Oleg Tabakov nel ruolo di Oblomov
nell’omonimo film di Nikita Mikhalkov del 1979
“… e soprattutto, alla base della natura di Oblomov c’era un principio buono, luminoso, simpatizzante per tutto ciò che è bene e che rispondeva all’appello di quel cuore semplice, ingenuo, eternamente fiducioso”
Scriveva Giorgio Manganelli a proposito di quel capolavoro letterario che è Oblomov di Ivan Goncarov, uno dei libri che amo di più e che non mi stanco mai di leggere e di rileggere (la mia vecchissima copia Einaudi cade ormai a pezzi ed è tenuta insieme da un elastico):
“Fortunatamente, Oblomov è uno di quei libri che non è lecito recensire; o lo conoscete, e vi ha sedotto, e un recensore non può dirvi nulla; o non lo conoscete, e allora, per favore, non perdete altro tempo con queste fatue righe, ed andate a leggerlo”.
E se dice questo Manganelli, figuriamoci se mi azzardo io, a recensire il romanzo di Goncarov.
Forse perchè (chissà) negli ultimi giorni sono stata in compagnia del Luzin di Nabokov, così simile e così diverso dall’Oblomov di Goncarov, ho comunque voglia di occuparmi di Oblomov.
Preferisco però farlo partendo dal film che nel 1979 trasse dal romanzo Nikita Mikhalkov concedendomi il lusso di inserire, di tanto in tanto, citazioni tratte dal romanzo. Insomma, per parafrasare la Berberova: i corsivi sono — non tutti ma quasi tutti — di Goncarov nella traduzione di Ettore Lo Gatto .
Il’ja Il’ic Oblomov (ottimamente interpretato da Oleg Tabakov) è un proprietario terriero che vive con la rendita di una sua lontana e trascurata tenuta. Quando facciamo la sua conoscenza, Oblomov ha una trentina d’anni, e vive a Pietroburgo “in una di quelle grandi case, la cui popolazione sarebbe stata sufficiente per tutta una città di provincia”.
Le sue giornate scorrono nella più assoluta abulia; in una camera coperta di polvere, tra fogli ingialliti e vecchi mobili, egli vive sdraiato su un emblematico divano, dormendo e rifugiandosi nei sogni. Con lui vive il vecchio servo Zakhar (Andrei Popov)
Fedele e brontolone, ha visto nascere Oblomov e se da una parte si lamenta continuamente dell’ignavia del suo padrone, dall’altra ne approfitta perchè questo gli consente di lavorare il meno possibile e poltrire anche lui.
Oblomov, il cui “stato normale” è costituito da “la tranquillità e l’apatia” ha rinunciato ad una carriera perché ritiene la burocrazia noiosa ed umiliante per l’uomo ed è disgustato dalla vita di società che gli appare come un mondo di falsità, grettezze, superbia, senza nulla di profondo, senza uno scopo spirituale che lo animi.
“…i giorni si erano succeduti ai giorni, gli anni agli anni […] aveva bussato alla sua porta la trentina ed egli non aveva fatto un passo avanti in nessun campo […] Sempre si disponeva e preparava a cominciare la vita, sempre disegnava nella propria mente le linee dell’avvenire; ma ad ogni anno che passava rapidamente sulla sua testa egli doveva mutare e cancellare qualcosa di questo disegno […] Cosa faceva dunque? Continuava a disegnarsi un modello per la propria vita”.
Oblomov ha parecchi conoscenti ma un solo vero e grande amico: Stoltz (Yuri Bogatryev). Oblomov e Stoltz, che si conoscono sin dall’infanzia, non potrebbero essere più diversi: attivo, energico, costruttivo, pieno di interessi e curiosità, sempre in viaggio per conoscere cose nuove è Stoltz quanto abulico e refrattario a qualsiasi cambiamento e novità Oblomov. Per Stoltz “la vita è dovere”, ed Oblomov dal canto suo: “le tempeste non sono per me”.
“Come un uomo simile poteva essere intimo di Oblomov, del quale ogni tratto, ogni passo, tutta l’esistenza era una urlante protesta contro la vita di Stoltz? A quanto pare, è questione già risolta che gli estremi, se non sono motivo di simpatia, come s’è a lungo creduto, tuttavia non vi si oppongono affatto”
Eppure l’amicizia che nutrono l’uno verso l’altro è solida e sincera. Ha radici profonde:
“Per di più li legavano l’infanzia e la scuola, due forti molle, poi le carezze russe, le buone, grasse carezze che abbontantemente gli Oblomov avevano prodigate al ragazzino tedesco, poi la parte forte che Stoltz sosteneva accanto ad Oblomov sia dal punto di vista fisico che da quello morale, e, soprattutto, alla base della natura di Oblomov c’era un principio buono, luminoso, simpatizzante per tutto ciò che è bene e che rispondeva all’appello di quel cuore semplice, ingenuo, eternamente fiducioso”
Stoltz le prova tutte per fare uscire Oblomov dalla solitudine, per spingerlo in società, per fare sì che si dia un progetto di vita, per spingerlo a lavorare, ad interessarsi di Oblòmovka, la grande tenuta che sta ormai andando in rovina affidata com’è nelle mani di servi e soprastanti che lo derubano impunemente.
Se pure con molta fatica e non mollando mai la presa, Stoltz sembra riuscire, a poco a poco, a spingere l’amico ad un radicale cambiamento di vita.
Le cose sembrano andare di bene in meglio quando Oblomov si innamora, ricambiato, di Olga (Elena Solovej).
Si risveglia all’attività, allo spirito d’iniziativa, è mosso da nuovi, appassionati sentimenti. Olga con l’amore e Stoltz con l’amicizia fanno sì che adesso Oblomov non trascorra più intere giornate chiuso in una stanza polverosa a sonnecchiare su un divano. Vediamo un Oblomov allegro, vivace, che legge, che frequenta i salotti, che progetta di andare nei suoi possedimenti di Oblòmovka per rimettere ordine nei suoi affari, restaurare la vecchia casa di famiglia per farne la dimora sua e di Olga. Le nozze sono ormai decise, rimane solo da fissare la data.
Ma tutto si rivela solo illusione. Oblomov teme troppo i cambiamenti, Olga capisce che nonostante tutti i suoi sforzi e tutta la sua pazienza non ce la farà mai, a rendere Oblomov un uomo diverso.
“Per il mio orgoglio, — disse ella, — sono punita, mi sono fidata troppo delle mie forze; è qui il mio errore […] ho pensato di poterti animare, che tu avresti potuto vivere per me, e tu sei già morto da tanto. Io non avevo preveduto questo errore ed ho sempre aspettato, sempre sperato… ed ecco!… ella finì faticosamente con un sospiro”.
Oblomov ed Olga si separano.
Olga sposerà Stoltz, con il quale sarà molto felice mentre Oblomov, rinunciando una volta e per tutte a qualunque idea di cambiamento, troverà nel matrimonio con una donna semplice e quieta e nell’immutabile tran tran di giorni che si susseguono l’uno eguale all’altro “quell’ideale di una tranquillità di vita sconfinata come l’oceano e imperturbabile, il cui quadro s’era riflesso incancellabilmente nella sua anima infantile, sotto il tetto paterno”.
Mikhalkov segue abbastanza fedelmente il libro di Goncarov per almeno tre quarti. L’ultima parte del romanzo che riguarda il definitivo trasferirsi di Oblomov nella modesta casa di Agaf’ja Matvéena, la sua placida convivenza con lei, la nascita del figlioletto non ci viene mostrata ma solo riassunta brevemente a parole da una voce fuori campo.
L’ultima immagine del film, che ci mostra il figlioletto di Oblomov — ospite in campagna di Olga e Stoltz — mentre corre felice incontro alla sua mammina (la vedova di Oblomov) venuta a trovarlo si collega con l’immagine di apertura del film, in cui avevamo visto il piccolo Oblomov correre anche lui nella campagna di Oblòmovka gridando felice “mammina, ecco la mia mammina! E’ tornata la mia mammina!” .
Il cerchio (dal punto di vista filmico) si chiude.
Il film di Mikhalkov — che non a caso ha per sottotitolo Qualche giorno della vita di Oblomov — mi sembra uno di quei rari esempi in cui un grande romanzo, seppure nella sua trasposizione sul grande schermo risulti tagliato e sforbiciato, mantenga in realtà una segreta, profonda aderenza allo spirito originale del testo. Un film ricco di poesia e di sfumature, con una bellissima fotografia e con un Oleg Tabakov che — proprio come l’Oblomov del romanzo — riesce ad irritare, suscitare comprensione e tenerezza, irritare di nuovo, innervosire ed anche a far ridere di gusto.
Ha detto Mikhalkov: “Il mio film è come una musica, e come una partitura, dove le immagini debbono precedere di un attimo le variazioni del ritmo per catturare e mantenere gli impulsi emotivi dello spettatore”.
Una sequenza fondamentale del romanzo, cui Mikhalkov dà nel film ampio spazio con risultati di grandissima poesia di immagini è quella del “sogno di Oblomov”, a mio parere la vera chiave interpretativa di tutto il romanzo. E’ la sequenza — letteraria e cinematografica — in cui Oblomov torna, in sogno, alla propria infanzia ad Oblòmovka, quel Paradiso Perduto che niente potrà mai più eguagliare e che per la sua perfezione rende di per sè vano e ridicolo ogni tentativo di riproduzione.
Ognuno ha la sua Combray, e la Combray di Oblomov è la sua infanzia ad Oblòmovka. La perfezione non può venir riprodotta e tanto meno esser resuscitata.
Mikhalkov fa dunque di Oblomov non un banale pigrone, ma un uomo che non riesce (e soprattutto non vuole) adattarsi a un modello di vita che sente non appartenergli.
Fu il critico russo Nikolaj Aleksandrovic Dobroljubov a dare a quel termine “oblomovismo” con cui Stoltz — nel corso di un lungo colloquio che rappresenta una delle sequenze principali del romanzo — definisce l’ideale di vita del suo amico, una connotazione che sta ad indicare un temperamento incline alla passività e alla rassegnazione di fronte all’aggressività e inesplicabilità del reale.
“– E’… – (Stoltz si era fatto pensieroso e cercava come chiamare quella vita), — è… oblomovismo, — disse egli alla fine.
— Oblomovismo! — ripetè lentamente Il’ja Il’ic, meravigliato di quella strana parola e dividendola in sillabe. — O-blo-mo-vi-smo!
Guardò stranamente e fissamente Stoltz.
— E in che consiste l’ideale della vita secondo te? Non è esso l’oblomovismo? […] Che forse lo scopo di tutto il vostro affaccendarvi, delle vostre passioni e guerre, del vostro commercio e della vostra politica non è il raggiungimento della calma, l’aspirazione a questo ideale di paradiso perduto?”
Troppo spesso però, ahinoi, “oblomovismo” viene inteso anche troppo semplicisticamente come banale sinonimo di pigrizia.
Oblomov è stato persino, per un certo tempo, inteso e utilizzato come il simbolo di quel ceto parassitario e inefficiente spazzato via dalla Rivoluzione d’Ottobre.
Sul De Mauro Paravia on line troviamo questa definizione di “oblomovismo”: “atteggiamento indolente tipico della nobiltà terriera russa dell’Ottocento, incapace di sottrarsi a un ottuso stato di apatia fatalistica e sterile | estens., apatia, indolenza”
Per il Dizionario Hoepli la definizione è “Particolare stato di inerzia di cui si accusavano le generazioni borghesi russe del secolo scorso”. Altre definizioni, di altri dizionari, sono anch’esse centrate sull’interpretazione socio-politica del termine.
Con tutto il rispetto, secondo me però Oblomov non è riducibile alla figura del “pigrone” e va ben al di là della semplicistica interpretazione di chi volesse vedere in lui solo una stereotipale figura che si muove sullo scenario della lotta di classe.
Su Oblomov io la penso come Manganelli il quale, con una delle sue mirabili sintesi, scrive che Oblomov “è la coscienza della necessaria imperfezione della creazione […] Dunque egli è non per finzione retorica ma veramente “eroe” del libro; ma un eroe che può solo vivere la propria estraneità agli altri, dimorare nell’ombra, nel sonno, nel sogno, e soprattutto “non fare”, giacchè il “fare” è vivere senza coscienza dell’imperfezione del vivere”.

Oblomov (tit. orig. Neskolko dney iz zhizni I.I. Oblomova), Regia di Nikita Mikhalkov. Tratto dal romanzo Oblomov di Ivan Goncharov, Sceneggiatura di Aleksandr Adabashhyan e Nikita Mikhalkov.
Principali interpreti e personaggi: Oleg Tabakov (Ilya Ilyich Oblomov), Elena Solovej (Olga), Andrei Popov (Zakhar), Yuri Bogatryev (Andrei Ivanovich Stoltz), Avangard Leontyev (Alexeyev).
Fotografia Pavel Lebeshev, Montaggio Eleonora Praskina, Musiche originali di Eduard Artmyev, Musica non originale: Vincenzo Bellini (da Norma), Costumi Maya Abar-Baranovskaya Colore, 143 minuti. – Produzione URSS 1979.

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