REPETITA

copertina libro
Su vari blog ma in particolare su quello di Remo Bassini si parla molto (e si invita a parlare) di "Sud". Ove per Sud si intende, da quello che ho capito, genericamente un luogo che più o meno corrisponderebbe, nella mente di chi ha lanciato le discussioni, a quello che un tempo costituiva il Regno delle Due Sicilie.

Ora, a me (e credo non solo a me) appare molto evidente che, oltre le normali differenze che esistono tra le Regioni italiane rientranti in quei vecchi confini e che balzano agli occhi di tutti, esiste una specificità nella storia della Sicilia che deriva dalla  particolarissima situazione socio-economica in cui si trovava alla fine della seconda guerra mondiale (che in Sicilia è finita molto prima che nel resto d’Italia) caratterizzata dalla massiccia presenza di contadini e latifondisti piuttosto che di  fabbriche e classe operaia  e soprattutto dalla storia e dai retroscena dello sbarco degli Alleati in Sicilia e da tutto quello che ciò ha determinato.

Sono sempre più convinta (e le discussioni che leggo in rete sul "Sud" mi confermano in questa mia idea) che questa storia sia poco o nulla conosciuta al di là dello stretto di Messina.

E’ per questo motivo che ripropongo oggi un vecchio mio post dell’anno scorso in cui parlavo di un libro molto interessante e ben documentato, frutto di un lavoro di ricerca durato anni e che tratta appunto questi temi. Costituisce  a mio parere  un ottimo punto di partenza (per chi fosse seriamente interessato a cercare di capire la Sicilia di oggi) per poi eventualmente procedere con altre letture. La bibliografia non manca di certo.

Chi volesse andare a ripescare il mio vecchio post lo trova >> qui

LA SEDIA E IL TRONO

Grazia Livi ed Anna Banti

Alla fine degli anni ’50 la giornalista  fiorentina Grazia Livi abita a Milano, ma ogni tanto torna a Firenze e va a fare visita ad Anna Banti. La reputa grande scrittrice e la Banti l’ha più volte, in passato, incoraggiata a scrivere. La scrittrice, che vive in una grande villa appena fuori Firenze con il marito Roberto Longhi, di cui Grazia Livi è stata allieva, la accoglie

“seduta in poltrona, a fronte alta, con la macchina da scrivere sulle ginocchia e con le perle alle orecchie e al collo […] M’indicava la sediolina perchè la sistemassi accanto a lei. Veniva così interrotta la simmetria della stanza […] Dall’altitudine un sorriso scendeva su di me, ma lo sguardo restava vigile, a guardia dell’identità impervia che s’era costruita… […] Non amava parlare dei suoi libri. I vari elementi del suo lavoro — stile elaborato, immaginazione ricchissima, sintesi ardua, tempi spezzati — confluivano piuttosto in una signoria: quella del suo sguardo su di me. Vi leggevo dentro l’intolleranza. Ma insieme una benignità, nei miei confronti, tipica di chi non ha avuto figli. E una curiosità, ma impersonale, verso la giovane donna”

E scrive anche, Grazia Livi:

“… a parlare, c’erano le sue eroine. Eccole lì, sono tutte “contro”: Contro il marito […] contro il padre […] contro il destino […] contro gli uomini che compongono musica […] contro l’assenza di un passato, che i maschi , invece, avevano posseduto e ricordavano bene.”.

Al termine di una di queste visite in cui Grazia Livi si sente “… triste. Sentivo, fra noi, un’area disabitata, che lei aveva costellato di opinioni generali. Forse la colpa era della differenza di età: lei ormai dimorava fra le sue sicurezze come entro una cinta merlata” Anna Banti le propone di darle del tu “d’ora in avanti non mi chiamerai Lucia, mi chiamerai Anna Lucia”. La Livi ricorda: “Arrossii, per l’imbarazzo. L’ipotesi di una possibile parità legava d’un tratto la vacillante identità al modello che, per inventare, aveva fatto il sacrificio dell’io. Congiungeva la sedia al trono. […] Il congedo fu segnato da due baci sulle guance. Stette a guardarmi dalla sommità della scala mentre io scendevo i gradini, attraversavo l’atrio, varcavo la soglia. Quando mi voltai, con sollievo, il domestico stava già chiudendo la porta coi paletti di ferro”.

(Grazia Livi, Le lettere del mio nome, La Tartaruga Edizioni, 1991)

Non doveva certo essere facile, avere a che fare con Anna Banti…

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D’AMALGAMA FATAL LA TRAMA TRATTA

Che vado matta per i giochi monovocalici di Giuseppe Varaldo l’avevo già scritto >>qui.
Questo sonetto è uno dei miei preferiti.

Franz Kafka
La metamorfosi

Kafka al mare

D’amalgama fatal la trama tratta
(la narra Kafka, par ch’accada a Praga):
abracadabra, cabala da maga
all’alba fa passar da Samsa a blatta!

Alata l’alma, ma la zampa gratta;
la panza ha larga, la parlata vaga,
ma la magagna smacca, smagra, smaga…
A far da tana sta la branda sfatta.

Malnata, maltrattata, mal amata,
la strana larva dal tran tran stramazza;
ma dall’ava sarà da là spazzata.

Spalancata la stanza alla ramazza,
la gran carcassa-salma raccattata,
ad accasar s’abbada la ragazza

LA BUONA TERRA – PEARL S. BUCK

Copertina libro
Pearl S. BUCK, La buona terra (tit. orig. The good Earth), traduz. Andrea Damiano, p.325, Oscar Mondadori coll. Classici Moderni

Pearl Buck, scrittrice americana molto prolifica ed i cui romanzi sono quasi tutti ambientati nella Cina nella quale lei stessa trascorse tre quarti della sua esistenza appartiene a quella schiera di scrittrici (e di scrittori) che oggi in Italia a me sembrano ingiustamente sottovalutati ed in qualche modo persino snobbati.

Nel 1938 venne assegnato a Pearl Buck il Nobel per la Letteratura con questa motivazione: “Concedendo il premio di quest’anno a Pearl Buck per le opere notevoli che ha lasciato lungo il suo cammino che conduce verso la simpatia umana nei riguardi di popoli separati da noi da frontiere lontane, e per lo studio di ideali umani ai quali ella ha prestato la sua arte di descrivere così perfetta e viva, l’Accademia Svedese è cosciente di agire in armonia e d’accordo con i propositi che si era prefisso Alfred Nobel”.

Nel 1938, Pearl Buck era famosa ed i suoi romanzi molto amati. E’ stata indubbiamente una delle scrittrici più lette (molti suoi romanzi sono stati tradotti in trenta lingue) ma nonostante questo  poco apprezzata dalla critica che l’ha sempre relegata tra le figure di sfondo della letteratura americana.

Malcom Cowley — il biografo di Hemingway che Fernanda Pivano in Amici scrittori ha definito “il critico letterario più illuminato del suo tempo” — ha scritto che i critici non hanno mai perdonato a Pearl Buck di essere una scrittrice “scoperta dal pubblico, mentre i letterati guardavano da un’altra parte”. Eppure la maggior parte dei romanzi di Pearl Buck (come i bellissimi Stirpe di drago, La saggezza di Madama Wu, L’amore di Hai Huan, L’esilio) che tanti anni fa avevo comprato e letto nella mitica Medusa verde e bianca Mondadori sono oggi fuori catalogo ed irreperibili.

La buona terra, pubblicato nel 1931 e che le era valso il Premio Pulitzer, la laurea honoris causa dell’Università di Yale e la medaglia di riconoscimento dell’American Academy of Arts and Letters è il suo romanzo più famoso ed uno dei pochissimi ancora reperibili in italiano. Il romanzo è una vera e propria saga che abbraccia quattro generazioni di una famiglia di poverissimi contadini cinesi agli inizi del Novecento

I personaggi sono tanti, ma i protagonisti sono due: Wang Lung e sua moglie O-Lan i quali, lottando fianco fianco contro le carestie, la mala sorte, la miseria in nome della fedeltà alle tradizioni e alle proprie radici riescono a costruire la loro fortuna, a diventare una grande e potente famiglia ma, come sempre avviene nelle grandi saghe familiari, anche per la famiglia Wang arriva il momento in cui gli equilibri si spezzano, il momento della crisi e della dissoluzione.

“Quando si comincia a vendere la terra è la fine di una famiglia. Dalla terra siamo venuti e alla terra dobbiamo tornare”. Così Wang Lung, protagonista maschile de La buona terra, ammonisce tra le lacrime i due figli maggiori quando, ormai giunto alla fine della vita, intuisce che progettano di vendere le terre che egli ha faticosamente messo insieme e difeso durante tutta la sua esistenza per costituire la fortuna della famiglia.

Veramente potenti ed epiche le descrizioni che Pearl Buck fa di eventi terribili e catastrofici ma purtroppo ricorrenti come carestie, inondazioni, l’invasione delle cavallette e la distruzione dei raccolti e strazianti le descrizioni della condizione delle donne che in qualunque posizione si trovino (mogli, concubine, figlie) ed a qualunque livello della scala sociale sono sempre e soltanto puro oggetto alla mercè della volontà e dei capricci dell’uomo che su di esse esercita il potere assoluto. Pearl Buck descrive i parti, l’allevamento dei figli, i pesanti lavori cui sono costrette le donne con una pietas e una solidarietà femminile che scava in profondità nella condizione delle donne in una società che non concede loro nessun diritto, in cui il neonato — se risulta essere una femmina — viene chiamato semplicemente “la schiava” e non ha diritto nemmeno ad avere un nome.

La buona terra fu prima tradotto in versione teatrale da Owen Davis e nel 1937 venne realizzata la riduzione cinematografica da Irving Thalber e Sidney Franklin per la Metro Goldwyn Mayer.

Pearl Buck

“Un buon romanziere — almeno, questo mi hanno insegnato in Cina — dovrebbe essere innanzitutto tse ran, ovvero naturale, non affettato, tanto flessibile e variabile da essere sempre disponibile a ogni tipo di materiale che scorra attraverso le sue pagine […] In Cina il romanzo è più importante del romanziere”.

Questo scriveva Pearl Buck in The Chinese Novel, il discorso tenuto davanti all’Accademia Svedese in occasione dell’assegnazione del Nobel.

Una scena del film
Una scena del film con Paul Muni e Luise Rainer
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AMORI

Marks&Co,  Charing Cross Road

14 East 95th St.
New York City
16 aprile 1951

A tutti gli amici dell’84, Charing Cross Road,

grazie per il magnifico libro. Non ne avevo mai posseduto uno con le pagine tutte bordate in oro prima d’ora […] Avrei desiderato che non foste stati così supercortesi da mandarmi la dedica su un bigliettino a parte invece che scriverla direttamente sul libro. E’ l’animo del libraio che spunta fuori in tutti voi, eravate preoccupati che sminuisse il valore del libro. E invece per l’attuale proprietario lo avrebbe accresciuto. (E probabilmente anche per i futuri proprietari. Amo le dediche sulla prima pagina, le note a margine, mi piace il sentimento fraterno che si prova sfogliando pagine che qualcun altro ha già sfogliato. Leggendo passaggi che qualcun altro, magari da tempo scomparso, ha voluto segnalare alla mia attenzione).

E perchè non avete firmato con i vostri nomi? Immagino che non ve lo avrà permesso Frank, probabilmente non vuole che io scriva lettere d’amore ad altri che a lui.
[…]
Grazie ancora per il libro stupendo, farò di tutto per non rovesciarci sopra del gin e non farci cadere la cenere, è veramente troppo delicato per tipi come me.

Vostra
Helene Hanff

UN RITMO DENTRO A UN RITMO

Ieri  è morto Max Roach.  Aveva 82 anni  >>

"Ho imparato tanto sulla batteria da Max Roach, quando suonavamo insieme con Bird e vivevamo insieme mentre giravamo il Paese. Era sempre lì a farmi vedere delle cose. Mi ha insegnato che il batterista ha il compito di proteggere il ritmo, di mantenere un beat interno, di proteggere il groove. Proteggere il groove significa avere un ritmo dentro a  un ritmo. Come "bang, bang, sha-bang, sha-bang". Lo "sha" che sta tra i "bang" è il ritmo dentro il ritmo, e quella piccola cosa è il groove in più. Quando il batterista non riesce a farlo, allora non c’è più il groove, e non c’è niente di peggio al mondo di un batterista senza groove. Una roba del genere è come la morte, cazzo".

Miles Davis, L’autobiografia

JANE EYRE – CHARLOTTE BRONTE

Tre Jane Eyre

Ho finito di (ri)leggere un paio di giorni fa Jane Eyre di Charlotte Bronte. Veramente più che (ri)leggere farei meglio a dire che l’ho divorato, questo libro che, secondo me giustamente, Mario Praz ha definito melodrammatico. Infatti non è per nulla casuale l’incredibile numero di riduzioni cinematografiche e televisive che sono state tratte da questo romanzo, basta andare a gettare un’occhiata su imdb. Se poi si va su YouTube e si cerca “Jane Eyre” ci arriva addosso una valanga di più di 2000 (duemila) risultati. Guardare per credere

Jane Eyre è un romanzo appassionante ed avvincente, ma non un grande romanzo. La stessa Virginia Woolf nel suo saggio introduttivo a Jane Eyre apprezza Charlotte Bronte per la sua “personalità irresistibile” ma non certo per i suoi personaggi, che definisce “vigorosi ed elementari” o per la sua commedia “truce e rozza” nè tanto meno per la sua “visione filosofica della vita” o per la materia della prosa che è, secondo la Woolf “goffa e priva di elasticità”.
Per Virginia Woolf, Charlotte Bronte è innanzitutto una poetessa.

Eppure, Jane Eyre è uno dei romanzi più amati, da molti considerato addirittura superiore al Wuthering Heights di Emily Bronte e, da molte donne, la figura della protagonista è considerata un emblema, un simbolo, un’icona di proto-femminismo, di eroina dell’emancipazione femminile.

E guarda un po’, è proprio su questo punto che a me i conti non tornano.

Perchè a mio parere, la coraggiosa, intelligente, modesta, sincera, onesta, per nulla avida istitutrice Jane Eyre è, in realtà, la più fedele vestale delle istituzioni della sua epoca. Il conformarsi alle istituzioni, anche se doloroso, anche se in qualche modo rischia di costituire una amputazione se non addirittura una castrazione rappresenta per l’istitutrice Jane sicurezza e garanzia di identità. Forse addirittura l’unica. Niente di male, intendiamoci. Il problema non sta in Charlotte Bronte che l’ha inventata povera e bruttina e che rendendola fedele alle istituzioni della sua epoca intende preservarla e proteggerla. Il problema sta, a mio modesto avviso, nelle forzature interpretative che di questo personaggio sono state fatte in seguito.

Nel 1847, nella prefazione alla seconda edizione del romanzo, la stessa Charlotte Bronte (che ancora si firmava con lo pseudonimo di Currer Bell) precisava che la sua era una “protesta verso il bigottismo, parente del male, un insulto alla devozione, espressione di Dio sulla terra […]  il convenzionalismo non è la moralità, il farisaismo non è la religione”. In queste parole va ricercata la vera carica innovativa del romanzo. Non certo nel vedere in Jane Eyre una ribelle nei confronti delle istituzioni.

Guardiamo a due delle scene madri del romanzo. Nella prima, Jane ha appena ascoltato il disperato racconto-confessione di Rochester sul suo matrimonio, la pazzia e la segregazione della moglie e il suo timore che, se le avesse rivelato prima la vertià, Jane non avrebbe mai acconsentito ad amarlo.

Quando Rochester le dice ” … è dunque meglio spingere una creatura alla disperazione, che trasgredire ad una legge umana, anche quando la trasgressione non nuoce ad alcuno? Perchè lei non ha nè parenti ed amici che possa temere di offendere vivendo con me” l’istitutrice Jane (o meglio, il Super Io dell’istitutrice Jane) pur innamoratissima risponde così a se stessa: “Voglio attenermi alla legge dettata da Dio e sancita dall’uomo. Voglio osservare i principi ricevuti […] le leggi e i principi non ci sono stati dati per i momenti in cui nulla ci tenta; bensì per i momenti come questi, in cui il corpo e l’anima si ribellano contro la loro severità; rigorosi sono, ed inviolati devono essere. Se li infrangessi per mia personale convenienza, quale sarebbe il loro valore? Hanno un valore, l’ho sempre creduto […] Idee preconcette, risoluzioni prese in passato sono il solo terreno solido del quale dispongo in quest’ora, e là poso il mio piede.

Ci vuole un incendio (ovviamente provocato dalla moglie pazza) che distrugga la villa-castello di Thornfeld, ci vuole che la moglie pazza muoia nell’incendio; ci vuole forse soprattutto che a Rochester venga amputata la mano destra, diventi cieco e dunque perda quasi del tutto la sua autonomia fisica perchè l’istitutrice Jane decida di rimanere al suo fianco. Le istituzioni, ora, non solo glielo permettono, ma il suo gesto verrà anche interpretato come un lodevole atto di bontà e di altruismo. Dopotutto lei, di ventanni più giovane di Rochester, acconsente a vivere con un uomo cieco e storpio.

In una delle ultime pagine del romanzo, Charlotte Bronte —- dopo aver ridotto, in quanto autrice, Rochester ad un uomo debole ed implorante — fa dire alla sua eroina frasi che io ho trovato abbastanza singolari.

Jane a Rochester: “L’amo maggiormente ora che posso davvero esserle utile, come non era possibile al tempo della sua orgogliosa indipendenza, quando lei sdegnava ogni parte che non fosse quella del donatore o protettore”

Aveva visto giusto Mario Praz quando  scriveva: “Jane Eyre […] destò un certo scalpore a suo tempo perchè l’eroina nei momenti di crisi mostra un coraggio che urtava contro le idee vittoriane di delicatezza; ma le appassionate eroine della Bronte non sono mai schiave della passione, anzi sono pronte a sacrificare all’onore e al dovere lo stesso amore”.

Io, comunque, quando ho chiuso il libro dopo l’happy end non ho potuto fare a meno di chiedermi una cosa e cioè:

… se nell’incendio la moglie pazza di Rochester fosse comunque sopravvissuta, l’istitutrice Jane Eyre sarebbe a quel punto rimasta egualmente accanto a Rochester cieco e senza una mano oppure no? L’istitutrice avrebbe questa volta ascoltato la voce del cuore o quella delle istituzioni?

Io qualche dubbio ce l’ho…Ma per fortuna, Charlotte la moglie pazza l’ha fatta morire

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In alto, tre delle più famose interpeti di Jane Eyre: Joan Fontaine nel film di Stevenson del 1944, Charlotte Gainsboroug nel film di Zeffirelli del 1996, Ruth Wilson nel film di Susanna White del 2007

SOGNI PROIBITI

La Montblanc Marcel Proust

Sul pennino è incisa una clessidra (smile)

Montblanc Marcel Proust

www.montblanc.com/34.php

Sono belle anche quelle dedicate agli altri (pochi eletti) scrittori.

A ciascuno la sua Montblanc (ri-smile)

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