DONI DI NATURA

Un bel cesto di ciliegie

Succede a volte che un commento mi interessi più del post al quale si riferisce.

Questo di Luca Tassinari, ad esempio. Che ricopio qui.

“Il comune sentire spesso non è altro che un pregiudizio diffuso. I pregiudizi hanno una funzione psicologica importante: creare spiegazioni ragionevoli alle proprie difficoltà di inserimento nei diversi campi che esercitano su di noi una qualche forza di attrazione.

Il pregiudizio funziona più o meno come il dogma: è qualcosa in cui si crede senza esigere argomenti e spiegazioni plausibili. Accettarlo e utilizzarlo non richiede fatica: la mente si rilassa, la ragione dorme sonni tranquilli, si dissolve la paura di essere noi i responsabili della nostra infelicità.

Esempi di pregiudizio:

– è tutto un magna magna

– nel tal posto entrano solo i raccomandati

– gli onesti lo pigliano sempre in quel posto

– ha successo solo chi ruba

Dai pregiudizi deriva bell’e pronta una spiegazione accettabile del proprio insuccesso: io non sono ricco e famoso perché non rubo, non chiedo favori e non ne faccio, non verso tangenti e non sono raccomandato. Non mi sfiora neppure il sospetto che fra le cause ci siano anche i miei difetti e le mie mancanze, quindi non ho rimorsi.

A volte, saltellando qua e là per blog letterari, ho come l’impressione che alcune lamentele ricorrenti siano dovute a una scarsa capacità di analizzare i propri limiti e individuare il lavoro necessario per superarli. Penso soprattutto a limiti personali e caratteriali, come pigrizia, insofferenza alle critiche, paura dei rischi, difficoltà di relazione.

Le lamentele ricorrenti di cui parlo sono note, ma forse è utile richiamarne qualcuna:

– è tutta una conventicola

– pubblica solo chi piace a Tizio o a Caio

– la buona letteratura non interessa a nessuno

– ha successo solo chi sgomita e intrallazza”

(Luca Tassinari, commento ad un post di Vibrisse in cui si discetta di “campo letterario italiano contemporaneo”)

 

Un bel cesto di ciliegie

…E siccome una ciliegia tira l’altra, leggendo le righe di Tassinari m’è venuto in mente un fulminante aforisma della Grande Signorina

In tanti scrittori la mancanza d’ingegno è un dono di natura.

DICKENS RITRATTO DA MANGANELLI

Verso la metà del Seicento, ci racconta Benedetta Craveri nel suo bellissimo La civiltà della conversazione, era molto in voga alla Corte di Francia il “gioco dei ritratti” che consisteva nel ritrarre, appunto, una persona con le parole invece che con l’immagine.

… Altro contesto, altra epoca, altre finalità: Giorgio Manganelli scrive nel 1966 un  breve saggio su Grandi Speranze, uno dei romanzi più celebri di Dickens. Il saggio si apre con uno dei più efficaci “ritratti” di Dickens scrittore che mi sia capitato di leggere:

Giorgio ManganelliCharles Dickens

“Dickens è uno scrittore delizioso ed irritante. Quanto è difficile da maneggiare questo cordiale, unghiuto, un po’ pingue, o forse pletorico, animale letterario, la cui gola poderosa sa articolare ogni sorta di voci: rugghi, rantoli, stronfi, e anche delicatissime fusa, tiepidi sgnaulii. Domestico o feroce? Quell’equivoco pelame, tra giaguaro e gatto domestico, ci fa cauti e perplessi. Scrittore straordinariamente ambiguo e anche contraddittorio, è capace di invenzioni straordinarie, di intuizioni fulminee e inquietanti, di fantasie furibonde ed ilari; e insieme inclina a una corrività da mediocre libertino dei sentimenti: non sa resistere agli ancheggiamenti di una creatura infelice. Dopo essersi diligentemente crogiolato in onesto sangue generosamente profuso in circostanze belle e orrende, eccolo sull’usta degli indifesi, situazioni nobili, anime edificanti. Non sbaglia mai per eccesso di ambizione, ma per una sorta di masochismo affettuoso; vi sono momenti in cui si ha l’orribile dubbio che Dickens sia uno scrittore “buono”. In realtà, Dickens è uno scrittore “nero” che soffre di allucinazioni sentimentali.

E che dire delle sue trame? Leggibili, leggibilissime; da inseguire col fiato in gola: non meno poderose che temerarie. Colpi di scena, agnizioni, scene madri, suspense; Dickens non rinuncia a nulla di insensato, di assurdo, di improbabile, di provocatorio. Sono insoliti giochi di destrezza con le carte segnate …”

(Giorgio Manganelli, Grandi Speranze in La letteratura come menzogna, Adelphi, Saggi Nuova Serie, n.46)

SCHIAVO D’AMORE – WILLIAM SOMERSET MAUGHAM

Copertina libro
William Somerset MAUGHAM, Schiavo d’amore (tit. orig. Of Human Bondage), traduz. Elena Grillo, p.538, Biblioteca economica Newton & Compton, 2006, ISBN: 8854106240

Stranamente, pur conoscendo parecchi romanzi di Maugham, da Il Filo del rasoio a Il velo dipinto, da La luna e sei soldi a Pioggia non avevo però letto proprio questo romanzo, considerato il suo capolavoro. Forse perchè, stupidamente, mi sembrava di saperne già abbastanza avendone visto al cinema la trasposizione cinematografica. O forse perchè non era facile trovare in italiano la versione integrale del romanzo. Ho comperato il libro qualche mese fa e l’ho letto in questi giorni, in questa edizione della Newton & Compton. Solo da poco ho saputo che è stato recentemente riedito da Adelphi con la traduzione di Franco Salvatorelli.

In Italia questo romanzo che, detto tra parentesi, ha ispirato ben tre film, è sempre stato conosciuto come Schiavo d’amore. Ma la traduzione italiana del titolo originale è decisamente riduttiva e fuorviante. L’ originale è “Of Human Bondage” (Della schiavitù dell’uomo) e con esso Maugham si riferisce espressamente — come lui stesso scrive nella Prefazione — all’Etica di Spinoza: “Scelsi il nome di uno dei libri dell’Etica di Spinoza e intitolai il mio romanzo Of Human Bondage”

L’inglese Maugham nasce nel 1874 a Parigi figlio di un funzionario dell’ambasciata britannica nella capitale francese ed è la Francia che, nonostante una vita trascorsa a girare il mondo spingendosi fino in Oriente e in Oceania diventa il centro e la fucina emozionale del suo stile. Si stabilisce e vive a Cap Ferrat in Costa Azzurra fino alla morte nel 1965.

Durante la sua lunga vita, Maugham assiste al regno di ben sei sovrani inglesi, ma si può considerare uno scrittore dell’epoca edoardiana. Edoardo VII regna infatti alle soglie della prima guerra mondiale, e la sua è un’epoca caratterizzata da grandi sconvolgimenti, riforme, ascesa dei ceti medi e piccolo borghesi. Un’epoca in cui scetticismo e cosmopolitismo avanzano e in cui a Kipling e Thomas Hardy succedono e si affermano scrittori come Lawrence, Forster, Henry James, Virginia Woolf, James Joyce.

Schiavo d’amore viene pubblicato nel 1915. Maugham ha 41 anni ed è già molto noto soprattutto come commediografo autore di tante commedie portate in scena dalle migliori attrici inglesi del momento. Con Noel Coward e G.B. Shaw è considerato uno dei rappresentanti più illustri di quella che viene chiamata la “comedy of manner” e cioè la commedia di costume in cui trionfano il gusto del paradosso ed il dialogo virtuosistico.

Con Schiavo d’amore è alla sua seconda opera narrativa (l’esordio è avvenuto nel 1897 con Liza di Lambeth). Il libro ottiene un grande successo ma provoca anche scandalo. Leggendo il libro nella versione integrale si comprende come il vero scandalo del testo di Maugham non stia  però nella sordida e sadomasochista storia della relazione del protagonista Philip Carey con la stupida, avida e volgare cameriera Mildred che lo porterà ad un passo dalla completa autodistruzione, ma nell’atteggiamento di libertà e di irriverenza di Philip verso il perbenismo e le dichiarate certezze etiche della società inglese del tempo.
Il romanzo è fortemente autobiografico specialmente nella prima parte: a dieci anni, dopo la morte dei genitori, anche il piccolo William, come Philip Carey, era stato affidato a uno zio, pastore nel Kent e proprio come Philip aveva studiato tedesco in Germania ad Heidelberg; come Philip era diventato medico in Inghilterra. Nella Prefazione Maugham tiene a precisare: “[…] non è un’autobiografia ma un romanzo autobiografico: realtà e finzione vi sono intrecciati inestricabilmente”

Of Human Bondage è in realtà un vero e proprio romanzo di formazione e di iniziazione, di emancipazione dal sistema di valori bigotti e piccolo borghesi della famiglia adottiva, di ribellione agli aspetti repressivi, moralisti e sostanzialmente ipocriti della religione. Maugham ci racconta una storia di iniziazione alla equilibrata maturità dei sentimenti e della vita. Troviamo anche, nel libro, un tema caro pure a Thomas Mann (che ne fece il nucleo centrale de La montagna incantata ed in qualche modo anche del Doktor Faustus e di parecchi racconti) e cioè il tema della relazione segreta tra malattia e genialità, deformità ed arte. Perchè Philip è, come si direbbe oggi, un “portatore di handicap”. E’ nato infatti con un piede equino che lo rende spesso oggetto di scherno, che è per lui motivo di vergogna ma che viene da lui percepito anche come misterioso sintomo di elezione spirituale.

La relazione con Mildred rappresenta sicuramente una parte centrale e molto corposa del romanzo, e si tratta di una vera e propria discesa agli Inferi. Ma non è certo l’unico tema del romanzo e l’amore — in tutte le sue sfumature — non è che uno degli aspetti della vita con i quali Philip deve misurarsi. Di pari passo con la descrizione della tetra passione del protagonista per Mildred, Maugham mostra tutto il suo spirito analitico e critico verso le istituzioni sociali ed ideologiche proprie della cultura vittoriana fino allora egemone in Inghilterra ed alla quale egli apparteneva, e forse è proprio per ammorbidire ed ammortizzare la vena corrosiva e dissacratoria che pervade tutto il libro e che si esprime in tutto il comportamento di Philip che si giustifica un lieto fine che altrimenti apparirebbe un po’ troppo appiccicato, artificioso ed oleografico.

L’elenco delle opere di Maugham è lunghissimo ed in esso, accanto alle opere di narrativa, notevole è la produzione teatrale e non mancano testi di saggistica e di memorialistica.

Davanti a questo autore, che è stato tra i più letti del Novecento e che continua a esserlo, viene spontaneo chiedersi come mai sia stato, specialmente in passato, abbastanza snobbato dalla critica letteraria e dal mondo accademico.
Da parte mia avanzo l’ipotesi che molto abbia contato, in questa profonda contraddizione tra grande successo di pubblico e freddezza della critica, il fatto che negli anni in cui Maugham scrisse e pubblicò, il romanzo europeo stava attraversando grandi cambiamenti, nuove strade venivano esplorate, molto diverse da quelle — stilisticamente ancora abbastanza ottocentesche e tradizionali — utilizzate da Maugham. Maugham scriveva i suoi romanzi narrando storie che avevano uno sviluppo sequenziale, in cui l’Io narrante era ancora quello del grande romanzo dell’Ottocento, in cui il tempo era ancora il tempo lineare e questo in un’epoca in cui altri scrittori se pure in modo a volte estremamente diverso l’uno dall’altro mettevano in discussione e sconvolgevano questi canoni consolidati. Maugham, a mio parere eccellente narratore, non aveva la tempra e forse nemmeno la voglia di rivoluzionare l’arte del romanzo.

William Somerset Maugham
William S. Maugham negli anni ’30

Maugham stesso era ben consapevole, d’altra parte, delle caratteristiche della sua arte narrativa. Nei suoi libri di ricordi è perfettamente esplicito in alcuni passi circa la natura del proprio talento creativo. Ammette, per esempio, di non appartenere a quella categoria di letterati dallo spirito penetrante, adatto a sentir vibrare i movimenti nascosti della vita oltre il velo delle apparenze, capaci insomma, come egli stesso dice, di “vedere attraverso un muro di mattoni”. Riconosce invece a se stesso il gusto e la qualità della piacevolezza e la istintiva tendenza a suscitare una trama o un motivo scenico dal ricordo di qualunque persona, luogo o situazione con la quale gli sia accaduto di venire a contatto.

Scrive ancora, sempre nella prefazione a Of Human Bondage: “Dopo che ero diventato uno scrittore di professione, impiegai molto tempo ad apprendere come scrivere e mi assoggettai ad un faticoso tirocinio per migliorare il mio stile […] ciò che mi interessava ora era la semplicità […] capii che non potevo certo sprecare parole e stabilii perciò di usare solo quelle a rendere chiaro ciò che intendevo dire”

A conferma del grande successo di pubblico di Maugham, ci sono i film tratti dai suoi romanzi. La trasposizione sullo schermo di Of Human Bondage più riuscita e tutt’ora, a mio parere, insuperata è quella del 1934 con Bette Davis e Leslie Howard. Gli altri due film tratti dal libro sono del 1946 (P. Henreid ed Eleanor Parker) e del 1963 (Laurence Harvey e Kim Novak)

LETTERATURA, LETTERATURE, PROVINCIALISMI

Milan Kundera Il sipario “Ci sono due contesti elementari nei quali è possibile collocare un’opera d’arte: la storia della sua nazione (chiamiamolo il piccolo contesto) o la storia sovranazionale della sua arte (chiamiamolo il grande contesto). […] un romanzo […] a causa del legame con la sua lingua, è studiato in tutte le università del mondo nell’ambito del piccolo contesto nazionale. L’Europa non è riuscita a pensare la propria letteratura come un’unità storica e non mi stancherò di ripetere che in questo consiste il suo irreparabile fallimento intellettuale. Infatti per restare nella storia del romanzo: è a Rabelais che Sterne reagisce, è Sterne che ispira Diderot, è a Cervantes che Fielding si richiama costantemente, è con Fielding che Stendhal si misura, è la tradizione di Flaubert che prosegue l’opera di Joyce, è nella sua riflessione su Joyce che Broch sviluppa una poetica del romanzo, è Kafka che fa capire a Garcia Marquez che è possibile abbandonare la tradizione e “scrivere diversamente”.

Quel che ho appena detto è stato formulato per la prima volta da Goethe: “La letteratura nazionale non rappresenta più granchè ai giorni nostri, stiamo entrando nell’era della letteratura mondiale ” […]. E’ questo, se vogliamo, il testamento di Goethe. Un altro testamento tradito. Provate infatti ad aprire qualsiasi manuale, qualsiasi antologia: la letteratura universale è sempre presentata come un giustapposizione di letterature nazionali. Come una storia delle letterature! Delle letterature, al plurale!

Eppure Rabelais […] non è stato mai capito così profondamente come da un russo: Bachtin; Dostoevskj da un francese: Gide; Ibsen da un irlandese: G.B. Shaw; James Joyce da un austriaco: Hermann Broch; l’importanza universale della generazione dei grandi nordamericani — Hemingway, Faulkner, Dos Passos — è stata rivelata in primo luogo da alcuni scrittori francesi […]

Questi pochi esempi non sono bizzarre eccezioni alla regola; no, sono la regola: la distanza geografica allontana l’osservatore dal contesto locale e gli permette di abbracciare il grande contesto della Weltliteratur, il solo capace di mostrare il valore estetico di un romanzo, vale a dire gli aspetti sino ad allora sconosciuti dell’esistenza sui quali il romanzo ha saputo far luce; la novità della forma che ha saputo trovare.”

(Milan Kundera, Il Sipario)

LES ENFANTS TERRIBLES

Paul ed Elisabeth sono fratello e sorella adolescenti che vivono con la madre morente. Il loro rapporto è tanto singolare da apparire morboso. Inseparabili, vivono nella stessa stanza e passano il tempo ad ingiuriarsi e a fare giochi insoliti e provocatori. Quando Paul, durante una battaglia di palle di neve all’uscita dal liceo Condorcet, viene colpito dal suo compagno di scuola Dargelos con una pietra nascosta dentro la neve, è costretto a rimanere a casa assitito da Elisabeth. Questa coabitazione prosegue dopo la morte della madre e il matrimonio di Elisabeth che, diventata presto vedova, eredita una grande casa in cui i due fratelli ricostituiscono la vecchia stanza riprendendo così la loro esistenza claustrofobica. Li raggiungono Gérard, il migliore amico di Paul e Agathe, conosciuta da Elisabeth in una casa di mode. Il dramma si compie quando Elisabeth si accorge che Paul ed Agathe si sono innamorati l’una dell’altro.

Les enfants terribles di Jean Cocteau uscì nel 1929 e scatenò subito un putiferio — com’era prevedibile — specialmente negli ambienti cattolici. Perchè la storia non parla solo di incesto (che se pure non materialmente consumato si presenta però tale a tutti gli effetti) tra fratello e sorella ma anche di attrazione omosessuale: Paul infatti subisce il fascino perverso di Dargelos, il compagno che lo ha ferito con la palla di neve e in seguito si innamora di Agathe la quale, guarda caso, assomiglia in modo stupefacente a Dargelos.

Nel 1949, dopo aver visto Le silence de la mer tratto dal bel romanzo di Vercors, Cocteau, entusiasta, telefona al regista Jean-Pierre Melville e gli propone di fare un film di Les enfants terribles, che tra l’altro sa essere stato uno dei libri preferiti di Melville adolescente.

Scrivono assieme la sceneggiatura, la storia sarà narrata da una voce fuori campo che sarà, ovviamente, quella di Cocteau. Come è il cuore di Cocteau che ascoltiamo allo stetoscopio quando il dottore ausculta il ragazzo. “Prima di girare la scena ho fatto correre Cocteau, perchè era necessario che il suo cuore battesse molto veloce e molto forte”.

Ma tra lo scrittore ed il regista ci sono molti  conflitti, durante la lavorazione del film. A cominciare dalla scelta dei protagonisti. Cocteau impone Dermithe che Melville ritiene (secondo me a ragione) troppo adulto per l’età del personaggio di Paul. Da parte sua, Melville fatica non poco per convincere Cocteau a prendere Nicole Stéphane per la parte di Elisabeth. Nicole Stéphane che risulta invece, a mio parere, straordinaria interprete e certamente la figura dominante del film. Cocteau e Melville litigano pure sulla scelta delle musiche trovando poi un compromesso nel maestoso concerto per quattro pianoforti e orchestra di Bach-Vivaldi.

Tra le opere letterarie di Cocteau (autore che in genere non amo particolarmente), Les enfants terribles è quella che mi è sempre piaciuta di più. Cocteau rende in maniera straordinaria l’atmosfera ambigua che si respira nella stanza, l’universo claustrofobico ed autoreferenziale dei due ragazzi, il legame di dipendenza che nei confronti di Paul ed Elisabeth vengono ad assumere Gérard e Agathe, il fascino perverso e luciferino che emana dal bellissimo Dargelos.

Il doppio DVD Ho trovato adesso, quando sono andata a Parigi, in un negozietto di St. Germain e comperato a 7,90 Euro il doppio DVD contenente il film di Melville e finalmente ho potuto vederlo. Non sono ancora riuscita a capire se ne esiste una versione italiana. Questa che ho comperato è, ovviamente, in francese.

Personalmente ho apprezzato moltissimo Nicole Stéphane, veramente eccezionale nel rendere le mille sfumature del complesso personaggio di Elisabeth. Ho apprezzato il ritmo, lo stupendo bianco e nero di Melville (che conoscevo già, così come Nicole Stéphane, da  Il silenzio del mare).

Però. C’è un grosso “però”.  Forse ad alcuni quello che scrivo può sembrar paradossale,  ma ai miei occhi le uniche parti (pesantemente) negative sono quelle dove c’è l’intervento diretto di Cocteau. I dialoghi risultano infatti  troppo teatrali, per nulla naturali, ma soprattutto ho trovato insopportabile la voce narrante di Cocteau:  sentenziosa, enfatica, carica di retorica. Così  ridicola da  far apparire tutto di una teatralità fastidiosamente magniloquente.

Ho stralciato e messo su YouTube due scene del film: la battaglia di neve all’uscita del Liceo Condorcet e la sequenza — che Cocteau chiama del “teatro”, cioè la stanza di Paul ed Elisabeth. E’ vero, il film è in francese, però è solo in questo modo che è possibile ascoltare la voce narrante di Cocteau e comunque anche se non  si capisce il francese   (io ad esempio sono parecchio in difficoltà, quando parlano velocemente) è sempre possibile godersi la regia di Melville e la bellezza e la bravura di Nicole Stéphane.

Infine due parole ancora su Nicole Stéphane (il cui  vero nome era Rotschild, apparteneva alla ricchissima famiglia di banchieri), morta appena qualche mese fa (marzo 2007)  e che è stata non solo attrice ma anche produttrice.

Voglio qui ricordare che fu lei, nel 1962, ad ottenere i diritti per fare un film da Alla ricerca del tempo perduto  di Marcel Proust e che per tradurre in realtà questo progetto al quale teneva moltissimo si rivolse e collaborò a lungo non solo con Luchino Visconti ma anche con Ennio Flaiano, Harold Pinter, Joseph Losey, Peter Brook. A proposito della sua interpretazione di Elisabeth, Jean Cocteau in un’intervista ebbe a dichiarare: “I minimi gesti di Nicole Stéphane assumono la potenza spaventosa di Elettra”. E questa volta mi trovo d’accordo con Cocteau.

IL DELITTO DI OLGA ARBÉLINA – ANDREI MAKINE

Copertina libro
Andreï MAKINE, Il delitto di Olga Arbélina (tit. orig. Le crime d’Olga Arbélina), traduz. dal francese di Anna Zanetti, p.260, Passigli editore, 2000

All’inizio del romanzo, Olga Arbélina non è che un nome inciso su una pietra tombale in un piccolo cimitero parigino in cui sono sepolti russi fuggiti dalla Rivoluzione d’ottobre ed alle purghe staliniane. Un vecchio custode, anche lui russo, avvolto in un lungo e logoro vecchio cappotto militare, racconta ai visitatori del cimitero la loro storia.

Sotto quella lapide c’è la principessa Olga Arbélina, morta negli anni ’60. Una bella donna nata all’inizio del Novecento. Fuggita ancora giovane alla rivoluzione sovietica e rifugiata assieme al figlio emofiliaco ed ancora piccolo in un paesino vicino Parigi, in una sonnolenta comunità di anziani esuli russi in cui solo le variazioni del cielo e delle stagioni costituiscono eventi significativi e dove la vita trascorre monotona.

Fino al giorno in cui un passante scopre sulla riva del fiume “nella quiete sonnolenta e campagnola” di una calda giornata estiva una scena assurda e raccapricciante: “un uomo dagli abiti inzuppati d’acqua, disteso sulla riva, con il cranio sfracellato, e una donna dai capelli scarmigliati e grondanti, dai seni nudi, una donna che sedeva immobile su una roccia, accanto all’uomo in agonia” (p.20)

Si tratta di un delitto oppure di un incidente? Al processo Olga non fa nulla per difendersi, al punto che il giudice istruttore — il quale non crede si sia trattato di omicidio — dice “E’ la prima volta in vita mia che devo convincere una persona che non è stata lei ad uccidere” ed all’interprete, che perplesso gli chiede:“Ma non crede che attribuendosi questo delitto lei voglia tacerne un altro” il giudice risponde “Un assassino rompe una vetrina, lo confessa e, incarcerato, elude un omicidio. Ma non ci si fa carico di un omicidio per nascondere una vetrina rotta…” (p.33)

Olga viene assolta pienamente e poco dopo lascia il paese insieme al figlio. Di lei, gli abitanti di Villet-La -Forêt si disinteressano e non hanno più notizie.
Comincia invece, per noi lettori, la discesa agli Inferi nella scoperta dell’inconfessabile delitto di cui Olga Arbélina si è resa colpevole, della straziante presa di coscienza della protagonista che dapprima intuisce, intravede, scopre concretamente, infine accetta — se pure inorridita — ciò che non può nemmeno essere pensato. Eppure, Olga deve trovare le parole per dirla, “questa cosa che non si lasciava nè pensare nè dire” Deve riuscire a “dire ciò che era proibito alle parole”.

Fino ad una sera in cui “un pensiero la ferì con la sua verità dolorosa e bella. Se quanto stavano vivendo poteva chiamarsi amore, allora si trattava di un amore assoluto perchè colpito da un divieto inviolabile eppure violato, un amore visto solo da Dio perchè mostruosamente inconcepibile per gli uomini, un amore vissuto come l’eterno primo istante di un’altra vita…”

La grande bellezza di questo romanzo in cui la vita francese di Olga è spesso illuminata da flash back della sua vita nella Russia pre-rivoluzionaria sta in questa lenta osservazione inframezzata da eventi dolorosi, nella descrizione di un tempo che passa ed allo stesso rimane immobile, nel comportamento da sonnambuli che Makine attribuisce ai suoi protagonisti, nella ineluttabilità allucinatoria in cui matura un “delitto” (“crime” nel titolo originale francese) ben più terribile di un omicidio…

Sono due le citazioni che Makine pone in epigrafe a questo bellissimo ma emotivamente molto impegnativo romanzo: la prima è da I fratelli Karamazov di Dostoevskij e dice: “Mia madre ha dovuto piegare Dio per me”, depose l’accusato nell’inchiesta”.

La seconda citazione è tratta da “Sentimenti filiali di un parricida” uno scritto di Proust — importantissimo ma in genere noto più che altro agli “addetti ai lavori” — che dice: “Che ne hai fatto di me? Che ne hai fatto di me? A volerci riflettere, non esiste forse una madre amorosa che non potrebbe, sul suo letto di morte, e spesso ancor prima, rimproverare così il figlio”

Di Makine, autore russo emigrato in Francia dove vive da anni e che ho scoperto da poco, avevo parlato  quando ho scritto del suo La donna che aspettava

Con la lettura di questo Il delitto di Olga Arbélina Makine si conferma, ai miei occhi, un vero maestro nella creazione di particolari atmosfere, capace di evocare i mille aspetti che può assumere un paesaggio innevato, di trasmettere a chi legge il senso dei rumori misteriosi di una casa, il drammatico significato del banale cigolio di una porta, del rumore di passi che si fondono e si confondono con il sibilo dl vento.

La natura è molto presente, nei romanzi di Makine, ma non costituisce mai mero contesto e le sue descrizioni non sono mai fine a se stesse: gli elementi della natura sono utilizzati come codici e decodificatori linguistici del contenuto narrativo. Altrettanto importante il senso del tempo: in questo romanzo, come ne La donna che aspettava, il tempo sembra sospeso se non addirittura immobile. Come in Proust, è il tempo interiore dei suoi personaggi quello che conta, e non il tempo dei calendari.

Man mano che procedo nella conoscenza di questo autore scopro temi ricorrenti, analogie, elementi comuni tra i suoi libri. Per ora posso parlare, evidentemente, solo dei due che ho letto finora e tra le tante analogie sono rimasta colpita anche da un particolare apparentemente secondario: in entrambi i romanzi i personaggi più importanti indossano “un lungo, vecchio e logoro cappotto militare” che viene nominato talmente tante volte da assumere un robusto valore simbolico: vanno in giro con questo indumento (e le parole che Makine usa per descriverlo sono sempre le stesse) Vera, la protagonista di La donna che aspettava, il vecchio russo custode del cimitero, il figlio di Olga e il suo ex marito ne Il delitto di Olga Arbélina. Mi sono chiesta se questo cappotto non possa essere il simbolo del peso del tempo e del passato, del logoramento dell’anima dei personaggi, del loro tentativo di proteggersi indossando qualcosa fuori dal tempo. E della tragicità della guerra. Passata, ma  i cui effetti sono, in entrambi i romanzi, sempre  presenti. Chissà.

MOMENTI PARIGINI

In questi giorni mi sto dedicando a rinnovare (come s’ha periodicamente da fare) hardware e software del mio fido Mac e sono dunque occupatissima ad installare, upgradare, ampliare,  formattare ed attaccare Hard Disk più capienti, attaccare e riattaccare cavi e cavetti, imparare  a decriptare i  film  in DVD  commerciali e regolarmente acquistati che posseggo, ad estrarne  colonne sonore, fotografie e scene per giocarci, modificarli,  etc. etc..  Insomma, mi sto divertendo come una matta 

Perciò, almeno per questa settimana la lettura passa in secondo piano e in attesa di tornare a parlar di libri, metto ancora un filmino con momenti parigini.  

Le voci sono di Jacques Brel, Yves Montand, Charles Trenet, Patachou e naturalmente lei,  "la Musa di Saint Germain des Prés": Juliette Greco

DOMENICHE A PORTA CARINI

Oggi qui a Palermo è una bellissima domenica di sole, di un caldo ancora molto piacevole. Spesso la domenica mattina, quando il tempo è così, vado a gironzolare in uno dei vecchi e popolari mercati storici di Palermo che preferisco, il mercato del  Capo, a Porta Carini. Mi piace girare tra le bancarelle (che ormai conosco una per una). Per questo ho pensato oggi di mettere questo video che ho realizzato un paio di mesi fa. Tra i venditori si vede il banco della signora dalla quale compro sempre il pesce ed in particolare gli ottimi involtini o le polpette di pesce spada  . Si vede     il giovinottone armato di coltelli che vende il tonno pescato nel mare di Marsala, uno dei cesti del babbaluciaro, il banco dello stigghiularu e quello di un panellaro

Come colonna sonora ho scelto Angola di Wayne Shorter, tratto dall’album Alegria.
Secondo me rende bene l’atmosfera. In fondo, il mercato del Capo si trova nel quartiere che un tempo era chiamato il Seralcadio (dall’arabo "harat as-Saqalibah sari Qadi",) dove i musulmani svolgevano, intorno al sec.X, il loro traffico di mercanti di schiavi.

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