GOMORRA – ROBERTO SAVIANO

Copertina libro
Roberto SAVIANO, Gomorra. Viaggio nell’impero economico e nel sogno di dominio della camorra, Mondadori, collana Le Strade Blu, p.331, 2006, ISBN 88-04-55450-9

Ho terminato la lettura due giorni fa ed avrei proprio tanto, da dire, su questo libro che parla di camorra o, per essere precisi, del “Sistema camorra”, come la definisce Saviano ma mi limiterò ad accennare ad alcuni punti che mi hanno particolarmente interessata.

Le pagine in cui si analizza la differenza tra il sistema camorra e la mafia siciliana, ad esempio e la diversa struttura, la diversa filosofia di funzionamento organizzativo in particolare per quanto riguarda il rapporto con lo Stato e le Istituzioni. Il compito primario degli appartenenti al sistema camorra sono gli affari ed il profitto e dunque, in ragione di questa sua natura imprenditoriale e a differenza di Cosa Nostra, per la camorra “non esiste il paradigma Stato-Antistato. Ma solo un territorio in cui si fanno affari con, attraverso e senza lo Stato” (p.209).

Gli strettissimi rapporti che, come nella mafia siciliana, ci sono tra religione e camorra: perchè “in terra di camorra il messaggio cristiano non viene visto in contraddizione con l’attività camorristica […] la necessità di uccidere viene vista come una trasgressione lecita […] se l’omicidio avviene per un motivo superiore, ovvero la salvaguardia dei clan, degli interessi dei suoi dirigenti, del bene del gruppo e quindi di tutti” (p.247)

Il lungo capitolo dedicato al ruolo sempre meno subalterno e sempre più spesso di potere che le donne vanno assumendo all’interno del sistema ed il fatto che “Sino ad oggi del resto, a differenza degli uomini, nessuna donna, boss di camorra, si è pentita. Mai” (p.166). Sempre in termini di analogie e differenze mi è tornato in mente, a questo proposito, il bel libro sulle donne nella mafia siciliana edito da Flaccovio nel 1997 scritto dal magistrato dell’Antimafia Teresa Principato e dalla sociologa Alessandra Dino Mafia donna. Le vestali del sacro e dell’onore.

Alcune figure funzionali al sistema come ad esempio i “Visitors”, gli eroinomani usati come cavie umane per testare il taglio della droga e dagli stessi spacciatori così chiamati con disprezzo come i personaggi di quel vecchio telefilm degli anni ’70: alieni schifosi che mangiavano topi. Alcuni ruoli secondari ma anch’essi funzionali come I “Sottomarini”: gli uomini usati come postini per recapitare “la mesata” alle famiglie di affiliati in galera. I cinesi che “lavorano come bestie, strisciano come bisce, sono più silenziosi dei sordomuti”.

Il libro è popolato da personaggi straordinari (nel senso di “fuori dall’ordinario”): il sarto Pasquale, che diventa camorrista per la frustrazione di vedere che il suo grande talento non sarà mai non solo riconosciuto ma non gli consentirà mai nemmeno di sfamare la sua famiglia. La dirigente camorrista Anna Mazza e le sue donne guardaspalle vestite come Uma Thurman in “Kill Bill”. Oppure il prete Don Peppino Diana, massacrato per avere sfidato i boss. Oppure Pikachu, il “ragazzino biondo e chiatto quanto bastava per ribattezzarlo Pikachu” come il personaggio dei cartoni animati giapponesi e che “a quattordici anni pensava a come morire”.

E le pagine e pagine, tutte tremende, che riguardano i ragazzini. Le descrizioni di come vengono arruolati dal Sistema (p.119). Di come vengono letteralmente “addestrati a morire” (p.118). I ragazzini-soldato (p.121). I ragazzini “morti viventi”, che a tredici, quattordici anni vengono utilizzati come autisti di camion che trasportano concime mischiato a veleni nelle discariche abusive nei terreni inquinati dalla diossina. Che “più sentivano dire che la loro era un’attività pericolosa, mortale, più sentivano di essere all’altezza di una missione così importante. Cacciavano il petto in fuori e uno sguardo sprezzante dietro gli occhiali da sole. Si sentivano bene, sempre meglio, nessuno di loro neanche per un istante, poteva immaginarsi dopo una decina d’anni a fare la chemioterapia, a vomitar bile con stomaco, fegato e pancia spappolati” (p.329).

Tutto questo, espresso con un linguaggio, uno stile di scrittura che mi ha catturata sin dalla prima pagina. Potente, concreto, plastico, con elementi certamente splatter ma mai gratuiti e sempre funzionali ai contenuti. Assenza assoluta di volgarità. Linguaggio violento?!? Nelle librerie circola roba ben più violenta (oltre che volgare). L’intollerabile violenza di Gomorra sta nelle situazioni descritte: le parole di Saviano non fanno che riuscire a rappresentarne tutto l’orrore. Pagine come quelle dell’incolpevole ragazza Gelsomina Verde orribilmente torturata ed assassinata solo perchè sospettata di avere amoreggiato con un affiliato di un clan avversario, o del massacro di due ragazzini adolescenti e tanti tanti altri episodi che rappresentano per un lettore che abbia anche solo un minimo di sensibilità un vero e proprio pugno nello stomaco risultano tali “anche” perchè il linguaggio di Saviano riesce a trasmetterne tutta l’atrocità. E ci riesce perchè si gioca in prima persona, mettendo in piazza le proprie reazioni emotive e fisiche, usando coraggiosamente e non narcisisticamente il pronome “io”, mostrandoci il suo coraggio ma anche i suoi tentennamenti, le sue debolezze, la sua impotenza di fronte a certe atrocità, la sua frustrazione.

Mi auguro che chi segue telegiornali e si tiene mediamente informato non sia certo attraverso Gomorra che abbia scoperto l’esistenza della camorra o che abbia appreso dei massacri di Secondigliano o che “Il Sistema” imprenditoriale della camorra ha le mani in pasta in tutti i settori che possano costituire fonte di ricchezza: dall’edilizia all’industria tessile, dallo smaltimento dei rifiuti tossici allo spaccio di cocaina ed eroina al turismo ed alle catene della ristorazione. Se la gente avesse scoperto tutto questo solo con Gomorra saremmo veramente messi male. Queste sono cose delle quali io spero fossero già tutti a conoscenza.

Però se mi sembra lecito aspettarmi che tutti siano informati almeno a grandi linee su mafia e camorra, ci sono aspetti particolari che non è detto che tutti debbano/dobbiamo già conoscere. E di questi aspetti particolari, il libro di Saviano è stato — parlo per me — una vera miniera.

Mentre leggevo pensavo che non mi importava un bel nulla di classificare/incasellare questo libro. Non mi importa etichettarlo come “giornalismo di inchiesta” oppure “saggio” o “fiction” o “pamphlet” o “reportage” o “romanzo”. Probabilmente si tratta di tutte queste cose insieme. Le cose narrate sono rivelazioni o cose già scritte e riscritte da precedenti reportage giornalistici, dai rapporti di polizia, da incartamenti giudiziari? Non mi sembra fondamentale, saperlo.

“Io so e ho le prove. […] la verità della parola non fa prigionieri perchè tutto divora e tutto si fa prova. E non deve trascinare controprove e imbastire istruttorie. Osserva, soppesa, guarda, ascolta. Sa. Non condanna in nessun gabbio e i testimoni non ritrattano. Nessuno si pente. Io so e ho le prove. […] Non ho video compromettenti in garage nascosti in inaccessibili paesi di montagna. Nè possiedo documenti ciclostilati dei servizi segreti. Le prove sono inconfutabili perchè parziali, riprese con le iridi, raccontate con le parole e temprate con le emozioni rimbalzate sui ferri e sui legni. Io vedo, trasento, guardo, parlo e così testimonio, brutta parola […] La verità è parziale, in fondo se fosse riducibile a formula oggettiva sarebbe chimica. Io so e ho le prove. E quindi racconto. Di queste verità” (p.234).

Anche se Gomorra fosse un semplice collage di testi, fatti, dati già noti questo non farebbe diminuire in nulla quelli che secondo me sono i suoi più grandi meriti: essere riuscito a mettere in primo piano, sotto la luce dei riflettori una serie di notizie e di informazioni relegate fino ad allora nelle pagine dei quotidiani (spesso locali) o negli archivi di polizia e tribunali e trasmettere un sentimento di orrore e di indignazione e chissà, forse anche di passione civile. Il che, a mio parere, non tornerebbe certo a suo demerito. Ho letto in alcuni blog interventi che manifestavano stupore per il numero di persone che per strada e sui mezzi pubblici circolano con in mano una copia di Gomorra. Soltanto moda? Ho difficoltà a crederlo.

Quando Gomorra era stato pubblicato non l’avevo inserito nella mia lista dei libri da leggere. Io vivo a Palermo ed ho letto tanti, ma proprio tanti libri sulla mafia: ultimo in ordine di tempo la ristampa aggiornata di Trent’anni di mafia di Saverio Lodato. Pensavo (sbagliando) che il libro di Saviano — benchè parlasse di camorra e non di mafia — non avrebbe aggiunto niente di fondamentale alle mie conoscenze e dunque ho ritenuto che non costituisse per me una priorità di lettura.

Se in questi giorni mi sono decisa invece a prendere in mano questo libro e leggermelo molto attentamente, è perchè mi ero stufata di imbattermi in rete ed in particolare su alcuni blog nelle polemiche furibonde che, quanto più il ritmo di vendite di Gomorra andavano crescendo diventando davvero imponente (si parla oggi di 500.000 copie vendute) andavano montando in maniera esponenziale.

Succede sempre, in Italia, appena un qualcuno ha successo. Se gli scrittori sono vecchi saranno accusati di essere decrepiti e sorpassati ed i loro lettori di essere conservatori e refrattari alle sperimentazioni letterarie. Dei giovani si dirà in tono un pò sprezzante “ma è solo una moda, dura minga”. Fatto sta  che tutto si tollera tranne uno scrittore/una scrittrice di successo, questo a me sembra essere il dato.

Gli aspiranti scrittori o gli esordienti in particolare godono di simpatia e vengono spalleggiati dai colleghi fino a quando rimangono nell’ombra e si piangono addosso. Appena danno segni di avere anche un benchè minimo successo (di pubblico, di critica, di premi, di numero di copie vendute o addirittura di queste quattro cose tutte assieme) si scatena il finimondo. Accade pressocchè con tutti. Saviano rappresentava dunque, per me, semplicemente un ulteriore “quod erat demonstrandum”.

Quello che però alla fine ho trovato davvero insopportabile è stato il verificare come il 90% delle critiche non fossero rivolte al libro ma al suo autore. Ho letto tonnellate di roba, in rete, ma di interventi che entrassero nel merito del libro, di vere e proprie recensioni… davvero poca roba. Il link che trovate in calce a questo post e che rimanda ad una seria ed equilibrata  recensione costituisce davvero una delle rare eccezioni.

Insomma, ad un certo punto ho detto basta, ho messo momentaneamente da parte altre letture che avevo in programma ed ho deciso di leggermi il libro e di farmene un’opinione mia. Giusta o sbagliata, almeno sarebbe stata la mia.

IO NON LA SOPPORTO LA GENTE CHE NON SOGNA

Lo dico subito: per me Francesco Guccini è uno scrittore, più che un musicista e  un cantante.

Il Guccini che mi piace è l’autore di "Cròniche epafaniche" e di "Vacca di un cane", i suoi due libri autobiografici. Molto belli.
 Preferisco leggerlo, Guccini, che ascoltarlo.

Con una  eccezione:   "Cyrano"

  • Il testo di "Cyrano"
  • Francesco Guccini su Wikipedia
  • Francesco Guccini sito ufficiale
  • Cròniche epafaniche
  • Vacca d’un cane
  • IL RITORNO DI CASANOVA – ARTHUR SCHNITZLER

    Copertina libro
    Arthur SCHNITZLER, Il ritorno di Casanova, a cura di Giuseppe Farese, Adelphi, Biblioteca Adelphi n.59, p. 148, 1975

    “La recita di Bolzano” di Márai mi ha fatto venir voglia di rileggere “Il ritorno di Casanova” del viennese Arthur Schnitzler.  Anche lui un autore che amo molto.
    Schnitzler — che a Casanova dedicò anche un testo teatrale, la commedia “Le sorelle, ovvero Casanova a Spa” — scrisse questo breve romanzo nel 1917.

    Nel bellissimo incipit ci sono già tutti i temi sui quali si svilupperà la sua narrazione:

    “A cinquantatre anni Casanova, da tempo non più spinto a vagare per il mondo dal giovanile piacere dell’avventura, ma dall’inquietudine dell’avanzante vecchiaia, fu preso da una così intensa nostalgia per la sua città natale, Venezia, che cominciò a girarle intorno simile a un uccello che vien giù a morire calando da libere altezze in sempre più strette volute.

    Ma mentre è diretto a Venezia, proprio quando ormai ha quasi raggiunto la meta perchè il Consiglio dei Dieci gli ha finalmente accordato il permesso di rientrare dall’esilio, a Mantova il destino gli fa incontrare Marcolina, una fanciulla bellissima la quale, benchè non ancora ventenne è già una dotta studiosa di matematiche superiori e lucida illuminista. La ragazza si rivela subito del tutto indifferente nei confronti di Casanova, è verso di lui di una freddezza che egli mai si è trovato a dover fronteggiare in una donna. Pur trattandolo con ineccepibile cortesia formale, lungi dall’essere in qualche modo attratta dal leggendario “tombeur de femmes” Marcolina si comporta con Casanova con condiscendente superiorità anche nelle discussioni filosofiche su Voltaire in cui egli incautamente, sperando invano di far colpo, si avventura. Il desiderio di conquistare e possedere con ogni mezzo Marcolina costringerà Casanova a gettarsi in un intrigo rovinoso e degradante.

    Il racconto di Schnitzler, il cui tempo cronologico si sviluppa in cinque giorni e cinque notti è la rappresentazione di una decadenza e la cronaca di una solitudine: il Casanova di Schnitzler è un uomo rivolto al passato, che non è capace di accettare la vecchiaia, che non sa affrontare il presente, astioso nei confronti di tutto ciò che è giovane, bello, innovativo. Il suo declino è determinato soprattutto dal fatto che con il passare degli anni ed il mutare delle cose attorno a lui gli si è sgretolato il “modus” stesso — immediato e superficiale — della sua esistenza. Si trova in un mondo che non riesce più a decodificare e che in quanto tale, pur attraverso continue oscillazioni tra momenti di depressione e deliri di onnipotenza, non può che considerare nemico.

    Sono rimasta molto impressionata, dopo questa rilettura, da alcune analogie tra i due romanzi dell’austriaco e dell’ungherese che mi sono sembrate evidenti e sulle quali vorrei fermarmi un attimo.

    In entrambi i testi, il registro narrativo è duplice, costituito dalla voce narrante  dell’autore e da lunghi monologhi del protagonista.
    Il romanzo di Schnitzler è del 1917; quello di Márai del 1940. Entrambi i testi (teniamo presente, fra l’altro, che i due autori appartenevano a Paesi che avevano fatto parte dell’Impero austro-ungarico e che dunque avevano radici per molti versi affini) furono scritti dunque durante una guerra (la prima guerra mondiale per Schnitzler, la seconda guerra mondiale per Márai). Periodi di crisi personali e sconvolgimenti epocali.

    Schnitzler assisteva, nel 1917, alla fine del mondo costituito dall’impero austro-ungarico, al crollo della Felix Austria, allo stravolgimento della Vienna del Biedermeier e dei valzer di Strauss. Márai, nel 1940, assisteva nella sua Ungheria ad una serie di eventi non meno drammatici ed epocali culminanti nell’occupazione nazista.

    Credo non sia casuale che in un momenti come questi entrambi gli scrittori abbiano scelto come protagonista di una loro opera la figura realmente esistita di un uomo — Casanova — che per anni con i suoi successi con le donne ed il gioco, la sua frequentazione di tutte le Corti d’Europa (fu ricevuto anche da Caterina di Russia), l’aura di non conformismo, di laicità e di libertà che lo precedeva dovunque andasse nei suoi frenetici spostamenti attraverso tutta l’Europa fu una vera leggenda vivente. Ed ancor meno casuale mi sembra che entrambi però abbiano scelto di cogliere e rappresentare Casanova non al culmine delle sue glorie mondane ma in un momento di crisi, in cui la gioventù e la bellezza cominciano a sfiorire (Márai) o decisamente nella vecchiaia (Schnitzler).

    I due Casanova costituiscono in realtà, attraverso la rappresentazione dello sfaldamento all’interno della dimensione psicologica di un personaggio e della alienante solitudine dell’individuo nella vita moderna la rappresentazione dello sfaldamento di una intera società.

    Singolare mi sembra anche, infine, il ruolo centrale che in entrambi i romanzi svolge una donna. La Francesca di Márai e la Marcolina di Schnitzler sono, molto curiosamente, personaggi femminili speculari tra loro ma che, narrativamente parlando, assolvono alla stessa funzione: far emergere la crisi e fare esplodere le contraddizioni.

    In copertina di questa mia vecchia copia Adelphi: J.H. Fragonard, Le verrou

    MERCATI DI PALERMO

    Fra un libro e l’altro, giocando con i videoclip. Questo è su due dei grandi mercati storici di Palermo: il mercato del Capo a Porta Carini e quello di Ballarò.

    Come colonna sonora ho scelto "Somethin’else". Miles Davis (tromba) e Cannonbal Adderley (sax)

    LA RECITA DI BOLZANO – SÁNDOR MÁRAI

    Copertina libro
    Sándor Márai, La recita di Bolzano, Traduz. di Marinella d’Alessandro, Pag. 265, Adelphi, Collana gli Adelphi, ISBN 8845919757

    Scritto nel 1940 dopo “L’eredità di Eszter” e prima dei grandi romanzi “La donna giusta” (1941) e “Le braci” (1942), “La recita di Bolzano” ha per protagonista Giacomo Casanova.

    Lo stesso Márai scrive nell’ Avvertenza all’inizio del testo: “il mio eroe rassomiglia maledettamente a quel viandante intrepido, apolide e tutto sommato, io credo, infelice”.

    La descrizione che Márai fa dell’ aspetto fisico del quarantenne avventuriero veneziano è impietosa: non è bello, non è particolarmente prestante. Ha i denti cariati, i capelli cominciano a diradarsi. “era un volto maschile privo di bellezza, di avvenenza, con un naso grande e carnoso, le labbra sottili e arcigne, il mento aguzzo, prepotente; […] piccolo di statura aveva il ventre un po’ prominente […] è incomprensibile, pensò Teresa […] cos’è che lo rende così amabile agli occhi delle donne?”.

    Perchè Casanova affascina, piace alle donne e vive un’esistenza da libertino, sempre alla ricerca della felicità, senza mai trovarla. Affetto forse da “impotenza amorosa”— come gli dirà il Conte di Parma — perennemente in fuga dalla solitudine (“tutto, fuorchè essere soli!” si disse, e rabbrividì) e da “quel morbo orribile, insidioso e terrificante che era la noia” non è sprovvisto, tuttavia, di una sorta di etica perchè, egli dice “esiste una virtù particolare, che altro non è se non la fedeltà assoluta alla nostra natura, al nostro destino ed alle nostre inclinazioni”. Ed è forse per questo che l’Inquisizione veneziana l’ha buttato a marcire ai Piombi cercando di neutralizzarlo perchè “non vi è nulla di più pericoloso di un uomo che rifiuta di sottomettersi alla tirannia”.

    La storia che ci racconta Márai inizia quando Giacomo, appena fuggito dalle carceri veneziane, accompagnato da Padre Balbi, un monaco “depravato”, giunge a Bolzano, tappa intermedia di un viaggio che, nelle intenzioni, dovrebbe portarlo verso Monaco e le corti europee. Ma a Bolzano “l’aspetta il destino”. La città non gli piace ma Giacomo non riparte perché scopre che proprio a Bolzano risiede Francesca, l’unica donna che abbia amato, per la quale in passato ha affrontato un duello — rimanendo gravemente ferito — con quello che poi è diventato il marito di Francesca, il Conte di Parma. La sua figura, il suo viso, la nostalgia per un sentimento inespresso e impossibile l’hanno accompagnato nel tempo. Ma ora che Francesca è vicina, ora che potrebbe riallacciare segretamente una relazione con lei, interviene il marito, un uomo ricchissimo e molto potente (è cugino del Re di Francia ed ha stretti legami con l’Inquisizione di Venezia) anziano e gelosissimo, con una richiesta molto particolare, che rimescola le carte e trasforma la situazione. A Giacomo viene comandata una vera e propria recita che possa far “guarire” la donna dalla sua passione per il veneziano. “Pagherò un prezzo alto per te, Giacomo – dice il Conte di Parma andando a trovare il libertino direttamente nella sua stanza alla Locanda del Cervo – com’è giusto che sia quando uno compra un regalo perché la sua vita volge al termine ed egli, in segno di congedo, vuole offrire qualcosa alla donna, all’unica donna che ama”.

    “Sali sulla scena, Giacomo, e tieni una recita a Bolzano”

    Giacomo accetta (“Allora che aspetti? Comincia a vestirti, vecchio commediante, illusionista avvizzito!”). L’esito di questa recita non sarò io a rivelarlo.

    “La recita di Bolzano”, con la sua ambientazione settecentesca, il riferimento ad un personaggio storico ambiguo ed affascinante e realmente esistito come Giacomo Casanova sembra, a prima vista, qualcosa di anomalo rispetto agli altri romanzi di Márai, tutti rigorosamente ambientati nel suo presente. A legger bene però ci accorgiamo di ritrovare in esso tutti i tratti caratteristici della narrativa dello scrittore ungherese: la maestria nell’analizzare rapporti affettivi all’insegna dell’ambiguità, ad esempio. Relazioni sempre in bilico tra amore ed odio, attrazione e ripulsa. Relazioni triangolari (come ne “Le braci” o “La donna giusta”); il doppio registro narrativo della voce narrante e dei lunghissimi monologhi in cui quasi sempre si parla di un terzo assente. La impossibilità di conoscere e di conoscersi fino in fondo viene qui magnificamente esplorata attraverso l’allegoria della maschera che, declinata in varie forme, raggiunge il culmine con la rappresentazione di un uomo che si maschera da donna per sedurre una donna e di una donna che si maschera da uomo per sedurre un uomo. La maschera, cioè la costrizione a recitare un ruolo artefatto. Come in una recita, come sul palcoscenico della vita.

    Il vero Casanova si rivelò, seppure negli ultimi anni, uno scrittore che con l’ “Histoire de ma vie” ci ha lasciato uno dei libri più affascinanti della letteratura e uno straordinario documento sulla vita, gli usi, la cultura del Settecento europeo. Non credo sia inutile ricordarlo, perchè proprio il tema della scrittura è molto presente in questo romanzo di Márai. La polarità vita/scrittura (“alla fine. Scriverò alla fine” dice Giacomo a Balbi che gli chiede: “Quando ti metterai a scrivere?”), il potere sovversivo della parola scritta, il mettere per iscritto un messaggio d’amore che rende la lettera d’amore “un atto impudico”, la lunga riflessione sui vari tipi di scrittori, tutto ciò converge nell’idea di scrittura come “linguaggio fatale”.

    Troviamo anche, in questo libro i primi accenni al tema delle braci, come le prime note, i primi accordi che annunciano quello che costituirà il leit motiv e la materia prima del romanzo “Le braci”, da molti considerato il capolavoro di Márai: “esiste un fuoco fatale che sonnecchia sotto le braci […] le fiamme e le braci accese e attizzate nel cuore umano dal volere divino non possono essere spente dalle mani degli uomini” (p. 260-61)

    Ed infine, la scelta stessa di mettere come protagonista del suo romanzo un Casanova definito da Márai “viandante intrepido, apolide e tutto sommato, io credo, infelice” non credo proprio sia stata casuale. Non è improbabile che in questa figura Márai in qualche modo vedesse un po’ del se stesso senza patria, apolide e tutto sommato anche lui sempre infelice.

    Nota sulla copertina di questo volume Adelphi: Wladyslaw Czachorskj, Segreti (1887, particolare) Museo Nacional de San Carlos, Mexico City

    E TU, CHE ASCOLTATORE SEI?

    Theodor Adorno

    La mia rilettura del racconto di Tolstoj, i commenti che sono seguiti al post,  mi hanno spinto a tirar giù dallo scaffale il volumetto contenente la raccolta di dodici lezioni di Theodor W. Adorno dal titolo “Introduzione alla sociologia della musica”

    Proprio all’inizio della sua trattazione, Adorno propone una sorta di tipologia di ascolto musicale definendo, anche se in modo schematico e più come spunto per una successiva elaborazione, sei tipi di comportamento musicale. Cerco di riassumerne i tratti essenziali.  Non certo per proporre l’ennesimo sondaggio (per caritadiddio!!!), ma semplicemente perchè mi sembra che questa griglia possa offrire interessanti spunti di riflessione che magari ognuno può fare per proprio conto.

    1) L’esperto. Appartiene in genere alla cerchia dei musicisti professionisti. Ha una solida preparazione tecnica. Intende pienamente la logica costruttiva di una composizione. Il suo è un ascolto “strutturale”.

    2) Il buon ascoltatore. E’ in grado di percepire istintivamente la logica immanente della musica ed è consapevole delle sue implicazioni tecniche e strutturali. “Capisce la musica all’incirca come uno capisce la propria lingua anche se sa poco o niente della grammatica e della sintassi”

    3) Il consumatore di cultura. Sa tutto, è informato su ogni particolare biografico ed aneddotico dei compositori. Gran collezionista di dischi e programmi, emette giudizi sugli interpreti. Le sue caratteristiche, dice Adorno, sono sostanzialmente il conformismo e il convenzionalismo. Non ama le novità.

    4) L’ascoltatore emotivo Non gli interessa nulla di quello che sta attorno alla musica. Si abbandona al flusso sonoro. In esso cerca una compensazione alle proprie carenze psichiche. Fa della musica un uso psico-somatico ed una scarica istintuale delle proprie energie represse.

    5) L’ascoltatore risentito o astioso. Ascolta solo un certo tipo di musica (la pre-romantica, ad esempio, o chessò.. i canti gregoriani, oppure il Jazz) e disprezza tutto il resto. E’ partigiano e settario.

    6) L’ascoltatore di musica leggera tout-court. Sia che la ascolti per passatempo o come fan, è questo, secondo Adorno, il tipo di ascoltatore su cui l’industria culturale specula su vasta scala ben sapendo che questo tipo di ascolto passivo è quello che meglio si presta al livellamento ed alla massificazione e quindi alla standardizzazione del prodotto.

    TOLSTOJ, BEETHOVEN E LA LASCIVIA DEI SENSI

    Beethoven-Tolstoj

    Il lungo racconto Sonata a Kreutzer   non è, tra le opere di Tolstoj, una delle mie preferite. Leggendo il lungo monologo di Podznysev che racconta la storia del proprio matrimonio e di come, travolto dalla gelosia e convinto del tradimento di sua moglie con un violinista, l’abbia accoltellata, vengo sempre presa da una forte irritazione e mi ricordo quanto sosteneva la moglie di Tolstoj, Sonia, e cioè che quel racconto suo marito lo scrisse mettendoci dentro molta cattiveria.

    Ci sono però alcune pagine (per l’esattezza due) di questo testo che mi interessano, e sono quelle in cui Tolstoj, descrivendo l’effetto che la Sonata di Beethoven ha sulla mente sovreccitata e delirante di Podznysev, elabora una vera e propria teoria di estetica musicale secondo la quale la musica (o almeno certa musica), agendo direttamente sui sensi, inibirebbe le facoltà razionali degli esseri umani esaltandone tutta la sensualità animale. “…la musica, lo strumento più raffinato per eccitare la lascivia dei sensi”, scrive Tolstoj.
    E’ una tesi che nella sua estremizzazione non condivido affatto. Merita però di esser ricordata, perchè mi sembra l’espressione letteraria di una concezione della musica in cui la funzione dionisiaca, che essa certamente ha, viene però assolutizzata in maniera, a mio modo di vedere, ai limiti del grottesco.

    “Eseguirono la Sonata a Kreutzer di Beethoven. Lo conosce lei il primo tempo, il ‘presto’ iniziale, lo conosce?!” gridò addirittura. “Oh, è qualcosa di terribile, quella sonata. E specialmente quel tempo iniziale. […] è forse ammissibile suonare quel pezzo in un salotto affollato di signore in abiti scollati? Sonarlo e poi applaudire, e poi mettersi a mangiare il gelato e chiacchierare dell’ultimo pettegolezzo? […] su di me l’esecuzione di quel pezzo ebbe un effetto terribile…”

    (Lev N. Tolstoj, Sonata a Kreutzer)

    Il primo movimento della Sonata No 9, Op. 47 (“Kreutzer”) di Beethoven  nell’interpretazione di Nathan Milstein (violino) e Georges Pludermacher (pianoforte) .

     

    NEMICO, AMICO, AMANTE – ALICE MUNRO

    Copertina libro
    Alice Munro, Nemico, amico, amante, traduz. Susanna Basso, Einaudi Super ET, 2005, p.320, ISBN 8806174681

    Hateship, Friendship, Courtship, Lovership, Marriage.

    Questo il titolo originale della raccolta di racconti di Alice Munro. E’ il suo primo libro che leggo, ma mi è bastato per trovarmi d’accordo con coloro che la definiscono una delle più grandi narratrici viventi. Sicuramente non mi fermerò qui e recupererò tutto quello che finora mi sono persa, di quest’autrice canadese.

    I racconti sono nove, uno più bello dell’altro. Perfetti come ritmo, scelta dei tempi, strategia narrativa. Non una parola in più nè una di meno del necessario. Protagonista sempre una donna. Gli uomini sono, di volta in volta mariti, amanti, padri, fratelli. E dunque, in quanto tali, di volta in volta amati, odiati, ammirati, disprezzati. Spesso sopportati.

    Tutte le storie si svolgono all’interno della famiglia. L’ambientazione è il Canada. Grandi metropoli come Vancouver o paesetti sperduti in quell’ immenso territorio.

    Eppure, l’accurata contestualizzazione risulta, di fatto, di importanza molto marginale. Perchè le storie sono, in realtà, senza tempo e senza luogo. Alice Munro, che si è spesso definita “scrittrice anacronistica” poichè rifugge da facili sperimentalismi ad effetto, racconta storie universali. Tali sono infatti le tematiche che ci troviamo dentro: lo scarto esistente tra psicologia femminile e psicologia maschile, la problematica dei rapporti tra i sessi, tra genitori e figli. Il tema del rapporto con la malattia e la morte, la corporeità. Ove corporeità vuol dire anche parlare di come liberarsi di un assorbente inzuppato di sangue mestruale se in casa c’è un uomo che non regge al pensiero che una donna possa avere le mestruazioni.

    La narrazione è a volte in terza persona, a volte in prima. Il tono sempre pacato, mai sopra le righe.

    Abbiamo dunque a che fare con una scrittrice minimalista? La sua è una scrittura intimista? Magari fosse così semplice. Aggiungo che in questo libro tutto si può trovare tranne che facile sentimentalismo o qualcosa di sia pur lontanamente stucchevole. Insomma, riuscire ad ingabbiare Alice Munro dentro una comoda e rassicurante etichetta può risultare davvero arduo.

    Questa garbata e sorridente signora canadese richiede una lettura attenta e che non si fermi alle apparenze. Rimanendo in superfice rischieremmo di esclamare — come a qualche lettore è pur accaduto — “ma in questi racconti non succede niente!”.

    Di cose, invece, nei suoi racconti ne succedono eccome. Basta saperle vedere. In ciascuno di essi c’è sempre un evento — grande o piccolo o apparentemente trascurabile o di difficile individuazione — che porta ad un capovolgimento di prospettiva, ad un ribaltamento nelle relazioni, allo spiazzamento del lettore. Situazioni di partenza apparentemente banali e il cui sviluppo può sembrare scontato e prevedibile determinano conseguenze assolutamente inaspettate. Da uno scherzo crudele dal quale è legittimo aspettarsi dolore e frustrazione scaturisce invece un lieto fine… Ci vengono forniti tutti i segnali di un suicidio annunciato e ci troviamo davanti alla nascita di una storia d’amore… Un uomo apparentemente freddo e distante si rivela l’amante di un giorno che non si dimenticherà per tutta la vita. Un’esperienza erotica extraconiugale rinsalderà un matrimonio, invece di distruggerlo come ci saremmo aspettati…Cancro, morte, follia rivelano la verità dei rapporti tra marito e moglie.

    Protagonista di tutti i racconti sempre una donna, dicevo. Allora abbiamo a che fare con una scrittrice femminista? La mia risposta è Si, se consideriamo l’attenzione che la Munro ha per l’analisi delle relazioni uomo-donna, per la corporeità, per le sfumature, per il non detto. La mia risposta è No, se quando diciamo “femminista” pensiamo alla scrittrice femminista militante. Alice Munro non milita. Non platealmente, almeno.

    Alice Munro si limita infatti a descrivere, non prende mai le parti di questo o quel personaggio (sia esso femminile o maschile). Non giudica. Sembra persino non partecipare emotivamente alle cose che racconta. E’ il tipo di autore che è dovunque ma non si mostra mai (sarà un caso, ma mi ha fatto tornare in mente Flaubert…) perchè sono gli eventi stessi che parlano. E questi eventi, che nulla hanno in sè di straordinario (matrimoni, nascite, malattia, un funerale, un trasloco…) mostrano però quanto invece possa essere estremamente complesso il quotidiano, quanto ricco di sfumature. Il finale di ciascun racconto non è mai “chiuso”, si ha sempre la sensazione che ci sia dell’altro, che tante possibilità rimangano ancora aperte.

    Maestra delle sfumature e delle allusioni, abilissima a destreggiarsi nel gioco del “punto di vista”, non mi sembra affatto esagerato il paragone che molti hanno fatto tra i suoi racconti e quelli di Cechov o di Henry James.

    Due parole infine su questo volume Einaudi che ho acquistato e letto: mi sembra uno di quei casi in cui una copertina, anche se bella, non solo non rende giustizia al contenuto del libro ma rischia addirittura di portare fuori strada.

    Alice Munro
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