
Dopo Bergman, Michelangelo Antonioni.
Ha ragione bobregular: da oggi il cinema è diventato più povero…
Dopo Bergman, Michelangelo Antonioni.
Ha ragione bobregular: da oggi il cinema è diventato più povero…
“…mi manca il mezzo per immaginarmi l’istante della separazione. Siccome non posso nè voglio immaginarmi un’altra vita, una sorta di vita dall’altra parte del confine, la prospettiva è agghiacciante. Vengo trasformato da qualcuno in nessuno. […]
Mi sembra di intuire quel che m’aspetta”
Ingmar Bergman, Lanterna magica – Autobiografia, 1987
Di Elektra nella mia vita ne ho viste tante, eh. Non credete.
Una in particolare non me la dimenticherò mai: in una notte di mezza estate, in Sicilia, ad Agrigento. Direttore il vecchio Sawallisch. Elektra = Hildegard Behrens, Klytemnestra = Christa Ludwig.
E sopra tutta quella musica raffinatamente barbarica (o barbaramente raffinata, fate un po’ voi), un cielo stellato che persino in Sicilia ex Magna Graecia non è roba che ti capita spesso, da un par di decenni a questa parte.
Son cose che non si dimenticano.
E adesso ho trovato questi due mostri: Elektra = Gwyneth Jones, Klytemnestra = Leonie Rysanek. Roba da far tremare le vene ai polsi.
Joyce Carol OATES, Una famiglia americana (tit. orig. We were the Mulvaneys), traduz. Vittorio Curtoni, NET/Saggiatore-Collana Narrativa n.271, p.512, 2006, ISBN 88-515-2312-6
“Eravamo i Mulvaney, vi ricordate di noi?
[…]
Per parecchio tempo ci avete invidiato, poi ci avete compianto.
Per parecchio tempo ci avete ammirato, poi avete pensato: Bene! E’ quello che si meritano”
Una famiglia americana è la traduzione piuttosto grezza del titolo originale We were the Mulvaneys, romanzo del 1996 di Joyce Carol Oates, scrittrice americana dalla sterminata bibliografia, docente a Princeton, direttrice della prestigiosissima Ontario Rewiew e da anni, insieme a Philip Roth, candidata USA per il Nobel per la letteratura.
Si tratta di un romanzo di largo respiro, una bellissima ed avvincente saga familiare ambientata in una ricca fattoria piena di animali di ogni tipo nel nord dello Stato di New York nel periodo tra gli anni ’60 ed ’80.
La famiglia Mulvaney è composta da Michael (il padre), Corinne (la madre) e quattro figli dei quali tre maschi (Michael jr., Patrick, Judd) e un’unica femmina, Marianne. E’ una famiglia felice, chiassosa ed allegra, in cui regna la concordia, con un lessico familiare molto articolato e complice, in cui tutti i membri fanno al meglio quello che ci aspetta da loro: lavorare, studiare. I Mulvaney stanno bene con gli altri e stanno bene tra loro.
Fino a quando, il giorno di S.Valentino del 1976, l’unica figlia femmina, la beniamina del padre, la diciassettenne e dolcissima Marianne, cheerleader del suo liceo, studentessa modello, ammirata da tutti, viene violentata da un compagno di classe e lei, nonostante le pressioni di tutta la famiglia e soprattutto di suo padre, si rifiuta di denunciarlo.
Da quel momento tutto comincia a disgregarsi ed a precipitare: il padre non sopporta più nemmeno la vista di Marianne, che viene allontanata da casa dalla madre Corinne, solidale con il marito. Mike jr. e Patrick, i due figli più grandi, si allontanano da casa covando risentimento per i genitori, desiderio di vendetta nei confronti dello stupratore di Marianne ma anche, in parte, un malcelato disprezzo per la sua codardia nel non volerlo denunciare. Nessuno riesce a gestire la situazione, il padre Michael perde sempre di più l’autocontrollo e si comporta in modo tale che la società, che in primo tempo li aveva compianti per quello che era successo a Marianne a poco a poco li emargina.
Solo a distanza di anni la famiglia riuscirà a ritrovarsi e a ricostituirsi.
Il romanzo, nonostante la sua lunghezza, i tanti personaggi, uno stile di scrittura articolato ma sostanzialmente molto classico (la voce narrante è dell’autrice, ma in alcuni capitoli gli eventi sono visti e narrati in prima persona dal figlio minore Judd) è in realtà molto strutturato in tre parti più o meno di eguale lunghezza.
Nella prima ci viene descritta questa famiglia invidiabile, ideale e felice
Nella seconda parte assistiamo alla progressiva ed inesorabile distruzione di questa felicità che avviene certo per cause esterne (lo stupro e l’atteggiamento dei concittadini dei Mulvaney) ma soprattutto per cause interne perchè i maschi della famiglia, ciascuno con le proprie motivazioni e modalità non reggono e, mentre apparentemente ed anche in buona fede non hanno altro desiderio che punire lo stupratore e vendicare Marianne, in realtà è lei che colpevolizzano e sono proprio loro i primi a non comprenderla e ad emarginarla.
Trovo che questo sia uno degli elementi più interessanti del romanzo della Oates, e mi interessa sottolinearlo. Perchè a circa metà del libro mi sono resa perfettamente conto che i maggiori artefici della tragedia di Marianne sono, di fatto il padre e i fratelli i quali, invece di accoglierla, proteggerla, curarne le ferite, in realtà pensano a lei come a qualcosa di insozzato ed alla punizione dello stupratore più come alla vendetta del proprio onore maschile ferito. Così facendo, spingono sempre di più Marianne a disprezzare se stessa, a non autostimarsi. E la madre, Corinne, che pure vuole molto bene a Marianne, sta fino alla fine — di fatto — dalla parte dei maschi della famiglia.
Nella terza fase c’è il percorso individuale che ciascuno fa per ritrovare innanzitutto se stesso e quindi per ritrovare l’unità familiare perduta. Alcuni ce la fanno, qualcuno no e viene travolto.
Nella quarta di copertina di questa edizione leggo che Una famiglia americana è stato definito “Un Buddenbrook americano”. Non sono affatto d’accordo. Romanzi che hanno come tema una saga familiare ce ne sono tanti, ma non basta questo per renderli simili. I Buddenbrook e i Mulvaney sono diversissimi e non solo per il contesto e l’epoca storica in cui le loro storie si svolgono, ma per le dinamiche e la tipologia degli eventi che intervengono a determinare la rottura degli equilibri interni e la crisi della famiglia.
Piuttosto, a me sono venute subito in mente altre due famiglie, entrambe americane: per la verità, non tanto la famiglia Lambert di Le Correzioni di Jonathan Franzen quanto piuttosto la famiglia di Seymour Levov, “lo svedese” di Pastorale americana di Roth, la cui famiglia viene letteralmente frantumata da una bomba. Una bomba reale. La bomba che l’amatissima figlia adolescente (anche qui il motore dell’intreccio narrativo è un’amatissima figlia adolescente) utilizza per far saltare un emporio e un ufficio postale. Ed anche qui un padre che non si dà pace.
Marianne Mulvaney è una vittima passiva. Merry, la figlia dello “svedese” è una vittima attiva. Entrambe vittime, però.
In questi giorni ho letto tre libri di tre autori che apprezzo molto e che credo di conoscere ormai abbastanza bene: Milan Kundera, Amos Oz e Orhan Pamuk. Nessuno di questi tre libri mi ha entusiasmata.
I tre romanzi in questione sono La casa del silenzio di Orhan Pamuk. L’ho abbandonato a metà perchè stufa dopo appena cento pagine. Avendo già letto Il mio nome è rosso e Neve non trovavo nulla di nuovo. Struttura e stile: come farà anche in seguito — affinandolo molto rispetto a questo suo primo romanzo — con Il mio nome è rosso, Pamuk usa qui lo stile polifonico e cioè la prospettiva di cinque diversi narratori. Il tema di fondo: mi è stato subito perfettamente chiaro dove si sarebbe andati a parare: il travaglio dei turchi nella ricerca di una nuova identità ed appartenenza tra Oriente e Occidente.
Michael mio, primo romanzo dell’israeliano Amos Oz, che mi ha annoiato mortalmente e che ho letto fino in fondo solo perchè il volumetto è smilzo ed il mio Super Io non sempre mi lascia le redini sul collo. Il lungo monologo di Hannah, giovane studentessa di Gerusalemme che sposa un geologo e che racconta il monotono susseguirsi degli anni della sua vita coniugale mi è risultato alquanto soporifero. Inutile dire che nella quarta di copertina del volumetto Feltrinelli Hannah viene etichettata come "la Bovary israeliana". Inutile dire che Hannah ed Emma hanno, in realtà, ben poco in comune.
L’ignoranza di Milan Kundera mi è piaciuto, ma solo perchè conoscendo ormai bene il pensiero complessivo di Kundera e la sua caratteristica di scrivere romanzi-saggi in cui la storia si intreccia continuamente a riflessioni filosofiche e musicologiche sono stata in grado di apprezzare anche questo.
Mi sono soffermata con piacere in particolare sulle considerazioni che Kundera fa sulla memoria, e sugli interrogativi che pone: è veramente possibile — sia a livello di individui che a livello collettivo — avere una memoria condivisa? Esiste dvvero la possibilità di condividere i ricordi? E poi tutte le considerazioni sulle analogie e differenze tra storia personale e storia del proprio Paese, e sul significato del concetto "nostalgia della Patria" e sullo stesso concetto di Patria… Si, molto interessanti. Però mi guarderei bene dal consigliare la lettura de L’ignoranza a chi di Kundera non avesse ancora letto nulla.
Ancora una volta riflettevo su quanto sia importante, quando ci si accosta ad un autore che ancora non si conosce, cominciare dal "libro giusto". E’ una riflessione banale che più banale non si può, però cominciare dal libro sbagliato può a volte farci perdere (magari per sempre) l’occasione di conoscere uno scrittore che invece ameremmo molto.
Sospetto fortemente che se fossero stati questi tre i primi libri di Kundera, Oz e Pamuk che mi fossero passati per le mani non mi sarei minimamente sentita invogliata ad approfondire la conoscenza di questi autori che invece considero grandi.
Leb’ wohl! Leb’ wohl! Leb’ wohl!
L’addio di Wotan a Brunhilde, nel finale della Walkiria, una delle più commoventi, appassionate dichiarazioni d’amore di un padre per sua figlia.
Wotan deve punire Brunhilde, perchè ha disobbedito al suo ordine di uccidere Siegmund e l’ha invece risparmiato. Ma come avrebbe potuto obbedirgli, Brunhilde, se nelle sue vene scorre il sangue stesso di Siegmund, e se sa che il suo desiderio è lo stesso di quello di Wotan… la vera colpa di Brunhilde è di avere agito secondo il vero e più profondo desiderio di suo padre
Brunhilde obbedirà, dunque, disobbedendo, e disobbedirà obbedendo: disobbedirà nel contingente, obbedirà nell’assoluto. […] D’altra parte non per questo Wotan potrà esimerla dalla punizione; egli la condannerà dunque al sonno profondo, a perdere il rango e l’ufficio divino e ad essere destata e posseduta dall’uomo se pure quest’uomo sarà l’eroe puro, il "senza paura", traversante le fiamme guizzanti intorno alla bella dormiente. (Guido Manacorda, prefazione a L’Anello del Nibelungo di Richard Wagner, Sansoni,1925)
Ho estratto l’"Addio di Wotan a Brunhilde" dal mio preziosissimo DVD della mitica edizione Boulez-Chereau, l’ho codificato, compresso, uploadato ed eccolo qua.
Prima o poi mi arresteranno, lo so. Ma spero che in quel caso qualcuno di voi verrà a confortarmi non con le lumie di Sicilia (che dopo Pirandello hanno ormai gran fama jettatoria) ma insomma qualche genere di conforto a piacer vostro (smile).
Wotan è John McIntyre. Brunhilde è la straordinaria Gwyneth Jones, che però in questo brano non canta.
Addio, o fiera, superba fanciulla! Tu del mio cuore santissimo orgoglio! Addio! Addio! Addio! S’io ti debbo evitare, Degli occhi la coppia lucente, |
Leb’ wohl, du kühnes, herrliches Kind! Du meines Herzens heiligster Stolz! Leb’ wohl! Leb’ wohl! Leb’ wohl! Muss ich dich meiden, und darf nicht minnig mein Gruss dich mehr grüssen; sollst du nun nicht mehr neben mir reiten, noch Met beim Mahl mir reichen; muss ich verlieren dich, die ich liebe, du lachende Lust meines Auges: ein bräutliches Feuer soll dir nun brennen, wie nie einer Braut es gebrannt! Flammende Glut umglühe den Fels; mit zehrenden Schrecken scheuch’ es den Zagen; der Feige fliehe Brünnhildes Fels! – Denn einer nur freie die Braut, der freier als ich, der Gott! Der Augen leuchtendes Paar, Denn so kehrt |
E per non lasciare le cose incompiute… >>qui c’è il finale, con "L’incantesimo del fuoco"
Ah, per la cronaca: io purtroppo non conosco il tedesco e mi dispiace moltissimo, perchè la trovo una lingua musicalissima. Però vi assicuro che ci sono interi brani di Wagner che conosco praticamente a memoria
Theodor FONTANE, Effi Briest, trad. Erich Linder, a cura di G. Bevilacqua p.282 Garzanti, I Grandi Libri, ISBN: 881136213X
Ho l’impressione che lo scrittore prussiano Theodor Fontane non sia apprezzato in Italia come meriterebbe. Eppure, è considerato da tempo uno dei classici della letteratura tedesca dell’Ottocento e Thomas Mann lo stimava uno dei suoi punti di riferimento letterari. Al punto tale che nel 1919, in occasione del centenario della nascita di Fontane, pubblicò un articolo sul Berliner Blatter in cui tra l’altro scriveva:
“una biblioteca della letteratura romanzesca basata sulla scelta più rigorosa — e dovesse anche restringersi a una dozzina di volumi, a dieci, a sei — non potrebbe essere priva di Effi Briest. Non si usa forse dire che nessuna costruzione prodotta dalla mano dell’uomo può essere perfetta? E invece, […] la cosa perfetta esiste: sognando, l’uomo che è artista ogni tanto la produce […] se tutto torna, ecco che la cosa si forma, il cristallo risulta puro”
Theodor Fontane, celebre e temuto anche, ai suoi tempi, come critico teatrale, fu scrittore molto prolifico e parecchi suoi romanzi hanno per protagonista (anche nel titolo) una figura di donna (Grete Minde, Cécile). Ma, come giustamente rileva Bevilacqua nell’introduzione ribadendo le parole di Mann, “Theodor Fontane è e rimane l’autore di Effi Briest”.
Il libro, pubblicato nel 1895 ed ambientato nella ricca borghesia prussiana e berlinese, racconta sostanzialmente la storia di un episodio di adulterio e delle sue tragiche conseguenze. Un dettagliato riassunto della trama lo si può leggere >>qui.
Effi Briest è uno dei miei romanzi preferiti (assieme ad altri di Fontane, come ad esempio il bellissimo Il barone di Stechlin). Mi piace per la perfezione della struttura, per l’approfondimento psicologico dei personaggi, per lo stile sommesso e raffinato di scrittura, per la critica severa di Fontane nei confronti di un codice morale che mette un ossessivo e crudele “senso dell’onore” al centro dei rapporti familiari. Innstetten, il marito tradito di Effi, è una brava persona, colto, gentile, educato. Effi gli vuole bene, gli è affezionata e, dopo la brevissima relazione adulterina (che lei stessa ha troncato e di cui non smetterà mai di aver rimorso) è contenta di vivere con lui. Ma la caratteristica principale di Innstetten è quella — come ad un certo punto, verso la fine del romanzo, dice la stessa Effi — di essere “… un uomo buono incapace di amare” e di mettere al primo posto, nella scala dei suoi valori, l’orgoglio maschile e il senso dell’onore.
Ed è questo che, molto più che il brevissimo episodio dell’avventura di Effi con il brillante e cinico maggiore Carpas, dà veramente il via alla tragedia. Il colloquio tra Innstetten e Wüllersdorf, in cui il marito tradito spiega le ragioni che lo spingono a sfidare in duello il maggiore Carpas nonostante siano passati tanti anni e nonostante egli sappia perfettamente che da allora lui ed Effi non si sono mai più visti nè scritti è una pagina da antologia.
Effi Briest viene troppo spesso paragonata ad Emma Bovary e il romanzo di Fontane presentato come “la storia di una Bovary tedesca”. Ma in realtà le analogie tra i due personaggi e i due libri sono solo di facciata, molto superficiali. Una lettura attenta del romanzo di Flaubert (1856) e quello di Fontane (1895) mette in luce molte più differenze che analogie.
Sarebbe troppo lungo esaminarle ed elencarle qui. Mi interessa però sottolineare un aspetto che io considero molto importante, a proposito di analogie-differenze: l’atteggiamento, la considerazione che ciascun autore aveva per la propria eroina.
Theodor Fontane nutriva molto affetto per Effi (e per tutte le donne che si fossero trovate nella sua condizione) e parlando di lei diceva sempre “… la mia povera Effi”. Leggendo il libro, si avverte in ogni riga che Fontane sta dalla parte di Effi, che è solidale con lei, che le vuole bene. Il romanzo fu scritto di getto, come dimostra lo stesso Fotane in questa lettera all’amico Hans Hertz: “Già…. la povera Effi! Forse mi è riuscito così bene perchè ho scritto tutto in uno stato di sogno […] è venuto come da sé, senza vera ponderazione e vera critica”
Per Flaubert, Madame Bovary fu soprattutto un esercizio di stile. Un esperimento letterario.
Ci sono innumerevoli passi nel suo epistolario (specialmente nelle lettere a Louise Colet) dai quali emerge chiaramente come lui non avesse la benchè minima simpatia per Emma, come tutto sommato la disprezzasse; è ormai arcinoto quanto fu lunga e travagliata la stesura del romanzo: “Bovary mi stanca, dipende dal soggetto e dalle correzioni”, “Bovary […] sarà stata una prova inaudita”, “Come m’embête la mia Bovary!”, “Dannato libro! Mi fa male, lo sento!”. “Quanto artificio nel materiale…”. Ed ancora, sempre a Louise Colet: “Ciò che è buono della Bovary è che sarà stato una dura ginnastica”.
Una dura ginnastica. Questo fu per Flaubert la povera Emma Bovary… D’altra parte, sembra (dico sembra perchè la cosa non è stata mai provata) che sul letto di morte Flaubert abbia esclamato: “Io morirò e quella puttana della Bovary mi sopravviverà!”
Le immagini sono tratte dal film del 1974 Effi Briest di Rainer Werner Fassbinder in cui Effi è interpretata da Hannah Schygulla