TORNATA

Parigi, le Tuileries

Alle Tuileries, in compagnia di Zola.

Jardin du Luxembourg

Ai giardini del Luxembourg, sala di lettura "en plein air".
Ci sono anch’io, ma dietro la mia Canon…

Altre foto e filmini seguiranno, come sempre. Ma con calma. Non c’è fretta 

PICCOLA PAUSA

PARIGI - Les Halles

Ho deciso di prendere un po’ d’aria e  me vado per una decina di giorni. Ma verrò a  vedere cosa succede da queste parti e continuerò a leggervi.
Au revoir  …

LA PAURA MANGIA L’ANIMA – RAINER WERNER FASSBINDER (1973)

Fassbinder La paura mangia l'anima
Brigitte Mira (Emmi) ed El Hedi Ben Salem (Ali’)

Siamo a Monaco nei primi anni settanta del secolo scorso.
Emmi è una donna non più giovane, poco attraente, dall’aspetto timido e dimesso. Sapremo poi che lavora come donna delle pulizie, che è vedova di un immigrato polacco e che ha figli già grandi e sposati. Scopriremo anche che la sua timidezza è solo gentilezza e che ha un carattere molto forte.

Il film comincia la sera in cui Emmi entra in un bar. Si siede e chiede una coca cola.

Fassbinder La paura mangia l'anima

Fuori piove, Emmi non sa nemmeno lei perché è entrata (in fondo, abita a due passi) ma dice come scusandosi “Passo qui davanti tutte le sere e sento sempre suonare la musica…” e poi chiede “Ma che lingua parlano in queste canzoni?” Arabo, le risponde la ragazza del bar “Abbiamo anche tante canzoni tedesche e americane, nel juke box, ma sa, loro preferiscono ascoltare questa musica”. Il bar infatti è frequentato da “loro”, gli immigrati, gli operai arabi che la sera, appena staccano dal lavoro, si ritrovano per bere insieme una birra.

Fassbinder La paura mangia l'anima
Fassbinder La paura mangia l'anima

La padrona è tedesca, una donna bionda, belloccia ma un po’ volgare. Con lei un’altra ragazza L’arrivo di una come Emmi rappresenta una novità. Strana. Diverte e incuriosisce.

Fassbinder La paura mangia l'anima

Una delle ragazze spinge uno degli arabi che si trovano al bancone ad invitare a ballare la sessantenne. Per divertirsi un po’ alle sue spalle, naturalmente. L’arabo invita Emmi, che si stupisce ma accetta “Non ballo da tanti anni” dice “non so se ne sono ancora capace”. Nelle sue parole non si avverte alcuna civetteria. Dice solo quello che davvero sta pensando.

Fassbinder La paura mangia l'anima

Lui si chiama Ali, è un giovane ed aitante operaio marocchino che come molti si è trasferito in Germania per lavoro. La sera, dopo una dura giornata di officina, si ritrova in questo bar con alcuni colleghi.

La storia prende una piega inaspettata e che stupisce tutti. Emmi e Alì infatti iniziano a vedersi spinti da una comune solitudine, e prende corpo così un rapporto che va al di là della semplice amicizia. In seguito a una serie di circostanze si sposano. Stanno molto bene insieme. Sono felici e si vede.

Fassbinder La paura mangia l'anima

Ma l’opposizione della famiglia e dell’ambiente in cui vivono non rendono semplice la loro convivenza. Una donna bianca e tedesca (anche se vedova di un immigrato polacco) sposarsi con un immigrato africano e per giunta… di più di vent’anni più giovane di lei?!?

Certo la coppia è piuttosto insolita, e lo è ancora di più in un paese che sino a trent’anni prima in nome della purezza della razza aveva massacrato milioni di persone. Buona parte del film vede lottare Emmi ed Alì perchè la loro felicità non venga distrutta da fattori esterni – pregiudizi, maldicenze: fino a che punto il loro amore potrà resistere all’offensiva dell’opinione pubblica, all’isolamento ed all’emarginazione di cui a poco a poco ma inesorabilmente i due vengono fatti oggetto?

I condomini (soprattutto le donne) del palazzo in cui cui abita Emmi (Alì è andato ad alloggiare a casa sua) tirano fuori squallidi pretesti per chiamare la polizia (che trova però tutto a posto e lascia le pettegole vicine con un palmo di naso),

Fassbinder La paura mangia l'anima

Protestano con il padrone di casa. Che però quando le arpie gli dicono “non si può far niente, contro questo scandalo?” non fa una piega e risponde: “Perchè? Mi sembrano due persone molto felici”.

Fassbinder La paura mangia l'anima

Le colleghe di Emmi la disprezzano, la evitano, non le parlano.

Fassbinder La paura mangia l'anima

Il fruttivendolo si rifiuta di servire l’uomo di colore (“prima impara a parlare bene tedesco, e poi presentati qui” gli urla) e poi mette alla porta persino Emmi, sua cliente da anni.

Fassbinder La paura mangia l'anima

Per non parlare di come la notizia del matrimonio viene accolta dai figli di Emmi e dal genero alcoolizzato (che, tra parentesi, è interpretato dallo stesso Fassbinder). Uno dei figli le spacca a calci il televisore, un altro le urla “puttana”.

Fassbinder La paura mangia l'anima
Rainer Werner Fassbinder (Eugen), Brigitte Mira (Emmi), Irm Hermann (Krista)
Fassbinder La paura mangia l'anima
Fassbinder La paura mangia l'anima

E poi: le ragazze del bar e le vicine di casa sono rose d’invidia. Come avrà fatto una donna non bella e così avanti negli anni come Emmi a conquistare quest’uomo il quale va bene che è un immigrato e pure di colore ma è comunque giovane e prestante?

La situazione è davvero pesante, e la bravura di Fassbinder sta nel riuscire a rendere la tensione quasi intollerabile senza mai ricorrere a scene plateali o di violenza. Il calcio al televisore è l’unico gesto di rabbia esplicita. La violenza è tutta fatta di silenzi, di espressione dei volti, di parole dette a mezza voce, di allusioni.

Certo, l’amore non ha età, si dice. Certo, l’amore è cieco ma… “la paura mangia l’anima”, dice ad un certo punto Alì. Qualcosa, all’interno, finisce per spezzarsi. Emmi è sul punto di venire sopraffatta dal pregiudizio che in ogni modo è andata combattendo ed Alì, da parte sua, pur cercando di integrarsi con le abitudini e la cultura tedesche sente la mancanza del non poter parlare la sua lingua, il richiamo della cucina del suo paese d’origine. Sente, da una parte, di non essere un vero tedesco e, dall’altra, di perdere sempre più i contatti con la sua cultura di origine.

Fassbinder La paura mangia l'anima

Ma ad un certo punto le cose sembrano cambiare. La gente pare accettare la coppia, anche se non per sincera comprensione ma per meri interessi concreti.

E’ talmente vero infatti che “nessuno può vivere senza gli altri” (come aveva detto ad Emmi una sua collega mettendola malignamente in guardia contro il pericolo dell’ostracismo), che questo vale non solo per Emmi ma per tutti, anche per coloro che hanno disprezzato la coppia.

Così ecco che, dopo un po’ di tempo, succede che una delle condomine-carogne si rende conto di aver bisogno della cantina di Emmi ed è costretta a rivolgersi a lei ed al marito gentilmente. E succede che il figlio di Emmi, quello che aveva spaccato la TV a calci alla notizia del matrimonio ed aveva gratificato la madre dell’ appellativo di “puttana”, si presenti a lei con la coda tra le gambe (e un assegno per la TV) perché sua moglie deve andare a lavorare, non sanno dove mettere il figlio ed hanno bisogno che nonna Emmi faccia da baby sitter al pargoletto. Succede anche che il droghiere si renda conto che i clienti è bene non perderli, e che una vertenza salariale contro l’impresa di pulizie renda necessaria la presenza di tutte le lavoratrici dunque anche di Emmi e perciò le sue compagne di lavoro la pregano di essere solidale con loro.

Ma un danno è stato ormai fatto. Emmi ed Alì dovranno faticare per chiudere la crepa che “gli altri” hanno causato nel loro rapporto. Ci riusciranno? Non voglio rivelare il finale.

La paura mangia l’anima (so che il film è stato distribuito anche con titolo alternativo più soft Tutti lo chiamano Alì) è un film molto dolce e nello stesso tempo molto amaro e rappresenta a mio parere un qualcosa di particolare nella produzione di Fassbinder.

Fassbinder ci racconta una bella e tenera storia d’amore, Emmi e Alì si comprendono, si rispettano reciprocamente, riescono anche a perdonarsi. Ma questo loro amore deve fare i conti con il tessuto etico di una società in cui le unioni di appartenenti ad etnie diverse e le unioni in cui la donna sia di tanto più anziana del marito non sono cose accettate e risultano incomprensibili. Vicini e parenti riescono a dare un senso a questa unione soltanto bollando lei come “puttana” e ” bagascia” e lui come “animale” e “mantenuto”. Anche se tutti conoscono la vita integerrima di Emmi e sanno benissimo che Alì lavora, guadagna e contribuisce alla pari a tutte le spese di casa.

Ma Fassbinder non sarebbe il Fassbinder che amo e detesto se a un certo punto, per pareggiare i conti, non scombinasse tutte le carte mettendo in scena, in una sequenza breve ma intensissima e fulminante, l’altra faccia dell’emarginzione.

Perchè ad un certo punto Emmi va a trovare Alì al lavoro nella sua officina ed allora anche lei, Emmi, prova sulla propria carne viva una situazione di discriminazione oggettiva e totalmente indipendente dalla sua volontà: “E chi è quella, Alì, la tua nonna del Marocco? “ la sbeffeggiano i colleghi di officina di Alì e tutti (lui incluso) ridono dell’età di Emmi. Esattamente come si riderebbe del colore della pelle.

Fassbinder La paura mangia l'anima

Il cerchio si chiude, i conti sono pari e il film potrebbe anche finire lì.

Eppure, è a quel punto che Alì e Emmi imboccano la strada per diventare una normale coppia di tedeschi.

La paura mangia l’anima è un film sin dall’inizio molto angosciante, perchè la trama fondamentalmente semplice viene utilizzata per mettere in rilievo un background sociale cupo, moralista, razzista. Come quasi tutti i film di Fassbinder, anche questo è girato tutto in interni, la struttura è molto teatrale, i dialoghi importantissimi e fondamentale l’utilizzo di un cromatismo dai colori violenti e decisi. E poi ci sono gli sguardi, che dicono molto più di tante parole.

E’ un film che si presta a svariati livelli di lettura. A Fassbinder interessano i sentimenti che legano i due, ma forse soprattutto è interessato ad esplorare come questi sentimenti si inseriscono in un contesto sociale pesantemente avverso e come interagiscono con questo. E’ interessante notare che le difficoltà interne della coppia iniziano proprio quando c’è un miglioramento nei rapporti esterni ed Alì va via di casa quando si accorge di non avere poi molto in comune con gli amici e i parenti di Emmi.

Angst essen seele auf è il remake di un film americano del 1955 intitolato Secondo amore (All that Heaven Allows) con Rock Hudson, Agnes Moorehead, Charles Drake, Jane Wyman, Virginia Grey del regista Douglas Sirk, molto ammirato da Fassbinder.

Ho rivisto il film in questi giorni. Mi è ancora sembrato molto bello e (purtroppo?) tremendamente attuale.

Fassbinder La paura mangia l'anima

Angst essen seele auf, Regia: Rainer Werner Fassbinder,Soggetto e Sceneggiatura: R. W. Fassbinder
Interpreti principali: Brigitte Mira (Emmi), El Hedi Ben Salem (Ali’), Barbara Valentin (Barbara, la barista), Irm Hermann (Krista), Gusti Kreissl (Paula), Margit Symo (Hedwig), Marquard Bohm (Gruber), Rudolf Waldemar (Brem), Rainer Werner Fassbinder (Eugen), Peter Gauhe (Bruno), Karl Scheydt (Albert) Montaggio: Thea Eymesz Direttore della fotografia: Jürgen Jurges Scenografia: Rainer Werner Fassbinder,Produzione: Tango Film Production – Filmverlag Der Autoren,Origine: Germania, 1973,Durata: 93 minuti.

Rainer Werner Fassbinder
Rainer Werner Fassbinder nel ruolo di Eugen, il genero di Emmi

LE NEVI BLU – PIOTR BEDNARSKI

Piotr Berdnarski Le nevi blu
Piotr BEDNARSKI, Le nevi blu, (tit. orig. Biekitne Sniegi), traduz. dal polacco di Raffaella Belletti, E/O, p.145, Collana Dal Mondo, EAN13 9788876416590

La mole di documentazione sulla terrificante esperienza delle deportazioni nei lager staliniani è ormai imponente: memoriali, diari, epistolari, opere di narrativa vengono pubblicati e raggiungono finalmente il grande pubblico.

Questo Le nevi blu, pubblicato nel 1996, è il romanzo autobiografico dello scrittore Piotr Bednarski il quale — nato nel 1938 a Oryszkowce, una piccola cittadina della Polonia orientale occupata dai russi — nel settembre del 1939, durante la guerra, venne esiliato con la famiglia in Siberia, da dove tornò da solo alla fine del conflitto.

L’esperienza della deportazione viene raccontata attraverso i suoi occhi di bambino. Petia, figlio di ebrei polacchi, è stato esiliato assieme alla madre Bella in un villaggio siberiano di cui non viene mai fatto il nome mentre il padre è stato deportato in uno di quei lager dai quali difficilmente si esce vivi.  Il villaggio in cui si trovano Pietia e Bella viene descritto come un mondo chiuso e il racconto si svolge attraverso due livelli ben distinti: quello reale e storicamente definito, ed un altro che si presenta come un insieme di racconti, fra l’incubo e la favola.

“Tutto sommato non ci rendevamo conto della nostra miseria e neppure della morte onnipresente. Quello era il nostro mondo, la nostra realtà, la nostra vita di tutti i giorni. Non conoscevamo nè ricordavamo altro. La questione fondamentale era placare la fame e scacciare il freddo — queste due facce del destino che ci incalzavano senza requie. Non vedevamo l’ora di diventare maggiorenni. Di morire per una pallottola, non di fame o di freddo — era questo più di ogni altra cosa a tenerci in vita, obbligandoci a sforzi sovrumani”. Così Pietia parla di se stesso e degli altri bambini del villaggio.

Di giorno, la realtà è filtrata dalla vicinanza di Bella, che, con naturale semplicità, sprona suo figlio a cogliere il velo sottile della poesia e della bellezza che avvolge la vita, ad intravedere l’unicità quasi sacra che si nasconde dietro l’esistenza, mentre nel buio della notte il terrore di Pietia per le tenebre e per l’oscurità evocano tutto il male della situazione inumana ed aberrante in cui lui, sua madre e gli altri deportati si trovano.

“L’incubo della mia infanzia erano le tenebre. Le tenebre e Stalin. Le tenebre le sopportavo meglio, perché cominciavano al crepuscolo e finivano all’alba.[…] Invece Stalin, questa geniale spia, era dappertutto. In ogni angolo, su ogni manifesto, perfino nei sogni. Guida, timoniere, padre. Alla luce del giorno lo osservavo spesso per vincere la mia fobia, ma invano. Il terrore non lasciava la mia anima. Non era bello, non aveva calore né negli occhi né nei tratti, ma neppure quella ripugnanza che mi disgustava nel viso di Hitler. Tuttavia avevo l’impressione che diffondesse la lebbra. Così mi diceva il mio istinto. Ed era sicuramente quella la ragione del mio terrore. Stalin seminava morte, contagiava con la morte. Distruggeva la vita, e io volevo tanto vivere”

Ma Petia fa di tutto per reagire e rielaborare gli incubi e le sue armi sono la bellezza della poesia e della letteratura (il ragazzino passa ore a leggere Lermontov, Puskin, Dostoevski, i cui libri stranamente sono reperibili nel campo) ma anche l’ironia ed il gioco. Proprio di notte infatti come antidoto alla paura, Pietia entra di nascosto nella scuola del villaggio e con l’aiuto di pochi gessetti colorati trasforma il volto di Stalin, impresso su una foto, in quello di un comunissimo pagliaccio. Lo scopo del suo gesto non è tanto quello di suscitare il giorno seguente il riso dei bambini suoi compagni quanto quello di esorcizzare, con il riso e l’ironia del gioco, le proprie paure.

La sopravvivenza nel campo si manifesta come lotta per la bellezza, per la cultura, per la ricerca di un principio, sia pure religioso, attraverso il quale opporre resistenza al dolore, e questo anche solo con la forza delle parole.

Accanto a lui c’è sempre la madre Bella la cui bellezza fisica e morale, la cui integrità sono la sua ancora di salvezza. Bella è il simbolo di una femminilità salvifica, che lotta non solo per la mera sopravvivenza ma contro l’abbrutimento spirituale, per il diritto all’educazione di Pietia, per difendere i giochi del figlio e quelli dei suoi amici dai soprusi ed anche per il suo amore.

Le nevi blu — il titolo evoca le nevi della steppa che verso sera diventando di un blu gelido e terso preannunciano la notte tanto temuta da Petia — scritto con uno stile volutamente molto semplice è il racconto di una sublimazione infantile e di una profonda esperienza di dolore causato dalla storia.

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LOLITA – STANLEY KUBRICK (1962)

Lolita Stanley Kubrick

Sono sempre restia a paragonare un film con il libro dal quale quel film è stato tratto. Si tratta di due modalità espressive che utilizzano codici completamente diversi. Tranne casi macroscopici — che esistono, purtroppo — di plateale violenza del testo originario, può accadere che un film che contenga aggiunte o tagli rispetto al testo e che dunque apparentemente lo tradisca, giunga in realtà a coglierne lo spirito meglio di un film pedissequamente fedele che segua gli eventi pagina per pagina.

Il caso della Lolita di Kubrick è particolare perchè bisogna tener conto, nel giudicarlo, di alcune cose importanti.

Il film venne realizzato nei primi anni Sessanta, quando i vincoli della censura erano strettissimi e un tema come quello affrontato dal romanzo di Nabokov era considerato quasi un tabu. Si pensi solo al fatto che Laurence Olivier, che aveva accettato subito e con entusiasmo il ruolo di Humbert propostogli da Kubrick era stato costretto a rifiutare dai suoi agenti, che ritenevano la tematica troppo scottante e che temevano che interpretare questo ruolo avrebbe pesato negativamente sull’ immagine e sulla carriera del grande attore.

Già il fatto stesso di essere riuscito a realizzare il film rappresentò per Kubrick un successo, anche se per farlo fu costretto ad andare a girarlo in Gran Bretagna. D’altra parte, lo stesso Nabokov aveva collezionato a Parigi parecchi rifiuti, prima di riuscire a trovare un editore disposto a pubblicargli il libro.

Chi conosce bene il romanzo di Nabokov si accorge che il film, anche se molto buono, è comunque molto più soft del libro, e non poteva che essere così.

Gli attori principali sono tutti eccellenti nell’interpretare parti che sono davvero ingrate (non esiste un personaggio decisamente positivo o anche solo semplicemente simpatico): da James Mason a Shelley Winters a Peter Sellers non saprei davvero fare una graduatoria di bravura.

James Mason Shelley Winter
Peter Sellers

Un discorso a parte, ed importante, sento però di farlo per Sue Lyon (Lolita).

Era difficilissimo trovare un’interprete che dimostrasse dodici anni all’inizio della storia e diciassette alla fine del film. A quell’età, due o tre anni incidono molto, nella crescita di una bambina. Cambia il fisico, cambia il modo di muoversi, cambia il comportamento, cambia il modo di guardare.

Lolita Stanley Kubrick

Venne scelta Sue Lyon, che incarna molto bene il personaggio di Lolita ed è bravissima nella recitazione però… non c’è dubbio che (non certo per colpa sua) non trasmette l’impressione di essere una bambina dodicenne ma di essere già sin dall’inizio un’adolescente. Questo è un punto di fondamentale importanza, perchè noi lettori sappiamo che se Lolita appare un’adolescente e non una bambina vuol dire che ha già varcato quella soglia oltre la quale Humbert non trova più interessanti e attraenti le cosiddette “ninfette”. Ricordate quando, nel romanzo, Humbert dice di Lolita, quando questa compie tredici annni “la mia amante che invecchia”?

Sempre a proposito di Sue Lyon, una curiosità: nonostante fosse la co-protagonista del film, quando questo venne proiettato al Festival di Venezia non le fu consentito di assistervi; Sue aveva sedici anni ed ai minorenni era vietato l’ingresso in sala.

La sceneggiatura del film è firmata da Nabokov, che vi lavorò per più di sei mesi. Non tutto ciò che scrisse venne utilizzato da Kubrick, e dopo alcuni anni Nabokov pubblicò il testo integrale della sceneggiatura (tradotta e pubblicata anche in italiano da Bompiani).

Ma a questo punto propongo di leggere due stralci tratti da interviste in cui Nabokov e Kubrick dicono le loro impressioni.

Vladimir NABOKOV

La prima ebbe luogo il 13 giugno (Loew’s State, Broadway e Quarantacinquesima, E 2 + 4 platea, “posti orribili” dice senza peli sulla lingua la mia agenda). La folla dava la posta alle limousine che approdavano una a una, e dentro una di quelle c’ero anch’io, entusiasta e innocente come i fans che ne sbirciavano l’interno sperando di intravedere James Mason ma trovandoci solo il placido profilo di una controfigura di Hitchcock. Qualche giorno prima, a una proiezione privata, avevo scoperto che Kubrick era un grande regista, che Lolita era un film di prima qualità con attori magnifici, e che della mia sceneggiatura erano stati usati solo brandelli sparsi. Le modifiche, il travisamento delle mie trovate migliori, l’omissione di intere scene, l’aggiunta di altre, e ogni genere di cambiamenti ulteriori, non erano forse sufficienti a far cancellare il mio nome dai titoli di testa ma di certo rendevano il film tanto infedele alla sceneggiatura originale quanto lo sono certe traduzioni di Rimbaud e Pasternak fatte da un poeta americano.

Mi affretto ad aggiungere che queste ultime osservazioni non vanno assolutamente interpretate quale riflesso di un tardivo rancore, di uno stridulo biasimo nei confronti dell’approccio creativo di Kubrick. Nel travasare Lolita su schermo sonoro, lui vedeva il mio romanzo in un modo, io in un altro: tutto qui, né si può negare che un’assoluta fedeltà può anche essere l’ideale per un autore, ma per il produttore può risultare rovinosa.

La mia prima reazione al film fu un misto di irritazione, rammarico, e restio godimento. Più d’un’intrusione (quale la macabra sequenza del ping-pong o l’estatica sorsata di scotch nella vasca da bagno) mi parve azzeccata e spiritosa.

Lolita Stanley Kubrick
Lolita Stanley Kubrick

Penose, però, altre (quali il crollo della brandina pieghevole o i fronzoli dell’arzigogolata camicia da notte della signorina Lyon).

Lolita Stanley Kubrick
Lolita Stanley Kubrick

Le sequenze, per lo più, non erano certo migliori di quelle da me pensate con tanta cura per Kubrick, e mi pentii amaramente del tempo perso, pur ammirando la saldezza di Kubrick, nel sopportare per sei mesi l’evoluzione e la somministrazione di un prodotto inutile.

Ma mi sbagliavo. Rammarico e irritazione si placarono presto al ricordo dell’ispirazione tra le colline, la sedia a sdraio sotto la jacaranda, la spinta interiore, la luce, senza le quali non avrei portato a termine il compito. Mi dissi che dopotutto nulla era andato perso, che la mia sceneggiatura restava intatta nella sua custodia e che un giorno l’avrei potuta pubblicare: non come meschina confutazione di un film dovizioso ma semplicemente come vivace variante di un vecchio romanzo.

Montreux, Dicembre 1973
(Dalla Prefazione di Vladimir Nabokov a Lolita: Una Sceneggiatura, Bompiani, 1997)

Stanley KUBRICK

Nel libro si poteva pensare che lui la volesse soltanto… che non pensava ad altro. Ma siccome tutte queste cose non potevano passare nel film, l’interesse che lo spingeva verso Lolita veniva immediatamente percepito come una certa forma di amore e non solo di desiderio carnale. In questo senso, credo, il film ne ha perso il valore: a causa dell’impossibilità di mostrare la parte erotica. E’ la sola parte che mi abbia deluso. La pellicola sarebbe stata migliore, se fosse stato costantemente presente un potente elemento erotico. […] La pellicola rispettava fedelmente i personaggi, la loro psicologia del romanzo, ma non aveva affatto tutto il violento aspetto sessuale che avrebbe dovuto possedere. […] Se Lolita è un fallimento, è imputabile solo alla mancanza di erotismo.

(Da un’intervista di Renaud Walter a Stanley Kubrick)

Lolita di Stanley Kubrick (1962) Romanzo di Vladimir Nabokov, Sceneggiatura di Vladimir Nabokov, Stanley Kubrick
Con James Mason, Shelley Winters, Sue Lyon, Peter Sellers, Gary Cockrell, Jerry Stovin, Diana Decker, Lois Maxwell, Shirley Douglas Musica: Nelson Riddle Fotografia: Oswald Morris (152 minuti)

 

 

LOLITA – VLADIMIR NABOKOV

Nabokov Lolita cover
Vladimir NABOKOV, Lolita, trad. Giulia Arborio Mella, p.395, Adelphi, EAN13 9788845912542

Voglio scrivere di Lolita perchè girando per la rete ed in particolare su Anobii mi è capitato di trovare, a proposito di questo celeberrimo romanzo di Nabokov, molti commenti in cui si dice che “in fondo, il libro parla della storia di un grande amore non corrisposto” e la cosa mi lascia sempre piuttosto esterrefatta.

Provo a dire qual’è invece la “mia” lettura di Lolita.

Guardiamolo un po’ più da vicino, questo “grande amore” di Humbert per Lolita e vediamo di capire se davvero Lolita sia — come da molti viene vista — quell’insopportabile puttanella che con la sua lubrica civetteria seduce e tormenta il povero Humbert.

La storia — narrata in prima persona — si svolge negli Stati Uniti e racconta di un uomo all’incirca quarantenne — l’europeo Humbert Humbert — che, per stare vicino, sedurre e possedere una ragazzina di dodici anni ne sposa la madre Charlotte causandone poi, anche se indirettamente, la morte. Dopodichè Humbert preleva Lolita dal campeggio in cui si trova, per due anni tiene di fatto prigioniera la ragazzina rimasta ormai completamente sola al mondo e ne fa la sua amante. Sono due anni di prigionia durante i quali Lolita, contro la sua volontà, passa da un motel all’altro in una corsa frenetica da un capo all’altro degli USA con il suo amante-tutore che cerca di impedirle ogni contatto non solo con qualsiasi altro uomo ma anche con i ragazzini (di entrambi i sessi) suoi coetanei e in generale qualunque relazione che risulti esterna al mondo chiuso della coppia: “Per me non aveva importanza dove avremmo abitato, pur di rinserrare la mia Lolita in un posto qualunque” (p.221).

Ma per procedere bisogna prima fare un passo indietro.

In realtà, quando Humbert incontra per la prima volta Lolita (Dolores Haze) mentre prende il sole in bikini nella famosa scena che si svolge nel giardino di casa Haze, ne viene immediatamente catturato perchè in questa “Bambina inginocchiata” vede “la piccola Herr Doktor che [lo] avrebbe guarito di tutti i [suoi] dolori.” Alla sua prima entrata in scena, Lolita dunque è già significativamente presentata “in ginocchio”.

Humbert vede cioè incarnata in questa dodicenne la sua ossessione erotica per quel genere di ragazzine impuberi che egli classifica con l’etichetta di “ninfette”. Cosa sia e rappresenti per lui una ninfetta, Humbert tiene a spiegarlo chiaramente, a noi lettori. Vale la pena di riportare integralmente il passo: “Adesso voglio esporre il seguente concetto. Accade a volte che talune fanciulle, comprese tra i confini dei nove e dei quattordici anni, rivelino a certi ammalianti viaggiatori — i quali hanno due volte, o molte volte la loro età — la propria vera natura, che non è umana, ma di ninfa (e cioè demoniaca); e intendo designare queste elette creature con il nome di ninfette” (p.26) e più avanti: “Inoltre, poichè il concetto di tempo ha in questa faccenda un ruolo così magico, il ricercatore non dovrebbe stupirsi nell’apprendere che tra la vergine e l’uomo, affinchè costui possa cader vittima della malia, dev’esserci un divario di diversi anni — mai meno di dieci, direi; generalmente trenta o quaranta, e in alcuni casi conosciuti addirittura novanta” (p.27).

Il mondo delle ninfette è, sempre secondo Humbert “strano, spaventevole e sconvolgente”, un mondo in cui “bello e bestiale si fondevano” ed il cui confine Humbert è incapace di fissare.

Ma se difficile è per il maturo seduttore (io non esiterei a chiamarlo pedofilo tout-court) individuare il confine tra bello e bestiale, idee molto chiare egli ha invece per quanto riguarda i limiti di età superati i quali una ragazzina perde ai suoi occhi qualsiasi attrattiva o addirittura — colpevole del reato di essere cresciuta — si trasforma per lui in qualcosa di repellente.

“Sapevo di essermi innamorato di Lolita per sempre; ma sapevo anche che lei non sarebbe stata per sempre Lolita. Entro un paio di anni avrebbe cessato di essere una ninfetta e si sarebbe trasformata in una ragazza e poi, orrore degli orrori, in una college-girl” (p.86). Perchè la legge di natura non avrebbe risparmiato Lolita da quella “bara di grossolana carne femminile nella quale vengono sepolte vive le mie ninfette” (p.220).

“La mia amante che invecchia”, dice Humbert di Lolita, quando questa compie tredici anni (p.238) ma più avanti arriva a fantasticare, nel suo lucido delirio: “devo infatti confessare che, secondo dello stato delle mie ghiandole e dei miei gangli, nel corso di una stessa giornata io passavo da un polo all’altro della follia — dal pensiero che verso il 1950 mi sarei dovuto liberare di un’adolescente difficile il cui magico ninfaggio era svaporato, al pensiero che, con un po’ di pazienza e di fortuna, le avrei magari fatto sfornare una ninfetta col mio sangue nelle vene squisite, una Lolita Seconda, che nel 1960, quando io fossi stato ancora dans la force de l’âge, avrebbe avuto otto o nove anni. Dirò di più: il telescopio della mia mente, o de-mente, era abbastanza potente da distinguere, nelle remote lontananze del tempo, un vieillard encore vert — verde marcio? — il balzano, tenero, bavoso Dr. Humbert, intento ad esercitare sulle supreme grazie di Lolita Terza l’arte di essere nonno” (p.219).

La storia di Humbert e Lolita, però, non è soltanto (e sarebbe già abbastanza) la storia di un pedofilo e della sua vittima, dello stupro di una ragazzina da parte di un attempato sporcaccione. La verità disperata che si cela dietro la storia di Lolita è la confisca della vita di un individuo da parte di un altro.

Approfittando della completa dipendenza oggettiva di Lolita (“Perchè, vedete, non c’era altro posto al mondo dove potesse andare” (p.180) Humbert priva Lolita della sua gioventù, di qualsiasi libertà ed autonomia. La ricopre di vestiti e regali di ogni genere, è vero, ma la sua ossessione la rinchiude in un abbraccio mortifero che rischia di spezzarne l’autostima e l’energia vitale, la costringe al silenzio sulla loro relazione prospettandole continuamente lo spettro del riformatorio: “Vediamo infine che cosa succede se tu, minorenne, accusata di avere attentato alla virtù di un adulto […] che cosa succede se vai alla polizia a lamentarti che ti ho rapita e violentata? […] D’accordo, vado in prigione. Ma cosa ne è di te, orfanella mia? […] Mentre io mi aggrapperò alle sbarre, tu, felice bambina derelitta, potrai scegliere tra […] l’istituto di correzione, il riformatorio, il carcere minorile” (p.190)

Nel suo delirio erotico-amoroso, Humbert è però di una singolare lucidità. Si accorge perfettamente che nonostante sia riuscito, con i regali e le minacce ad ottenere la perfetta collusione tra vittima e carnefice, la sua “schiava itinerante” (p.190) non è mai allegra: “Riuscii si a stabilire quel sottofondo di colpa e segretezza condivise, ma non potei far nulla per tenerla allegra”, ascolta “i suoi singhiozzi nella notte — ogni notte, ogni notte — non appena io fingevo il sonno” (p.221) e finalmente, nelle ultime pagine del suo racconto, ammette con se stesso di avere “spezzato qualcosa dentro di lei” (p.290).

Quando penso a Lolita (il cui vero nome è, guarda caso, Dolores, che in spagnolo evoca la sofferenza) due immagini mi tornano in mente con prepotenza.

La prima si trova nel romanzo.
Quando Humbert va a prendere Lolita al campeggio estivo dopo la morte della madre descrive le pareti della stanza in cui sta aspettando che la direttrice disbrighi tutte le formalità e tra le altre cose, vede “qualche sgargiante falena o farfalla, ancora viva, saldamente infilzata al muro”

Nabokov butterflies
Farfalle catturate da Nabokov. Cornwell University Museum

La seconda immagine si trova in una delle tante interviste riportare nel volume Intransigenze di cui avevo parlato >>qui.

In essa Nabokov, rispondendo alla ricorrente domanda di come sia nata in lui per la prima volta l’idea di scrivere Lolita, dice “Per quel che ricordo, l’iniziale brivido di ispirazione fu provocato in modo alquanto misterioso dalla notizia – riportata, mi sembra, da Paris Soir – che una scimmia dello Zoo di Parigi, dopo mesi di blandizie da parte degli scienziati, aveva fatto finalmente il primo disegno a carboncino dovuto a un animale, e questo schizzo, riprodotto sul giornale, rappresentava le sbarre della gabbia di quella povera creatura”:

Ritengo Lolita — voglio dirlo senza mezzi termini — uno dei capolavori assoluti della letteratura del Novecento. Un testo assolutamente perfetto in cui non si incontra mai una parola fuori posto, in cui Nabokov riesce a trattare un tema estremamente difficile come una relazione sessuale tra un uomo maturo e una ragazzina (poco più di una bambina) intrecciando ironia e pietas, leggerezza e dramma, ad evocare una torrida ma lugubre ossessione erotica senza mai usare alcun tipo di quel turpiloquio cui tante mezze calzette di autori contemporanei ricorrono pensando stupidamente che questo possa costituire una scorciatoia per l’Arte. Da questo punto di vista, siamo proprio di fronte alla Lezione di un Maestro.

Nabokov non descrive mai in modo esplicito, nemmeno una volta, una delle innumerevoli scene di sesso che si intuiscono punteggiare le quasi quattrocento pagine del libro. “Il tema del cosiddetto “sesso” non mi interessa affatto. Chiunque può immaginare quegli elementi di pura animalità.” dice il personaggio Humbert, il protagonista del romanzo. Nabokov, dal canto suo, nella sua postfazione al libro riporta un particolare che a me sembra molto gustoso quando scrive ”Certe tecniche all’inizio di Lolita (il diario di Humbert, per esempio) hanno indotto alcuni dei miei primi lettori a credere che si trattasse di un libro licenzioso. Si aspettavano il crescendo di scene erotiche; quando quelle si interruppero, loro interruppero la lettura, sentendosi annoiati e traditi.”

Lolita – Stanley Kubrick (1962)

Lolita – Adrian Lyne (1997)

  • Il libro >>

GUERRA E PACE – GLI SCENARI DELLA GUERRA

Guerra e Pace Bondarchuk

Palcoscenici della pace e scenari di guerra. Nel romanzo di Tolstoj si intrecciano, e la guerra contro Napoleone cambia drasticamente il destino di tutti i personaggi.

Il primo scenario di guerra che compare nel libro e nel quale è presente anche il Principe Andrej è la battaglia di Schöngraben, ma è soltanto un assaggio. Le grandissime, epiche sequenze di guerra sono, sia nel libro che nel film di Serghei Bondarchuk, sostanzialmente quattro.

Come avevo già scritto >>qui, per la realizzazione del film vennero utilizzate forze dell'esercito regolare dell'Armata Rossa e venne creato appositamente uno speciale corpo di cavalleria.
Sul making of  del film, se avrò tempo, avrei voglia di tornare. Guerra e Pace non è robetta che io riesca ad esorcizzare con pochi post. 

Guerra e Pace Bondarchuk
Il Generalissimo Kutuzov (Boris Zakhava)

  • La battaglia di Austerlitz (2 dicembre 1805) detta anche "la battaglia dei tre imperatori": lo Zar Alessandro I, l'Imperatore d'Austria Francesco I°, Napoleone Bonaparte Imperatore dei francesi.
    Russi e austriaci vennero sonoramente sconfitti.
    Austerlitz rimarrà per Napoleone la vittoria più sfolgorante di tutta la sua carriera.
  • Guerra e Pace Bondarchuk
    Il Generalissimo Kutuzov e il principe Andrej Bolkonsky, suo aiutante di campo

    "Dal mezzodi del 19 nelle supreme sfere dell'esercito ebbe principio un gran movimento, tra affannoso ed eccitato, che durò fino al mattino del giorno dopo, 20 novembre, in cui fu data la così memorabile battaglia di Austerlitz.
    […]
    Il movimento concentrato, iniziatosi alla mattina nel quartier generale degli imperatori e che aveva dato l'impulso a tutto il movimento seguente, era simile al primo moto della ruota di fondo d'un grande orologio da torre. Una ruota si muove lentamente, una seconda gira, una terza, e le ruote, le carrucole, i rocchetti, si mettono a girare sempre più rapidamente, il carillon comincia a suonare, le figure a balzar fuori, e le lancette ad avanzare con esattezza, indicando il risultato di tutto il movimento."

    Guerra e Pace Bondarchuk
    Bagratiòn e Kutuzov ad Austerlitz

    Come nel meccanismo di un orologio, così anche nel meccanismo della guerra il movimento, quando l'impulso è dato, continua irresistibile fino all'ultimo risultato; e così stanno indifferentemente immobili le parti del meccanismo alle quali l'impulso non è ancora giunto, fino al momento in cui il movimento viene trasmesso. Le ruote sibilano sull'asse, ingranando coi denti, le carrucole cigolano per la rapidità del moto; ma la ruota vicina riamane tranquilla e immobile, come se fosse disposta a conservare per centinaia d'anni quella immobilità; ma il momento viene, una leva agisce, e, ubbidendo al movimento, la ruota stride girando e si confonde in un'unica azione di cui non si può comprendere nè lo scopo nè il risultato."

    Guerra e Pace Bondarchuk
    Il Generale Principe di Bagratiòn (Giuli Chokhonelidze) ad Austerlitz

  • L'epica battaglia di Borodinò (7 settembre 1812), a 125 km da Mosca. Fu la più grande battaglia campale combattuta in un sol giorno di tutta la campagna di Russia e di tutte le guerre napoleoniche: vi parteciparono oltre 250.000 uomini. Fu anche la più sanguinosa: le vittime delle due parti sono stimate in almeno 70.000, il che ne farebbe la battaglia più sanguinosa di tutti i tempi. A chi giovò quel macello? L'esito della battaglia fu incerto sotto il profilo tattico, ma poichè i russi indietreggiarono la vittoria strategica arrise apparentemente ai francesi che dopo pochi giorni entrarono a Mosca. Apparentemente, perchè l'essersi spinti fino a Mosca costituirà anche, secondo Tolstoj, il principio della fine dell'esercito napoleonico.
  • Guerra e Pace Bondarchuk
    Borodinò

    "Perchè e come furono date e accettate le battaglie di Scevardinò e di Borodinò? Perchè fu data la battaglia di Borodinò? Né per i francesi né per i russi essa aveva il menomo senso. La conseguenza immediata fu, e doveva essere, — per i russi, che noi ci avvicinammo alla rovina di Mosca (ciò che noi temevamo più d'ogni altra cosa al mondo), e per i francesi, che essi si avvicinarono alla rovina di tutto l'esercito (ciò che essi temevano pure più di ogni altra cosa al mondo). Questo risultato era già da allora del tutto evidente, e nondimeno Napoleone diede, e Kutuzov accettò questa battaglia"

    Guerra e Pace Bondarchuk

    Guerra e Pace Bondarchuk
    Pierre Bezuchov (Serghei Bondarchuk) sul campo di battaglia di Borodino

    Guerra e Pace Bondarchuk
    Guerra e Pace Bondarchuk
    Guerra e Pace Bondarchuk
    Il campo di battaglia di Borodino, il giorno dopo
    Guerra e Pace Bondarchuk
    L'esercito russo abbandona Mosca
    Guerra e Pace Bondarchuk
    Napoleone (Vladislav Strzhelchik) al Cremlino

    "Così Mosca era vuota, quando Napoleone, stanco, inquieto e accigliato, camminava avanti e indietro presso il bastione del Collegio di Camera, aspettando la deputazione, e cioè l'osservanza d'una cerimonia esteriore, ma necessaria, secondo il suo concetto.
    In diversi angoli di Mosca qualche persona si aggirava ancora, insensatamente, conservando le antiche abitudini senza comprendere che cosa facesse. Quando a Napoleone, con la dovuta cautela, fu annunciato che Mosca era deserta, egli guardò con collera colui che gli dava quella notizia e, voltandogli le spalle, continuò a passeggiare in silenzio"

  • L'incendio di Mosca. Abbandonata da tutte le autorità istituzionali e dalla maggior parte dei suoi abitanti, lasciata al saccheggio dei francesi, in breve tempo Mosca viene devastata da centinaia di incendi che nessuno è in grado di domare. Perchè Mosca venne incendiata?
  • Guerra e Pace Bondarchuk
    Soldati francesi e l'incendio di Mosca

    "I francesi imputarono l'incendio di Mosca au patriotisme féroce de Rastopchine; i russi, al fanatismo dei francesi. In sostanza l'incendio di Mosca non ebbe nè poteva avere altre cause, se per causa s'intenda qualcosa di cui si possa attribuire la responsabilità a una o parecchie persone. Mosca bruciò perchè era stata messa in tali condizioni, nelle quali ogni città costruita in legno deve bruciare, si abbiano o non si abbiano centrotrenta cattive pompe da incendio. Mosca doveva bruciare in conseguenza di ciò che i suoi abitanti l'avevano disertata, inevitabilmente, come deve prender fuoco un mucchio di trucioli su cui durante alcuni giorni piovano scintille"

    Guerra e pace serghei Bondarchuk

  • La drammatica ritirata dei francesi
  • Guerra e pace Bondarchuk

    "L'esercito non poteva ricomporsi in nessun luogo. Dalla battaglia di Borodinò e dal saccheggio di Mosca portava in sé quasi le condizioni chimiche della dissoluzione
    I soldati di quei corpi che erano stati un esercito fuggivano coi loro comandanti, senza sapere dove, desiderando (Napoleone come ogni soldato) una sola cosa: districarsi ciascuno per suo conto nel più breve tempo possibile da quella situazione senza via di scampo, di cui, sia pure confusamente, tutti erano consapevoli"

    Guerra e pace Bondarchuk

    "Dal 28 ottobre, quando incominciarono le giornate di gelo, la fuga dei francesi prese un carattere ancora più tragico: divenne la fuga di uomini che agghiacciavano e si abbruciacchiavano a morte intorno ai fuochi e che continuavano in pelliccia e in carrozza a fuggire col bottino dell'imperatore, dei re e dei duchi; ma, in sostanza, il processo della fuga e della disgregazione dell'esercito francese non si modificò menomamente.
    […]
    …l'esercito francese si dissolse e si disgregò […] indipendentemente dal maggiore o minore rigore del freddo, dall'inseguimento, dagli ostacoli del cammino e da tutte le altre condizioni prese separatamente."

    Guerra e pace  Bondarchuk
    Le bandiere francesi e l'aquila napoleonica abbassate in segno di disfatta

    "Abbassale, abbassale la testa, — disse [Kutusov] a un soldato che reggeva un'aquila francese e che senza accorgersene, l'aveva abbassata davanti al reggimento Preobajénski. — Più in basso, più in basso, così."

    Urrà, ragazzi! — Disse, rivolgendosi ai soldati, con un rapido movimento del mento"

    Guerra e pace Bondarchuk
    La gioia del vecchio Kutusov: la Russia è salva!

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    I testi in corsivo sono di Tolstoj
    Le immagini sono tratte dal film di Serghei Bondarchuk.
    Cliccandoci sopra potete vederle ingrandite. Buon divertimento.

    Gli altri post su Guerra e Pace su NSP:

  • A letto con Tolstoj >>
  • Il genio militare >>
  • I biscotti dello Zar >>
  • Che cos'è Guerra e Pace? >>
  • Il film di Serghei Bondarchuk del 1966 >>
  • Il palcoscenico della mondanità >>
  • INTRANSIGENZE – VLADIMIR NABOKOV

    Vladimir Nabokov Intransigenze
    Vladimir NABOKOV, Intransigenze (tit.orig. Strong Opinions), traduz. Gaspare Bona, Adelphi, p.394, EAN13 9788845911002

    Troppo spesso si considera Nabokov come un auctor unius libri, il geniale artefice di un unico, isolato capolavoro che è Lolita. Libro forse più citato — ho il sospetto — che letto, e citato per giunta magari a sproposito da chi non avendo nemmeno sfogliato il libro crede di poterne parlare solo avendo visto il pur bel film di Kubrick la cui sceneggiatura scrisse lo stesso Nabokov o avendo visto — peggio mi sento — il patinato ed insulso remake della versione Lyne.

    Eppure Nabokov, scrittore russo naturalizzato statunitense, è autore di tanti altri romanzi tra cui La vera vita di Sebastian Knight (1941), Pnin (1957), Ada, o l’ardore ( 1969), tutti pubblicati da Adelphi e di importanti saggi di letteratura contenuti in Lezioni di letteratura della Garzanti, che testimoniano la vis polemica e l’acribia filologica delle sue lezioni alla Cornell University.

    Purtroppo il mio zoppicante inglese non mi consente di leggere i suoi libri nella lingua in cui sono stati scritti. I fortunati che sono in grado di farlo concordano nell’affermare che l’ inglese di Nabokov è levigato e raffinato, trasudante eleganza e sarcasmi, che mescola, in dosi calibratissime, leggerezza e profondità. Non faccio fatica a crederlo: mi basta prendere l’incipit di Lolita e confrontare la pur ottima traduzione italiana

    “Lolita, luce della mia vita, fuoco dei miei lombi. Mio peccato, anima mia. Lo-li-ta: la punta della lingua compie un percorso di tre passi sul palato per battere, al terzo, contro i denti. Lo. Li. Ta.”

    … e confrontarla con il testo originale:

    “Lolita, light of my life, fire of my loins. My sin, my soul. Lo-lee-ta: the tip of the tongue taking a trip of three steps down the palate to tap, at three, on the teeth. Lo. Lee. Ta.”

    La raccolta il cui titolo originale Strong opinions, traducibile letteralmente con “Opinioni forti” è del 1973 ed è stata pubblicata in italiano da Adelphi con il titolo Intransigenze.

    E di “opinioni forti”, “intrasigenti”, è effettivamente pieno questo volume che, diviso in tre sezioni, raccoglie 22 Interviste rilasciate da Nabokov  nel  decennio 1962 -1972 a prestigiose testate americane, francesi e svizzere, Lettere ai Direttori quasi tutte al vetriolo scritte per correggere, precisare, puntualizzare ed infine una serie di Articoli di letteratura su vari temi. Dulcis in fundo, non mancano neppure, nella raccolta, cinque articoli scientifici scritti da Nabokov sui lepidotteri (le sue amatissime farfalle).

    Vladimir Nabokov

    Man mano che si procede nella lettura di questi testi si delinea una sorta di particolarissima autobiografia e — ovviamente — un autoritratto di colui che fin dall’inizio precisa: “Penso come un genio, scrivo come un autore eminente e parlo come un bambino” e dice di considerare se stesso come “uno scrittore americano cresciuto in Russia, educato in Inghilterra, imbevuto di cultura dell’Europa occidentale”. Gli altri non sanno come classificarlo: “Nessuno riesce a stabilire se sono uno scrittore americano di mezza età o un vecchio scrittore russo o un’anomalia internazionale e senza età”.

    Vladimir Nabokov
    Vladimir Nabokov

    Nabokov detestava rilasciare interviste. “Nessuno – spiega – dovrebbe chiedermi un’intervista se per ‘intervista’ s’intende una chiacchierata fra due normali esseri umani. In altri tempi ci hanno provato almeno due volte, e una volta era presente un registratore, e quando riascoltammo il nastro e io ebbi finito di ridere, mi fu chiaro che mai più in vita mia avrei ripetuto un esercizio del genere. Oggi prendo tutte le precauzioni necessarie per costringere a una dignitosa ritirata chi dà la caccia al mandarino. Le domande devono essere inviate per iscritto, ricevono risposte scritte, e le risposte devono essere riprodotte alla lettera. Sono queste tre condizioni inderogabili”.

    Ed effettivamente così si comporta, con una pignoleria che deve aver creato non pochi problemi ai suoi interlocutori.

    Le domande riguardano spesso il suo rapporto con la scrittura. “Scrivere” dice Nabokov “è sempre stato per me un miscuglio di avvilimento ed esaltazione, una tortura e uno svago […] ho sognato spesso una lunga ed appassionante carriera nei panni di un oscuro conservatore di lepidotteri in un grande museo”. E per chi scrive? Per quale pubblico? “Non penso che un artista debba preoccuparsi del suo pubblico. Il suo pubblico è la persona che vede nello specchio ogni mattina mentre si fa la barba […] l’autore è il lettore ideale di se medesimo, mentre gli altri lettori sono spesso semplici fantasmi e amnesici che muovono le labbra. D’altro canto, un buon lettore è costretto a grandi fatiche quando lotta con un autore difficile, ma queste fatiche possono dargli le più grandi soddisfazioni dopo che il vivace polverone si è dissolto”. L’identità dello scrittore? non è certo determinata dalla nazionalità; è ferocemente contrario ad ogni classificazione letteraria in base a quelle che chiama le “piccionaie” dei “movimenti” o delle ideologie; il solo parametro in base al quale deve essere giudicato un artista è il suo talento (“esiste una sola scuola, quella del talento”).

    Alcune domande ricorrono spesso. Quelle sul suo metodo di lavoro, per esempio: in più di una circostanza, Nabokov dice di non scrivere mai un romanzo iniziando dalla pagina di apertura per poi avanzare in progressione. Lui, al contrario, lavora su blocchi, su singole scene mai in sequenza: “Preferisco prendere un pezzetto qui e un pezzetto là, finché ho riempito tutti i vuoti” . Decisamente insolita risulta anche la routine del lavoro: “Non ho mai imparato a scrivere a macchina. – confessa – In generale inizio la giornata davanti a un bel leggio all’antica che ho nel mio studio. Più tardi, quando sento la gravità mordicchiarmi i polpacci, mi siedo su una comoda poltrona accanto a un comune scrittoio, e infine, quando la gravità comincia a risalire la colonna vertebrale, mi sdraio su un divano in un angolo. Così ogni giorno per almeno otto ore, scrivendo a matita su schede fabbricate apposta per me”.

    VladimirNabokov e la moglie Vera, 1966
    Nabokov gioca a scacchi con la moglie Vera. Svizzera, 1966

    E com’era Nabokov come docente? Ancora oggi, le sue lezioni di letteratura alla Cornell University rimangono un ricordo indelebile per chi ha avuto l’occasione di frequentarle. Era docente sussiegoso e austero? Probabilmente no, anche se imponeva agli allievi regole precise. “Durante i miei seminari è vietato parlare, fumare, lavorare a maglia, leggere il giornale, dormire e, per l’amor di Dio, prendere appunti”, chiariva all’inizio di ogni anno e per tutto il lungo periodo – dal 1941 al 1958 – in cui si trovò a insegnare letteratura nelle università americane amava ripetere l’opinione di uno studente che, chiamato a riassumere i motivi della scelta dell’iscrizione al corso, aveva risposto: “L’ho fatto perché apprezzo le storie e chi sa raccontarle”.

    E i piaceri della scrittura, Mr Nabokov?, gli chiede un intervistatore e lui risponde: “Corrispondono esattamente ai piaceri della lettura; la beatitudine, la felicità di una frase è condivisa dallo scrittore e dal lettore: dallo scrittore appagato e dal lettore riconoscente, oppure – ma è poi la stessa cosa – dall’artista riconoscente alla forza ignota che dentro di lui ha suggerito una combinazione di immagini, e dal lettore sensibile che in questa combinazione trova appagamento. A tutti i lettori è capitato nella vita di godersi qualche buon libro; e allora a che serve analizzare piaceri che entrambe le parti conoscono? Io scrivo soprattutto per gli artisti, artisti di oggi e di domani.”

    Qualcosa a proposito dei suoi gusti e giudizi letterari ho accennato in un altro post. Formulati spesso con ironia e sarcasmo da artiglieria pesante, con una scrittura talmente brillante e spassosa che non può non estasiare per il “come” anche quando (e succede) che non si condivida il “cosa”. Nabokov non ricorre certo alle perifrasi, quando deve parlare di un autore o di un libro. Legioni di appassionati di Dostoevski in tutto il mondo non gli perdonano quel suo parlarne come di un “giornalista dalla lingua sciolta, teatrante da strapazzo”; sui forum di Anobii ne ho incontrati alcuni la cui furibonda indignazione si spinge al punto da invitare al boicottaggio nei confronti di tutta l’opera di Nabokov…

    Lui, imperterrito, punta sempre diritto al bersaglio, demolendo con feroci battute l’opera di T.S.Eliot o di Ezra Pound (“artisti disgustosi e di secondo rango”), i romanzi di Pasternak (“scrive cose squallide, piene di cliché”), l’impegno di Sartre o di Bertrand Russell (“qualsiasi cosa dicano o facciano io dico o faccio il contrario e sono certo di non sbagliarmi”). Ma ce n’è per un sacco di altri: Balzac, D.H. Lawrence, Thomas Mann… Il più vituperato resta comunque Freud, di cui Nakobov non nasconde di pensare tutto il male possibile. “Il freudismo mi sembra uno dei raggiri più ignobili che la gente possa praticare su se stessa”.

    Ma ci saranno pure autori che piacciono, a Nabokov, si chiede ad un certo punto il lettore, frastornato da tutto questo bombardamento di stroncature. Si, ci sono. Non sono molti ma ci sono: “I miei massimi capolavori della narrativa del ventesimo secolo sono, nell’ordine, Ulisse di Joyce, La metamorfosi di Kafka, Pietroburgo di Bely e la prima metà della Ricerca del tempo perduto di Proust”.

    Il genio di Nabokov si è spesso nutrito di ironia e sarcasmo. Tagliente, insofferente, lo scrittore di Lolita nelle interviste spiazza sempre e comunque. Si diverte, eccome, se si diverte!

    Ad un intervistatore che, parlando di cinema, gli chiede quali scene del passato sarebbe stato bello poter filmare, Nabokov risponde:

    “Shakespeare nella parte dello Spettro del Re.
    La decapitazione di Luigi XVI, con i tamburi che coprono i suoi discorsi dal patibolo.
    Herman Melville a colazione, mentre dà una sardina al suo gatto.
    Il matrimonio di Poe. I picnic di Lewis Carrol.
    I Russi che se ne vanno dall’Alaska, felici dell’affare. Primo piano di una foca che applaude”.

    I suoi due piaceri della vita, la scrittura e le farfalle. Non gli interessava altro. Ma la scrittura era anche un tormento; le farfalle, gioia e basta. Infatti, in che altro modo si poteva definire “il brivido che dava alla mano il contatto col bastone del retino”?

    Vladimir Nabokov
    Vladimir Nabokov
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