IN VIAGGIO DA SOLA E CON QUALCUNO – MARTHA GELLHORN

Copertina libro
Martha GELLHORN, In viaggio da sola e con qualcuno (tit. orig. Travels with Myself and Another), traduz. Guido Lagomarsino, p.303, FBE (Collana La Mongolfiera), ISBN 88-89160-38-1

“Quando torniamo non c’è nessuno che si presti volentieri ad ascoltare i nostri racconti. “Com’è andato il viaggio?”, ci chiedono. “Stupendo” rispondiamo […] appena lo permette la buona educazione (o anche prima) la conversazione si sposta […]. L’unico caso in cui un nostro viaggio ci garantisce un uditorio attento è un disastro”

E’ questa l’idea di fondo che ha spinto Martha Gellhorn, considerata la più grande corrispondente di guerra americana di tutti i tempi a scrivere questo libro, pubblicato nel 1979 e soltanto oggi tradotto e pubblicato anche in italiano.

Nel 1979 Martha, nata nel 1908, ha 71 anni. L’elenco dei Paesi in cui è stata per i suoi reportages è impressionante e tanto lungo da rendere impossibile snocciolarlo qui. Basti sapere che ha, tra l’altro, partecipato alla guerra civile in Spagna nel 1937-38, partecipato in prima persona come corrispondente di guerra alla sbarco in Normandia, è stata reporter al processo di Norimberga, di nuovo corrispondente di guerra in Vietnam nel 1966 e in Israele nel 1967.

Autrice anche di romanzi e racconti, non ha mai pensato, però, di scrivere un libro sui suoi innumerevoli viaggi. Lo fa con questo Travels with Myself and Another, in cui sceglie di raccontare cinque “horror trips” (cinque viaggi orribili) in cui si è avventurata da sola o con “qualcuno”. Quel “qualcuno” del titolo è Ernest Hemingway, con cui si è sposata nel 1940 (fotografo di nozze Robert Capa) e dal quale si separerà cinque anni più tardi. Nel 1941 Martha, incaricata dal suo giornale — il Collier’s — di Martha Gellhorn ed Hemingway nel 1940documentare la guerra sino-giapponese relazionando sulle attività dell’esercito cinese lungo le coste del mar della Cina meridionale riesce a trascinarselo dietro (“non smisi di esercitare le arti della seduzione finchè non emise un triste sospiro e accondiscese a seguirmi”). Nel racconto Hemingway non viene mai indicato per nome ma sempre come “Unwilling Companion”, “Compagno Riluttante” ed ad un certo punto, ricordando le mille peripezie ed i mille pericoli di quel viaggio che si svolge tra piogge torrenziali, divorati da mosche e zanzare, tra orrori e miserie inenarrabili Martha scrive: “Fu un atto di scandaloso egoismo da parte mia, che non si ripetè mai più. I successivi viaggi orribili li ho fatti tutti per conto mio. Se uno vuole ficcarsi nei guai, liberissimo di farlo, ma non deve costringere altri a seguirlo”.

Ed è infatti da sola che nel 1942 va nei Caraibi per raccogliere notizie dettagliate sulle perdite di navi nella guerra per mare — più di duecentocinquantuno mercantili sono stati già affondati dai sottomarini tedeschi — , spostandosi poi nella Guinea Francese e nel Suriname.

Nel 1962, trovandosi improvvisamente con tremila dollari in più in tasca decide di andare a conoscere l’Africa. Di questo continente Martha non sa nulla (“nessun caporedattore mi ci avrebbe mandato […] non ero considerata un’esperta dell’Africa”), ne ha un’idea molto ingenua, come lei stessa dice: “per me era una vasta pianura color pelle di leone, cinta da montagne azzurre […] In quel quadro si aggiravano splendidi animali selvatici e il cielo era sempre limpido. Smaniavo di vedere il paese e gli animali e adesso, con quei soldi, potevo d finalmente andarci. Un viaggio di piacere, l’idea più audace”.

Imbottita di ogni sorta di vaccinazioni tanto da star male ancora prima di partire, di consigli forniti da due amiche che in Africa hanno vissuto, con una sola valigia riempita di medicinali ma anche di libri (“ai libri ci tenevo proprio: la solitudine va benissimo in compagnia dei libri, è spaventosa senza”) Martha piomba nel continente nero. Le bastano un paio di giorni per accorgersi di non trovarsi affatto tra le pagine di La mia Africa di Karen Blixen ma tra quelle di Cuore di tenebra di Conrad… Eppure e nonostante tutto viene catturata anche lei dal fascino dell’Africa e ancora un mese dopo essere tornata a Londra passa il tempo a rimpiangerla.

Se in Africa Martha c’era andata spontaneamente, in Russia invece non avrebbe mai voluto metterci piede e inizia il racconto di questo “viaggio orribile” intitolato “Uno sguardo alla Grande Madre Russia” con : “Che anche quello sarebbe stato un viaggio orribile lo sapevo già prima che cominciasse”.

Perchè ci va, allora? Per un “impegno morale”. Ha letto ed ammirato moltissimo i libri e il coraggio di Nadezda Jakolevna Chazina vedova del poeta Osip Mandel’stam arrestato per attività antisovietica e morto nel 1938 in un lager staliniano. Le ha scritto, l’ammira molto. Nadezda la vuole conoscere e così “Non potevo tirarmi fuori, era un impegno morale, Dovevo andare in Russia, dove desideravo con tutte le mie forze non mettere mai piede”.

E dunque nel 1970, — e cioè in piena Guerra Fredda — parte per Mosca ritrovandosi imbrigliata ed oppressa da ostruzionismo, incomprensioni linguistiche, l’atmosfera cupa di un paese in cui tutti — cittadini e stranieri specie se americani come lei — vengono continuamente controllati e spiati. Anche l’incontro con Nadezda e i suoi amici dissidenti tutto sommato la delude. Li trova cupi e immusoniti, e sente che “il cervello, la pelle, le ossa, l’anima stavano diventando di un cuore grigio come il cemento, il colore naturale della città”. La permanenza a Mosca è di una settimana, ma questo tempo le sembra interminabile. Non vede l’ora di andarsene, e quando finalmente sale a bordo dell’aereo della British Airways si rivolge alla fredda hostess inglese con un “Sono così contenta di vederla, non si immagina nemmeno quanto” e, racconta “Mi trattenni dalla voglia di baciare la moquette, che tecnicamente era suolo britannico”.

Nell’ultimo viaggio orribile troviamo Martha in Israele nel 1971 in una cisterna d’acqua in disuso vicino Eliat dove alloggiano, in baracche di cartone e pezzi di lamiera, sette giovani hippyes. La interessano molto, spera in qualche “illuminazione” sul viaggio. Scopre che a loro importa solo l’hascisc. Martha è rosa dalla noia.

Perchè c’è da dire che in realtà per Martha, ciò che rende “orribile” un viaggio non sono i pericoli, il rischio di malattie, la sporcizia, le disavventure, la fame. E’ la noia.

“Ognuno definisce un proprio viaggio orrendo in base ai propri gusti. Il criterio con cui io definisco un viaggio del tutto o in parte orrendo è la noia. Per arrivare al più puro orrore, si possono aggiungere le scomodità, la fatica e la tensione in grose dosi, ma il nocciolo è fatto di noia. Lo propongo come mezzo universale di verifica del viaggio: la noia, comunque la si chiami, è la ragione per cui non si sogna altro che il primo mezzo per andarsene” anche se — si affretta a precisare Martha — “Per orribile che sia stato l’ultimo viaggio, non rinunceremo per questo al prossimo, lo sa Dio perchè”.

Martha GellhornQuel che posso dire io è che leggere il suo libro non mi ha certo annoiata, visto che l’ho letto tutto di un fiato. Martha Gellhorn scrive e descrive con ironia e partecipazione, il suo tono è sempre pungente e satirico, il suo racconto brillante, abbonda in autoironia (merce rara) e non manca certo di humor nero.

Insomma una lettura  che mi  ha deliziata anche se mi sento di condividere in pieno quanto scritto nella quarta di copertina e cioè che “Tra questi inferni terrestri, emerge una donna che prende in giro la vita, mentre si ringrazia il cielo di non essere con lei in quel momento”

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I CROISSANTS DI MADAME VERDURIN

Nel 1927 veniva pubblicato, postumo, Il Tempo ritrovato di Marcel Proust.
Nel 1960 veniva pubblicato invece, dopo decenni di gestazione, Massa e Potere di Elias Canetti.

petit dejuner

A Parigi, durante la guerra

“La signora Verdurin, soffrendo d’emicranie più forti perchè non poteva più avere croissants da inzuppare nel caffellatte, aveva ottenuto da Cottard una ricetta che le permetteva di procurarsene in un certo ristorante […] cosa che era stata quasi altrettanto difficile da ottenere dai pubblici poteri quanto la nomina di un generale. Essa inzuppò di nuovo il suo primo croissant proprio la mattina in cui i giornali riportavano il naufragio del Lusitania. Tutta intenta a inzuppare il croissant nel caffellatte, e dando colpetti al giornale perchè restasse spalancato senza essere costretta a distogliere l’altra mano dal croissant che stava inzuppando, essa esclamò:
— E’ spaventoso! Supera per orrore le più spaventose tragedie — . Ma la morte di tutti quegli annegati non doveva apparirle che ridotta ad un miliardesimo, giacchè, pur facendo, a bocca piena, queste riflessioni desolate, l’aura che le aleggiava sul volto, generatavi probabilmente dal sapore del croissant, così prezioso contro l’emicrania, era piuttosto quella d’una dolce soddisfazione”

Marcel Proust, Il Tempo ritrovato

Anche oggi ognuno partecipa alle esecuzioni pubbliche attraverso il giornale. Solo che oggi — come tutto — è più agevole. Non è necessario scomodarsi, e fra cento particolari ci si può soffermare su quelli che eccitano in maggior misura. Si applaude soltanto quando tutto è fatto, e neppure la più piccola traccia di complicità guasta il godimento. Non si è responsabili di nulla, nè della condanna, nè dei testimoni oculari, nè della loro deposizione, e neppure del giornale che ha stampato la deposizione. E però se ne sa di più che nei tempi passati, quando bisognava camminare e stare in piedi per ore, e alla fine si vedeva abbastanza poco. Nel pubblico dei lettori di giornali è sopravvissuta una massa aizzata più moderata ma più irresponsabile per la lontananza degli avvenimenti — si sarebbe tentati di dire: la forma più spregevole e al tempo stesso più stabile.

Elias Canetti, Massa e Potere

post-it Proust e Canetti hanno scritto quando ancora non erano deliziati come noi oggi anche da telegiornali e salotti televisivi e da tam tam di rete. Ma nonostante questo credo proprio che le loro intuizioni espresse dal primo in un romanzo e dall’altro in un un saggio non abbiamo perso di validità, anzi.

RITRATTO DI SIGNORA – HENRY JAMES

John Malkovich
Gilbert Osmond (John Malkovich) nel film Ritratto di signora (1996)

Isabel Archer, la protagonista di Ritratto di signora di Henry James, diventata molto ricca grazie all’eredità ricevuta dallo zio Touchett, dopo aver rifiutato due ottimi e ricchi pretendenti (l’industriale americano Caspar Goodwood e l’inglese Lord Warburton) finisce per innamorarsi e sposare l’ambiguo Gilbert Osmond andando così incontro a una vita segnata da solitudine ed infelicità.

Come spesso accade nei romanzi di James, mentre ci sono momenti che vengono narrati con minuziosa analiticità, altri vengono invece completamente (e volutamente) taciuti. James non racconta, ad esempio, la scena del fidanzamento con Osmond, che risulterà fatale per Isabel. Per molti lettori rischia di rimanere così non del tutto comprensibile la motivazione profonda che porta una ragazza che respingendo la domanda di matrimonio di Goodwood aveva detto “Amo troppo la mia libertà. Se c’è qualcosa al mondo alla quale io sia attaccata […] è la mia indipendenza personale” a cadere poi tanto ingenuamente nella trappola tesale da Osmond e dalla sua amica madame Merle.

Ho rivisto proprio qualche giorno fa il bel film che dal libro ha tratto Jane Campion, in cui all’eccellente Isabel Archer di Nicole Kidman si affianca il diabolico Gilbert Osmond di John Malkovich. Continuo a pensare che Jane Campion abbia fatto un ottimo lavoro e che sia riuscita a cogliere in pieno l’atmosfera del romanzo di James pur reinterpretandone radicalmente, nel finale, il senso complessivo. Credo però anche che la difficoltà di concentrare nel tempo di un film le circa seicento pagine di analisi psicologica di James l’abbia in qualche modo costretta a semplificare il personaggio di Osmond, presentato forse un po’ troppo superficialmente come “cacciatore di dote”. Osmond è certamente attratto dalla ricchezza di Isabel ma nel romanzo questo elemento — pure molto importante — risulta — anche se può sembrare paradossale — quasi in secondo piano rispetto ad altre caratteristiche che rendono lui personaggio molto più inquietante e mortifero che nel film e la sua relazione con Isabel molto più complessa.

L’Osmond di Campion-Malkovich è, inoltre, così evidentemente malvagio e insopportabile fin dall’inizio che davvero risulta difficile credere come Isabel, per quanto “di poca esperienza” e con “la sua innocenza confidente ad un tempo e dogmatica” ma descritta anche come “molto intelligente” e con “un irresistibile bisogno di stimarsi” se ne possa innamorare. Il fatto è che se da una parte Isabel, come scrive James “nelle situazioni più gravi, quando avrebbe avuto bisogno di usare soltanto della sua ragione, doveva pagare il fio di aver sempre dato via libera alla facoltà di vedere senza giudicare” è altrettanto vero che l’Osmond del romanzo si svela molto più lentamente e soprattutto si comporta sempre, formalmente, in modo assolutamente ineccepibile e corretto.

Mi sono in un certo modo divertita a tratteggiare un identikit di Gilbert Osmond servendomi di quello che di lui ci svela Henry James.

Osmond fa la sua comparsa a circa un terzo del romanzo. Ha quarantanni, James descrive il suo aspetto fisico con molta precisione. A poco a poco, nel corso della lettura, emergono anche le sue caratteristiche interiori che sono quelle di un uomo che “aveva sempre di mira l’effetto”, che “sotto la maschera di occuparsi solo dei valori interiori […] viveva esclusivamente per il mondo”. “Qualsiasi cosa facesse era posa, posa così sottilmente studiata, che, se uno non fosse stato più in guardia, l’avrebbe senz’altro scambiata per spontaneità”. “La sua ambizione non era di piacere al mondo; ma di piacere a se stesso con l’eccitarne la curiosità, senza soddisfarla. Ingannare così il mondo gli dava sempre un senso di grandezza”.

Osmond non è un sadico, ma Isabel lo percepisce sempre più come un essere mortifero che possiede “la facoltà […] di fare appassire qualsiasi cosa toccasse, di guastar […] qualsiasi cosa guardasse”. “Era come s’egli avesse avuto il malocchio, come se la sua presenza fosse stata un contagio e il suo favore una disgrazia”. Nella lunga notte insonne che Isabel trascorre a riflettere sul marito, pensa  a proposito dei suoi comportamenti  che   “Non si trattava di misfatti, di turpitudine: ella non poteva accusarlo di nulla, o poteva accusarlo di una cosa sola, che non era un delitto. Non poteva dire ch’egli avesse fatto alcun male: non era violento, non era crudele; ella credeva semplicemente che la odiasse.Questo era tutto ciò di cui lo accusava, e ciò che rendeva più disperata la sua causa era il fatto che questo non era un delitto, perchè contro un delitto ella avrebbe potuto trovare soccorso”

Ma perchè Osmond, che all’inizio era stato molto piacevolmente colpito dalla bellezza e dalla intelligenza di Isabel tanto che se ne era effettivamente innamorato, ha finito per odiarla? James ce lo dice attraverso i pensieri della stessa Isabel, che ricorda:

“Egli le aveva detto un giorno che aveva troppe idee e che doveva liberarsene. Le aveva detto questo già prima del loro matrimonio, ma allora ella non ci aveva fatto caso: più tardi soltanto le era tornato in mente […] Questo egli aveva voluto dire: gli sarebbe piaciuto che ella non avesse nulla di suo, tranne la graziosa apparenza. Ella aveva sempre saputo di avere troppe idee: ne aveva anche di più di quel che egli avesse supposto, di più di quel ch’ella gli avesse espresso quando egli le aveva domandato di sposarlo”

Nel romanzo ci sono tre colloqui fondamentali per comprendere Osmond e la sua relazione con Isabel.

Quello tra Isabel e la sua amica, la giornalista Henrietta. Quando questa le chiede: “Che cosa ti fa lui?” Isabel risponde: “Nulla, ma non mi ama”.

Quello tra Osmond e Madame Merle, in cui ad un certo punto lui  si lamenta: “Domandavo assai poco: domandavo soltanto che lei mi volesse bene […] che ella mi adorasse, se vuoi. Oh, si, ne avevo bisogno”

Il terzo, drammatico colloquio si svolge tra Isabel ed Osmond che le dice (e qui le sue parole sono veramente illuminanti: “Io ho un’idea precisa di quel che dovrebbe essere una moglie, di quel che mia moglie dovrebbe o non dovrebbe fare […] tu sorridi in modo molto espressivo quando parlo di “noi”: ma ti assicuro che “noi”, “noi”, signora Osmond, è tutto quel che conosco. Io prendo sul serio il nostro matrimonio, ma sembra che tu abbia trovato il modo di far diversamente […] può essere una vicinanza sgradevole, ma l’hai scelta tu, di tua libera volontà. Non ti piace che te lo rammenti, lo so; ma io te lo voglio rammentare perchè […] perchè penso che dobbiamo accettare le conseguenze delle nostre azioni, poichè quello che io pregio maggiormente nella vita è l’onore”

Ed è questo appello alla responsabilità la vera trappola che distrugge Isabel. La quale infatti, pur avendone la possibilità, si rifiuta di abbandonare Osmond e ad Henrietta che le chiede: “Perchè non lo lasci?” risponde appunto “Dobbiamo accettare le conseguenze dei nostri atti. L’ho sposato davanti a tutto il mondo: ero perfettamente libera, non avrei potuto fare qualcosa più di proposito. Non si può cambiare in questo modo”.

E così la volontà di controllo totale di Osmond si salda con il senso di responsabilità di Isabel, che si sente “colta in una rete di fila sottilissime” e  sa “di aver buttata via la sua vita”.

The portrait of a lady è dunque un romanzo di formazione che descrive minuziosamente la manipolazione umana ed una acuta analisi di quale orrenda trappola possa diventare il conformismo: agito e adorato da Osmond, accettato e subito da Isabel Archer. Lo stesso James affermò in seguito che “L’idea di fondo è che la poverina, la quale, coi suoi sogni di libertà e di nobiltà, crede di aver compiuto un gesto generoso, spontaneo ed avveduto, si ritrova in realtà schiacciata dagli ingranaggi del convenzionale” ed in un passaggio del romanzo avverte il lettore, difendendo la sua Isabel: “vi prego di non sorridere di questa giovane donna […] era una creatura piena di buona fede e se c’era qualche follia nella sua saggezza, quelli che volessero giudicarla severamente potranno aver la soddisfazione di constatare che più tardi ella rinsavirà, ma solo a prezzo dell’accumularsi di altre follie che quasi reclameranno di venir compatite”.

Jane Campion termina il film alla penultima pagina del romanzo di James, cambiando  così completamente il senso della storia. Si tratta di una modifica apparentemente leggera ma che invece pesa profondamente su tutto il film. Nell’ultima pagina del testo di James, infatti, Isabel, rientrata in Inghilterra per vegliare il cugino Ralph gravemente malato, assisterà alla sua morte e, consapevole di averlo sempre amato, tornerà alla sua prigione romana, sapendo di avere sbagliato tutto. James non spiega perchè Isabel firmi così la sua condanna, e conclude il racconto con un sacrificio borghese. Nel film invece la Campion taglia il suo ritorno dal marito lasciandoci intravedere la possibilità che lo abbandoni definitivamente ed offrendole in questo modo  un’opportunità di riscatto.

John Malkovich e Nicole Kidman
Isabel Archer (Nikole Kidman) e Gilbert Osmond (John Malkovich in Ritratto di Signora

LO CAPISCO

Moliere Mes yeux sont trop blessés, et la cour et la ville
Ne m’offrent rien qu’objets à m’échauffer la bile;
J’entre en une humeur noire, en un chagrin profond,
Quand je vois vivre entre eux les hommes comme ils font;
Je ne trouve partout que lâche flatterie,
Qu’injustice, intérêt, trahison, fourberie.
Je n’y puis plus tenir, j’enrage, et mon dessein
Est de rompre en visière à tout le genre humain.

Molière, Le Misanthrope, Acte I, Sc. I

Queste cose mi danno fastidio; e dappertutto, tra nobili e borghesi, trovo continue occasioni di scaldarmi la bile; vedo gli uomini vivere come vivono, e cado allora in un umore nero, in una collera profonda. Non vedo che adulazione vile, ingiustizia, interesse, tradimento, intrigo: Non resisto, divento pazzo, e il mio impulso è quello di prendere a schiaffi l’intero genere umano
(Traduzione di Luigi Lunari, BUR Teatro)

IN LIBRERIA

Io mi sono equipaggiata
L’autunno, si sa, è la stagione in cui nelle librerie arrivano valanghe di Capolavori Annunciati. Vengono astutamente disposti in pericolose ed altissime pile che ostacolano il mio percorso per raggiungere i remoti scaffali dove giacciono negletti i volumi che mi interessano davvero e riguadagnare l’uscita sana e salva non è impresa da poco.

Ho pensato dunque di adottare per queste incursioni  un abbigliamento discreto e consono a situazione e luogo ripetendomi  mentalmente, come nell’Ernani

Fuggi, fuggi: per l’orrida via
Sento l’orma dei passi spietati.
[…] Va, ti salva, o che il varco all’uscita
Qui fra poco serrarsi vedrai

LA TEMUTA SICILIA

Bennet, Vue de murs d'Agrigente,prise du Temple de Junon Lucine, Paris 1822
Ancora nell’Ottocento, l’impatto di un viaggiatore “del continente” con la Sicilia poteva ben essere come quello che ne Il Gattopardo descrive Tomasi di Lampedusa quando, con la sottile ironia che gli è propria, parla dell’arrivo e della permanenza nell’isola del piemontese Chevalley.

“La corriera giunse sul far della notte con la sua guardia armata a cassetta e con lo scarso carico di volti chiusi. Da essa discese anche Chevalley di Monterzuolo, riconoscibile subito all’aspetto esterrefatto ed al sorrisetto guardingo.Egli si trovava da un mese in Sicilia, nella parte più strenuamente indigena dell’isola per di più, e vi era stato sbalzato dritto dritto dalla propria terricciuola del Monferrato. Di natura timida e congenitamente burocratica, vi si trovava molto a disagio. Aveva avuto la testa imbottita di quei racconti briganteschi, mediante i quali i siciliani amano saggiare la resistenza nervosa dei nuovi arrivati, e da un mese individuava un sicario in ciascun uscere del suo ufficio ed un pugnale in ogni tagliacarte di legno sul proprio scrittoio”

Ospite del Principe di Salina, viene condotto in giro da Tancredi il quale, appena si accorge che Chevalley comincia a rassicurarsi anche nei riguardi della Sicilia rustica “venne subito assalito dal singolare prurito isolano di raccontare ai forestieri storie raccapriccianti, purtroppo sempre autentiche” terrorizzando di nuovo il poveretto.

Chevalley però non aveva tutti i torti. Può sembrare incredibile ma la Sicilia, situata nel bel mezzo del Mediterraneo a una distanza dal continente che oggi si pensa addirittura di collegarla con un ponte, per circa due secoli era scomparsa dall’orizzonte culturale europeo.

Al punto tale che nel 1765 la grande Encyclopédie di Diderot e d’Alembert, summa delle conoscenze di quel secolo che fu detto dei Lumi proprio per la sua brama di sapere, poteva tranquillamente affermare — parlando di Palermo — che la città non esisteva più, essendo stata distrutta da un terremoto:

“en latin Panormus; ville détruite de la Sicile, dans le val de Mazara, avec un archevêché & un petit port. Palerme avant sa destruction par un tremblement de terre, disputoit à Messine le rang de capitale.”

E ancora nel 1885, uno scrittore come Guy de Maupassant, che visitò tutta l’isola anche inerpicandosi per impervi sentieri di montagna e scendendo nelle solfatare, spiegava che “In Francia si è convinti che la Sicilia sia un paese selvaggio, difficile e anche pericoloso”. Eppure nel frattempo la Sicilia aveva accolto e affascinato visitatori d’eccezione che avevano ampiamente inneggiato alle sue bellezze, da Goethe a Courier, da Brydone a Dominique Vivant Denon.

L’entusiamo di Maupassant per il suo Grand Tour siciliano lo spinse non solo a fargli definire l’isola “la perla del Mediterraneo”, ma addirittura a fargli scrivere, dopo aver ricordato che (e in questo passo troviamo gli “antenati” di Tancredi) “i Siciliani sembrano essersi compiaciuti nell’ingrandire e moltiplicare le storie di banditi al fine di spaventare i forestieri” a scrivere addirittura “oggi ancora si esita ad entrare in quest’isola, tranquilla come la Svizzera” e più avanti: “Nulla è meno pericoloso oggi del percorrere la temuta Sicilia, sia in vettura, sia a cavallo, sia persino a piedi”.

post-itGuy de Maupassant, Viaggio in Sicilia
La copia che posseggo io invece è questa, molto bella ma, tanto per cambiare, fuori catalogo.

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Bennet, Vue de murs d’Agrigente, pris du Temple de Junon Lucine, Paris 1822

I GIORNALI – HENRY JAMES

Henry JAMES, I Giornali, (tit. orig. The Papers), a cura e traduz. di Donatella Izzo, p. 162, Liberilibri, ISBN 88-85140-03-3

Di Henry James il grande pubblico generalmente conosce, anche per le fortunate trasposizioni cinematografiche che ne sono state ricavate, i grandi romanzi come Ritratto di Signora, La coppa d’oro, Le bostoniane, lo straordinario racconto Il giro di vite. Ma James è uno scrittore che non finisce mai di stupirmi ed incantarmi, la sua produzione letteraria è uno vero scrigno di gioielli.

Daumier,1856
Questo I Giornali, per esempio. Un racconto lungo (o romanzo breve) scritto quando il suo autore aveva già prodotto la maggior parte dei suoi lavori più importanti e che a mio parere è testo da non trascurare.

Non solo perchè presenta un Henry James nelle vesti piuttosto insolite dell’analista della nascente comunicazione di massa piuttosto che in quelle che in genere più lo caratterizzano e cioè di acuto osservatore dell’impatto tra cultura americana — semplice ed ingenua — e cultura europea complessa e carica di secoli di esperienza ma perchè, a distanza di più di cento anni (il racconto fu pubblicato nel 1903) è ancora attualissimo nei contenuti e, per molti versi, addirittura profetico.

La maiuscola del titolo (The Papers) non è affatto casuale: indica infatti una identità collettiva, un vero e proprio istituto che sta a rappresentare una civiltà nascente, una realtà nuova dominata dalla comunicazione di massa.

Lo scenario del racconto è la Londra di inizio Novecento ed in particolare quella dello Strand e di Fleet Street, la Londra del giornalismo e degli affari.

Protagonisti due giovani reporter: Maud Blandey e Howard Bight, che in questo mondo spietato aspirano a fare carriera.

Non è la prima volta che James inserisce in una sua opera figure di giornalisti: lo aveva fatto in Ritratto di signora, ne Le ali della colomba, ne Il riflettore. E’ un tema, quello del giornalismo inteso a volte in parallelo e/o in contrapposizione con la letteratura “colta” che lo interessa parecchio. Gli stessi protagonisti di questo racconto hanno, in realtà, ambizioni letterarie.

Alla coppia di reporter fanno da contrappunto altri due personaggi: Sir A.B.C. Beadel-Muffet — personaggio pubblico di cui tutti i giornali parlano, uomo astuto ed arrivista — cui fa da contraltare l’educato, scialbo e timido commediografo Mortimer Marshal il quale, al contrario, non riesce ad ottenere che i giornali si occupino di lui benchè egli lo desideri ardentemente. Di questi quattro personaggi il lettore ne vede solo tre, perchè di Beadel-Muffet si parla sempre ma non compare mai.

Scrive Donatella Izzo nel suo ottimo saggio introduttivo: “Come in un gioco stilizzato dei quattro cantoni, i personaggi costruiranno l’intera dinamica dell’intreccio con il loro disporsi, lungo tutto il racconto, in ogni possibile rapporto di simmetria o d’opposizione, talvolta scambiandosi i ruoli, talvolta solo aspirandovi: “entrando” o “uscendo” dai giornali, salendo e scendendo nella carriera, trasformandosi da prede in cacciatori”

Nel meccanismo mediatico non è facile entrare (Marshal non vi riesce) ma è ancora più difficile uscirne e di questo fa esperienza Beadel-Muffet il quale, ad un certo punto, vorrebbe non si parlasse più di lui.

“La cosa diabolica è che non può essere aiutato. La sua unica idea di aiuto, dal giorno che ha aperto gli occhi, è stata di essere citato — maledetta parola! — col dovuto rilievo: è il solo tipo di aiuto che esista in rapporto a lui. E allora che cosa vuoi che si possa fare ora che si dà il caso che lui voglia che finisca […] Si deve forse citare il fatto che lui non vuole essere citato — mai, mai, per favore, mai più? Te lo immagini il successo di una cosa del genere […] No, deve morire così com’è vissuto — il Principale Personaggio Pubblico del suo tempo” (p.32)

I Giornali è un racconto tutto basato sulla parola e sul dialogo. L’azione è tutta verbale e le svolte drammatiche della vicenda (che pure ci sono) non avvengono sotto i nostri occhi di lettori ma sono “dette” dai personaggi e soprattutto dalla voce fuori campo degli strilloni delle edizioni straordinarie. Dunque l’azione c’è, ma si svolge interamente sul piano mentale.

La cifra stilistica del racconto è ardua, il tessuto verbale di straordinaria intensità; James utilizza massicciamente le figure metaforiche ed immagini molto elaborate. “Indirection è, insomma, la cifra di questa prosa: l’espressione indiretta, obliqua, mediata, programmaticamente tangenziale” scrive la Izzo (la quale ha curato anche la traduzione del testo) che aggiunge, a proposito della sintassi: “di tutti gli elementi, forse quello che in modo più decisivo contribuisce alla famosa “difficoltà” della prosa jamesiana; quello che più impone al lettore (e al traduttore) estenuanti ginnastiche mentali” .

Quello che emerge da questo lungo e denso racconto è un mondo del giornalismo rappresentato come un meccanismo sovrapersonale ed incontrollabile descritto a volte con immagini antropomorfiche come quando leggiamo che i Giornali “ruggivano e risuonavano più che mai per la carne nuova che veniva gettata loro in pasto” (p.130) ed un mestiere, quello del giornalista, in cui è necessario essere feroci (“Io non ho la tua ferocia”, dice ad un certo punto Maud ad Howard). Un mondo in cui i due giovani reporter passano continuamente da sentimenti di onnipotenza (“Noi possiamo — sorrise consapevole — dare la morte”) a sentimenti di frustrazione e di impotenza, perchè ci si accorge, ad un certo punto, che la comunicazione di massa è cieco ingranaggio che stritola, un organismo che ha una sua vita propria.

Maud e Howard, alla fine, tentano di uscire dalla spietata logica del mercato e rinunciano ai Giornali, ma è una rinuncia che, più che un una ribellione, somiglia ad una resa.

Perchè sanno perfettamente che comunque vadano le cose esisteranno sempre dei Marshal e dei Beadel-Muffet, esisterà “il piccolo desiderio di distinguersi nel mondo” e che:

“La gente […] quasi preferisce che si parli a vanvera di loro e se ne dica male, piuttosto che non se ne parli affatto […] Non è soltanto che se gli offri appena la punta della canna balzano ad afferrarla come pesci affamati; è che sono loro a saltare dritti fuori dall’acqua, a saltare a migliaia e a venire ondeggiando e frusciando, a bocca aperta e con gli occhi a palla, fin davanti alla tua porta”

post-itUna piccola notazione: purtroppo della gran mole delle opere di Henry James non c’è molto nei cataloghi italiani. Un romanzo importante come Europei non mi risulta essere stato neanche tradotto, Gli ambasciatori — considerato uno dei suoi capolavori e pubblicato in Italia nella collana di Frassinelli diretta da Aldo Busi — è di difficilissimo reperimento (io ci ho provato senza successo) e i racconti sono sparpagliati in volumi e volumetti. Posseggo il bel romanzo L’americano nella vecchia collana della Biblioteca Romantica Mondadori (quella con la copertina verde telata con la piccola rosa dorata e il nastrino segnalibro) e me lo tengo caro perchè è ormai introvabile. Come altrettanto cari  mi tengo La musa tragica e la stupenda raccolta Racconti di fantasmi nei Millenni Einaudi, anche questi spariti dalla circolazione.

Constatare che Henry James, e cioè uno dei massimi autori della letteratura occidentale, viene trattato in questo modo dalle case editrici mi fa ormai ahimè sospettare che se non ci fossero stati i film di successo oggi sarebbe difficile trovare in libreria anche Ritratto di signora, La coppa d’oro e Il giro di vite.

E questo  mi mette, scusate, un po’ di amarezza.

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ROMANZO A CHIAVE

René Magritte, The Great War, 1964
Tutti i romanzieri che descrivono (o dall’esterno o dall’interno) la cosiddetta “vita di società”, sono perseguitati dall’accusa esasperante di mettere nei loro libri delle persone vere. Chiunque sia dotato della minima capacità creativa riconosce l’assurdità di simile accusa. “Persone vere” trasportate in un’opera di immaginazione, cesserebbero immediatamente di essere tali; soltanto quelle nate nella mente del creatore possono dare la minima illusione di realtà.

Ma è inutile convincere coloro che sono privi di immaginazione — che costituiscono la massa dei lettori di romanzi — che introdurre persone vere in un romanzo sarebbe come incollare la loro fotografia all’interno della folla vibrante, umana, di un quadro del Guardi. Se lo si facesse esse sarebbero gli unici oggetti morti e irreali in una scena fremente di vita. La bassa categoria, nella narrativa, del roman à clef autentico (che non è mai scritto da un romanziere nato) fa indignare, naturalmente, ogni serio scrittore di narrativa, sospettato di usare tali metodi.
Niente è più penoso per uno scrittore creativo che l’avere un goffo dito puntato su una delle creature nate in quel misterioso altro-mondo dell’invenzione, con la scherzosa accusa: “Naturalmente, abbiamo tutti riconosciuto tua zia Eliza!”, o di sentirsi dire (e questo è successo a me più di una volta): “Pensavamo tutti che la tua eroina doveva essere la signora X, perchè ha i capelli esattamente dello stesso colore”

(Edith Wharton, Uno sguardo indietro-Autobiografia)

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René Magritte, The Great War, 1964

 

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