MEPHISTO – ISTVÁN SZABÓ (1981)

Brandauer Mephisto
Klaus Maria Brandauer (Hendrik Höfgen)

Germania, Anni '30. Hendrick Höfgen (Klaus Maria Brandauer) è un attore di grande talento e ambizione che lavora in un teatro di Amburgo, ma sogna di farsi conoscere in tutta la nazione.

Assistendo da dietro le quinte all'enorme successo che riscuote Dora, un'attrice sua amica che in quel momento è al culmine della carriera è sconvolto dall'invidia e dalla gelosia. Lui è solo un attore di provincia. Ha un'amante, Juliette Martens (Karin Boyd), che è anche la sua maestra di danza. Juliette è l'unica che conosce il suo vero nome, Heinz.

Brandauer Mephisto

La partner del lavoro teatrale in cui Hendrik sta attualmente recitando è Nicoletta von Niebuhr (Ildikó Bánsági). Heindrick si innamora della sua migliore amica, Barbara Bruckner (Krystyna Janda), di ricca e aristocratica famiglia e la sposa.

Mephisto
Nicoletta von Niebuhr ( Ildikó Bánsági) e Barbara Bruckner (Krystyna Janda)

Mephisto

Hendrick, che esalta il teatro marxista e professa teorie brechtiane, una sera provoca platealmente Hans Miklas (György Cserhalmi), un attore di second'ordine che si dichiara filo-nazista.
La sua carriera sembra essere compromessa ma Dora, generosamente, lo raccomanda ad un famoso produttore.

(Hendrik, da vero gentiluomo, il giorno dopo le invia un mazzo di fiori e un biglietto con scritto "Danke")

Höfgen diventa famoso negli ambienti di sinistra per i suoi ideali comunisti e per le sue qualità di attore, danzatore e cantante. L'apice del successo arriva però con Goethe e l'interpretazione del ruolo di Mephisto, il diavolo che offre a Faust il famoso patto: la sua anima in cambio di giovinezza, sapienza, potere.

Mephisto

Quella stessa notte Dora gli comunica di essere in partenza per l'America, prima che sia troppo tardi. Ad Hendrik che, stupito, le chiede perchè vuole lasciare la Germania Dora risponde: "Perchè qui il sipario si sta chiudendo, non te ne acccorgi?".

Ma Hendrick, la cui carriera è in ascesa, non vuole accorgesene, finge di non vedere. Vive negando quello che sta succedendo (la presa del potere di Hitler).

Mephisto

Anche sua moglie Barbara che, sebbene appartenente ad una famiglia molto altolocata è di posizioni liberali e democratiche ed ha in orrore il nazismo decide di andarsene dalla Germania e si trasferisce a Parigi dopo una violenta scena in cui cerca di convincere il marito a fare come lei.

Mephisto

Ad Hendrik capita un'occasione d'oro: andare in Ungheria a girare un film. Potrebbe non tornare più in Germania, ha l'occasione di rimanere anche lui in esilio all'estero, ma sa che fuori dalla Germania non farà più carriera. Il successo, la carriera, per lui contano più di qualunque altra cosa. Decide così di tornare a Berlino.

Ha un altro gran colpo di fortuna: Lotte Lindenthal (Christine Harbort), un'attrice amante del potentissimo primo ministro nazista lo aiuta a ricostituirsi una reputazione.

(Hendrik, da vero gentiluomo, il giorno dopo le invia un mazzo di fiori e un biglietto con scritto "Danke")

Mephisto

Hendrick Höfgen ha l'occasione di interpretare di nuovo il ruolo di Mephisto. Certo, questo significa dover lavorare con Miklas, il nazista suo vecchio nemico. Certo, questo significa dover rendere omaggio al nazista amante di Lotte, ma che importa? Lui è un attore, e che c'entra un attore con la politica? Un attore ha bisogno di un palcoscenico.

L'aveva ben detto, un giorno, a Juliette: "Anch'io sono di carne ed ossa, ma gli occhi non sono i miei occhi, le gambe non sono mie, la mia faccia non è mia, il mio nome non è il mio nome, perchè io sono un attore!"

Del resto, le soddisfazioni non tardano ad arrivare: il potente primo ministro, proprio lui, diventa un suo grande ammiratore. Lo invita nel suo palco, si congratula pubblicamente con Hendrik.

Mephisto Brandauer

Posa anche, come modello, per una scultrice nazista fanatica. Juliette è di nuovo la sua amante, ma Juliette, diversamente da Hendrik, non può cambiare la sua situazione: è vero che è figlia di genitori tedeschi, che è cittadina tedesca, che non è ebrea ma… è una nera che vive in una società ogni giorno più razzista. Ormai non può più nemmeno uscire per strada, vive chiusa in casa, il pericolo per lei aumenta ogni giorno che passa.

Intanto, Hendrick diventa una celebrità e quando Miklas, compreso che cosa significhi davvero il nazismo lo rinnega e si mette a capo di un movimento di protesta Hendrik (che prima si atteggiava a comunista) è uno di quelli che non ne vuole nemmeno sentire parlare. Hendrik ha ormai venduto la sua anima al diavolo in cambio di celebrità e gloria. Sul palcoscenico è Mephisto, ma nella vita è solo Faust.

Mephisto Brandauer

Mentre Miklas viene assassinato, la fedeltà di Hendrik ai nazisti gli fa guadagnare la promozione a direttore del più importante teatro di Berlino. I nazisti però hanno scoperto la sua relazione con una donna nera ed Hendrik ottiene che Juliette — di cui i nazisti vogliono sbarazzarsi — possa lasciare incolume la Germania. Come direttore del teatro Hendrik deve accettare parecchi compromessi, come licenziare vecchi amici e lavoratori ebrei.

A Vienna va a trovare Juliette. E' l'unica donna con la quale si confida, però alla fine dell'incontro le dice che non la rivedrà più e le chiede di non scrivergli più. E' troppo pericoloso. Intende pericoloso per lui, ovviamente.

Mephisto Brandauer

A Parigi per lavoro (ormai è l'ambasciatore culturale all'estero del Grande Reich) va poi a trovare Barbara. Barbara tenta ancora una volta di farlo ragionare, è addolorata e indignata del suo comportamento di sostegno al nazismo, non capisce come possa continuare a chiudere gli occhi, gli chiede "Ma perchè resti a Berlino" e lui risponde: "Perchè lì ho successo, e se ho successo vuol dire che la gente mi ama…". Un inglese, seduto ad un tavolo vicino al loro, e che ha ascoltato sempre più indignato la conversazione non si trattiene più. Si alza, gli si avvicina, gli molla uno schiaffo dicendogli sprezzante: "Questo per la sua Germania".

Mephisto

Vagando per le strade di Parigi Hendrick Höfgen si chiede quale opportunità potrebbe uno come lui avere in posto come questo. Certamente non di direttore del teatro nazionale…

Di nuovo a Berlino Hendrik divorzia da Barbara e chiede aiuto alla sua migliore amica, l'attrice Nicoletta, rimasta anche lei in Germania.
Nicoletta si dice disponibile ad aiutarlo.

(Hendrik, da vero gentiluomo, il giorno dopo le invia un mazzo di fiori e un biglietto con scritto "Danke")

Sposa Nicoletta.

Quando il suo vecchio amico Otto scompare, pensando di poter contare sulle sue realazioni privilegiate con i nazisti cerca di intercedere per lui con il primo ministro, ma questi lo tratta peggio di uno schiavo facendogli capire chiaramente chi sono i suoi padroni. Hendrik si rivolge a Lotte (l'amante del ministro) ma questa gli dice, serafica, che Otto si è "suicidato".

Hendrik interpreta adesso il ruolo di Amleto, altro grande successo. Certo, per mettere in scena Amleto ha dovuto prima tenere una conferenza stampa, bisognava giustificare la scelta di un testo inglese e Hendrik la giustifica (vale la pena riportare alcuni stralci della sua conferenza)

Karl Maria Brandauer

"Il principe di Danimarca è il salvatore del Nord, il cavaliere solitario pieno di ideali, primo fra tutti l'ideale della purezza del sangue e della razza. Amleto è un carattere complesso ma allo stesso tempo un grande, semplice uomo. E' il grande uomo del Nord. Uccide. E nella sua battaglia autodistruttiva ci mostra la strada verso il futuro. Non è un debole. Spesso gli attori lo hanno ritratto come un nevrotico, un rivoluzionario patologico, un tipo decadente. Ma Amleto è un duro. Dovete vederlo come un eroe energico e risoluto…"

Ovvio che con queste premesse, l'allestimento scenico non potrà che abbondare di corazze e di elmi nordici….

Mephisto

Il primo ministro si congratula con lui, lo invita a visitare il nuovo enorme stadio di Berlino e gli chiede (ma in realtà gli ordina) di mettersi a correre nel mezzo. Poi gli fa puntare contro dei riflettori enormi e gli grida beffardo: "Ti piace tutta questa luce, Höfgen? Volevi tanta luce, vero? Questa è la vera luce! Non credi?".

Mephisto

Mephisto

Mephisto Brandauer

Hendrik, accecato dai riflettori vaga al centro dello stadio chiedendosi disperato:

"Ma cosa vogliono da me? Dopo tutto, io sono solo un attore…"

Splendido affresco sul teatro e sulle difficili convivenze con il potere, Mephisto, presentato al Festival di Cannes del 1981, vinse l'Oscar 1982 per il miglior film straniero e il David di Donatello 1982 mentre a Klaus Maria Brandauer venne assegnato il David come migliore attore straniero.

Il film è ispirato al bellissimo romanzo di Klaus Mann (morto suicida nel 1949), scritto fra il '35 e il '36 dopo che la sua famiglia (Klaus è figlio di Thomas Mann) aveva lasciato la Germania all'avvento del nazismo. Attraverso il personaggio del protagonista, l'attore Henrik Höfgen, Klaus racconta i momenti più significativi della vita di un suo ex amico carissimo, il celebre attore Gustav Gründgens (marito, fra l'altro, della sorella Erika), un talento straordinario ma anche straordinariamente ambizioso. Con l'arrivo di Hitler al potere, Gründgens entra dapprima in crisi ma in seguito, sempre assetato di successo, non tarda a trovarsi delle ragioni, anche delle giustificazioni morali, per scendere a patti con i nazisti, diventando presto anzi un favorito di Göering e un esponente di primo piano del teatro di regime. Dall'esilio, Klaus Mann non perdonò a Gründgens il tradimento e scrisse contro di lui Mephisto.

La regia del film è di Istvàn Szabò, nato a Budapest nel 1938  e considerato uno dei protagonisti del rinnovamento del cinema magiaro. Sua è anche la sceneggiatura, scritta assieme a Péter Dobai. La fotografia è di Lajos Koltai, tutta con colori molto cupi (è anche per questo motivo che trarre immagini decenti dai fotogrammi non mi è stato facile) che rendono perfettamente il clima oppressivo del tema e del periodo storico nel quale il film è ambientato.

Pur attenendosi fedelmente alla fonte letteraria, Szabó attenua i toni satirici e grotteschi del romanzo di Klaus Mann, per accentuare invece l'aspetto più drammatico nel percorso umano di Höfgen / Gründgens. Il film è arricchito anche da un'interessante galleria di personaggi secondari, come la moglie di Höfgen, Barbara Bruckner (Krystyna Janda), la fascinosa attrice Nicoletta von Niebuhr (Ildikó Bánsági), la sua amante nera Juliette Martens (Karin Boyd) ed il generale Tábornagy (Rolf Hoppe), il potentissimo nazista nel quale è possibile intravedere la figura di Göering.

Ma staordinaria è soprattutto l'interpretazione di Klaus Maria Brandauer. Attore shakespeariano, regista ed attore al Burgtheater di Vienna, Brandauer è eccezionale, nella parte dell'attore destinato a vestire sulla scena i panni del demonio, ma nella vita quelli di un uomo che al demonio vende la sua anima.

Karl Maria Brandauer

Brandauer incarna tutte le sfaccettature del cedimento e della compromissione con il regime, cinematograficamente rappresentato con il procedere e ingigantirsi del suo rapporto con "il Generale" Tábornagy (Hermann Göring). Tutto un percorso di cedimenti scanditi dalla terribile domanda se sia più importante l'espressione artistica o il prezzo da pagare per poterla esprimere.

Fino alla sequenza conclusiva, con Höfgen che corre nell'enorme deserta arena berlinese inseguito dalle luci accecanti dei riflettori che gli fanno finalmente capire in quali tenebre senza fine sia, di fatto, sprofondato.

Anche se ambientato in Germania negli anni dell'ascesa al potere di Hitler e del nazionalsocialismo, Mephisto è anche una parabola che si applica a tutti i tempi perchè la storia raccontata nel film di Szabó diventa un'agghiacciante metafora dell'ambiguo rapporto fra arte e potere.

P.S. Ho visto per la prima volta questo film al cinema, regolarmente ed ottimamente doppiato. L'ho rivisto in questi giorni in lingua originale (tedesco) con sottotitoli inglesi. Posso assicurare  che sentire la recitazione originale di Brandauer  mi ha fatto   dimenticare di non conoscere  il tedesco.

Mephisto, 1981, Regia: István Szabó, Soggetto: Klaus Mann, Sceneggiatura: István Szabó e Péter Dobai
Interpreti e personaggi: Klaus Maria Brandauer (Hendrik Hoefgen), Krystyna Janda (Barbara Bruckner), Ildikó Bánsági (Nicoletta von Niebuhr), Rolf Hoppe (Tábornagy), György Cserhalmi (Hans Miklas), Ildikó Kishonti (Dora Martin) Péter Andorai (Otto Ulrichs), Karin Boyd (Juliette Martens), Christine Harbort (Lotte Lindenthal)
Scenografia: János P. Nagy e József Romvári, Fotografia: Lajos Koltai, Montaggio: Zsuzsa Csákány
Musiche originali: Zdenkó Tamássy, "Es Wird Gehn" (Reinitz, Klabund), "Lumpenlied" (Reinitz, Erich Muhsam), Mephisto-Waltzer (Franz Liszt), "Fruhlingsstimmen" (Johann Strauss), "Im Grunewald" Franz Meissner), "Mephisto-Improvisation" (Aladar Pege), "Ich wollt', meine Lieb' ergösse sich (Op.63-1)" (Felix Mendelssohn-Bartholdy, Heinrich Heine)
Ungheria, Durata: 144'

Gustav Gründgens
L'attore Gustav Gründgens, cognato di Klaus Mann, nel ruolo di Mephisto

  • LIBERAZIONE – SÁNDOR MÁRAI

    Sandor Marai Liberazione
    Sándor Márai, Liberazione (tit. orig. Szabadulás), traduz. Laura Sgarioto, p.150, Adelphi, EAN13 9788845922831

    Tradotto da Laura Sgarioto, Liberazione racconta le terribili settimane dell’assedio di Budapest fino alla liberazione da parte delle truppe sovietiche.
    Come sempre nei romanzi di Márai, la trama è semplicissima. Nel Dicembre del 1944 la disfatta dei nazisti che occupano Budapest è ormai prossima. L’Armata Rossa, che già dall’inizio di novembre è arrivata alla periferia della capitale ungherese, sta per completare l’accerchiamento della città. L’antivigilia di Natale una ragazza di venticinque anni, Erzsébet, che già da mesi vive braccata, sotto falsa identità, riesce a trovare un estremo nascondiglio per il padre: il vecchio, un celebre scienziato a cui gli squadroni fascisti delle Croci Frecciate danno la caccia viene murato, insieme ad altre cinque persone, in una cantina grande quanto una dispensa. Guardando il padre, un astronomo, strisciare ventre a terra per infilarsi dentro lo stretto pertugio che dovrà poi essere nuovamente murato Erzsébet pensa che “per tutta la vita suo padre aveva guardato le stelle e adesso affondava la faccia nel terreno fangoso e argilloso di quello scantinato…”

    Erzsébet, invece, scende nello scantinato del palazzo dove vive, insieme a tutti gli abitanti di quello e di altri palazzi dei dintorni. In questa cantina rimarrà, assieme ad altre centoquaranta persone, per quattro settimane, quanto durerà il terribile assedio dei russi, mentre sopra le loro teste infuriano i combattimenti. “Ormai sapevano che quella vita — centoquaranta persone […] sdraiate su materassi e letti pieghevoli accanto a fornelli comuni, sedute su bagagli che difendevano con i loro corpi, contro gli altri ma anche contro il pericolo imminente, lontano ma ritenuto ormai certo –, che quella vita da topi, piena di chiacchiere e talvolta di striduli battibecchi, non sarebbe stata una breve fase di transizione bensì la realtà alla quale si erano preparati”.

    In quel mondo sotterraneo maleodorante e caotico, sporco e privo di servizi igienici, dove già dal terzo giorno le provviste d’acqua sono esaurite e a turno, di notte, gli uomini escono dal rifugio con brocche e recipienti per andare al pozzo vicino rischiando la vita, in una “promiscuità da porcile”, mentre fra la gente ammassata si scatenano tensioni sempre più acute, Erzsébet non si lamenta, sa che suo padre sta peggio di lei. Pensa a quello che accade nel palazzo di fronte “dove vivono sei persone, in uno spazio grande quanto una dispensa, senza aria, senza luce, senza servizi igienici, senza potersi sdraiare…”.

    E poi, Erzsébet aspetta “qualcosa” – qualcosa che si riassume in una parola: liberazione. Tra poco i russi saranno qui, pensa, e tutto cambierà. Questo pensiero l’aiuta a sopportare quest’atmosfera torbida, sempre più insopportabile, tra angoscia e sudiciume, confessioni a ruota libera, tradimenti e aggressività crescente.
    Lei deve solo — pensa — cercare di sopravvivere sino al momento dell’arrivo dei russi. “Perchè quel che è ‘cominciato’ avrà anche una fine, una volta che si sarà compiuto il suo tempo, e allora tutto sarà terminato: il compito è semplicemente quello di sopravvivere”.

    Nell’attesa, Erzsébet fantastica su come saranno i russi, come saranno vestiti, che aspetto avranno. Nè lei nè le persone che la circondano ne hanno mai visto uno. E che cosa succederà, al loro arrivo? La guerra finirà, le cose cambieranno, questo è certo. “Ora le cose cambieranno, tra poco i russi saranno qui” dice al vecchio matematico paralitico cui è stata accanto per tutto il periodo dell’assedio ma questi risponde con tono enigmatico: “è probabile che molte cose saranno diverse”.

    Budapest 1945
    Budapest, 1945. Soldati sovietici dell’Armata Rossa entrati dopo l’assedio

    Finalmente, nella notte fra il 18 e il 19 gennaio la ragazza vedrà la sagoma del primo russo stagliarsi sotto la porta. Ma quell’incontro sarà ben diverso da come se l’era immaginato.
    E quando finalmente Erzsébet può riemergere dallo scantinato per correre all’edificio dove il padre è stato murato ripete a se stessa “A quanto pare sono libera”. Lo ripete a voce alta, quasi per convincere se stessa. Perchè il suo sentimento, adesso, è ben diverso da quello che l’aveva sorretta per tutte le lunghissime quattro settimane trascorse nello scantinato. Il suo primo incontro con un russo le ha fatto capire che se qualcosa è certamente finito, non altrettanto certo è cosa stia incominciando. Quando aveva visto il soldato russo entrare nella cantina aveva pensato: “Bene, ci siamo […]. Il grande caos, la guerra che mi ha pervaso finora è finita. Adesso comincia un’altra guerra: così pensa. Perchè sa che questa “fine” non significa la fine in assoluto della guerra; al massimo che è cessato un tipo di guerra e che ne comincia una diversa. Non la pace, no”

    Szabadulás (Liberazione) fu scritto nell’estate del 1945  in meno di tre mesi  ed è rimasto inedito fino al 2001.

    Márai descrisse le terribili condizioni di quei giorni di Budapest con cognizione di causa, perchè lui stesso le aveva vissute in prima persona. Per cinque mesi aveva assistito con i suoi occhi all’orrore della sua città assediata dai sovietici, bombardata dagli Alleati e terrorizzata fino all’ultimo minuto dai rabbiosi rastrellamenti dei nazisti e dei fascisti sconfitti. Quando scrisse questo libro era già convinto che l’orrore non sarebbe finito.

    Chi ha letto il secondo volume di memorie Terra…!Terra! in cui Márai dedica pagine e pagine alla sua esperienza di quei giorni a Budapest sa perfettamente che le parole che fa pronunciare a Erzsébet sono dettate da una sinistra ironia.
    Quando scriveva il libro Sándor Márai — come fa giustamente notare il risvolto di copertina del volume Adelphi — “non si faceva troppe illusioni né su quello che chiamava l’ homo sovieticus, né sul regime che l’Armata Rossa era venuta a instaurare nel suo Paese”.

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    LOLITA – ADRIAN LYNE (1997)

    Dominique Swain

    Ed eccomi  con  Lolita diretto da Adrian Lyne.

    Che dire? Gli attori principali sono tutti bravissimi: Jeremy Irons è un Humbert Humbert addirittura straziante, con il suo amour fou non ricambiato per Lolita. Melanie Griffith (Charlotte Haze, la madre di Lolita) è bella e brava come sempre. Dominique Swain è una Lolita strepitosa.
    Ricostruzione ambientale, scenografie, fotografia, costumi, musica (di Ennio Moricone) perfetti.

    La versione Lyne di Lolita dura ben 2 ore e 17 minuti ed è fedelissima al romanzo di Nabokov. Apparentemente molto più fedele di quanto lo fosse il film di Kubrick del 1962 e segue il testo capitolo per capitolo. All’inizio c’è, ad esempio, l’episodio dell’ Humbert adolescente con Annabel, episodio che sta alle radici della sua predilezione per le ragazzine poco più che impuberi; il personaggio di Quilty occupa, in termini di durata di presenza scenica, lo stesso spazio (e cioè poco) che occupa nel romanzo di Nabokov e soprattutto Lyne non solo non taglia ma dedica molta cura a tutta la parte on the road del romanzo in cui Humbert e Lolita percorrono in macchina, per mesi, tutta l’America da un capo all’altro. Senza meta e alloggiando quasi sempre in motel e alberghi.

    Dominique Swain Jeremy Irons

    Insomma, tutto (quasi) ineccepibile.

    E allora? Allora, il film di Lyne non mi ha convinta.

    Dmitri Nabokov in una intervista ha dichiarato:
    Trovo che la versione di Lyne sia molto più vicina a quello che è lo spirito originale del romanzo di mio padre. Non sono mai stato entusiasta della versione di Kubrick (alla quale collaborò anche Vladimir Nabokov, nda), anche se era un bellissimo film si allontanava troppo dai temi e dalle atmosfere originali del romanzo. Il film di Lyne mi soddisfa pienamente perché spiega il sottofondo psicologico che anima le azioni di Humbert: lui cerca di trovare in tutte le donne che osserva una ragazzina che amò durante l’adolescenza e che morì di tifo pochi giorni dopo il loro primo incontro. Per questo si innamora di Lolita, la sua non è pedofilia come noi possiamo intenderla oggi, ma un bisogno disperato di ritrovare quella parte di sé che gli fu strappata brutalmente dal destino e che in lei trova una sorta di surrogato.

    Io invece mi permetto molto umilmente di dire che la Lolita di Lyne è un esempio da manuale di come si possa essere pedissequamente fedeli alla trama di un romanzo ma tradirne invece — a mio modestissimo parere, si intende — contenuto e spirito.

    Il film — patinato come una video clip — è sicuramente confezionato molto bene e piacevole da vedere ma ahimè non basta la bravura degli attori e una fedeltà al testo che sebbene appaia totale è in realtà solo di facciata.

    C’è una cosa la cui totale assenza stravolge il romanzo di Nabokov: dov’è infatti la micidiale ironia ed autoironia del monologo di Humbert? Dov’è la satira feroce di Nabokov? L’Humbert di Nabokov è personaggio complesso, è un manipolatore e, almeno all’inizio non è innamorato di Lolita. La sua è attrazione erotica e basta. E’ un rapace. L’Humbert di Lynes nelle scene iniziali in casa Haze sembra quasi essere lui il sedotto piuttosto che il seduttore, si innamora subito perdutamente di Lolita e quello che emerge dal film è la drammatica e romanticissima figura di un uomo dal cuore spezzato. Non ci sono sfumature, non ci sono chiaroscuri. Humbert-Irons è un uomo innamorato e basta.

    L’Humbert di Nabokov non concede mai sconti a se stesso: sa perfettamente, all’inizio della sua storia con Lolita, che la sua è un’ossessione erotica ed una delle cose che rende interessante e non banale il personaggio è la graduale presa di coscienza, da parte sua, che questa ossessione erotica si va mutando lentamente ma inesorabilmente in amore fino al momento in cui, dopo la fuga di Lolita, si rende conto di “volerle bene” (nel senso più autentico di “volere il suo bene”) rendendosi conto infine di tutto il male che le ha fatto. Non dimentichiamo quando, nelle ultime pagine del romanzo, ammette con se stesso di avere “spezzato qualcosa dentro di lei”

    Jeremy Irons
    Jeremy Irons

    Paradossalmente, la visione del film di Lyne mi ha fatto comprendere meglio il film di Kubrick: perchè alcune apparenti infedeltà al testo di Nabokov servono in realtà, a Kubrick, per esprimere con gli strumenti della cinematografia e con i suoi codici linguistici proprio l’ironia, il sarcasmo, il doppio registro del comportamento di Humbert che riesce a fare emergere dalla straordinaria mimica facciale di James Mason. L’Humbert di Mason-Kubrick pronuncia parole che sono contraddette dall’espressione del volto, abbiamo sempre l’impressione di trovarci di fronte ad un doppio livello di comunicazione ed è questo che lo rende interessante. I personaggi del film di Lyne sono invece quello che appaiono. C’è solo un testo, senza alcun sottotesto. C’è la banalizzazione al posto della complessità. L’illustrazione didascalica al posto della espressione artistica tradotta da una forma d’arte (la scrittura) ad un’altra (quella dell’immagine).
    La versione di Kubrick, che poteva sembrare troppo libera e piena di tagli riusciva a fare una cosa importantissima: rendere sfuggenti e sottilmente sgradevoli tutti i personaggi della storia, proprio come essi sono nel libro di Nabokov.

    Di tutto questo gli attori — ripeto, bravissimi — sono assolutamente incolpevoli. Loro fanno quello che viene imposto loro dal taglio, dalla chiave di lettura della storia decisi dal regista.

    Come posso prendermela, ad esempio, con Melanie Griffith, se Lyne le ha fatto impersonare una Charlotte Haze troppo bella, troppo elegante, troppo raffinata, sciocca, si, ma sicuramente non insopportabile e che quindi non ha nulla a che spartire con la grassa e poco attraente Charlotte Haze di Nabokov? Quanti uomini darebbero della “mucca” a questa smagliante Charlotte-Griffith?

    Melanie Griffith
    Lolita Lyne

    E a proposito della morte di Charlotte: approfondimento psicologico del comportamento di Humbert prima e immediatamente dopo la morte della moglie… zero. Ma posso mai prendermela con Jeremy Irons, se il copione prevedeva lo zero? Lui fa (benissimo) quello che gli è stato chiesto di fare.

    Stendo un velo pietoso sulla sequenza finale dell’uccisione di Quilty da parte di Humbert: semplicemente disgustosa, inutilmente e stupidamente splatter. Se penso a come l’omicidio di Quilty-Peter Sellers da parte di Humbert-James Mason era stata affrontata e risolta da Kubrick mi viene solo da dire: “Signore e Signori, la classe non è acqua!”.

    Mi ha incantata invece la Lolita di Dominique Swain. Nella costruzione del suo personaggio Lyne ha dato a mio parere il meglio del film: gli innumerevoli primi piani per Lolita con l’apparecchio ai denti, Lolita imbrattata di rossetto, Lolita che mangia una mela, Lolita piangente e disperata, Lolita esterrefatta ed umiliata quando Humbert le molla uno schiaffo, Lolita e il suo continuo masticar chewing gum… Lolita con gli occhiali, Lolita sciatta e già vecchia a diciassette anni… Dominique Swain riesce ad essere maliziosa, ingenua, seduttiva, dolce ma anche volgare, irritante, insopportabile, tenerissima, rompiscatole… proprio come Lolita. Bravissima.

    Dominique Swain

    Ho letto che Lyne ha selezionato più di 2.500 ragazzine e secondo me l’ha proprio trovata, quella giusta. Dominique Swain era una quindicenne studentessa della Malibu High School : apparentemente una ragazzina come tante ma con una freschezza ed un fascino speciali, una vera ninfetta nel senso che questo termine dava Nabokov.

    Dominique Swain

    Ho letto anche che per il film Lyne (regista, ricordo, di Nove settimane e mezzo, Proposta Indecente, Attrazione Fatale, Flashdance) si è avvalso dei consigli del figlio di Nabokov, Dmitri. Prendo atto e mi genufletto. Detto questo, il fim continua a sembrarmi corretto ma insipido e descrittivo.

    Mi piacerebbe molto leggere pareri di altre persone che oltre ad avere letto il romanzo di Nabokov abbiano anche visto sia la trasposizione cinematografica di Kubrick che quella di Lyne.

    Dominique Swain

    Lolita (1997) Regia: Adrian Lyne, Sceneggiatura: Stephen Schiff basata sul romanzo di Vladimir Nabokov, Fotografia: Howard Atherton, Scenografia: John Hutman, Costumi: Judianna Makovsky, Montaggio: Julie Monroe, Musica: Ennio Morricone
    Interpreti: Jeremy Irons, Dominique Swain, Melanie Griffith, Frank Langella, Suzanne Shepherd, Keith Reddin, Erin J. Dean, Joan Glover, Pat Pierre Perkins, Ed Grady, Michael Goodwin, Angela Paton, Ben Silverstone, Emma Griffiths, Malin, Ronald Pickup, Michael Culkin, Annabelle Apsion, Don Brady, Trip Hamilton, Michael Dolan, Hallee Hirsh
    USA – Francia, 1997, Durata: 2h. 17′

    • L’Intervista a Dmitri Nabokov sul film di Lyne >>
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    Lolita – Vladimir Nabokov
    Lolita – Stanley Kubrick

    VIA KATALIN – MAGDA SZABÓ

    Via Katalin
    Magda SZABÓ, Via Katalin (tit. orig. Katalin Utca), traduz. Bruno Ventavoli, p.202, Einaudi Supercoralli, EAN13 9788806190644

    Arriva finalmente anche in Italia Via Katalin di Magda Szabó. Dico “finalmente” perchè Via Katalin (Katalin Utca), pubblicato per la prima volta in Ungheria nel 1969, subito dopo, nel 1979, uscì in Francia nelle edizioni Seuil e poi, nel 2006, è stato ritradotto e ripubblicato vincendo, nel 2007 il Prix Cevennes come “migliore romanzo europeo tradotto dell’anno”
    Ho letto che per il 2009 è prevista anche — sempre in Francia — la pubblicazione di un altro romanzo scritto dalla Szabó nel 1990. Speriamo che in Italia per leggere quest’altro libro non mi tocchi aspettare altri dieci anni…

    Via Katalin si svolge tutto a Budapest ed abbraccia quasi quarant’anni di storia, a partire dagli anni Trenta, un periodo non certo facile per l’Ungheria. Né per i protagonisti del romanzo, tre famiglie che vivono nella stessa strada e vengono travolte dalla violenza della Storia.

    Nella via Katalin ci sono, un accanto all’altra, tre case con giardino: quelle dei Bíró, degli Held e degli Elekes. Le tre famiglie che vi abitano sono molto amiche, i bambini (tre femmine: Irén, Blanka ed Henriett e un maschio, Bálint) trascorrono insieme le loro giornate e sono inseparabili.
    I quattro ragazzi sono prima compagni di giochi, poi amici. Poi, crescendo, le cose si complicano per il sopravvenire di dinamiche amorose e affettive molto complesse.

    Le tre ragazzine sono appassionatamente innamorate di Bálint Bíró. Tutti però sanno e danno per scontato che Irén e Bálint si amano, che sono fatti l’uno per l’altra e che si sposeranno. Ma le storie personali e i progetti individuali vengono stravolti dalle tragiche vicende di quegi anni. L’idilliaco mondo degli anni ’30 viene distrutto dalla guerra.
    La famiglia Held è ebrea: i genitori di Henriett vengono deportati e vano risulta il tentativo delle famiglie amiche di nascondere e proteggere la ragazzina. Bálint viene fatto prigioniero di guerra. Blanka, nel 1956, diventa una delatrice, un’informatrice della polizia. Nonostante la guerra, le morti, il succedersi di avvenimenti tragici l’amicizia tra i quattro giovani rimane però — pur attraversando drammatici momenti di crisi — indistruttibile.
    Le tre famiglie di Via Katalin formano come un mondo a parte e la stessa via Katalin, per coloro che, sopravvissuti, dovranno lasciarla per traslocare in un’altra zona della città, rimarrà per sempre il luogo mitico della nostalgia ed il “Paradiso Perduto” dell’infanzia felice.

    La struttura del romanzo è polifonica. Si passa infatti dalla terza persona del Narratore (sorta di voce fuori campo) alla prima persona dei vari personaggi che di volta in volta raccontano la loro versione dei fatti. Forse però il personaggio principale può essere individiduato in Irén, che cerca di interpretare gli eventi in cerca di una spiegazione al grigiore della propria esistenza.

    Budapest
    Budapest – Il Parlamento e Pest
    visti dal Bastione dei Pescatori al Castello di Buda
    (Foto Gabriella Alù)

    Via Katalin è strutturato  come una tragedia in sei atti, che prende una vera e propria dimensione teatrale dopo il prologo (bellissimo).

    Non resisto e ne cito uno  stralcio:

    “La fine della giovinezza è terribile non tanto perchè sottrae qualcosa, quanto piuttosto perchè lo apporta. E quel qualcosa non è saggezza, nè serenità, nè lucidità, nè pace. E’ la consapevolezza che il Tutto si è dissolto”

    C’è da dire che  forse  il primo approccio al    romanzo  non è semplicissimo, per un lettore occidentale.
    All’inizio c’è  infatti il rischio di perdersi con il numero dei personaggi, con i loro nomi ungheresi  poco familiari e difficili da memorizzare. Per le prime cinquanta pagine si è un poco destabilizzati. Sarebbe però un vero peccato arrendersi, perchè una volta superate queste piccole difficoltà si viene poi catturati dalla narrazione e il romanzo si legge tutto d’un fiato.

    Magda Szabó esplora con grande sensibilità la crudeltà del destino e i meandri della colpa e come la grande storia produce i suoi effetti sui bambini, diffonde i suoi veleni su generazioni diverse.

    Eppure Via Katalin non è un romanzo pessimista: la musica dell’amicizia infantile continua a risuonare come una canzone triste anche dopo meschinità e lutti, e quando il dramma si è consumato. E’ un’opera che nonostante tutto esalta l’inalterabilità dei sentimenti quando sono profondi e veri, e quelli dei quattro ragazzi lo sono.

    Categorie e giudizi storici vengono rimescolati. Chi nasconde in casa sua e cerca di salvare l’ebrea Henriett è il Maggiore Biró, un ufficiale di Horthy, perfettamente consapevole  che, facendo questo, rischia la vita.  Non tutti quelli della nuova democrazia popolare risultano  invece indenni da meschinità, ambizione, spietatezza.

    Ancora una volta dunque Magda Szabó esplora le interconnessioni tra pubblico e privato, ma questa volte c’è qualcosa di molto particolare.

    In questo romanzo non c’è grande differenza tra i morti e i vivi. Henriett, morta, circola tra i vivi.

    Magda Szabó è morta nel 2007.
    Ha scritto Bruno Ventavoli, il suo traduttore italiano, il 19 giugno su La Stampa “…chissà se Magda Szabó, dall’altro mondo, si compiace che Via Katalin, il suo «figlio più amato», esca ora in Italia. Il romanzo parla infatti di aldilà, di anime che vanno e vengono come se fossero vive. Perché lei, nonostante l’esistenza trascorsa nel socialismo reale, dove la fede era disprezzata come l’oppio, continuò a credere in Dio e nella vita eterna.”.

    Lei, d’altra parte, chiude il Prologo scrivendo:
    “Ormai sapevano che la differenza tra i morti e i vivi è solo qualitativa, non conta granchè, e sapevano anche che a ciascuno tocca un solo essere umano da invocare nell’istante della morte” (p.6)

    Magda Szabo
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    TUTTE LE MATTINE DEL MONDO – ALAIN CORNEAU (1991)

    Tutte le mattine del mondo

    Protagonista assoluta di questo forse non facilissimo ma incantevole film tratto dall'omonimo romanzo di Pascal Quignard è la musica, o per meglio dire, due diverse concezioni di quello che è o dovrebbero essere la musica e gli artisti che la interpretano e la compongono.

    I due personaggi principali sono figure storiche realmente esistite.
    Monsieur de Sainte Colombe fu un musicista francese della seconda metà del XVII secolo, fondatore e — dicono gli esperti — maestro insuperato dell'arte della viola da gamba, mentre Marin Marais, che in gioventù fu allievo di Sainte Colombe, nominato nel 1679 «joueur de viole de la musique de la Chambre» nella Musique du roi (il Re Sole) mantenne questa carica per quarantanni cumulandola con una ininterrotta carriera all'Opera.

    Jean-Pierre Marielle
    Monsieur de Sainte-Colombe (Jean-Pierre Marielle)

    La narrazione, basata su poche e incerte notizie storiche, è tutta incentrata sul difficile rapporto maestro-allievo intercorso tra Monsieur de Sainte Colombe e il giovane allievo Marin Marais destinato, a differenza del suo maestro — vissuto e morto nell'ombra — ad entrare nell'olimpo musicale francese e a conoscere la fama, la gloria e il successo alla corte di Luigi XIV.

    Gerard Depardieu
    Marin Marais (Gérard Depardieu)

    Il film si apre su Marin Marais (Gérard Depardieu) che, ormai celebre ed onorato musicista a Versailles, vuole rivelare ai suoi allievi, durante una lezione di musica, tutto ciò che lui deve al suo antico maestro. Tutto il film è un ricordo, un lungo flash back percorso da un sentimento di colpevole nostalgia. In questo lungo prologo — un piano sequenza che dura più di sette minuti — la macchina rimane fissa in un primissimo piano che ci mostra un Marais-Depardieu pieno di rughe, un po' imbolsito, triste.

    Marais racconta dunque ai suoi allievi il proprio percorso di iniziazione e l'antagonismo che ha visto opporre se stesso — giovane ambizioso e desideroso di avere successo a Corte — al vecchio e intransigente musicista Sainte Colombe.

    Sainte Colombe, severo giansenista, dopo la morte prematura della moglie, conduce una vita austera di assoluto ritiro nella sua casa di campagna, totalmente dedito alla musica e alla meditazione, assieme alle due giovani figlie Madeleine e Toinette, cui concede come unico centro di attenzione l'educazione nell'arte della viola.

    Tutte le mattine del mondo
    Madeleine (Anne Brochet)

    Tutte le mattine del mondo
    Toinette (Carole Richert)

    In giardino si è fatto costruire anche un piccolo capanno di legno nel quale si rinchiude per suonare in totale solitudine rievocando l'amatissima moglie. La sua è la ricerca della perfezione assoluta nella sua arte.

    Un paio di volte l'anno, Sainte Colombe e le figlie danno concerti da camera la cui fama arriva sino a Corte. Ad uno di questi assistono alcuni cortigiani di Versailles.

    Tutte le mattine del mondo

    Sainte Colombe riceve pressanti richieste di andare a Corte per esibirsi esclusivamente per il Re. Luigi XIV ha sentito parlare di lui e lo vuole a Versailles.
    La risposta di Sainte Colombe? Caccia in malo modo il messaggero del Re scaraventandolo giù per le scale… "La mia vita sono la musica e le mie figlie, i ricordi i miei soli amici".

    Tutte le mattine del mondo

    "Fu allora che un giovanotto di diciassette anni bussò alla sua porta. Ero io" dice Marais ai suoi allievi.
    E' infatti a questo punto della storia che entra in scena il giovane Marais (interpretato da Guillaume Depardieu, figlio di Gérard), attratto dalla fama di insuperato maestro di Sainte Colombe.

    Guillaume Depardieu

    Per la verità il giovane faceva il cantante, ma ora ha perso la voce e sapendo suonare un po' la viola vorrebbe prendere lezioni dal Maestro per potere fare carriera, possibilmente a Versailles (e questo già indispone Sainte Colombe).

    La prima audizione non ha successo "Ho sentito lo strumento. Ma non ho sentito musica" taglia corto Sainte Colombe. Marais riesce comunque a vincere la scontrosità di Sainte Colombe e a farsi accettare come allievo, anche grazie all'intercessione di Madeleine, la figlia maggiore.

    Guillaume Depardieu

    Tutte le mattine del mondo

    Cominciano le lezioni. Come strumentista sembra che Marais non vada poi tanto male, ma il problema è, per Sainte Colombe, che secondo lui "non è musicale". "Lo strumento non è la musica" non fa che ripetergli stizzito e tutte le domande che Marais gli rivolge per conoscere il suo pensiero sull'essenza della musica ricevono risposte sprezzanti o ermetiche. O indirette. Marais deve arrivarci da solo, a capire che cos'è la musica.
    Una sera il Maestro lo conduce con se nello studio del pittore Baugin, di cui conserva religiosamente un quadro che rappresenta una natura morta.

    Nel suo capanno, isolato dal mondo, Sainte Colombe suona una sua composizione, Les Pleurs ("Le lacrime"), il brano che quando eseguito con profonda verità ed emozione gli consente di reincontrare la moglie, udirne il respiro, e assaporare con lei ancora, come un tempo, cialde e vino rosso. Come quelle del quadro.

    Tutte le mattine del mondo

    Guardando Baugin dipingere Sainte Colombe dice a Marais (che non capisce): "il suo pennello è come l'archetto della mia viola" e poi, rivolgendosi a Baugin: "il segreto della nostra arte è la sorpresa". Niente da fare, Marais continua a non capire. Lui in fondo lo strumento lo sa suonare, che cosa si vuole ancora da lui?

    Tutte le mattine del mondo
    Lubin Baugin (Michel Bouquet)

    Tutte le mattine del mondo

    E così, convinto di essersi già sufficientemente formato, Marais accetta un incarico a corte, scatenando le ire del maestro, che lo scaccia. Marais continua però di nascosto a frequentare la casa del maestro, per incontrarsi con la figlia maggiore, divenuta nel frattempo la sua amante; questa lo conduce in segreto sotto il capanno nel bosco in cui il padre si ritira per comporre e suonare perchè il giovane vuole scoprire a tutti i costi il segreto della sua grandezza. Madeleine fa ancora di più: gli dà lei stessa lezioni e gli trasmette tutti i segreti tecnici e compositivi che il padre le ha trasmesso.
    Tornato dopo qualche tempo a trovare Sainte Colombe (che ignora quel che Madeleine ha fatto per il giovane), viene accolto piuttosto bene e tutto sommato il maestro sembra accettare l'unione di Marais con Madeleine.

    Tutte le mattine del mondo

    Dopo breve tempo però, in modo crudo e improvviso, il giovane Marais abbandona Madeleine per inseguire la sua carriera brillante, lasciandola incinta. La ragazza entra allora in una lenta e progressiva spirale di depressione e abbandono che la porta a perdere il figlio.
    Marais intanto è ormai ricco e famoso, è il primo musicista di corte del Re Sole.

    Gerard Depardieu
    Marin Marais a Versailles dirige la Marche pour la cérémonie des Turcs di Jean Baptiste Lully

    Tutte le mattine del mondo

    Si è sposato con un'altra donna, non vede Madeleine da tanto tempo ma questa, ormai gravemente ammalata e in punto di morte chiede di rivedere per un'ultima volta il suo antico amore. Il suo ultimo desiderio, prima di morire, è che lui suoni un brano che aveva composto per lei.

    Gerard Depardieu e Anne Brochet

    Segnato da questo incontro, che gli fa capire che "Tous les matins du monde sont sans retour" ("Tutte le mattine del mondo sono senza ritorno"), ormai nella sua piena maturità artistica, Marais, dopo lunghi anni di fama e successo, si renderà conto della vacuità della esperienza artistica di corte, e ritornerà dall'antico maestro per pregarlo di dargli un'ultima lezione, quella che riguarda il segreto reale e più profondo della sapienza arcana di Sainte Colombe.

    E Sainte Colombe, finalmente, parla.

    Tutte le mattine del mondo

    Tutte le mattine del mondo è tante cose. E' un film su un percorso di iniziazione tra due persone che intendono la musica in maniera opposta: l'adolescente ha perso la voce e vede nella viola un sostituto della voce umana e soprattutto un modo per soddisfare le sue ambizioni mondane. Sainte Colombe cerca nella musica una consolazione, il rimedio per un ferita (la morte della moglie) e vuole perfezionare la propria arte all'ombra del potere ufficiale. Lubin Baugin, il pittore giansenista è un artista che, come lui, condivide questa filosofia dell' Arte e questa scelta di vita. Tra l'altro, e detto per inciso, anche Lubin Baugin è una figura storica realmente esistita ed il quadro che Sainte Colombe conserva religiosamente nella sua stanza esiste davvero e si trova a Parigi, al Musée du Louvre. E' intitolato "Le dessert de gaufrettes" e lo si può vedere >>qui

    Il contrasto tra Marais e Sainte Colombe è sottolineato anche visivamente dal loro modo di vestirsi: rosso fuoco il giovane Marais, sempre vestito di nero l'austero Sainte Colombe.

    Sainte Colombe simboleggia il valore dell'arte nella sua forma pura, del tutto libera e svincolata da obiettivi mondani e, per ciò stesso, possibile solo nell'ombra e nel rifiuto del mondo. Marin Marais rappresenta, invece, il talento artistico che, quando si lascia sedurre dal successo e dalla mondanità finisce per disperdersi.

    L'incontro-scontro tra i due personaggi rappresenta lo scarto tra generazioni, tra un'arte del XVII secolo rivolta al passato e che non ammette una musica che annuncia il futuro, una pratica artistica amatoriale ed una pratica artistica più finalizzata alla carriera. Infine: creare per se o per il pubblico?

    Non è un caso che nel film ci siano pochissimi dialoghi. Quasi tutto è affidato al lungo monologo di Marais-Depardieu che detta il ritmo ed il tempo delle immagini e delle sequenze. La voce, in qualche modo, precede le immagini.

    Ho potuto vedere il film in originale, e sempre più mi convinco che, almeno per un certo tipo di film, bisogna rinunciare alla comodità del doppiaggio, magari faticare un po' ma ascoltare le voci originali degli attori, magari aitutandosi, se è il caso, con sottotitoli. In questo film, la voce di Depardieu (aspra, limpida, commovente nell'apparente pacatezza di tono, priva di qualsiasi nota melodrammatica) è fondamentale.

    L'altra arte che scandisce la narrazione è ovviamente la musica. Quasi tutte le scene hanno un rapporto con la musica, in quasi tutte viene suonata musica, in quasi tutte si parla di musica. Tutti i personaggi principali sanno suonare e ce lo fanno sentire. Nella scena della morte di Madeleine, la musica suonata da Marais tiene il posto delle parole. Perchè forse il segreto della musica è proprio questo: riesce a dire cose che le parole non riescono ad esprimere.

    Il regista Alain Corneau si è rivolto, per la parte musicale, a Jordi Savall.

    Jordi Savall, catalano, è attualmente il più famoso suonatore di viola e una delle maggiori personalità tra gli esperti  della musica antica. In stretta collaborazione con Quignard e Corneau ha scelto nel repertorio barocco i brani musicali del film ed ha riesumato per l'occasione alcuni pezzi rari scritti da Sainte Colombe, fino ad oggi compositore molto poco conosciuto.

    Jordi Savall
    Jordi Savall

    Tous les matins du monde (Francia,1991), Regia : Alain Corneau, Sceneggiatura : Alain Corneau e  Pascal Quignard dal romanzo di quest'ultimo, Dialoghi : Pascal Quignard.

    Musiche: Marin Marais (Improvisation sur les folies d'Espagne, L'Arabesque, Le Badinage, La Rêveuse, La Sonnerie de Sainte-Geneviève du Mont de Paris) ; Sainte Colombe (Les Pleurs, Gavone du Tendre, Le Retour) ; Jean-Baptiste Lully (Marche pour la cérémonie des Turcs) ; François Couperin (Leçons de ténèbres : Troisième leçon) ; Jordi Savall (Prélude pour Monsieur Vauquelin, Une jeune fillette, Fantaisie en mi mineur), musiche dirette ed interpretate da Jordi Savall

    Interpreti e personaggi: Jean-Pierre Marielle (Monsieur de Sainte-Colombe), Gérard Depardieu (Marin Marais), Guillaume Depardieu (Marin Marais da giovane), Anne Brochet (Madeleine), Carole Richert (Toinette), Caroline Sihol (Madame de Sainte-Colombe), Michel Bouquet (Lubin Baugin), Jean-Claude Dreyfus (Abate Mathieu), Myriam Boyer (Guignotte), Jean-Marie Poirier : Monsieur de Bures
    Direttore della fotografia : Yves Angelo, Scene : Bernard Vézat, Costumi: Corinne Jorry, Montaggio : Marie-Josèphe Yoyotte, Consigliere musicale: Jean-Louis Charbonnier, Produttore: Jean-Louis Livi Produzione : Film Par Film, France ; Dival Films, France ; DD Productions, France et Sédif Productions, France

    UNA BELLEZZA RUSSA ED ALTRI RACCONTI – VLADIMIR NABOKOV

    Nabokov Una bellezza russa
    Vladimir NABOKOV, Una bellezza russa ed altri racconti, traduz. di Dmitri Nabokov, Franca Pece, Anna Raffetto e Ugo Tessitore – A cura di Dmitri Nabokov, p. 832, Adelphi, EAN13 9788845922152

    In un post o in un commento dei giorni scorsi ho utilizzato, per questo volumone Adelphi, l’aggettivo “sontuoso”. A lettura terminata, confermo la mia impressione e ne aggiungo un altro, di aggettivo: “magnifico”.

    In questo volume sono raccolti cinquantacinque racconti scritti a partire dal 1921, presentati in rigoroso ordine cronologico. Sono in buona parte scritti in russo per lo più nel periodo dell’esilio a Berlino e Parigi tra il 1921 e il 1940, poi tradotti in inglese e che Nabokov pubblicò in quattro raccolte tra il 1958 e il 1976. Sono tutti i suoi racconti, esclusi i tredici già pubblicati nella raccolta La veneziana e The Enchanter che — ho letto — sarà pubblicato sempre da Adelphi che sta proseguendo nella meritoria impresa di pubblicare tutte le opere di Nabokov. C’è pure un racconto finora inedito (Natasha).

    Il curatore del volume è Dmitri Nabokov, suo figlio, che oltre ad una utilissima prefazione ha arricchito la raccolta con note, commenti e ricordi suoi e di suo padre.
    Le traduzioni sono dello stesso Dmitri, di Franca Pece, Anna Raffetto e Ugo Tessitore.

    La lettura di questi racconti mi conferma sempre più la grandezza e la raffinatezza di scrittura di Nabokov e mi stimola a continuare nell’approfondire la conoscenza di questo che è ormai entrato decisamente a far parte del mio personale Pantheon dei Grandi Scrittori.

    C’è di tutto, in queste storie. Le sue grandi passioni, come il colore blu, le farfalle, il gioco degli scacchi. Detto per inciso: da notare che la copertina del volume Adelphi è blu e che la farfalla è — ci informa il risvolto di copertina — la Glaucopsyche ligdamus catturata da Nabokov nel Wyoming nel 1952: quando si dice raffinatezze editoriali! L’ordinamento cronologico consente, come scrive Dmitri nella prefazione, di seguire nel tempo l’evoluzione della scrittura di Nabokov ed i temi da lui privilegiati, che sono tanti e molto diversi. Ci sono racconti che, semplificando, potrei definire “fantastici”, altri — quelli che rievocano gli anni dell’infanzia in Russia — dal tono elegiaco e nostalgico. Ci sono racconti in cui l’ironia, il senso del grottesco di Nabokov si scatenano con quello stile corrosivo e fulminante che tanto mi aveva estasiata in Intransigenze. C’è tutto il mondo dell’emigrazione, quel popolo di émigré costituito da borghesi e nobili fuggiti dalla Rivoluzione d’Ottobre e stabilitisi a Berlino e Parigi dove, essendosi lasciati alle spalle benessere e privilegi, vivono spaesati cercando di inventarsi una nuova vita, nuove appartenenze, cercando di vivere e sopravvivere re-inventandosi in vari mestieri. Qualcuno tenta anche di percorrere la strada della scrittura.

    Lo scenario che fa da sfondo alla maggior parte delle storie è Berlino, una Berlino splendidamente descritta come una città umida, piovosa, piena di pozzanghere ed in cui “l’ombra grottesca e feroce di Hitler stava calando sulla Germania”, come scrive Nabokov nella nota a proposito del racconto Il Leonardo ed in cui si muovono i personaggi con le loro delusioni, le loro sconfitte, i loro amori.

    C’è anche Parigi, in questi racconti, ma soprattutto Pietroburgo è l’altra città maggiormente presente in questi testi. La città in cui molti dei personaggi conducevano la loro vita precedente, spensierata e ricca. Ci sono parecchi racconti in cui Nabokov rievoca, attraverso personaggi che quasi sempre sono bambini alle soglie dell’adolescenza un’infanzia circondata da vasti giardini, bei mobili, palazzi sontuosi in cui risuona musica da camera o strade percorse da slitte il cui arrivo è preannunciato dal tinnire dei campanelli. Pietroburgo e Berlino, Russia ed Europa, patria ed infanzia perduta e costruzione di una nuova vita ricorrono in tutta questa raccolta di racconti.

    E poi ci sono i treni.

    Chi ha letto le Lezioni di letteratura tenute di Nabokov alla Cornwell University conosce il celebre inizio della lezione in cui, accingendosi ad analizzare Anna Karenina, Nabokov spiega ai suoi studenti che, per capire sul serio questo romanzo, bisognava conoscere l’esatta disposizione delle cuccette del treno Mosca-Pietroburgo. Molti dei racconti di Nabokov si svolgono in treno. I treni sono importanti in letteratura: in essi può avvenire ogni tipo di incontro ma con il treno ci si può anche allontanare per sempre o perdere irrimediabilmente la persona amata. Per scelta o per fatalità (come avviene nel bellissimo racconto In balìa del caso). Il treno è anche il non-luogo dell’emigrante, di colui che non appartiene più e non appartiene ancora.

    Ma, come scrive lo stesso Dmitri nella prefazione “Ci vorrebbe molto più […] per delineare i temi, le procedure narrative, le immagini ricorrenti che in questi racconti si intrecciano con gli echi della giovinezza di Nabokov in Russia, dei suoi anni universitari in Inghilterra, del periodo émigré in Germania e in Francia e il soggiorno in America, paese che — come ebbe a dire — egli stava inventando, dopo avere inventato l’Europa”

    Parecchi racconti sono corredati da note dello stesso Nabokov che troviamo alla fine del volume e che consiglio assolutamente di non sottovalutare o addirittura ignorare. Molte di queste note rivestono, è vero, un interesse squisitamente filologico: Nabokov — sto imparando a conoscerlo — era di una precisione e pignoleria estrema. L’esatto contrario dell’artista inteso come “genio e sregolatezza”. Molte altre sono informazioni molto utili per connettere il testo del racconto ad alcune sue opere di narrativa (come nel caso del racconto Il cerchio, frammento di quello che sarà poi il romanzo Il Dono); altre ancora sono invece osservazioni fulminanti, vere e proprie perle.

    Come ad esempio queste due che ho scelto di proporvi:

    Dalla nota al racconto Favola:  “non [lo] rileggevo dal 1930, e ora, lavorando sulla traduzione, ho trasalito stranamente incontrando un Humbert un po’ decrepito [Humbert è, per chi ancora non lo sapesse, il protagonista maschile del romanzo Lolita N.d.R.] ma inconfondibile che scortava la sua ninfetta nella storia scritta quasi mezzo secolo fa”.

    Dalla nota al racconto Terrore:   “Precedette di almeno una dozzina d’anni La Nausée di Sartre, con cui condivide certe sfumature di pensiero, ma nessuno dei difetti fatali di quel romanzo”

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    PARC DES BUTTES CHAUMONT

    Che una delle mie passioni parigine siano i parchi, questo ormai dovrebbe esser ben noto, ai miei Happy Few.

    Questo piccolo video si riferisce ad una bella domenica mattina trascorsa al Parc des Buttes Chaumont (>>QUI su Google Maps), uno dei più bei parchi voluti da Napoleone III,  cui piacevano  molto i giardini "all’inglese". "Chaumont" deriva dalla  contrazione di due parole: "mont" e"chauve".

    Il parco venne infatti  fatto realizzare dal Barone Haussman al posto di vecchie cave di gesso i cui dintorni erano, al tempo, molto mal frequentate e di una discarica. E’ un parco  grande ma soprattutto molto scenografico: ci sono cascate che vogliono imitare quelle di Tivoli, una finta grotta, un tempietto che sovrasta l’isola del laghetto…Un paesaggio  romantico con tanti spazi per utilizzi diversi: giochi di bambini, gente che fa ginnastica, viali per fare jogging, tranquilli angoli per leggere o semplicemente stare sdraiati sui prati in una bella giornata di sole. E naturalmente, come vedrete,  farsi fotografare il giorno delle nozze!

    IL CAMMINO DELLA SPERANZA – PIETRO GERMI (1950)

    Il cammino della speranza

    Si tratta di un film di più di cinquant’anni fa ma che, rivisto oggi, ci ricorda che anche gli italiani sono stati emigranti, e che quello che compiono oggi i disgraziati che arrivano in Italia con mezzi di fortuna (e di sfortuna), affidandosi a scafisti o mediatori cui consegnano tutti i loro averi è un altro “cammino della speranza” che troppo spesso si trasforma in un cammino di di-sperazione.

    Il film racconta delle disgrazie e della povertà di un gruppo di minatori siciliani di una zolfara di Favara (provincia di Agrigento), del loro tragico esodo verso la Francia e rispecchia drammaticamente la realtà di molte famiglie dell’entroterra siciliano nell’immediato dopoguerra.

    Questo film non è certo un capolavoro — va detto subito — ed ha molti difetti che risultano difficilmente perdonabili considerando che a firmare sceneggiatura e soggetto ci sono lo stesso Germi e nomi come Federico Fellini e Tullio Pinelli. Ma possiede anche una grande potenza espressiva e — specialmente all’inizio — alcune sequenze memorabili.
    E poi. Questo film, che da quel che so, nelle intenzioni di Germi avrebbe dovuto intitolarsi Terroni serve per ricordare a tutti noi — e in questo momento penso soprattutto ai siciliani — che c’è sempre qualcuno più “a sud” di altri, o che deve soffrire per ottenere un posto dignitoso a questo mondo. E che fino a non molti anni fa, gli italiani (e i siciliani) erano tra questi.
    Sarebbe bene non dimenticarcelo mai.

    Il cammino della speranza
    Le donne del paese aspettano i loro uomini durante l’occupazione della zolfara

    La chiusura di una zolfara lascia senza lavoro tutti i minatori del piccolo paese. Il film inizia con le potentissime scene della lotta dei minatori che, disperati, occupano la miniera. Tra di loro c’è anche Saro Cammarata (Raf Vallone).

    Raf Vallone
    Saro Cammarata (Raf Vallone)

    Ma tutto questo non serve a nulla. I minatori devono arrendersi. La miniera chiude gettando sul lastrico intere famiglie.

    Il cammino della speranza
    L’occupazione della miniera
    Il cammino della speranza
    Donne e bambini all’ingresso della miniera

    Ma ecco che in paese arriva un tale, un certo Ciccio Ingaggiatore (Saro Urzì) che li esorta a partire, ad andare in Francia, dove il lavoro c’è per tutti — uomini, donne e bambini —, è ben pagato e dove volendo potranno anche diventare benestanti. La sua descrizione delle meraviglie che troveranno in Francia è come il Paese di Bengodi.

    Saro Urzì
    Ciccio Ingaggiatore (Saro Urzì)

    La disperazione in paese è tale da indurre molti ad ascoltare la proposta di Ingaggiatore che promette – ovviamente dietro adeguato compenso – di farli emigrare clandestinamente. Certo, la paura è grande, sanno che dovranno nascondersi come delinquenti perchè saranno emigranti clandestini; c’è poi la paura dell’ignoto perchè nessuno prima di allora si è spinto fuori dal loro paese Favara. Per tutti l’Italia oltre lo stretto di Messina è il misterioso “continente” e la Calabria è già “l’estero”.

    Ma sentono di non avere alternative. E così, per poter racimolare i soldi richiesti da Ingaggiatore vendono tutte le loro povere cose, i mobili, i corredi di nozze, tutto. Si privano dei pochi, sacrificati risparmi e li consegnano a Ciccio, pronti a partire verso il nord con le famiglie.

    Raf Vallone

    ” Tutto sarà meglio di quello che abbiamo adesso” dice Saro, dando voce al pensiero di tutti.
    Prima in corriera e poi in treno comincia così il lungo e fortunoso viaggio del gruppo attraverso l’Italia.

    Il cammino della speranza

    Tra gli emigranti ci sono Saro che, vedovo, parte con i suoi tre bambini che non sa a chi lasciare e Barbara (Elena Varzi), legata al pregiudicato Vanni, il quale all’ultimo momento si unisce al gruppo. C’è anche un vecchio ragioniere (Saro Arcidiacono) con il suo cagnolino (“sono solo, che cosa ci faccio qui se tutti voi partite?”). Lavorava negli uffici della miniera. La sua chiusura ha rovinato anche lui.

    Il cammino della speranza
    Rosa (Liliana Lattanzi) e Luca (Giuseppe Priolo)

    Ci sono Rosa (Liliana Lattanzi) e Luca (Giuseppe Priolo), giovani fidanzati che si sposano la sera prima di partire e trascorrono in treno la loro prima notte di nozze (“Me la immaginavo diversa, la nostra prima notte” dice amaramente Luca alla sua giovane moglie). Ci sono vecchi, donne anziane e bambini.

    Il cammino della speranza

    Durante una lunga sosta alla Stazione Termini di Roma Ingaggiatore si rivela per quello che è: un imbroglione che cerca di fuggire lasciando i poveri disoccupati in balia di se stessi, ma viene fermato da Vanni (Franco Navarro), il violento del gruppo. Ingaggiatore però riesce egualmente a sparire e gli emigranti, scoperti dalla polizia, vengono rispediti al loro paese in Sicilia con un foglio di via obbligatorio. La loro disperazione però è tale — hanno venduto tutto, non hanno più nulla e nulla ormai hanno da perdere che — Saro il primo — decidono di sfidare la legge e di continuare con ogni mezzo di fortuna il viaggio verso la Francia.

    In Emilia vengono ingaggiati per il raccolto in una masseria. Il fattore è gentile con loro, la paga promessa è buona. Per la prima volta da quando sono partiti dalla Sicilia si sentono bene accolti, possono lavorare, far qualche soldo per poter continuare il viaggio per la Francia.

    Non sanno però che è in corso uno sciopero generale, che il fattore ha assunto loro al posto degli scioperanti e quando i braccianti del luogo vengono a saperlo li aggrediscono urlando “crumiri!” e quando Saro cerca di spiegare che loro non sapevano nulla, che sono “forestieri”,   zolfatari che vengono dalla Sicilia la gente li apostrofa con ancora maggiore veemenza

    Il cammino della speranza

    “Zolfatari, capite? In Sicilia, li vanno a prendere! Tornate al vostro paese! Tornatevene da dove siete venuti, andate in Sicilia!”

    La situazione precipita, c’è un vero e proprio scontro che nemmeno la polizia riesce a sedare. Michelina, la figlia di Saro viene ferita alla testa da un sasso.

    Insomma, uno degli innumerevoli esempi di guerra tra poveri.

    Il cammino della speranza

    Costretti a partire dal precipitare degli eventi, si allontanano lasciando Saro con la figlia inferma e con Barbara. Dopo una serie di traversie, il gruppo riesce a ricomporsi alla frontiera, dove però giunge anche Vanni che, geloso del legame nato tra Barbara e Saro, affronta il rivale in un duello rusticano sulla neve.

    Il cammino della speranza
    Il cammino della speranza

    Scampati ad una terribile tempesta di neve gli emigranti riescono a superare la frontiera. Sono stremati, ma adesso la giornata è bellissima e il sole splende. E soprattutto… sono in Francia! Finalmente!

    Qui però vengono fermati dai finanzieri francesi e dagli Alpini italiani.

    Il cammino della speranza

    In una lunga scena in cui tutti sono immobili ed in silenzio finanzieri ed emigranti si fronteggiano, ben consapevoli che da quel momento dipende il futuro di quegli uomini, donne, bambini e il vanificarsi di tutti i sacrifici, di tutte le sofferenze sopportate per arrivare fin lì.

    Elena Varzi Raf Vallone
    Barbara (Elena Varzi) e Saro (Raf Vallone)

    E sono proprio i bambini, con la loro presenza ed i loro sguardi a determinare la svolta.

    Il cammino della speranza
    Elena Varzi

    Il francese chiede: “da dove venite?” e quando Saro risponde “dalla Sicilia” il finanziere guarda di nuovo i bambini, sta ancora un attimo in silenzio e poi si rivolge ai suoi dicendo: “Allons…”. Guardie francesi ed Alpini italiani se ne vanno scivolando via veloci sugli sci.

    Il cammino della speranza

    La scena finale tra la neve è davvero bella e gestita con grande abilità da Germi, nonostante il molto poco credibile comportamento delle guardie di confine. Poi purtroppo però Germi rovina tutto con l’inserimento di una voce fuori campo (la sua) sull’inquadratura finale dei personaggi che scendono verso il fondovalle perchè fa precipitare la conclusione in una intollerabile melassa moralistica. Questo “pistolotto” finale inserito da Germi nonostante il parere contrario di Fellini e Pinelli è un vero scivolone in una retorica che nel resto del film, invece, non è presente:

    Lungo i confini troverete sempre i soldati, soldati dell’una e dell’altra parte, con diverse uniformi e diverso linguaggio, ma quassù, dove la solitudine è grande, gli uomini sono meno soli e certamente più vicini che nelle vie e nei caffè delle nostre città dove la gente si urta e si mescola senza guardarsi in faccia… Perché i confini sono tracciati sulle carte, ma sulla terra come Dio la fece, per quanto si percorrano i mari, per quanto si cerchi e si frughi lungo il corso dei fiumi e lungo il crinale delle montagne, non ci sono confini, su questa terra.

    Orso d’argento a Berlino, Il cammino della speranza, odissea di un gruppo di disperati e dramma dell’emigrazione viene un anno dopo In nome della legge che era una storia di mafia e inizia da una miniera chiusa, da una presa di coscienza che induce ad abbandonare la terra natale per cercare di realizzare altrove il diritto al lavoro e alla dignità. Le note malinconiche di Vitti ‘na crozza, che si ascoltano già mentre scorrono i titoli di testa e, suonate alla chitarra e cantate da uno degli emigranti in vari momenti della storia danno al film un tono di ballata popolare, di un racconto di conta-storie. C’è chi ha definito, tutto questo, neorealismo epico ed io sono abbastanza d’accordo.

    Gli zolfatari tentano la dolorosa via dell’emigrazione perchè viene meno la speranza nella lotta (la chiusura della miniera nonostante tutti i giorni di occupazione) e perchè non vedono una possibilità di riscatto sociale attraverso l’impegno politico: Ciccio Ingaggiatore convince i minatori disoccupati a lasciare la propria terra mentre nella piazza del paese si svolge un comizio politico in cui l’oratore parla di fronte a poche persone perplesse. Miseria e rassegnazione, dunque, sono alla base della sofferta e disperata decisione.

    Nel film ci sono molti elementi che ricordano la coralità della narrativa di Verga, per esempio il senso del fato incombente; il personaggio della donna perduta compagna del bandito, il duello rusticano tra Saro e Vanni sono motivi ricorrenti del repertorio dei conta-storie e della tradizione folcloristica così come le canzoni dialettali che gli emigranti cantano in treno e i balli collettivi sull’aia della masseria.

    C’è un gusto figurativo di grande cura formale ed una fotografia magnifica soprattutto nella prima parte, nelle sequenze dell’occupazione della miniera e dei preparativi del viaggio.
    Tutti i personaggi del gruppo di emigranti sono benissimo caratterizzati, hanno una loro precisa personalità, non hanno nulla di macchiettistico (pericolo in questi casi sempre in agguato) e i due protagonisti Elena Varzi ma soprattutto Raf Vallone perfettamente in ruolo.

    Certo, tra le cose poco credibili del film c’è sicuramente il fatto che un minatore siciliano semianalfabeta come Saro si esprime sempre in un italiano perfetto e con una dizione impeccabile e questo fa un po’ sorridere. Ma a Raf Vallone, attore che pur non essendo grandissimo ho sempre apprezzato molto glielo perdono, suvvia.
    Per quanto mi riguarda trovo Il cammino della speranza un film eccellente nella prima metà (diciamo fino all’arrivo del treno alla Stazione Termini) e molto discontinuo nella seconda parte ma nonostante tutto è un film che riesce ad emozionarmi sempre anche nelle sue parti meno riuscite.

    Raf Vallone


    Il cammino della speranza, 1950, Regia di Pietro Germi, Soggetto Federico Fellini, Pietro Germi, Tullio Pinelli ispirato al romanzo di Nino di Maria “Cuori negli abissi”, Sceneggiatura Federico Fellini e Tullio Pinelli
    Con Raf Vallone (Saro Cammarata), Elena Varzi (Barbara Spadaro), Saro Urzì (Ciccio Ingaggiatore), Saro Arcidiacono (il ragioniere), Liliana Lattanzi (Rosa), Franco Navarra (Vanni), Mirella Ciotti (Lorenza), Paolo Reale (Brasi), Giuseppe Priolo (Luca) Fotografia Leonida Barboni e Salvatore d’Urso, Musiche di Carlo Rustichelli dirette da Armando Previtali, Scenografia Luigi Ricci
    Produzione: Luigi Rovere per Lux Film; distribuzione: Lux; Italia, 1950, 107′.

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