Martha GELLHORN, In viaggio da sola e con qualcuno (tit. orig. Travels with Myself and Another), traduz. Guido Lagomarsino, p.303, FBE (Collana La Mongolfiera), ISBN 88-89160-38-1
“Quando torniamo non c’è nessuno che si presti volentieri ad ascoltare i nostri racconti. “Com’è andato il viaggio?”, ci chiedono. “Stupendo” rispondiamo […] appena lo permette la buona educazione (o anche prima) la conversazione si sposta […]. L’unico caso in cui un nostro viaggio ci garantisce un uditorio attento è un disastro”
E’ questa l’idea di fondo che ha spinto Martha Gellhorn, considerata la più grande corrispondente di guerra americana di tutti i tempi a scrivere questo libro, pubblicato nel 1979 e soltanto oggi tradotto e pubblicato anche in italiano.
Nel 1979 Martha, nata nel 1908, ha 71 anni. L’elenco dei Paesi in cui è stata per i suoi reportages è impressionante e tanto lungo da rendere impossibile snocciolarlo qui. Basti sapere che ha, tra l’altro, partecipato alla guerra civile in Spagna nel 1937-38, partecipato in prima persona come corrispondente di guerra alla sbarco in Normandia, è stata reporter al processo di Norimberga, di nuovo corrispondente di guerra in Vietnam nel 1966 e in Israele nel 1967.
Autrice anche di romanzi e racconti, non ha mai pensato, però, di scrivere un libro sui suoi innumerevoli viaggi. Lo fa con questo Travels with Myself and Another, in cui sceglie di raccontare cinque “horror trips” (cinque viaggi orribili) in cui si è avventurata da sola o con “qualcuno”. Quel “qualcuno” del titolo è Ernest Hemingway, con cui si è sposata nel 1940 (fotografo di nozze Robert Capa) e dal quale si separerà cinque anni più tardi. Nel 1941 Martha, incaricata dal suo giornale — il Collier’s — di documentare la guerra sino-giapponese relazionando sulle attività dell’esercito cinese lungo le coste del mar della Cina meridionale riesce a trascinarselo dietro (“non smisi di esercitare le arti della seduzione finchè non emise un triste sospiro e accondiscese a seguirmi”). Nel racconto Hemingway non viene mai indicato per nome ma sempre come “Unwilling Companion”, “Compagno Riluttante” ed ad un certo punto, ricordando le mille peripezie ed i mille pericoli di quel viaggio che si svolge tra piogge torrenziali, divorati da mosche e zanzare, tra orrori e miserie inenarrabili Martha scrive: “Fu un atto di scandaloso egoismo da parte mia, che non si ripetè mai più. I successivi viaggi orribili li ho fatti tutti per conto mio. Se uno vuole ficcarsi nei guai, liberissimo di farlo, ma non deve costringere altri a seguirlo”.
Ed è infatti da sola che nel 1942 va nei Caraibi per raccogliere notizie dettagliate sulle perdite di navi nella guerra per mare — più di duecentocinquantuno mercantili sono stati già affondati dai sottomarini tedeschi — , spostandosi poi nella Guinea Francese e nel Suriname.
Nel 1962, trovandosi improvvisamente con tremila dollari in più in tasca decide di andare a conoscere l’Africa. Di questo continente Martha non sa nulla (“nessun caporedattore mi ci avrebbe mandato […] non ero considerata un’esperta dell’Africa”), ne ha un’idea molto ingenua, come lei stessa dice: “per me era una vasta pianura color pelle di leone, cinta da montagne azzurre […] In quel quadro si aggiravano splendidi animali selvatici e il cielo era sempre limpido. Smaniavo di vedere il paese e gli animali e adesso, con quei soldi, potevo d finalmente andarci. Un viaggio di piacere, l’idea più audace”.
Imbottita di ogni sorta di vaccinazioni tanto da star male ancora prima di partire, di consigli forniti da due amiche che in Africa hanno vissuto, con una sola valigia riempita di medicinali ma anche di libri (“ai libri ci tenevo proprio: la solitudine va benissimo in compagnia dei libri, è spaventosa senza”) Martha piomba nel continente nero. Le bastano un paio di giorni per accorgersi di non trovarsi affatto tra le pagine di La mia Africa di Karen Blixen ma tra quelle di Cuore di tenebra di Conrad… Eppure e nonostante tutto viene catturata anche lei dal fascino dell’Africa e ancora un mese dopo essere tornata a Londra passa il tempo a rimpiangerla.
Se in Africa Martha c’era andata spontaneamente, in Russia invece non avrebbe mai voluto metterci piede e inizia il racconto di questo “viaggio orribile” intitolato “Uno sguardo alla Grande Madre Russia” con : “Che anche quello sarebbe stato un viaggio orribile lo sapevo già prima che cominciasse”.
Perchè ci va, allora? Per un “impegno morale”. Ha letto ed ammirato moltissimo i libri e il coraggio di Nadezda Jakolevna Chazina vedova del poeta Osip Mandel’stam arrestato per attività antisovietica e morto nel 1938 in un lager staliniano. Le ha scritto, l’ammira molto. Nadezda la vuole conoscere e così “Non potevo tirarmi fuori, era un impegno morale, Dovevo andare in Russia, dove desideravo con tutte le mie forze non mettere mai piede”.
E dunque nel 1970, — e cioè in piena Guerra Fredda — parte per Mosca ritrovandosi imbrigliata ed oppressa da ostruzionismo, incomprensioni linguistiche, l’atmosfera cupa di un paese in cui tutti — cittadini e stranieri specie se americani come lei — vengono continuamente controllati e spiati. Anche l’incontro con Nadezda e i suoi amici dissidenti tutto sommato la delude. Li trova cupi e immusoniti, e sente che “il cervello, la pelle, le ossa, l’anima stavano diventando di un cuore grigio come il cemento, il colore naturale della città”. La permanenza a Mosca è di una settimana, ma questo tempo le sembra interminabile. Non vede l’ora di andarsene, e quando finalmente sale a bordo dell’aereo della British Airways si rivolge alla fredda hostess inglese con un “Sono così contenta di vederla, non si immagina nemmeno quanto” e, racconta “Mi trattenni dalla voglia di baciare la moquette, che tecnicamente era suolo britannico”.
Nell’ultimo viaggio orribile troviamo Martha in Israele nel 1971 in una cisterna d’acqua in disuso vicino Eliat dove alloggiano, in baracche di cartone e pezzi di lamiera, sette giovani hippyes. La interessano molto, spera in qualche “illuminazione” sul viaggio. Scopre che a loro importa solo l’hascisc. Martha è rosa dalla noia.
Perchè c’è da dire che in realtà per Martha, ciò che rende “orribile” un viaggio non sono i pericoli, il rischio di malattie, la sporcizia, le disavventure, la fame. E’ la noia.
“Ognuno definisce un proprio viaggio orrendo in base ai propri gusti. Il criterio con cui io definisco un viaggio del tutto o in parte orrendo è la noia. Per arrivare al più puro orrore, si possono aggiungere le scomodità, la fatica e la tensione in grose dosi, ma il nocciolo è fatto di noia. Lo propongo come mezzo universale di verifica del viaggio: la noia, comunque la si chiami, è la ragione per cui non si sogna altro che il primo mezzo per andarsene” anche se — si affretta a precisare Martha — “Per orribile che sia stato l’ultimo viaggio, non rinunceremo per questo al prossimo, lo sa Dio perchè”.
Quel che posso dire io è che leggere il suo libro non mi ha certo annoiata, visto che l’ho letto tutto di un fiato. Martha Gellhorn scrive e descrive con ironia e partecipazione, il suo tono è sempre pungente e satirico, il suo racconto brillante, abbonda in autoironia (merce rara) e non manca certo di humor nero.
Insomma una lettura che mi ha deliziata anche se mi sento di condividere in pieno quanto scritto nella quarta di copertina e cioè che “Tra questi inferni terrestri, emerge una donna che prende in giro la vita, mentre si ringrazia il cielo di non essere con lei in quel momento”