RITRATTO DI UNA LADY

Billie Holiday
Billie Holiday in una delle mie foto preferite

Miles Davis la ricorda così: “Era una donna molto dolce, molto calda […] aveva un aspetto da indiana con la pelle vellutata, marrone chiaro […] Billie era una donna splendida prima che l’alcool e la droga la distruggessero. […] Ogni volta che mi capitava di incontrarla le chiedevo di cantare “I Loves you, Porgy”, perchè ogni volta che lei cantava “non lasciare che mi tocchi con le sue mani calde” potevi praticamente sentire quello che sentiva lei. Il modo in cui la cantava era magnifico e triste. Tutti quanti amavano Billie” (Miles Davis con Quincey Troupe, L’autobiografia)

Avevano cominciato a chiamarla Lady le ragazze di un locale di Harlem quando era ancora adolescente ed all’inizio della carriera; la sfottevano perchè si rifiutava di raccogliere le mance come si usava lì, e cioè alzando le sottane e afferrando con le cosce il biglietto che il cliente aveva messo sul bordo del tavolo.

Anni dopo Lester Young, il grande sassofonista cui per anni fu legata da una grande amicizia, ci aggiunse Day, e da allora Billie Holiday fu “Lady Day”

Billie Holiday e Lester Young, 1957
CBS TV Show “The Sound of Jazz”

 

“Non era affatto una lady, nè aveva mai preteso di esserlo”, scrive Arrigo Polillo nella sua storia del Jazz. Non una signora nel senso comune del termine, ma quando morì “si parlò dell’arte sua, delle sue incisioni, dell’inimitabile modo di cantare di Lady Day, una delle “grandi” del canto jazz, forse la più grande dopo Bessie Smith” (Arrigo Polillo, Jazz, Oscar Saggi Mondadori)

Billie Holiday ha conosciuto la fame, la miseria, la prostituzione, l’alcool, la droga, il carcere. Nella sua autobiografia ha scritto:

“Mi hanno detto che nessuno canta la parola “fame” e la parola “amore” come le canto io. Forse è perchè so cosa han voluto dire queste parole per me, e quanto mi sono costate […] Tutte le Cadillac e tutti i visoni di questo mondo, e io ne ho avuti un bel po’, non possono ripagarmi e nemmeno farmi dimenticare. […] Anche se certa gente pensa il contrario, un cantante non è un sassofono. Se il suono ha qualcosa che non va, non puoi andar fuori a comperarti un bocchino nuovo, e adattartelo a modino. Un cantante è soltanto voce, e la voce dipende in tutto e per tutto dal corpo che t’ha dato il Padreterno. Quando arrivi sulla scena e apri la bocca, non sai mai quello che capita.
Un mal di denti non me lo posso permettere, i nervi nemmeno: non posso vomitare, nè avere il mal di gola: non posso beccarmi l’inflenza nè il mal di stomaco. Io non devo far altro che presentarmi sulla scena ed esser carina, cantar bene e sorridere e farlo il meglio possibile.

Perchè? Perchè sono Billie Holiday e ho un passato; o come si dice da noi, perchè ho la scimmia sulle spalle”


Billie Holiday
La signora canta il blues

Universale Economica Feltrinelli, 2004

Billie Holiday con  Coleman Hawkins, Lester Young, Ben Webster, Gerry Mulligan, Vic Dickenson, Roy Eldridge.

UOMINI CHE ODIANO LE DONNE – STIEG LARSSON

Stieg Larsson
Stieg LARSSON, Uomini che odiano le donne,tit. orig. Män hatar kvinnor, traduz. Carmen Giorgetti Cima, p.676, Marsilio, Collana Farfalle/Narrativa, ISBN 9788831793322

Tranquilli, non racconto nulla della trama. Perchè questo è un libro in cui di misteri da risolvere non ce n’è solo uno ma due, e perciò sull’intreccio mi guardo bene dal rivelare alcunchè.

Di Stieg Larsson, giornalista e scrittore svedese recentemente scomparso e della sua Millennium Trilogy di cui  Uomini che odiano le donne è il primo volume si parla dappertutto e credo tutti conoscano ormai l’autore e i suoi libri. Per chi ancora non ne sapesse nulla, rimando a Wikipedia ed alle note di copertina del volume Marsilio.

I libri di Larsson hanno avuto in breve tempo un successo enorme, questo è vero. Però io mi infastidisco sempre quando mi trovo davanti la bandella che strilla “Il libro più venduto in Europa. 130.000 copie in Italia” e in copertina la classica e famigerata frase “Un caso editoriale. Un libro che vi terrà svegli fino all’alba”. Di solito, basta già una cosa del genere a farmi passare la voglia di acquistare e leggere un nuovo romanzo. Questa volta però mi sono detta “e vabbè, proviamo”. Perchè?   Forse perchè incuriosita e attratta dalle note biografiche sull’autore? Perchè avevo voglia di leggere un romanzo coinvolgente? Il titolo ahimè sin troppo intrigante? Perchè avevo bisogno di qualcosa che mi tenesse lontana dal rituffarmi immediatamente in Nabokov (di cui ho tre Adelphi che mi guardano seduttivi dal tavolino accanto al mio divano)? Chissà. Forse tutte queste cose insieme. Insomma il mio naso mi ha suggerito di comprarlo e non me ne sono pentita. Letto in tre giorni e con gran soddisfazione.

E’ un ottimo giallo, avvincente, con qualche ridondanza qua e là, è vero, ma ridondanze che nel complesso non mi hanno disturbata più di tanto. Forse qualche bella sforbiciata avrebbe giovato, ma tutto sommato nulla di grave. Alcuni hanno lamentato che nelle prime duecento pagine “non succede praticamente niente” e che il libro decolla solo verso metà. Non so. A me non ha fatto quest’effetto. Forse perchè sono abituata ai ritmi lenti, in narrativa, e non ho la frenesia di “arrivare subito al sodo”. Nemmeno quando si tratta di gialli.

La storia è costruita bene, la saga della numerosissima e a dir poco problematicissima famiglia Vangen si regge anche se Larsson s’è lasciato forse prender troppo la mano. Vabbè “parenti serpenti” e famiglia=nido di vipere, ma qui si esagera un pochettino, a mio parere. Ma la lettura scorreva bene, e siccome quando ho cominciato a leggerlo non pensavo certo che sarebbe stato questo il libro che mi avrebbe cambiato la vita le mie aspettative di qualche ora di piacevole ed avvincente lettura non sono state deluse e mi ritengo soddisfatta al punto che ho già in programma di acquistare e leggere il secondo volume della trilogia. Senza fretta, però.

Come giallo, dicevo, è molto buono, ma tutto sommato ne ho letti parecchi altri di questo livello. Forse anche migliori. In realtà, quello che mi ha catturata, di questo libro (e la ragione principale per cui ho intenzione di proseguire nella lettura della Trilogia) è stato un personaggio femminile. Si chiama Lisbeth Salander ed è un personaggio che per me è valso da solo i soldi e il tempo spesi.

Lisbeth Salander è una freak, squatter-hacker geniale ma dalla personalità disturbata. Si accenna di sfuggita alla “sindrome di Asperger” di cui io francamente ignoravo tutto, tant’è che per capirci qualcosa ho dovuto farmi un giretto su Google.

Ecco come Larsson ci presenta Lisbeth la prima volta, attraverso gli occhi di un suo datore di lavoro: “…una ragazza pallida, di una magrezza da anoressica, con i capelli cortissimi e il piercing a naso e sopracciglia. Sul collo aveva tatuata una vespa lunga due centimetri e intorno al bicipite del braccio sinistro una serpentina […] un grande tatuaggio raffigurante un drago sulla schiena […] capelli rossi, ma li tingeva di un nero corvino. Sembrava sempre che si fosse appena svegliata dopo un’orgia durata una settimana in compagnia di un gruppo hard rock […] aveva ventiquattro anni ma pareva un’adolescente”

Lisbeth è alta non più di un metro e cinquanta, pesa poco più di quaranta chili, sembra uno spaventapasseri punk: tatuata, sociopatica, irascibile, arrabbiata, apparentemente ritardata, con un passato davvero difficile e un presente che non promette niente di buono. Tutto indica in lei la vittima ideale: una donna socialmente vulnerabile, una facile preda.

In realtà scopriamo subito che questa venticinquenne che sembra una quattordicenne anoressica (ma che anoressica non è affatto) ha un’intelligenza formidabile, una memoria fotografica micidiale, è la migliore hacker della Svezia e una delle migliori al mondo, una che reagisce combattendo con tutte le armi a sua disposizione contro chi commette dei soprusi su di lei o su altre donne.

Perchè Lisbeth odia gli uomini che odiano le donne. Su questo fronte non è disponibile a compromessi o mediazioni, non ammette attenuanti di alcun tipo, perché secondo lei “Non esistono innocenti, esistono solo gradi diversi di responsabilità” e “tutti hanno la possibilità di scegliere, e nessuno può scaricarsi di dosso le proprie responsabilità”.

Stieg Larsson ha dato vita ad uno dei personaggi femminili più interessanti che mi è capitato di incontrare negli ultimi tempi nella letteratura contemporanea . Si, lo so, non posso considerarmi un’esperta di questo filone, ma insomma qualcosa di moderno ho letto pure io, eh. Una donna che combatte, non perdona, non dimentica, e non chiude gli occhi. Si, certo, spesso Lisbeth (che si rifiuta — ed ha i suoi bravi motivi —  di rivolgersi a qualunque forma di Autorità costituita per raddrizzare torti e che la giustizia preferisce farsela da sola) ha spesso metodi che definire poco ortodossi sarebbe un eufemismo ma che vi devo dire? Nel gioco delle identificazioni-proiezioni che la lettura di ogni romanzo inevitabilmente fa scattare, io mi sono ritrovata quasi sempre a parteggiare per lei.

In confronto a Lisbeth, lo stesso protagonista maschile, il giornalista Mikael Blonkvist ed altre figure femminili del romanzo risultano inevitabilmente piuttosto sbiadite.

Ho letto in rete che in Svezia sono già cominciate le riprese del film tratto da questo romanzo. Interpreti Noomi Norén (Lisbeth Salander) e Michael Nyqvist (Mikael Blonkvist)

Nyqvist e Norén
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SANDOR MARAI E LA VECCHIAIA

Sandor Marai

Da Climacus, in un commento al mio post La vecchia di Baudelaire

Sulla vecchiaia ricordo un passo di Sándor Márai (morto suicida a 89 anni) da “Le braci” (1942)

“Si invecchia un poco alla volta: in un primo momento si attenua la voglia di vivere e vedere i nostri simili. A poco a poco prevale il senso della realtà, ti si chiarisce il significato delle cose, ti sembra che gli eventi si ripetano in maniera monotona e fastidiosa. Anche questo è un segno di vecchiaia. Quando ormai ti rendi conto che un bicchiere non è altro che un bicchiere e che gli uomini, qualunque cosa facciano, non sono altro che creature mortali. Poi invecchia il tuo corpo; non tutto in una volta, certo, invecchiano prima gli occhi, oppure le gambe, lo stomaco, il cuore. Si invecchia così, un pezzo dopo l’altro. Poi a un tratto invecchia la tua anima: anche se il corpo è effimero e mortale, l’anima è ancora mossa da desideri e ricordi, cerca ancora la gioia. E quando scompare anche questo anelito alla gioia, restano solo i ricordi e la vanità di tutte le cose; a questo stadio si è irrimediabilmente vecchi. Un giorno ti svegli e ti strofini gli occhi e non sai più perché ti sei svegliato. Conosci già esattamente quello che il giorno presenterà alla tua vista: la primavera o l’inverno, gli scenari abituali, le condizioni atmosferiche, l’ordine dei fatti. Nulla di sorprendente può ormai accadere: non ti sorprendono più neanche gli eventi inattesi, insoliti o raccapriccianti, perché conosci tutte le probabilità, hai previsto già tutto e non ti aspetti più nulla, né in bene né in male… questa è la vera vecchiaia”

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Nella foto: Márai con il figlio adottivo John, nel 1946, prima che con la famiglia abbandonasse per sempre l’Ungheria

DAVID FOSTER WALLACE SU TWIN PEAKS

Twin Peaks

Da Rendl, in un commento sul mio post Perchè Lost

A proposito di […] Twin Peaks… il geniale (e purtroppo recentemente scomparso) David Foster Wallace spiegava […] la differenza tra la prima e la seconda serie dello sceneggiato:

La prima serie del telefilm, in cui la trama si muoveva per lo più intorno a scoperte sempre nuove e allo smascheramento di orrori e perversioni che si annidavano sotto la superficie, fu un enorme successo. Nella seconda serie, però, la struttura di giallo/poliziesco ormai cominciava a costringere il telefilm a venire al dunque, e a farsi più esplicito sulla questione di chi o che cosa fosse responsabile dell'assassinio di Laura Palmer. E più Twin Peaks tentava di diventare esplicito, più perdeva in popolarità. "La soluzione finale del giallo, in particolare, lasciò profondamente insoddisfatti tanto il pubblico quanto la critica".
Il motivo, secondo Foster Wallace,  è radicato nelle nostre aspettative di "spettatori" che, da un punto di vista strettamente morale, ci aspettiamo sempre di scovare il male e vedere la vittoria dei buoni (ovvero, di constatare che chi ha agito male viene alla fine scoperto, punito e condannato). Nel momento in cui questo non accadde [e non sto qui a riportare le validissime ragioni per cui, secondo Foster Wallace, a David Lynch non interessava un fico secco che accadesse], e quando cominciò a diventare sempre più chiaro che non sarebbe mai accaduto, gli indici di ascolto di Twin Peaks precipitarono, e i critici cominciarono a lamentare il declino nell'"autoreferenzialità" e nell'"incoerenza manierata" di questa serie tv, un tempo "audace" e "ricca di immaginazione".

Ecco, io credo che quando un lettore/spettatore si lascia coinvolgere "visceralmente" da una serie tv o da un romanzo, ebbene, allora è disposto anche a rinunciare a concetti come "verosimiglianza", "perfezione", "completezza", etc. Un esempio letterario che posso fare a titolo personale (e che si lega in qualche modo con gli altri post nabokoviani): Vladimir Nabokov; per me Nabokov può scrivere di qualsiasi cosa, può narrarmi la storia più assurda, può complicare la trama nel modo più snervante (cfr. "Fuoco pallido", per averne una pallida idea), ma io sono pronto a seguirlo ovunque egli voglia portarmi… dalle farfalle a Puskin, da una partita di scacchi a una gita in montagna nel Wyoming…

Rendl

Vignetta Fred

La vignetta (ancora il delizioso Fred!) l'ho presa da http://www.serialtv.it/telefilm/twin_peaks, in cui tra l'altro c'è un'ottima scheda sull'intera serie TV. (gabrilu)

LA VECCHIA DI BAUDELAIRE

Maes
Nicolaes Maes (1656)
Vecchia sonnecchiante
Musées Royaux des Beaux Arts, Bruxelles

La petite vieille ratatinée se sentit toute réjouie en voyant ce joli enfant à qui chacun faisait fête, à qui tout le monde voulait plaire; ce joli être, si fragile, comme elle, la petite vieille, et, comme elle aussi, sans dents et sans cheveux.

Et elle s’approcha de lui, voulant lui faire des risettes et des mines agréables.

Mais l’enfant épouvanté se débattait sous les caresses de la bonne femme décrépite, et remplissait la maison de ses glapissements.

Alors la bonne vieille se retira dans sa solitude éternelle, et elle pleurait dans un coin, se disant: — «Ah ! pour nous, malheureuses vieilles femelles, l’âge est passé de plaire, même aux innocents; et nous faisons horreur aux petits enfants que nous voulons aimer!»

Charles Baudelaire, Le Spleen de Paris, Le Désespoir de la Vieille

La vecchietta rugosa si sentì riempire di gioia nel vedere quel bel bambino a cui tutti facevano le feste, a cui tutti volevano piacere; quell’essere grazioso, fragile come lei, e come lei senza denti e senza capelli.
E gli si avvicinò per fargli delle moine, per scherzare e farlo ridere.
Ma il bambino, spaventato, si dibatteva sotto le carezze di quella brava donna decrepita, e riempiva la casa di urla.
Allora la brava vecchia si ritirò nella sua eterna solitudine; e piangendo in un angolo diceva fra sé: «Ah, per noi vecchie femmine sventurate è passata l’età in cui piacere. Anche ai bambini innocenti che vorremmo amare, facciamo orrore!»

Charles Baudelaire, Lo spleen di Parigi, La disperazione della vecchia

Buttes Chaumont
Parigi, Parc des Buttes Chaumont
Foto Gabriella Alù, Maggio 2008

OBLOMOV

Oleg  Tabakov
Oleg Tabakov nel ruolo di Oblomov
nell’omonimo film di Nikita Mikhalkov del 1979

“… e soprattutto, alla base della natura di Oblomov c’era un principio buono, luminoso, simpatizzante per tutto ciò che è bene e che rispondeva all’appello di quel cuore semplice, ingenuo, eternamente fiducioso”

Scriveva Giorgio Manganelli a proposito di quel capolavoro letterario che è Oblomov di Ivan Goncarov,  uno dei libri che amo di più e che non mi stanco mai di leggere e di rileggere (la mia vecchissima copia Einaudi cade ormai a pezzi ed è tenuta insieme da un elastico):

“Fortunatamente, Oblomov è uno di quei libri che non è lecito recensire; o lo conoscete, e vi ha sedotto, e un recensore non può dirvi nulla; o non lo conoscete, e allora, per favore, non perdete altro tempo con queste fatue righe, ed andate a leggerlo”.

E se dice questo Manganelli, figuriamoci se mi azzardo io, a recensire il romanzo di Goncarov.

Forse perchè (chissà) negli ultimi giorni sono stata in compagnia del Luzin di Nabokov, così simile e così diverso dall’Oblomov di Goncarov, ho comunque  voglia di occuparmi di Oblomov.

Preferisco  però  farlo partendo dal film che nel 1979 trasse dal romanzo Nikita Mikhalkov concedendomi il lusso di inserire, di tanto in tanto, citazioni tratte dal romanzo. Insomma, per parafrasare la Berberova: i corsivi sono — non tutti ma quasi tutti — di Goncarov nella traduzione di Ettore Lo Gatto .

Il’ja Il’ic Oblomov (ottimamente interpretato da Oleg Tabakov) è un proprietario terriero che vive con la rendita di una sua lontana e trascurata tenuta. Quando facciamo la sua conoscenza, Oblomov ha una trentina d’anni, e vive a Pietroburgo “in una di quelle grandi case, la cui popolazione sarebbe stata sufficiente per tutta una città di provincia”.

Le sue giornate scorrono nella più assoluta abulia; in una camera coperta di polvere, tra fogli ingialliti e vecchi mobili, egli vive sdraiato su un emblematico divano, dormendo e rifugiandosi nei sogni. Con lui vive il vecchio servo Zakhar (Andrei Popov)

Andrei Popov

Fedele e brontolone, ha visto nascere Oblomov e se da una parte si lamenta continuamente dell’ignavia del suo padrone, dall’altra ne approfitta perchè questo gli consente di lavorare il meno possibile e poltrire anche lui.

Oleg  Tabakov

Oblomov, il cui “stato normale” è costituito  da  “la tranquillità e l’apatia” ha rinunciato ad una carriera perché ritiene la burocrazia noiosa ed umiliante per l’uomo ed è disgustato dalla vita di società che gli appare come un mondo di falsità, grettezze, superbia, senza nulla di profondo, senza uno scopo spirituale che lo animi.

“…i giorni si erano succeduti ai giorni, gli anni agli anni […] aveva bussato alla sua porta la trentina ed egli non aveva fatto un passo avanti in nessun campo […] Sempre si disponeva e preparava a cominciare la vita, sempre disegnava nella propria mente le linee dell’avvenire; ma ad ogni anno che passava rapidamente sulla sua testa egli doveva mutare e cancellare qualcosa di questo disegno […] Cosa faceva dunque? Continuava a disegnarsi un modello per la propria vita”.

Oblomov ha parecchi conoscenti ma un solo vero e grande amico: Stoltz (Yuri Bogatryev). Oblomov e Stoltz, che si conoscono sin dall’infanzia, non potrebbero essere più diversi: attivo, energico, costruttivo, pieno di interessi e curiosità, sempre in viaggio per conoscere cose nuove è Stoltz quanto abulico e refrattario a qualsiasi cambiamento e novità Oblomov. Per Stoltz “la vita è dovere”, ed Oblomov dal canto suo: “le tempeste non sono per me”.

Oblomov Stoltz

“Come un uomo simile poteva essere intimo di Oblomov, del quale ogni tratto, ogni passo, tutta l’esistenza era una urlante protesta contro la vita di Stoltz? A quanto pare, è questione già risolta che gli estremi, se non sono motivo di simpatia, come s’è a lungo creduto, tuttavia non vi si oppongono affatto”

Eppure l’amicizia che nutrono l’uno verso l’altro è solida e sincera. Ha radici profonde:

“Per di più li legavano l’infanzia e la scuola, due forti molle, poi le carezze russe, le buone, grasse carezze che abbontantemente gli Oblomov avevano prodigate al ragazzino tedesco, poi la parte forte che Stoltz sosteneva accanto ad Oblomov sia dal punto di vista fisico che da quello morale, e, soprattutto, alla base della natura di Oblomov c’era un principio buono, luminoso, simpatizzante per tutto ciò che è bene e che rispondeva all’appello di quel cuore semplice, ingenuo, eternamente fiducioso”

Stoltz le prova tutte per fare uscire Oblomov dalla solitudine, per spingerlo in società, per fare sì che si dia un progetto di vita, per spingerlo a lavorare, ad interessarsi di Oblòmovka, la grande tenuta che sta ormai andando in rovina affidata com’è nelle mani di servi e soprastanti che lo derubano impunemente.

Se pure con molta fatica e non mollando mai la presa, Stoltz sembra riuscire, a poco a poco, a spingere l’amico ad un radicale cambiamento di vita.

Oblomov e Stoltz

Le cose sembrano andare di bene in meglio quando Oblomov si innamora, ricambiato, di Olga (Elena Solovej).

Elena Solovej

Si risveglia all’attività, allo spirito d’iniziativa, è mosso da nuovi, appassionati sentimenti. Olga con l’amore e Stoltz con l’amicizia fanno sì che adesso Oblomov non trascorra più intere giornate chiuso in una stanza polverosa a sonnecchiare su un divano. Vediamo un Oblomov allegro, vivace, che legge, che frequenta i salotti, che progetta di andare nei suoi possedimenti di Oblòmovka per rimettere ordine nei suoi affari, restaurare la vecchia casa di famiglia per farne la dimora sua e di Olga. Le nozze sono ormai decise, rimane solo da fissare la data.

Oblomov e OlgaOblomov e Olga

Ma tutto si rivela solo illusione. Oblomov teme troppo i cambiamenti, Olga capisce che nonostante tutti i suoi sforzi e tutta la sua pazienza non ce la farà mai, a rendere Oblomov un uomo diverso.

“Per il mio orgoglio, — disse ella, — sono punita, mi sono fidata troppo delle mie forze; è qui il mio errore […] ho pensato di poterti animare, che tu avresti potuto vivere per me, e tu sei già morto da tanto. Io non avevo preveduto questo errore ed ho sempre aspettato, sempre sperato… ed ecco!… ella finì faticosamente con un sospiro”.

Oblomov ed Olga si separano.

Oblomov Stoltz Olga

Olga sposerà Stoltz, con il quale sarà molto felice mentre Oblomov, rinunciando una volta e per tutte a qualunque idea di cambiamento, troverà nel matrimonio con una donna semplice e quieta e nell’immutabile tran tran di giorni che si susseguono l’uno eguale all’altro “quell’ideale di una tranquillità di vita sconfinata come l’oceano e imperturbabile, il cui quadro s’era riflesso incancellabilmente nella sua anima infantile, sotto il tetto paterno”.

Mikhalkov segue abbastanza fedelmente il libro di Goncarov per almeno tre quarti. L’ultima parte del romanzo che riguarda il definitivo trasferirsi di Oblomov nella modesta casa di Agaf’ja Matvéena, la sua placida convivenza con lei, la nascita del figlioletto non ci viene mostrata ma solo riassunta brevemente a parole da una voce fuori campo.

L’ultima immagine del film, che ci mostra il figlioletto di Oblomov — ospite in campagna di Olga e Stoltz — mentre corre felice incontro alla sua mammina (la vedova di Oblomov) venuta a trovarlo si collega con l’immagine di apertura del film, in cui avevamo visto il piccolo Oblomov correre anche lui nella campagna di Oblòmovka gridando felice “mammina, ecco la mia mammina! E’ tornata la mia mammina!” .
Il cerchio (dal punto di vista filmico) si chiude.

Il film di Mikhalkov — che non a caso ha per sottotitolo Qualche giorno della vita di Oblomov — mi sembra uno di quei rari esempi in cui un grande romanzo, seppure nella sua trasposizione sul grande schermo risulti tagliato e sforbiciato, mantenga in realtà una segreta, profonda aderenza allo spirito originale del testo. Un film ricco di poesia e di sfumature, con una bellissima fotografia e con un Oleg Tabakov che — proprio come l’Oblomov del romanzo — riesce ad irritare, suscitare comprensione e tenerezza, irritare di nuovo, innervosire ed anche a far ridere di gusto.

Ha detto Mikhalkov: “Il mio film è come una musica, e come una partitura, dove le immagini debbono precedere di un attimo le variazioni del ritmo per catturare e mantenere gli impulsi emotivi dello spettatore”.

Una sequenza fondamentale del romanzo, cui Mikhalkov dà nel film ampio spazio con risultati di grandissima poesia di immagini è quella del “sogno di Oblomov”, a mio parere la vera chiave interpretativa di tutto il romanzo. E’ la sequenza — letteraria e cinematografica — in cui Oblomov torna, in sogno, alla propria infanzia ad Oblòmovka, quel Paradiso Perduto che niente potrà mai più eguagliare e che per la sua perfezione rende di per sè vano e ridicolo ogni tentativo di riproduzione.

Oblomov

Ognuno ha la sua Combray, e la Combray di Oblomov è la sua infanzia ad Oblòmovka. La perfezione non può venir riprodotta e tanto meno esser resuscitata.

Mikhalkov fa dunque di Oblomov non un banale pigrone, ma un uomo che non riesce (e soprattutto non vuole) adattarsi a un modello di vita che sente non appartenergli.

Fu il critico russo Nikolaj Aleksandrovic Dobroljubov a dare a quel termine “oblomovismo” con cui Stoltz — nel corso di un lungo colloquio che rappresenta una delle sequenze principali del romanzo — definisce l’ideale di vita del suo amico, una connotazione che sta ad indicare un temperamento incline alla passività e alla rassegnazione di fronte all’aggressività e inesplicabilità del reale.

“– E’… – (Stoltz si era fatto pensieroso e cercava come chiamare quella vita), — è… oblomovismo, — disse egli alla fine.
— Oblomovismo! — ripetè lentamente Il’ja Il’ic, meravigliato di quella strana parola e dividendola in sillabe. — O-blo-mo-vi-smo!
Guardò stranamente e fissamente Stoltz.
— E in che consiste l’ideale della vita secondo te? Non è esso l’oblomovismo? […] Che forse lo scopo di tutto il vostro affaccendarvi, delle vostre passioni e guerre, del vostro commercio e della vostra politica non è il raggiungimento della calma, l’aspirazione a questo ideale di paradiso perduto?”

Troppo spesso però, ahinoi, “oblomovismo” viene inteso anche troppo semplicisticamente come banale sinonimo di pigrizia.
Oblomov è stato persino, per un certo tempo, inteso e utilizzato come il simbolo di quel ceto parassitario e inefficiente spazzato via dalla Rivoluzione d’Ottobre.

Oleg Tabakov

Sul De Mauro Paravia on line troviamo questa definizione di “oblomovismo”: “atteggiamento indolente tipico della nobiltà terriera russa dell’Ottocento, incapace di sottrarsi a un ottuso stato di apatia fatalistica e sterile | estens., apatia, indolenza”

Per il Dizionario Hoepli la definizione è “Particolare stato di inerzia di cui si accusavano le generazioni borghesi russe del secolo scorso”. Altre definizioni, di altri dizionari, sono anch’esse centrate sull’interpretazione socio-politica del termine.

Con tutto il rispetto, secondo me però Oblomov non è riducibile alla figura del “pigrone” e va ben al di là della semplicistica interpretazione di chi volesse vedere in lui solo una stereotipale figura che si muove sullo scenario della lotta di classe.

Su Oblomov io la penso come Manganelli il quale, con una delle sue mirabili sintesi, scrive che Oblomov “è la coscienza della necessaria imperfezione della creazione […] Dunque egli è non per finzione retorica ma veramente “eroe” del libro; ma un eroe che può solo vivere la propria estraneità agli altri, dimorare nell’ombra, nel sonno, nel sogno, e soprattutto “non fare”, giacchè il “fare” è vivere senza coscienza dell’imperfezione del vivere”.

Oblomov

Oblomov (tit. orig. Neskolko dney iz zhizni I.I. Oblomova), Regia di Nikita Mikhalkov. Tratto dal romanzo Oblomov di Ivan Goncharov, Sceneggiatura di Aleksandr Adabashhyan e Nikita Mikhalkov.
Principali interpreti e personaggi: Oleg Tabakov (Ilya Ilyich Oblomov), Elena Solovej (Olga), Andrei Popov (Zakhar), Yuri Bogatryev (Andrei Ivanovich Stoltz), Avangard Leontyev (Alexeyev).
Fotografia Pavel Lebeshev, Montaggio Eleonora Praskina, Musiche originali di Eduard Artmyev, Musica non originale: Vincenzo Bellini (da Norma), Costumi Maya Abar-Baranovskaya Colore, 143 minuti. – Produzione URSS 1979.

LA DIFESA DI LUZIN – VLADIMIR NABOKOV

La difesa di Luzin
Vladimir NABOKOV, La difesa di Luzin, traduz. dal russo di Gianroberto Scarcia e Ugo Tessitore, p.231, Adelphi, ISBN 9788845916021

L’edizione originale, in russo, comparve prima a puntate su una rivista dell’emigrazione russa a Parigi e venne poi pubblicata in volume a Berlino nel 1930. La prima traduzione in inglese non comparve che nel 1960.

Aleksandr Ivanovic Luzin, un bambino taciturno la cui apatia e completo disinteresse verso tutto fa la disperazione dei genitori e dei professori scopre per caso, tramite una zia, il gioco degli scacchi rivelando immediatamente un enorme talento.

Gli scacchi diventano lo scopo della sua vita, la sua ossessione, l’unica cosa al mondo che lo interessi.

Lo ritroviamo anni dopo Gran Maestro di scacchi, figura già leggendaria le cui partite vengono studiate e pubblicate sui giornali specializzati più prestigiosi, gira il mondo sbaragliando gli avversari in tornei in cui spesso si trova ad affrontare da solo venti, trenta avversari contemporaneamente.

Ma — flaccido e imbolsito ad appena quarant’anni — è diventato anche un adulto asociale al limite dell’autismo. Un Oblomov inetto ma dal talento ossessivo il cui unico pensiero sono gli scacchi, ai quali gioca anche solo di testa, senza pedine nè scacchiera per gustare al massimo la suprema astrazione che caratterizza questo gioco.

Si capisce ben presto che questa passione lo distruggerà.

Willy Noibert,1920
Willy Neubert, Giocatore di scacchi

Nemmeno il matrimonio e la moglie — che pur credendo “incondizionatamente al suo genio” intuisce che questo può portarlo alla follia e cerca dunque di allontanarlo dagli scacchi — potranno salvarlo dalla progressiva ed implacabile perdita del senso di realtà. Luzin “si accorgeva solo di rado della propria esistenza” (p.88).

A poco a poco ma inesorabilmente, si verifica un capovolgimento totale e drammatico per cui “la vita vera” diventa per Luzin quella degli scacchi. Perchè “cos’altro c’è al mondo se non scacchi? La nebbia, l’ignoto, il nulla” mentre quella degli scacchi è una vita “ordinata, nitida, ricca d’avventura e Luzin rilevava con orgoglio quanto fosse agevole dominarla, e come tutto in essa fosse pronto ad obbedire al suo volere e ad inchinarsi ai suoi progetti” (p.123).

Paradossalmente, è proprio questo delirio di controllo che gli impedisce qualsiasi controllo sulla propria esistenza portandolo alla catastrofe finale e vani si rivelano tutti i tentativi della moglie di evitarla “spiando dal buco della serratura del destino”.

Nonostante la sua struttura apparentemente lineare e classica (è la storia di una vita, quella che ci viene raccontata), in realtà La difesa di Luzin è un romanzo complesso, una vera e propra partita a scacchi tra il personaggio principale, vero genio di questo gioco, ed il suo creatore perchè Luzin cerca invano di fuggire la trappola mortale che gli tende l’Autore, trappola costituita dallo stesso romanzo in cui si muove il povero Luzin.

La “difesa di Luzin” è allo stesso tempo una mossa scacchistica che il protagonista cerca di mettere a punto per battere i suoi avversari (l’italiano Turati il più temibile) nei tornei ma anche la mossa con cui Luzin cerca di dare scacco matto all’Autore che lo ha creato e che pagina dopo pagina lo manovra come una marionetta.

La speranza del pover’uomo si rivela presto per quello che è: un’illusione. “Luzin: nome che rima con ‘illusion’ se pronunciato con voce abbastanza pastosa da ispessire la ‘u’ in ‘uu'”, annota Nabokov proprio all’inizio della sua prefazione al romanzo. E noi sappiamo quanto importanti siano, in Nabokov, i giochi linguistici, le sonorità dei nomi propri (ricordate il celeberrimo incipit di Lolita?)

La storia del povero Luzin è drammatica, ma tutto si svolge in un’atmosfera allo stesso tempo burlesca e patetica, non mancano pagine decisamente comiche o grottesche. Nabokov non manca di scatenare la sua ironia graffiante in particolare nei confronti di personaggi di quella cerchia di emigrati russi a Berlino che lui conosceva e detestava ma c’è anche un senso di pietà per il suo personaggio che nonostante tutti gli sforzi non riesce a prendere in mano il proprio destino. Gli scacchi, che all’inizio forse rappresentano per il giovane Luzin un tentativo di emancipazione diventano ben presto una terrificante prigione mentale.

Ma soprattutto Nabokov riesce a sviluppare la storia con una precisione ed un rigore implacabile. Il destino di Aleksandr Ivanovic segue il suo corso ineluttabile sotto la spinta di una meccanica la cui perfezione formale è caratterizzata da grande eleganza.

Maniaco, marginale, ossessionato dal gioco, disumanizzato, Luzin finisce per sprofondare nella follia, incapace di distinguere il mondo reale da quello della scacchiera. E qui mi piacerebbe molto parlare del finale del romanzo, le cui ultime pagine sono un concentrato di parole chiave, di acrobazie lessicali stupefacenti e di neologismi rivelatori. Ma non lo faccio, per non togliere il piacere di leggere il testo di Nabokov.

Il linguaggio di La difesa di Luzin, ricco di ellissi, allusioni e metafore, è già quello che diventerà ben presto come il “marchio di fabbrica” di Nabokov.
Pur leggendo il libro in traduzione (e qui, mi sembra doveroso citare l’eccellente lavoro dei due traduttori italiani) sono stata ancora una volta conquistata dalla modalità di scrittura di Nabokov, da certe sue frasi in cui poesia, ironia, capacità evocativa sono continuamente mescolate. Un linguaggio astratto ma allo stesso tempo sensuale, con frasi così belle da farmi venir voglia di leggerle a voce alta.

Di questo suo romanzo Nabokov dice: “Fra tutti i miei libri russi, La difesa di Luzin contiene e diffonde il calore più intenso, cosa apparentemente strana se si pensa quale supremo livello di astrazione si attribuisca agli scacchi.” e descrive questo romanzo come “la storia di un giocatore di scacchi distrutto dal proprio genio”.

La passione di Nabokov per gli scacchi è arcinota. Gli scacchi sono presenti in molti suoi romanzi ma ora  voglio solo ricordare un particolare brano tratto da Autres rivages (in italiano Parla, ricordo), il suo libro di memorie di cui avevo scritto >> qui:

” […] nel corso dei vent’anni di esilio dedicai una quantità enorme di tempo alla composizione di problemi scacchistici. Una determinata posizione viene predisposta sulla scacchiera, e il problema da risolvere consiste nel dare scacco matto ai neri, con un determinato numero di mosse, in genere due o tre. È un’arte bellissima, complessa e sterile […] In effetti quasi tutti i giocatori di scacchi – tanto i dilettanti quanto i maestri – si interessano solo blandamente a questi enigmi particolarissimi […] . L’inventare una posizione di scacchi di questo genere implica una ispirazione di natura quasi musicale, quasi poetica, o, per essere del tutto esatti, poetico-matematica”.

Dal romanzo di Nabokov è stato tratto nel 2001 il film La partita di Marleen Gorris (The Luzhin defence) in cui Luzin era interpretato da John Turturro. Non ho visto il film, perciò non posso parlarne.

John Turturro
John Turturro nel ruolo di Luzin

I BEATI PAOLI – LUIGI NATOLI

Beati Paoli
Luigi NATOLI, I Beati Paoli, p. 756, Flaccovio Editore, Palermo, Collana Vento della Storia, ISBN: 88-7804-235-8

L’incipit:

“La sera del 12 gennaio 1698, due ore prima dell’Avemaria, la piazza del Palazzo Reale di Palermo si empiva di una folla immensa, ondeggiante, varia, che si accalcava dietro le file della fanteria spagnola, schierata tra i due bastioni costruiti dal cardinale Trivulzio e il monumento di re Filippo V”

Romanzo storico e popolare, I Beati Paoli  di  Luigi Natoli   venne pubblicato per la prima volta in ben 239 puntate dal 1909 al 1910 come romanzo d’appendice allegato al Giornale di Sicilia e   poi in volume nel 1921. Si tratta insomma di un classico feuilleton. Di quelli che grazie alla costruzione sapiente dell’intreccio tengono il lettore incollato alla pagina, inchiodato al libro e catturano la sua attenzione capitolo dopo capitolo.

Con il sottotitolo “Grande romanzo storico siciliano” Natoli voleva indicare che I Beati Paoli è racconto che intreccia fatti immaginari su uno sfondo storico e culturale ben delineato ed in cui eventi storici realmente accaduti interferiscono continuamente con le vicende dei protagonisti.

Già al suo primo apparire il romanzo di Natoli (che si firmava con lo pseudonimo di William Galt) ebbe un successo straordinario. Pare che il successo avuto lo abbia fatto collocare tra i testi più letti in assoluto nel XX secolo dai siciliani. Io lo lessi per la prima volta, tutto d’un fiato, credo in due o tre giorni, circa quindici anni fa. L’ho riletto adesso in agosto e benchè ovviamente ormai dal punto di vista dell’intreccio non mi riservasse sorprese perchè ne conoscevo a menadito lo svolgimento ancora una volta è riuscito a catturare la mia attenzione ed ancora una volta l’ho letteralmente divorato.

Nel romanzone (settecento e passa pagine) o “mattonazzo” — orrido termine con cui sembra oggi di moda designare i libri di più di un centinaio di pagine — ci sono tutti, ma proprio tutti gli ingredienti classici della ricetta del feuilleton: agnizioni, rapimenti, fughe, amori contrastati, gelosie apocalittiche, assassinii e vendette.

Buoni e cattivi a tutto tondo, senza tante complicazioni o sfumature psicologiche. Tanti i personaggi principali: il giovane, bello e coraggioso Blasco da Castiglione (povero, ma al quale un monaco rivela di essere figlio del ricchissimo aristocratico Duca della Motta), Coriolano della Floresta, misterioso ed enigmatico cavaliere cui sono aperti i salotti più esclusivi della nobiltà ma che si aggira anche, perfettamente a proprio agio, nei meandri  più sordidi dell’ “altra” Palermo, quella dei vicoli e dei sotterranei; Donna Gabriella — bellissima dama che il fuoco della passione e della gelosia spinge ad azioni temerarie, la giovinetta Violante, il perfido Don Raimondo Albamonte, fratello del Duca della Motta, che brama di potere e di denaro spingono alle azioni più abominevoli e vergognose, lo sbirro Matteo Lo Vecchio rotto ad ogni infamità e corruzione.

Beati Paoli
Blasco da Castiglione in un pannello di carretto siciliano

Tutti si muovono, odiano, amano, tramano vendette e sognano amori impossibili in una Palermo settecentesca delineata con grande vigore ed efficacia evocativa sostenuta da una robusta documentazione storica.

Attorno a loro, tutta una folla di comparse e comprimari: artigiani e sgherri dell’Inquisizione, avvelenatrici e tavernieri, cicisbei e servi ma anche importanti personaggi storici realmente esistiti come i Vicere spagnoli, re e funzionari sabaudi o artisti del tempo come il grande Giacomo Serpotta.

La vera protagonista del romanzo (le cui vicende si svolgono nell’arco temporale che va dal 1698 al 1719) è però la setta dei Beati Paoli, misterioso e leggendario gruppo che operò a Palermo tra il XV ed il XVI secolo in una Sicilia divisa tra le diverse dominazioni ed in cui l’arroganza e la prepotenza di alcuni settori nobili e ricchi nei confronti del popolo rappresentava una costante di ingiustizia sociale e civile.

Natoli prese spunto dalle citazioni fatte sulla temutissima setta, ed a loro volta basate sulla tradizione orale, dal Marchese di Villabianca nel tomo XIV dei suoi Opuscoli Palermitani del 1790.

Si narra che la setta operasse in assoluta segretezza, al fine di proteggere la parte più debole ed oppressa della società palermitana.

“La nostra (giustizia)– affermavano i Beati Paoli- non è scritta in nessuna costituzione regia, ma è scolpita nei nostri cuori: noi la osserviamo e costringiamo gli altri ad osservarla”, per “garantire il più debole contro il più forte e per imporla non abbiamo che un’arma: il terrore, e un mezzo per servircene: il mistero”.

In questo contesto i Beati Paoli si riuniscono mascherati ed indossando cappucci neri nei cunicoli   segreti della Palermo sotterranea.

“…or qui adunavansi questi sectarij e vi tenevano le loro congreghe in luoghi oscuri e dopo il tocco della mezzanotte vi capitavano onde e tutte facevansi a lume di candela” scrive il Villabianca.

I componenti della setta — che nel romanzo si propone di equilibrare le disparità ed applicare una giustizia intransigente — non si conoscono tra loro ed il loro capo è conosciuto soltanto da due persone. Tutti i componenti sono tenuti alla fedeltà assoluta alla causa. I Beati Paoli costituiscono una realtà talmente ramificata e capillare che sono in grado di intervenire e di colpire in qualsiasi momento ed in qualsiasi luogo, anche nelle celle più sorvegliate delle segrete dell’Inquisizione o nelle stanze più private delle case aristocratiche.

Il sottosuolo di Palermo è ricco di cunicoli sotterranei e molti episodi narrati nel romanzo vengono ambientati dal Natoli in quelli del quartiere “Capo” di Palermo, dove si trovano delle grandi cavità che fanno parte di un vasto complesso cimiteriale cristiano.
Si tratta delle Catacombe paleocristiane del IV-V secolo d.c. comprendenti tutta una serie di cunicoli che partendo dalle antiche mura di Porta d’Ossuna nella depressione naturale dell’antico fiume Papireto, si diramano poi in corrispondenza del “Capo”.

Palermo
La pianta di Palermo all’epoca dei Beati Paoli

Il “Capo” ( >> qui su Google maps) è un quartiere ancora oggi popolarissimo formatosi in età musulmana oltre il corso del Papireto, ed era abitato dagli Schiavoni, pirati e commercianti di schiavi. Era l’antico Seralcadio (dall’arabo sari-al-qadi, rione del Kadì), dove oggi si estende l’omonimo mercato formato da un quadrivio di vie: via Porta Carini, via Cappuccinelle, via Sant’ Agostino e, appunto, via Beati Paoli con l’omonima piazzetta (>> qui su Google Maps).

E’ una zona di Palermo che a me piace molto, ed in cui vado spesso in particolare la domenica mattina a gironzolare tra le bancarelle del coloratissimo mercato, un vero e proprio suk arabo ricco di profumi speziati e in cui ciascun venditore “abbannìa” ad altissima voce la propria merce decantandone le meraviglie.

Palermo Piazza Beati Paoli
Palermo. Quartiere del Capo. Piazza Beati Paoli. Il chiosco delle bibite di don Pidduzzu.
Foto di Gabriella Alù, 2006

Il leggendario “Tribunale dei Beati Paoli” si riuniva dunque, secondo la tradizione orale, in una grotta che si collegava attraverso tortuosi cunicoli ad altre cavità sotterranee mentre il nome della setta si pensa possa derivare dal Beato Francesco di Paola, che avrebbe compiuto una delazione ai tempi della congiura di Squarcialupo (e quindi sarebbe da ricollegare alla vicenda del 1500 della rivolta di Gianluca Squarcialupo che provò a sostituirsi all’oligarchia cittadina).

Ma tutte queste notizie, interessanti per chi volesse approfondire la storia di Palermo e del suo sottosuolo, possono tranquillamente venir trascurate da chi invece intendesse semplicemente godersi in santa pace un bel “romanzo popolare” senza porsi tanti interrogativi storico-urbanistici ed anche in qualche modo politici (eh, si, perchè c’è chi, nella storia reale dei Beati Paoli ha creduto di individuare anche le origini del brigantaggio e della mafia).

Il romanzo è scritto con grande maestria, Natoli alterna perfettamente il contesto storico — descritto molto fedelmente — a quello di fantasia riuscendo a suscitare emozioni continue.

Nel romanzo c’è la Palermo dei Vicerè spagnoli, dei salotti aristocratici, delle grandi cerimonie ufficiali e delle feste popolari ma anche la Palermo notturna ed infida, in cui le fiaccole dei “volanti” — e cioè i servi che, a piedi, accompagnano le portantine — illuminano a malapena bui e fetidi vicoli in cui si aggira ogni sorta di loschi figuri.

Insomma, posso assicurare che Natoli non fa mancare niente, al suo lettore.

Il volume edito da Flaccovio è corredato da due saggi molto densi e importanti: quello di Umberto Eco intitolato “I Beati Paoli e l’ideologia del romanzo popolare” e quello di Rosario La Duca (storico ed uno dei maggiori conoscitori della storia della città di Palermo in particolare di quella urbanistica e del costume) dal titolo “Storia e leggenda dei Beati Paoli”.

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  • Nel 1947 dal romanzo venne tratto il film I cavalierieri dalle Maschere Nere, oggi introvabile, per quel che mi risulta. Regia Pino Mercanti, Sceneggiatura Luigi Chiarini, Ovidio Imara, Pino Mercanti, G. Zucca
    Gli attori: Otello Toso, Lea Padovani, Massimo Serato, Paola Barbara, Mario Ferrari, Paolo Stoppa, Carlo Ninchi, Rosolino Bua, Umberto Spadaro, Michele Abruzzo.
    La scheda del film su imdb >>
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