
Ho finito di (ri)leggere un paio di giorni fa Jane Eyre di Charlotte Bronte. Veramente più che (ri)leggere farei meglio a dire che l’ho divorato, questo libro che, secondo me giustamente, Mario Praz ha definito melodrammatico. Infatti non è per nulla casuale l’incredibile numero di riduzioni cinematografiche e televisive che sono state tratte da questo romanzo, basta andare a gettare un’occhiata su imdb. Se poi si va su YouTube e si cerca “Jane Eyre” ci arriva addosso una valanga di più di 2000 (duemila) risultati. Guardare per credere
Jane Eyre è un romanzo appassionante ed avvincente, ma non un grande romanzo. La stessa Virginia Woolf nel suo saggio introduttivo a Jane Eyre apprezza Charlotte Bronte per la sua “personalità irresistibile” ma non certo per i suoi personaggi, che definisce “vigorosi ed elementari” o per la sua commedia “truce e rozza” nè tanto meno per la sua “visione filosofica della vita” o per la materia della prosa che è, secondo la Woolf “goffa e priva di elasticità”.
Per Virginia Woolf, Charlotte Bronte è innanzitutto una poetessa.
Eppure, Jane Eyre è uno dei romanzi più amati, da molti considerato addirittura superiore al Wuthering Heights di Emily Bronte e, da molte donne, la figura della protagonista è considerata un emblema, un simbolo, un’icona di proto-femminismo, di eroina dell’emancipazione femminile.
E guarda un po’, è proprio su questo punto che a me i conti non tornano.
Perchè a mio parere, la coraggiosa, intelligente, modesta, sincera, onesta, per nulla avida istitutrice Jane Eyre è, in realtà, la più fedele vestale delle istituzioni della sua epoca. Il conformarsi alle istituzioni, anche se doloroso, anche se in qualche modo rischia di costituire una amputazione se non addirittura una castrazione rappresenta per l’istitutrice Jane sicurezza e garanzia di identità. Forse addirittura l’unica. Niente di male, intendiamoci. Il problema non sta in Charlotte Bronte che l’ha inventata povera e bruttina e che rendendola fedele alle istituzioni della sua epoca intende preservarla e proteggerla. Il problema sta, a mio modesto avviso, nelle forzature interpretative che di questo personaggio sono state fatte in seguito.
Nel 1847, nella prefazione alla seconda edizione del romanzo, la stessa Charlotte Bronte (che ancora si firmava con lo pseudonimo di Currer Bell) precisava che la sua era una “protesta verso il bigottismo, parente del male, un insulto alla devozione, espressione di Dio sulla terra […] il convenzionalismo non è la moralità, il farisaismo non è la religione”. In queste parole va ricercata la vera carica innovativa del romanzo. Non certo nel vedere in Jane Eyre una ribelle nei confronti delle istituzioni.
Guardiamo a due delle scene madri del romanzo. Nella prima, Jane ha appena ascoltato il disperato racconto-confessione di Rochester sul suo matrimonio, la pazzia e la segregazione della moglie e il suo timore che, se le avesse rivelato prima la vertià, Jane non avrebbe mai acconsentito ad amarlo.
Quando Rochester le dice ” … è dunque meglio spingere una creatura alla disperazione, che trasgredire ad una legge umana, anche quando la trasgressione non nuoce ad alcuno? Perchè lei non ha nè parenti ed amici che possa temere di offendere vivendo con me” l’istitutrice Jane (o meglio, il Super Io dell’istitutrice Jane) pur innamoratissima risponde così a se stessa: “Voglio attenermi alla legge dettata da Dio e sancita dall’uomo. Voglio osservare i principi ricevuti […] le leggi e i principi non ci sono stati dati per i momenti in cui nulla ci tenta; bensì per i momenti come questi, in cui il corpo e l’anima si ribellano contro la loro severità; rigorosi sono, ed inviolati devono essere. Se li infrangessi per mia personale convenienza, quale sarebbe il loro valore? Hanno un valore, l’ho sempre creduto […] Idee preconcette, risoluzioni prese in passato sono il solo terreno solido del quale dispongo in quest’ora, e là poso il mio piede“.
Ci vuole un incendio (ovviamente provocato dalla moglie pazza) che distrugga la villa-castello di Thornfeld, ci vuole che la moglie pazza muoia nell’incendio; ci vuole forse soprattutto che a Rochester venga amputata la mano destra, diventi cieco e dunque perda quasi del tutto la sua autonomia fisica perchè l’istitutrice Jane decida di rimanere al suo fianco. Le istituzioni, ora, non solo glielo permettono, ma il suo gesto verrà anche interpretato come un lodevole atto di bontà e di altruismo. Dopotutto lei, di ventanni più giovane di Rochester, acconsente a vivere con un uomo cieco e storpio.
In una delle ultime pagine del romanzo, Charlotte Bronte —- dopo aver ridotto, in quanto autrice, Rochester ad un uomo debole ed implorante — fa dire alla sua eroina frasi che io ho trovato abbastanza singolari.
Jane a Rochester: “L’amo maggiormente ora che posso davvero esserle utile, come non era possibile al tempo della sua orgogliosa indipendenza, quando lei sdegnava ogni parte che non fosse quella del donatore o protettore”
Aveva visto giusto Mario Praz quando scriveva: “Jane Eyre […] destò un certo scalpore a suo tempo perchè l’eroina nei momenti di crisi mostra un coraggio che urtava contro le idee vittoriane di delicatezza; ma le appassionate eroine della Bronte non sono mai schiave della passione, anzi sono pronte a sacrificare all’onore e al dovere lo stesso amore”.
Io, comunque, quando ho chiuso il libro dopo l’happy end non ho potuto fare a meno di chiedermi una cosa e cioè:
… se nell’incendio la moglie pazza di Rochester fosse comunque sopravvissuta, l’istitutrice Jane Eyre sarebbe a quel punto rimasta egualmente accanto a Rochester cieco e senza una mano oppure no? L’istitutrice avrebbe questa volta ascoltato la voce del cuore o quella delle istituzioni?
Io qualche dubbio ce l’ho…Ma per fortuna, Charlotte la moglie pazza l’ha fatta morire
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In alto, tre delle più famose interpeti di Jane Eyre: Joan Fontaine nel film di Stevenson del 1944, Charlotte Gainsboroug nel film di Zeffirelli del 1996, Ruth Wilson nel film di Susanna White del 2007
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