco è vissuto ed ha scritto circa duemila anni fa. Ma io, in gente come quella che lui descrive, mi imbatto ancora oggi e, se voglio resistere alla tentazione di reagire sgarbatamente, anch’io "Demitto auriculas, ut iniquae mentis asellus, / cum gravius dorso subiit onus" .

Quando dico  "l’eterna giovinezza dei classici".

Orazio Mi trovavo a passeggio per la via Sacra, pensando, come spesso m’accade, a non so più che inezie, tutto preso da quelle. Di corsa, un tale mi si fa accanto, uno che conosco soltanto di nome, mi afferra la mano e "Come stai, carissimo?" "A meraviglia, almeno per ora" gli dico "e ti auguro tutto ciò che desideri". Siccome non mi mollava, lo prendo d’anticipo: "Ti serve forse qualcosa?" E lui: "Dovresti conoscermi" mi dice "sono uomo di lettere". Ed io allora: "Ti terrò più caro, per questo". Cercando disperatamente di staccarmene, ora andavo più in fretta, ogni tanto mi fermavo, dicevo non so più cosa nell’orecchio al mio servo e il sudore mi gocciolava giù fino ai talloni. "Fortunato tu, Bolano, che sei una testa calda!" mi dicevo fra me, quando quello cianciava a ruota libera, magnificava le strade, la città. Siccome non gli rispondevo, "Desideri disperatamente svignartela" mi dice "è un pezzo che lo vedo: ma non c’è niente da fare; non ti mollerò fino all’ultimo; ti starò alle calcagna. Da che parte sei diretto adesso?" "Non è il caso che tu faccia un simile giro; voglio andare a trovare un tale che non conosci; è a letto e abita oltre il Tevere, vicino ai giardini di Cesare" "Non ho niente da fare e non sono pigro: ti verrò dietro fin lì". Io abbasso le orecchie come fa l’asinello, rassegnato per forza, quando si trova sulla groppa un carico più pesante.

(Quinto Orazio Flacco, stralcio dalla Satira I,9, Traduzione di Mario Labate, I Classici della BUR)

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