BARNABY RUDGE – CHARLES DICKENS

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Charles DICKENS, Barnaby Rudge, Traduz. Fernanda Pivano, Einaudi Tascabili, p. 798, EAN13 9788806166748

Barnaby Rudge non è certamente uno dei romanzi più noti di Dickens ma chi, come la sottoscritta, ama ormai appassionatamente quest’autore lo leggerà con grande interesse e divertimento in questa recente pubblicazione nella quale Einaudi ripropone la bella traduzione che una giovanissima Fernanda Pivano realizzò nel 1945 per Frassinelli.

Procedendo nelle mie letture e riletture dickensiane, mi accorgo di ritrovarmi sempre più d’accordo con quanto di lui dice Nabokov nelle sue Lezioni di letteratura: “Nel caso di Dickens i valori sono nuovi. Gli autori moderni si ubriacano ancora del suo vino. Con lui [..] non occorre corteggiamento, non c’è esitazione. Ci arrendiamo alla voce di Dickens: tutto qui. Se fosse possibile, mi piacerebbe dedicare cinquanta minuti di ogni lezione a meditare, concentrandoci in silenziosa ammirazione, su Dickens” 

Dickens scrisse soltanto due romanzi storici, questo Barnaby Rudge del 1841 e, molti anni dopo, La storia tra due città (del 1859) che, ambientato tra Londra e Parigi, si svolge durante la Rivoluzione Francese ed in particolare durante il famigerato periodo del Terrore. Le vicende di Barnaby Rudge si svolgono invece in Inghilterra durante l’insurrezione protestante e anticattolica nota con il nome di Gordon Riots avvenuta a Londra nel 1780 ed i tumulti sanguinosi che per quattro giorni terrorizzarono e misero la città a ferro e fuoco.

Quando scrive Barnaby Rudge Dickens è un uomo arrivato. Il libro, che si colloca dopo Nicholas Nickleby (1838-1839) e La bottega dell’antiquario (1839) viene pubblicato a puntate settimanali sulla rivista da lui diretta e questo modo di pubblicazione influenza, evidentemente, la struttura e i contenuti del romanzo. Ogni capitolo (che corrisponde ad una puntata del feuilleton) infatti è completo di tutti quegli elementi/ingredienti che il lettore si aspettava ad ogni puntata: dramma, comicità, satira, mistero, commozione.

Possiamo dividere il romanzo in due sezioni. Nei primi trentadue capitoli tutto ruota attorno alla locanda La Cuccagna, a poche miglia da Londra ed assistiamo alle vicende private di una piccola comunità di personaggi sulla quale aleggia l’ombra di un assassinio avvenuto ventidue anni prima dell’inizio della storia. Nella seconda parte, dopo uno stacco temporale di cinque anni, fa irruzione nel romanzo la Grande Storia e le vicende private dei personaggi si intrecciano alle imprese delle folle deliranti dei sanguinosi tumulti antipapisti.

La scena si sposta dunque a Londra, una Londra che, come ha scritto qualcuno, somiglia più ad un incubo metropolitano fatto di strade buie battute dal vento e dalla pioggia, dove la paura dell’aggressione e degli incendi la fanno da padroni mentre la furia della folla — inarrestabile, gratuita, paurosa si scatena contro case private di inermi cittadini e contro i simboli del potere: la presa e l’incendio della prigione di Newgate sono tra i momenti più forti del romanzo. Ma anche contro le banche e lo stesso Parlamento.

I motivi tematici sono più di uno, alcuni dei quali ricorrenti, in Dickens: la satira delle associazioni segrete o pseudo tali, la violentissima presa di posizione contro la pena di morte (le scene del romanzo che si riferiscono alle impiccaggioni e quella, lunghissima, della costruzione del palco patibolare sono tra le più vivide, efficaci ed impressionanti del libro e quelle in cui Dickens dà il meglio della sua straordinaria potenza descrittiva), la critica a rappresentanti istituzionali (parlamentari, esercito, uomini di legge) paurosi, corrotti, o che comunque non sono all’altezza del loro mandato.

Come sempre in Dickens, il libro brulica di personaggi appartenenti alle più diverse classi sociali e tutti fortemente caratterizzati. Tra i personaggi immaginari ci sono anche quelli che fanno riferimento a figure storiche realmente esistite (Lord Gordon, ad esempio). Impossibile elencarli tutti: dai componenti la famiglia di Gabriel Varden all’oste John Willet, da Lord Gordon a Sir John Chester e Haredale, Denis il boia, Hugh “il centauro”; le figure femminili di Emma, Dolly, Miggs, la signora Varden, e tanti altri. Dickens, lo sappiamo, non è scrittore cui chiedere nuances psicologiche. La sua forza sta altrove: nella capacità di fare si che i suoi personaggi appaiano vivi e concreti agli occhi della nostra immaginazione, di renderceli uno più gustoso dell’altro. Tutti — siano essi cattivoni e trucidi, acide matrone, virginali donzelle o giovinotti senza macchia e senza paura — sono sempre salvati dallo scadere nel mero macchiettismo dal micidiale humor del loro creatore.

Si è detto spesso come in Barnaby Rudge il vero protagonista sia la folla, questo “impersonale personaggio” che con le sue migliaia di uomini senza volto occupa prepotentemente la scena in tutta la seconda parte del romanzo ed i cui movimenti e frenesia nell’odio, nella vendetta, nella vigliaccheria anticipano in maniera stupefacente ciò che, nel ‘900, analizzeranno Freud e Canetti.

“Una folla ha abitualmente un’esistenza molto misteriosa, in particolare in una grande città. Da dove venga e dove vada, pochi possono dirlo. Riunendosi e sciogliendosi con eguale rapidità, è così difficile da seguire nelle sue varie sorgenti come il mare stesso; ed il parallelo non si ferma qui, perchè dell’oceano non è meno capriciosa e incerta, meno terribile quando infuria, meno irragionevole o meno crudele “, scrive Dickens all’inizio del cinquantaduesimo capitolo (p.492).

La letteratura (e qui, da lettrice italiana, non posso non pensare anche alle folle del Manzoni) ancora una volta anticipa le analisi e le sistematizzazioni della saggistica.

Naturalmente tra i personaggi c’è lui, Barnaby, che dà il nome al romanzo. Barnaby appartiene a quella folta schiera di bambini rifiutati, o nati in famiglie dalle condizioni sociali difficilissime, o trasportati in tali condizioni da una sorte avversa che popolano gran parte dell’opera di Dickens: da Oliver Twist alla piccola Dorrit; da David Copperfield a Nicholas Nickleby. Un’ abbondanza tale da produrre, tra parentesi, infinite riduzioni per l’infanzia di tanti di questi libri: ma come non mi stancherò mai di ripetere fino alla noia… Dickens non è uno scrittore per bambini.

Barnaby non è solo un ragazzo dall’infanzia segnata da tragici avvenimenti: è anche idiota, ma con la sua semplicità e il suo amore per la vita potrebbe insegnare a molti ed è dunque il portatore di un altro grande leit motiv del libro e cioè che anche gli uomini savi hanno da imparare da certi idioti.

E’ un concetto che Dickens esprime più volte nel corso del romanzo e lo fa sia in modo implicito descrivendo le azioni di Barnaby ma anche in modo decisamente esplicito quando ad un certo punto fa dire al suo personaggio:

“Ah, ah! Be’, quanto è meglio essere imbecilli, che savi come voi! Voi non vedete il mondo delle ombre, come quello che vive nel sonno, no, no. E nemmeno occhi nelle lastre di vetro nodose, nè veloci fantasmi quando soffia il vento, nè udite voci nell’aria, nè vedete uomini camminare nel cielo… No! Io conduco una vita più felice della vostra, malgrado tutta la vostra intelligenza. Voi siete degli stupidi; noi siamo quelli illuminati Ah, ah! Non vorrei cambiare con voi, intelligenti come siete… No davvero!” (p.104)

Ma c’è ancora un altro personaggio che non solo non è da sottovalutare ma che è importantissimo: è un animale, si tratta di un corvo parlante e si chiama Grip. E’ l’amico inseparabile di Barnaby. Nota giustamente Fernanda Pivano nella sua introduzione che il corvo Grip “… è una specie di coro degli avvenimenti “, lo troviamo infatti a suggellare e, a modo suo, a commentare tutti gli eventi importanti del romanzo ed, alla fine, il romanzo stesso.

E che dire infine dello stile di scrittura? Dal tragico al comico, Dickens adopera tutti i registri in cui è maestro. Chi conosce Dickens anche solo superficialmente può immaginarlo.

Ma, come nota ancora Fernanda Pivano “il genuino, autentico Dickens, tenero come Cowper, scherzoso come Goldsmith, si trova soprattutto nel sorriso con cui l’autore contempla gli orrori creati dalla sua immaginazione […] il sorriso, in un parola, che doveva fargli concludere questa truculenta storia con le parole: “questo non è poi un mondo tanto disprezzabile nonostante tutti i suoi difetti”.

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DOVE IL NERO E’ PIU’ NERO

massa, folla
Sarà che la folla, la massa “aperta” e cioè non organizzata è uno di quei fenomeni che mi fanno più paura in assoluto (per la verità mi inquietano parecchio anche le masse organizzate). Sarà perchè in questi giorni ho letto Barnaby Rudge di Dickens. Sarà perchè sarà, ma il fatto è che parallelamente a Dickens  ho ripreso in mano per l’ennesima volta il manzoniano I Promessi Sposi e soprattutto Massa e Potere di Canetti.

Il fenomeno enigmatico quanto universale è la massa che d’improvviso c’è là dove prima non c’era nulla. Potevano trovarsi insieme poche persone, cinque o dieci o dodici, non di più. Nulla si preannunciava, nulla era atteso. D’improvviso, tutto nereggia di gente. Da ogni parte affluiscono altri; sembra che le strade abbiano una sola direzione. Molti non sanno cosa è accaduto, non sanno rispondere nulla alle domande; hanno fretta, però, di trovarsi là dove si trova la maggioranza. Nel loro movimento c’è una determinazione che ben si distingue da un’espressione di semplice curiosità. Si direbbe che il movimento degli uni si comunichi agli altri, ma non si tratta solo di questo.: tutti hanno una meta. La meta esiste prima che le abbiano trovato un nome ed è là dove il nero è più nero — il luogo dove la maggioranza s’è adunata.

Elias Canetti, Massa e Potere

CIAO, MAGDA

BUDAPEST

Magda Szabò, la grande scrittrice ungherese, è morta.
Mi ha scritto la Casa Editrice Anfora

Date: Tue, 20 Nov 2007 07:43:41 +0100 … purtroppo abbiamo da darle una triste notizia. Ieri alle 16.00, serenamente, mentre leggeva, si è spenta Magda. Ci ha chiamato il figlio per avvisarci. Ricordando il grande interesse che avete ospitato nel vostro blog nei riguardi dell’autrice sentivamo di doverglielo comunicare. Un caro saluto.

Una gigantografia di Magda Szabó in una grande libreria in Károly Körút a Budapest. Avevo scattato questa  foto  nel marzo 2007

SULL’USO DELLA FORZA

Simone Weil

Può darsi che con l’uso della forza si possa abbassare gli altri, o impedire che siano abbassati; non li si può innalzare che con l’insegnamento.

Simone Weil, Quaderni

HÉLÈNE GRIMAUD. LA PIANISTA E I LUPI

 

Copertine libri francese

“La musica è l’estensione del silenzio, ed è anche ciò che la precede e che ancora vi echeggia. La musica è una via d’accesso a un altrove della parola, a quel che la parola non può dire e che il silenzio, tacendolo, dice. Una musica senza silenzio, cos’altro è, se non rumore?” scrive Hélène Grimaud in Variations sauvages (pubblicato in italiano come Variazioni selvagge).

Parlerei veramente molto a lungo di questa giovane donna, bella come una top model, pianista di fama internazionale, che alla passione ed alla disciplina della musica affianca quella per i lupi e divide il suo tempo tra le tournées che la portano da un capo all’altro del mondo e il Centro che lei stessa ha fondato nello Stato di New York, il Wolf Conservation Center, finalizzato all’allevamento ed alla salvaguardia dei lupi.

La conoscevo già come pianista, ho da qualche settimana letto i suoi due volumi autobiografici. Li ho divorati anche perchè Hélène Grimaud si è rivelata anche una bravissima scrittrice. Due volumetti  molto densi nei quali Hélène parla di musica e dei suoi amati lupi, del suo essere una donna che ha sempre studiato e lottato tenacemente, che non ha mai voluto rinunciare alle due grandi passioni della sua vita. Che ha sempre respinto chi, con sguardi o con parole, le lanciava messaggi del tipo: “Bella come sei, perchè non fai qualcos’altro?” o, peggio: “Troppo bella per essere intelligente” o “affascinante come sei, non hai bisogno di lavorare” arrivando persino a manifestare una sorta di compatimento mescolato a velato disprezzo per tutte le ore della giornata che lei dedicava al pianoforte ed allo studio delle partiture.

Verso la fine del secondo volume, Hélène Grimaud scrive: “…Avevo scoperto con stupore come alcuni ce l’avevano con me per i lupi, o per il piano, o per il fatto di essere una donna, o per lo scrivere, come se fosse necessario scegliere una cosa o l’altra, mentre io sceglievo tutto. […] Come se il fatto di essere una donna mi obbligasse a ripudiare le note per il matrimonio, e il fatto di essere una musicista la penna a favore del pianoforte”.

In questo video Hélène Grimaud interpreta Rachmaninov, uno dei suoi autori preferiti

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LA MESSA DELL’UOMO DISARMATO – LUISITO BIANCHI

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Luisito BIANCHI, La messa dell’uomo disarmato. Un romanzo sulla Resistenza, Editore Sironi, Collana Indicativo Presente, p. 864, ISBN: 8851800243, ISBN-13: 9788851800246
Luisito Bianchi è nato nel 1927 a Vescovato, in provincia di Cremona, ed è sacerdote dal 1950. Di origini contadine, è stato insegnante e traduttore, prete-operaio e inserviente d’ospedale. Cappellano presso il monastero benedettino di Viboldone (Milano), è autore di molti libri, tra cui Come un atomo sulla bilancia (1972) in cui fa riferimento alla sua esperienza di prete operaio.

Pubblicato dall’editore Sironi nel 2003, questo La messa dell’uomo disarmato è stato subito un vero e proprio caso letterario, apprezzato sia dalla stampa cattolica che da quella laica. Ma la storia stessa del romanzo è già di per se interessante, perchè il libro era circolato in edizione autoprodotta ed autofinanziata tra il 1989 ed il 1995 ed era diventato già in qualche modo un best seller al di fuori dei tradizionali canali editoriali grazie al passaparola di tanti lettori entusiasti. La pubblicazione del libro da parte della Sironi ha consentito di fare conoscere anche al grande pubblico questo bellissimo, commovente romanzo.

La messa dell’uomo disarmato è — recita il sottotitolo — un lungo e intenso romanzo sulla Resistenza,

Almeno un accenno alla trama: siamo nella primavera del 1940 in un piccolo paese che, se pure mai nominato, si capisce trovarsi nella pianura padana. Franco lascia il monastero benedettino in cui era novizio e torna alla cascina dei genitori, La Campanella. Ha deciso: farà il contadino. L’Italia entra in guerra e Piero, suo fratello, è inviato come ufficiale medico in Grecia. Rientrerà pochi mesi dopo con i piedi semicongelati mentre altri giovani partiranno per la campagna di Russia.

L’8 settembre 1943 segna un drammatico momento di svolta nella vita di tutti: l’occupazione nazista spinge a compiere delle scelte, per alcuni radicali.

Comincia la parte più densa e drammatica del romanzo: il racconto della lotta di Resistenza, sulle montagne, di diverse bande partigiane: ci sono gli autonomi, le Brigate Garibaldi, le bande di Giustizia e Libertà. Gli uomini che le compongono sono prima chiamati ” ribelli”, a poco a poco diventano “partigiani” e “quelli della Resistenza”. Siamo di fronte ad una folla di personaggi le cui storie, tutte diverse l’una dalle altre si intrecciano e convergono nel comune obiettivo di resistere all’occupazione nazista e liberare finalmente l’Italia. I combattenti partigiani trovano sostegno pratico e spirituale nei monaci del monastero benedettino in cui Franco è stato novizio: uno dei monaci, Dom Benedetto, segue in montagna le bande, disarmato, abitato da dubbi laceranti ma ancor più da un urgente sentimento di fraternità; l’Abate mette a repentaglio la vita per proteggere i partigiani che gli si sono affidati. Dal canto loro, quelli che invece sono rimasti alla Campanella e nel paese fanno anch’essi la loro parte: assistendo e nascondendo i partigiani feriti, cercando in ogni modo di rifornire i combattenti che, sulle montagne, devono affrontare la fame ed il freddo, di viveri, vestiario e, se possibile, armi. I rastrellamenti dei tedeschi si fanno sempre più frequenti e disperati man mano che gli Alleati si avvicinano e che avvertono prossimo il momento della sconfitta definitiva. Alla fine della narrazione, la Grande Storia torna dov’era iniziata. Nella “piccola storia” della famiglia della Campanella e in paese.

La Resistenza o meglio “Il Grande Avvenimento”, come dice Luisito Bianchi, è da lui rappresentata come un parametro fondamentale di assunzione di responsabilità civili, etiche ed anche religiose. Prova di questo il malessere ed il senso di colpa nel quale Franco — che anche se non per sua volontà è rimasto alla Campanella e non è andato in montagna con il fratello Piero e gli altri — si macera per anni, o la scelta decisa da parte dell’abate del convento e dei monaci benedettini di aiutare concretamente i combattenti partigiani pur nella consapevolezza di esporsi così a orrende rappresaglie da parte di fascisti e nazisti. La messa dell’uomo disarmato, che contiene molti elementi autobiografici, è sì un romanzo storico ma, anche se la Resistenza occupa uno spazio predominante nella sua struttura, in questo libro c’è molto altro.

E’ sicuramente un romanzo religioso, ma di una religione che evoca soprattutto il senso della responsabilità che ogni essere umano ha di fronte alla Parola (la voce di Dio) che lo interroga: “obsculta fili” è incipit del libro e frase che spesso risuona nel corso delle ottocento e passa pagine e che invita a sentire la Parola negli avvenimenti.

Responsabilità e scelte drammatiche che un prete più di chiunque altro si trova di fronte in certe situazioni e la cui problematica troviamo condensata nelle domande che Dom Benedetto, il monaco che — disarmato — è andato in montagna con le bande partigiane si pone in alcune delle pagine più toccanti del romanzo : “Qual’è la funzione del prete in una situazione di guerra? Ha senso dire messa mentre si spara e si uccide?”, “Dove trovare la pace se non si passa per la guerra? Ma questo non è il messaggio di Cristo. E’ possibile acquietare la contraddizione?” scrive Dom Benedetto nel suo diario. E ancora: “Anche la funzione del prete è tutta da individuare” (p.585)

E’ un vero e proprio inno alla terra. Luisito Bianchi parla addirittura di “ciclo liturgico della terra” (p.142) e di “Frumento, sangue dell’uomo, e terra da cui questo sangue prende sapore” (p.796). La terra e le attività ad esse collegate è scenario, realtà concreta ma anche metafora e parabola: “— Giusto — intervenne Toni — Rastrellamento, eh? Guarda nell’aia il granoturco […] io ci passo il rastrello, ai denti ci si attacca un po’ di barba ma nemmeno un grano. I partigiani sono il granoturco e la barba è il pugno di mosche che si portano indietro i fascisti” (p.615)

E’ una grande saga familiare. Della famiglia della Campanella Luisito Bianchi racconta la storia privata descrivendone i mutamenti determinati dai grandi avvenimenti che, dagli anni ’40 al ’68 percorrono la storia d’Italia.

E’ un libro sulla memoria individuale e collettiva, sulla necessità ma anche sulla difficoltà di tramandarla. Un libro fatto anche di dubbi, e di interrogativi sul cosa significa essere credenti: “Tu credi in Dio?” è una domanda che ricorre spesso, e altrettanto spesso la risposta è “non lo so”.
La struttura del libro è in tre sezioni che Luisito Bianchi chiama non “capitoli” ma “tempi”. Io ho letto in questa parola “tempo” non soltanto il tempo dei cicli della terra e dei lavori contadini così ben evocati e descritti soprattutto nella prima parte: la semina, la trebbiatura, l’allevamento dei bachi, la vendemmia, la spannocchiatura… ma anche “tempo” nell’accezione musicale del termine. Tempo, ritmo.

La musica infatti è molto presente, in questo libro. Franco, il monaco Dom Placido, in seguito Luca suonano l’organo o il pianoforte, ci sono molti bei passaggi su Bach e sui canti gregoriani. Ma la musica è molto presente nell’andamento stesso e nello stile di scrittura del romanzo, che muta nelle tre sezioni a seconda degli eventi narrati: lento e quasi elegiaco nel primo tempo (le prime duecento pagine circa), incalzante e serrato nella lunga parte centrale, di nuovo lento ma molto malinconico nell’ultima parte, quella dell’epilogo.

Franco è voce narrante della prima e dell’ultima parte, mentre quella centrale è affidata alla terza persona. Il libro — che ha l’impianto e la maestosità della grande narrativa ottocentesca (non a caso, io credo, i richiami a Manzoni sono parecchi, nel romanzo) — è popolato da personaggi che è difficile dimenticare: Lupo e Stalino, il Capitano e Sbrinz, Piero e Dom Benedetto, l’Abate, l’Arciprete. Toni e la Cecina. Ma indimenticabili soprattutto — almeno per me — rimangono Rondine (che “ascolta i morti”) ed il giovanissimo Balilla (che mi ha ricordato tanto il Gavroche de I Miserabili di Hugo). Ma, tornando al tema della Resistenza, La messa dell’uomo disarmato non può non far pensare a Il partigiano Johnny di Fenoglio, di cui credo si possa dire rappresenti il complemento.

Leggendo in giro recensioni e commenti su La messa dell’uomo disarmato si incontra spessissimo la definizione di “capolavoro”. Certamente è un libro di grande spessore e decisamente di altissimo livello.

Una perplessità, però, mi ha accompagnato durante tutta la lettura. Una sola ma molto “ingombrante”. Non sono riuscita infatti a scacciare la sensazione che la rappresentazione che Luisito Bianchi ci dà dei partigiani, della Resistenza, della storia di quegli anni drammatici ma anche della famiglia e del mondo contadino sia molto idealizzata. Ne La messa dell’uomo disarmato, a parte fascisti e nazisti che comunque rimangono solo sullo sfondo e mai in primo piano, di fatto non ci sono cattivi, tutti vanno bene o male d’accordo con tutti, il segretario del Fascio e la guardia municipale sono poveri disgraziati che hanno la tessera fascista non per convinzione ma perchè “tengono famiglia”, non esiste alcuna dialettica sia pur lontanamente conflittuale tra i membri della famiglia, tutti si stimano, si supportano e sopportano, sono solidali l’uno con l’altro al punto tale da farmela apparire, questa rappresentazione, sin troppo edificante e più sul registro del “come vorrei che fosse stato” piuttosto che su quello del “come è realmente stato”.

Ma La messa dell’uomo disarmato non è un saggio di storia. E’ un romanzo, e il romanziere — anche se Luisito Bianchi in una intervista dichiara di non voler definirsi tale — non ha il dovere dell’obiettività e dell’imparzialità. Un romanziere ha tutto il diritto di costruire il migliore dei mondi possibili, se è questo che sente di fare.

Don Luisito Bianchi
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A SPASSO PER PARIGI

Il Parc Monceau è uno dei miei posti preferiti. C’è un motivo "letterario-affettivo", perchè questo è il giardino pubblico in cui Marcel Proust bambino , quando abitava con la famiglia in Boulevard Malesherbes, andava a giocare ogni giovedi pomeriggio.

Oggi il Parc Monceau è sempre un luogo gradevolissimo dove poter sedere in una panchina con un bel libro in mano oppure stare semplicemente a guardare chi fa jogging con l’Ipod, le bambinaie (quasi tutte di colore, ho notato) con gli infanti in carrozzina oppure gli sciami di impiegati delle banche del quartiere (uno dei più ricchi di Parigi) che nelle belle giornate vi si riversano in giacca e cravatta per sedersi sull’erba a godersi un po’ di sole nella pausa pranzo.

Quella domenica mattina vi avevo trascorso, come al solito un paio d’ore e me ne stavo giusto andando quando…

PENSANDO A TOR DI QUINTO

Quello che segue è uno stralcio da Underwold di Don DeLillo.
Il romanzo è del 1997; l’episodio si svolge in una grande città americana nel 1967.
Questa pagina mi è tornata in mente, con prepotenza, in questi giorni.

strada solitaria
Alla fine della giornata di lavoro, Janet Urbaniak si metteva le scarpe da corsa. C’era un rettilineo di quattro isolati tristi e deprimenti tra il complesso ospedaliero dove seguiva le lezioni e il complesso di appartamenti dove abitava. Strade desolate e misere, con la neve non spalata e annerita dagli scappamenti degli autobus […] e di solito c’erano figure in agguato in tuta verde militare, i reduci di un battaglione di uomini distrutti.

Così alla fine della giornata di lavoro Janet si toglieva le ballerine e prendeva dall’armadietto le scarpe da corsa, scarpe imbottite con le suole che ammortizzavano l’impatto col terreno, calzature che davano una sensazione di elasticità e sicurezza. Poi andava davanti all’entrata dell’ospedale e si fermava con un’altra tirocinante ad aspettare che i semafori diventassero verdi lungo il rettilineo semideserto per tutti i quattro isolati, in quel viale spietato come se ne trovano in varie parti della città dove l’architettura è difesa e l’atmosfera tesa come se ci fosse il coprifuoco.

Janet si fermava ad aspettare nel crepuscolo intenso ed inquietante. Poi i semafori diventavano verdi e la sua compagna diceva — Vai, vai, vai, — e Janet si metteva a correre, nonstop sperava, con i semafori a suo favore, arrivando al massimo della velocità nel giro di pochi secondi e cercando di evitare le pozzanghere ghiacciate, mentre la sua compagna la osservava per tutto il percorso.

[…] non corri per via dei cani. I cani ti fanno rallentare, ti fanno passare ad un’andatura sciolta. Sono gli uomini che ciondolano per la strada, a farti correre, e quelli che si nascondono dentro gli androni o le macchine sfasciate — vorresti far loro credere che stai correndo tanto per correre, tu e tutte le altre, l’ondata serale di studentesse che fannno la volata dei quattro isolati.

Siamo solo ragazze che corrono, vorresti che pensassero, che fanno il loro allenamento quotidiano.

Janet adesso stava sfrecciando a tutta velocità, respirando a fondo, concentrata sulla neve e sul verde dei semafori, e intanto controllava che non ci fossero uomini appoggiati a un muro o pronti a uscire da una macchina — di solito c’erano un paio di macchine sfasciate lungo il percorso, usate come punti di incontro in inverno.

Quattro lunghi isolati sotto le striature del cielo nordico. Quando raggiunse l’entrata del suo edificio aveva già le chiavi in mano, ed entrò, prese l’ascensore ancora di corsa in un certo senso, con le chiavi dell’apppartamento pronte, e quindici secondi dopo che era entrata in soggiorno e aveva chiuso le due serrature della porta, il telefono squillò. Solo allora il suo cuore smise di battere all’impazzata.

La telefonata faceva parte della procedura quotidiana, un’altra studentessa chiamava dall’ospedale per controllare che fosse arrivata a casa sana e salva. Le concedevano undici minuti da porta a porta, compresa la salita in ascensore e l’apertura delle porte. Parecchie infermiere tirocinanti vivevano nello stesso caseggiato e la procedura era studiata in modo che le persone si scambiassero i ruoli sistematicamente. Janet faceva la corsa, o la telefonata di controllo, o teneva d’occhio la donna che correva, secondo un programma preciso.

Le ragazze lo elaboravano e lo affiggevano a un pannello. Poi si cambiavano le scarpe, mettevano quelle da corsa, e aspettavano il verde.

Don DeLillo, Underworld, traduzione di Delfina Vezzoli, Einaudi Tascabili, pagg. 603-604

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