AH LE NOTE, LE NOTE!

Carlo Emilio Gadda
Carlo Emilio Gadda

Troppo spesso, quando leggiamo un libro, davanti ad un apparato di note molto ricco ci facciamo prendere dalla pigrizia e, soprattutto se in quel momento stiamo leggendo per piacere e non per dovere, tendiamo a tralasciare le note (alzi la mano chi non ha mai tralasciato una nota). A volte, tralasciamo solo per non far la fatica di tener due segnalibri, per la voglia di non interrompere il ritmo del racconto principale e non andare in fondo al volume per poi tornare indietro. A volte imbrogliamo persino noi stessi dicendoci: “alla prima lettura la va così, ma alla seconda le leggerò tutte, le note, giuro”. Mentendo sapendo di mentire.

Però dobbiamo sapere che, facendo in questo modo corriamo il rischio, per esempio  nel caso di Carlo Emilio Gadda, non solo di tralasciare testi che non solo non sono inferiori al testo principale, ma che spesso sono già di per loro veri gioielli.

Le note di Gadda sono spesso molto tecniche, ma spessissimo sono, di fatto, il luogo in cui egli riversa tutto ciò che ha ritenuto non poter inserire nel testo principale ma che del testo principale potrebbero — non fosse per un senso di equilibrio letterario — a pieno titolo far parte integrante.

Di esempi se ne potrebbero fare a bizzeffe. Ne propongo qui solo uno: la nota n.6 posta in calce al racconto Al parco, in una sera di maggio della celeberrima raccolta L’Adalgisa (disegni milanesi)

In questo racconto, descrivendo (meravigliosamente, se mi è permesso di dirlo) la passeggiata nel parco di donna Eleonora Vigoni (“dama molto ben messa in cocchio, e infronzolata in certi toni di quaresima, tra il nero il viola”) seduta in un “attacco padronale” condotto dal cocchiere Leopoldo (“in realtà Baldovino Garbagnati”) Gadda scrive — i grassetti sono miei:

“Nel piroettante cosmo della Viscosa e delle moto Guzzi, col pericolo di vedersi ribaltato a ogni giro lui e il cocchio e il cocchiere e la padrona, e dama, oh! non più non più! Il Gioacchino a piumeggiare sul suo fastoso galoppo, non più, non più Gérard, non più Gros, a pitturar lui che rampicava nel vento, mostrando il bianco degli occhi, le froge dilatate: da un bel nulla.”

Ora, proprio in questo paragrafo, Gadda inserisce una nota. Quella che riporto qui.

Murat by Gerard
François Gérard
Ritratto di Gioacchino Murat, 1801
Parigi, Chateau de Versailles

Gérard (Francesco Paolo Simone, 1770-1837) ci presenta d’un polputo Murat Re, a piedi e a capo scoperto, ma in procinto di coprirselo, la lussuriante e cresputa e però non pettinata capellatura, l’occhio inutilmente vivace in un volto pieno, puerile e imberbe: e giù giù poi tutto l’armamentario e l’impaccio fastoso delle pellicce, dei codini, dei codoni, dei cordoni, dei cordoncini, delle olivette d’osso, degli alamari, dei guanti, della fusciacca, del colbacco, con un fiaccolone d’oro da una parte, che ciondola, e col piumacchio nivale; un moretto, di cui si intravede metà il naso, gli porge quell’indescrivibile copricapo. Glorifica poi massimamente, il Gérard, in un valido scorcio, le ben tornite cosce, e chiappe, del cavalcatore quarantunenne ed eroe Re deglutitore di bistecche. Lo strascico di uno sciabolone turchesco, poggiato al suolo, ma attaccato al padrone, e’ ti fa l’effetto di una coda metallica o d’una sorta di animalesca appendice: di quella così esibita e magnifica persona.

Murat by Gros
Jean Antoine Gros
Ritratto equestre di Gioacchino Murat, 1812.
Paris, Louvre

Nel dipinto di Gros (Antonio Giovanni, barone di: 1771-1835), la faccia del Re a cavallo è altrettanto piena e puerile: e tra capelli, fiocchi, peli, piumacchi, ne vien fuori, con perianzio pistillone e stami, quasi un maestoso e fantasioso fiore dei tropici, che ha per orchi il volto, con le gote un po’ cascanti, e bamboccio. Il piumacchio centrale del colbacco, di fili candidi e pari, ed eretto e pur docilmente inflesso nell’aere, sgorga da una specie di vagina di altre inimmaginabili penne, a ricciolo, ma tenere e lanose da non dire, tra di struzzo e di paper, e di oca del Madagscar. Il fioccolone del colbacco è doventato addirittura una carrucola, un paranco doppio di nave, che governa due sottofiocchi. Una pelle di tigre s’è arrovesciata sul cavallo, con la coda che la nasce dal collo, e la testa morta a sbatacchiare sul didietro: ed è un meraviglioso leardo, il cavallo, o anzi un roano pomellato, e balzano da tre. Che batte quasi il Cosmè per l’acutezza cornificata dè due orecchi in istato di perpetua erezione, e per l’elettrico disprigionato da’ crini, che li travolge, rabbuffandoli, il vento: e per quel zoccolacchiare inane ed aereo della impennata, come l’avesse veduto il serpente. Bianco degli occhi: vene turgide, al muso: froge soffianti: spuma. Bella, poi, la coscia, e anzi tutta la gamba del re!: una nota unita, un fuso inguainato, inguantato, dentro la tempesta tigrina della chincaglieria. Sullo sfondo, il pennacchio del Vèsevo.

Ora ditemi voi se non sarebbe un vero peccato perdersi questa notarella…

P.S. In quanto al povero Murat, Tolstoj in Guerra e Pace lo tratta pure peggio di quanto faccia Gadda. Ma lasciamo perdere e non mettiamo troppa carne al fuoco.

LA MALATTIA DELL’INFINITO – PIETRO CITATI

Pitero Citati
Pietro CITATI, La malattia dell’infinito. La letteratura del Novecento, p.560, Mondadori, ISBN 9788804583059

Quest’anno il caso ha voluto che arrivassero in libreria, più o meno in contemporanea, tre opere di tre autori che apprezzo moltissimo: Alfabeti di Claudio Magris (di cui ho già parlato >>qui), Folie Baudelaire di Roberto Calasso (che leggerò quanto prima) e questo La malattia dell’infinito di Pietro Citati. Visto che non è vero che non leggo autori italiani contemporanei viventi?

La malattia dell’infinito è una bellissima raccolta di saggi di letteratura, alcuni dei quali già comparsi su La Repubblica e in altre riviste.
Come già mi è capitato di dire quando ho parlato di La morte della farfalla, degli scrittori di cui parla, Citati dà una sua personale interpretazione supportata da robuste letture che si intuiscono ma non vengono mai dichiarate.

Qui ci troviamo di fronte ad una galleria di circa sessanta importanti personaggi della cultura  del Novecento. Non solo letterati, perchè tra di essi troviamo anche artisti come Carl Theodor Dreyer, Federico Fellini, Charlie Chaplin, Nijinsky.

Il volume è suddiviso in cinque parti: la prima è dedicata agli inizi del secolo; la seconda all’arco di tempo che va dagli anni Venti al secondo dopoguerra; la terza alla poesia; la quarta alla letteratura dal secondo dopoguerra fino ai recentissimi Yehoshua, Milan Kundera, Alice Munro e Pamuk; la quinta, infine, intitolata Ricordo di amici è dedicata a scrittori e intellettuali con cui Citati ha avuto legami d’amicizia. Vi troviamo, tra gli altri, Carlo Emilio Gadda, Bertolucci, Calvino e Manganelli, Fruttero e Lucentini, Elena Croce, Elémire Zolla.

I saggi sono molto eterogenei: a volte Citati parla dell’opera complessiva di un certo autore, ne analizza il percorso letterario, altre volte si centra invece su una singola opera, come ad esempio nel caso di Pamuk di cui tratta esclusivamente Il mio nome è rosso, o della Ortese (L’Iguana e Il cardillo addolorato).
Ma se l’approccio può essere differente a seconda degli autori trattati, l’obiettivo rimane sempre, per Citati, quello di mettere in luce ciò che ciascuno di essi ha scoperto esplorando quegli aspetti della realtà e della natura umana che in genere restano in ombra, ai confini del non visibile, l’ignoto insomma.

Non a caso il primo, lungo saggio che apre il volume è dedicato al Lord Jim di Conrad — romanzo che secondo Citati inaugura la letteratura del Novecento — ed è proprio ad una frase di Lord Jim che fa riferimento il titolo della raccolta: “l’immaginazione è la nemica degli uomini e la madre di tutti i terrori” perciò, dice Citati “l’infinito è nemico dell’uomo; e la magniloquenza della fantasia e delle parole è nostra avversaria […]”, solo i grandi scrittori possono combattere e sostenere la forza distruttiva del sogno, dell’immaginazione: “Questa conoscenza, come Conrad sapeva, la posseggono solo i grandi scrittori: sorretti dal sogno senza fine, essi illuminano con le proprie deboli luci il centro di Luce, il cuore di Tenebra, scrivendo romanzi come Lord Jim” (p.15).

“Malattia dell’infinito” dunque, consapevolezza della propria non appartenenza, esplorazione dell’ “ombra sinistra della conoscenza di sé” sono caratteristiche comuni, secondo Citati, dell’artista del Novecento.

Non credo sia il caso di cercare di riportare qui tutti i modi e le forme con cui, per ciascun autore di cui si parla nel libro, questi temi vengono individuati, enucleati, analizzati da Citati: da D’Annunzio a Virginia Woolf, da Musil a Walser ad Hoffmasthal ad Alice Munro a Sebald a Pessoa a Lampedusa, a Salamov  e a tanti altri. Ne verrebbe fuori solo un lungo e comunque sempre incompleto elenco di citazioni. Molto meglio leggere direttamente il libro, che è piacevolissimo, scorrevole ed avvincente.

In rete ci sono, comunque, ottimi articoli e recensioni: da parte mia trovo inutile ripetere cose che altri hanno già detto e scritto egregiamente.

Qualche parola ancora, però, sul titolo: intervistato da Marino Sinibaldi a Fahrenheit, Citati spiega che parlando di “infinito” si è riferito non solo a Conrad ma anche a Rousseau e Leopardi (sul quale ha cominciato, tra l’altro, a scrivere quello che sarà il suo prossimo libro) e che ha utilizzato il termine “malattia” non pensando a qualcosa di patologico ma ad una “condizione intellettuale” che può essere di volta in volta, a seconda di ciascun autore, intesa come possibilità di libertà e di espansione o, viceversa, di una sorta di carcere mentale.

Un senso del “senza limite” che, secondo Citati, percorre tutta la cultura del Novecento.

Qualche link di approfondimento:

  • Vertigine da infinito. Una lunga e interessante intervista in cui Citati si dilunga molto su questo concetto dell”infinito” >>
  • Pietro Citati intervistato da Marino Sinibaldi a Fahrenheit si può ascoltare >>QUI oppure si può leggere parte della trascrizione >> QUI
  • Sul sito della Mondadori è possibile leggere l’intero primo capitolo del volume >> 
  • Un ottimo articolo-recensione sul sito della Biblioteca di Garlasco >>

IL RISOTTO DELL’INGEGNER GADDA

Buon appetito!

Carlo Emilio Gadda era un buongustaio e la sua opera letteraria brulica  di brani che riguardano cibi e bevande e i piaceri della tavola.
In questo articolo fornisce la sua ricetta per ottenere “un buon risotto alla milanese”.
La si legge con gusto, perchè l’Ingegner Gadda riusciva a render letterariamente ricca e saporita anche una normalissima ricetta di cucina…

“L’approntamento di un buon risotto alla milanese domanda  riso di qualità, come il tipo Vialone, dal chicco grosso e relativamente più tozzo del chicco tipo Caterina, che ha forma allungata, quasi di fuso. Un riso non interamente « sbramato », cioè non interamente spogliato del pericarpo, incontra il favore degli intendenti piemontesi e lombardi, dei coltivatori diretti, per la loro privata cucina. Il chicco, a guardarlo bene, si palesa qua e là coperto dai residui sbrani d’una pellicola, il pericarpo, come da una lacera veste color noce o color cuoio, ma esilissima: cucinato a regola, dà luogo a risotti eccellenti, nutrienti, ricchi di quelle vitamine che rendono insigni i frumenti teneri, i semi, e le loro bucce velari. Il risotto alla paesana riesce da detti risi particolarmente squisito, ma anche il risotto alla milanese: un po’ più scuro, è vero, dopo l’aurato battesimo dello zafferano.

Recipiente classico per la cottura del risotto alla milanese è la casseruola rotonda, ma anche ovale, di rame stagnato, con manico di ferro: la vecchia e pesante casseruola di cui da un certo momento in poi non si sono più avute notizie: prezioso arredo della vecchia, della vasta cucina: faceva parte come numero essenziale del « rame » o dei «rami» di cucina, se un vecchio poeta, il Bussano, non ha trascurato di noverarla nei suoi poetici « interni », ove i lucidi rami più d’una volta figurano sull’ammattonato, a captare e a rimandare un raggio del sole che, digerito il pranzo, decade. Rapitoci il vecchio rame, non rimane che aver fede nel sostituto: l’alluminio.

La casseruola, tenuta al fuoco pel manico o per una presa di feltro con la sinistra mano, riceva degli spicchi o dei minimi pezzi di cipolla tenera, e un quarto di ramaiolo di brodo, preferibilmente di manzo: e burro lodigiano di classe.

Burro, quantum prodest, udito il numero de’ commensali. Al primo soffriggere di codesto modico apporto, butirroso-cipollino, per piccoli reiterati versamenti, sarà buttato il riso: a poco a poco, fino a raggiungere un totale di due tre pugni a persona, secondo l’appetito prevedibile degli attavolati: né il poco brodo vorrà dare inizio per sé solo a un processo di bollitura del riso: il mestolo (di legno, ora) ci avrà che fare tuttavia: gira e rigira. I chicchi dovranno pertanto rosolarsi e a momenti indurarsi contro il fondo stagnato, ardente, in codesta fase del rituale, mantenendo ognuno la propria « personalità »: non impastarsi e neppure aggrumarsi.

Burro, quantum sufficit, non più, ve ne prego; non deve far bagna, o intingolo sozzo: deve untare ogni chicco, non annegarlo. Il riso ha da indurarsi, ho detto, sul fondo stagnato. Poi a poco a poco si rigonfia, e cuoce, per l’aggiungervi a mano a mano del brodo, in che vorrete esser cauti, e solerti: aggiungete un po’ per volta del brodo, a principiare da due mezze ramaiolate di quello attinto da una scodella « marginale », che avrete in pronto. In essa sarà stato disciolto lo zafferano in polvere, vivace, incomparabile stimolante del gastrico, venutoci dai pistilli disseccati e poi debitamente macinati del fiore. Per otto persone due cucchiaini da caffè.

Il brodo zafferanato dovrà aver attinto un color giallo mandarino: talché il risotto, a cottura perfetta, venti-ventidue minuti, abbia a risultare giallo-arancio: per gli stomaci timorati basterà un po’ meno, due cucchiaini rasi, e non colmi: e ne verrà fuori un giallo chiaro canarino. Quel che più importa è adibire al rito un animo timorato degli dei è reverente del reverendo Esculapio o per dir meglio Asclepio, e immettere nel sacro « risotto alla milanese » ingredienti di prima (qualità): il suddetto Vialone con la suddetta veste lacera, il suddetto Lodi (Laus Pompeia), le suddette cipolline; per il brodo, un lesso di manzo con carote-sedani, venuti tutti e tre dalla pianura padana, non un toro pensionato, di animo e di corna balcaniche: per lo zafferano consiglio Carlo Erba Milano in boccette sigillate: si tratterà di dieci dodici, al massimo quindici, lire a persona: mezza sigaretta. Non ingannare gli dei, non obliare Asclepio, non tradire i familiari, né gli ospiti che Giove Xenio protegge, per contendere alla Carlo Erba il suo ragionevole guadagno. No! Per il burro, in mancanza di Lodi potranno sovvenire Melegnano, Casalbuttano, Soresina, Melzo, Casalpusterlengo, tutta la bassa milanese al disotto della zona delle risorgive, dal Ticino all’Adda e insino a Crema e Cremona. Alla margarina dico no! E al burro che ha il sapore delle saponette: no!

Tra le aggiunte pensabili, anzi consigliate o richieste dagli iperintendenti e ipertecnici, figurano le midolle di osso (di bue) previamente accantonate e delicatamente serbate a tanto impiego in altra marginale scodella. Si sogliono deporre sul riso dopo metà cottura all’incirca: una almeno per ogni commensale: e verranno rimestate e travolte dal mestolo (di legno, ora) con cui si adempia all’ultimo ufficio risottiero. Le midolle conferiscono al risotto, non più che il misuratissimo burro, una sobria untuosità: e assecondano, pare, la funzione ematopoietica delle nostre proprie midolle. Due o più cucchiai di vin rosso e corposo (Piemonte) non discendono da prescrizione obbligativa, ma, chi gli piace, conferiranno alla vivanda quel gusto aromatico che ne accelera e ne favorisce la digestione.

Il risotto alla milanese non deve essere scotto, ohibò, no! solo un po’ più che al dente sul piatto: il chicco intriso ed enfiato de’ suddetti succhi, ma chicco individuo, non appiccicato ai compagni, non ammollato in una melma, in una bagna che riuscirebbe schifenza. Del parmigiano grattuggiato è appena ammesso, dai buoni risottai; è una banalizzazione della sobrietà e dell’eleganza milanesi. Alle prime acquate di settembre, funghi freschi nella casseruola; o, dopo S. Martino, scaglie asciutte di tartufo dallo speciale arnese affetto-trifole potranno decedere sul piatto, cioè sul risotto servito, a opera di premuroso tavolante, debitamente remunerato a cose fatte, a festa consunta. Né la soluzione funghi, né la soluzione tartufo, arrivano a pervertire il profondo, il vitale, nobile significato del risotto alla milanese”.

Carlo Emilio Gadda, articolo tratto dal n.10 della rivista aziendale dell’ENI Il gatto selvatico (agosto 1955). Negli anni Cinquanta la rivista era diretta da Attilio Bertolucci.

Dall’Archivio storico dell’ ENI >>

VIAGGIO IN EUROPA – GIUSEPPE TOMASI DI LAMPEDUSA

Tomasi di Lampedusa
Giuseppe TOMASI DI LAMPEDUSA, Viaggio in Europa. Epistolario 1925-1930, a cura di Gioacchino Lanza Tomasi e Salvatore Silvano Nigro, p.182, Mondadori, ISBN 9788804564775.
In copertina: Casimiro Piccolo, Ritratto di Giuseppe Tomasi (distrutto nel 1943 durante i bombardamenti di Palermo)

Negli anni tra il 1925 e il 1930 il trentenne futuro autore de Il Gattopardo viaggiò molto soprattutto in Europa spingendosi sino al Baltico. Partiva da Palermo all’inizio dell’estate e vi ritornava in autunno inoltrato dopo avere soggiornato a lungo nell’amata Inghilterra e a Parigi. Spesso si dirigeva in Germania, attraversava l’Austria e a volte arrivava  sino in Lettonia, dove era ospite al castello di Stomersee, proprietà di Alessandra Wolff Stomersee, la sua futura moglie léttone. Poi tornava in Sicilia non senza prima essersi fermato a trascorrere qualche giorno con sua madre, in Svizzera o in Alto Adige.

Questo elegante volume Mondadori dalla bella copertina color malva (il mauve  è un colore molto proustiano, sia detto en passant) raccoglie circa settanta lettere che in quegli anni Lampedusa scrisse a corrispondenti italiani. La maggior parte di esse sono indirizzate ai cugini Lucio e Casimiro Piccolo di Calanovella; ci sono poi una lettera alla zia Alice Barbi ed una alla zia Teresa Piccolo (madre di Lucio e Casimiro) ed infine, in appendice, troviamo una lettera inviata dalla madre allo scrittore, a Londra, il 28 giugno del 1926.

Ci sono due modi, secondo me, per leggere quest’epistolario, comunque   godibilissimo.

Uno  è sicuramente quello di scorrere queste lettere con occhio “filologico-investigativo”, con l’obiettivo cioè di trovare, nei resoconti che Giuseppe Tomasi fa dei suoi viaggi ai due cugini i segni premonitori della scrittura che troveremo poi ne Il Gattopardo. Letto in quest’ottica, risulta evidente come nel grande romanzo, pubblicato postumo, siano contenute moltissime allusioni non solo ad opere d’arte che Lampedusa ebbe modo di studiare durante i suoi viaggi, ma anche a personaggi reali che incontrò e che in queste lettere descrisse ai cugini.

L’altro è quello di lasciarsi semplicemente andare al piacere, al divertimento che procura la lettura di queste lettere molte delle quali assolutamente esilaranti.

E’ un Tomasi di Lampedusa, quello che viene fuori da questo epistolario (a senso unico, perchè abbiamo solo le sue lettere) che, sono sicura, stupirà molti lettori del suo grande romanzo o delle sue Lezioni di Letteratura Inglese e Francese, o dei Racconti.

Innanzitutto c’è una particolarità non da poco: le lettere sono tutte scritte in terza persona, mai in prima. Lampedusa si firma “Il Mostro”, il nomignolo con il quale, nel lessico familiare dei Lampedusa e dei cugini Piccolo usava essere affettuosamente ed ironicamente chiamarsi ed essere chiamato.

Inoltre Lampedusa, che era un grande ammiratore di Dickens ed in particolare de Il Circolo Pickwick si pone nei confronti dei suoi interlocutori come un novello Pickwick che si assume il compito di relazionare circa le sue esperienze di viaggio — attraverso la mediazione dei due cugini — i componenti del Circolo Bellini, il circolo più aristocratico ed esclusivo di Palermo.

Ma dietro i resoconti epistolari de “il Mostro” ci sono, oltre il Dickens del Pickwick, altri due modelli, altri due scrittori da lui amatissimi: lo Stendhal di Memoires d’un touriste (“pieni di aneddoti aciduli, del resto mirabilmente raccontati”, scriverà Lampedusa nelle sue lezioni di letteratura francese) ed il Chesterton delle atmosfere bozzettistiche e della divertita ironia e che ammirava molto come poeta, polemista e scrittore di racconti polizieschi.

Lampedusa, come Stendhal, in viaggio era davvero infaticabile e curiosissimo: frequentava musei, teatri, sale da concerto. Molto ben introdotto e perfettamente a suo agio nell’ambiente londinese anche perchè suo zio, il marchese della Torretta, era ambasciatore italiano a Londra, viene invitato nei Club e nelle dimore più prestigiose ed esclusive, è ospite di magnifici castelli scozzesi.

Londra, foto
Vedute di Londra, 1926.
Da un album di viaggi di Giuseppe Tomasi

Dotato di un appetito formidabile (“mostruoso”), epicureo e bon vivant, dandy al punto giusto, gran buongustaio, dotato di stazza a dir poco invadente (come si può vedere dalla foto che inserisco al termine di questo post) le sue lettere resocontano minuziosamente di pantagrueliche colazioni, pranzi e cene. Era un osservatore acuto, sempre pronto a collegare le cose che vedeva e ascoltava con pagine degli scrittori da lui prediletti. Da lettore onnivoro e profondo conoscitore delle letterature europee quale era, scrive lettere piene di allusioni letterarie, giochi di parole, veri e propri pastiches. Poteva permetterselo, sapeva che i cugini avrebbero compreso al volo: sia Lucio (il poeta) che Casimiro (il pittore) erano uomini coltissimi, che avrebbero apprezzato.

Chi è di Palermo può inoltre gustarsi le molte sfumature lessicali (familiari e non) molto tipiche di un certo ambiente il cui significato e la cui frequente ironia può forse sfuggire a molti. In questo è di molto aiuto, però, l’apparato di note cui hanno provveduto i curatori della raccolta.

Personalmente, molti passaggi delle lettere hanno rievocato in me, ad esempio, ricordi infantili e se questo epistolario mi ha molto divertita (in alcuni passaggi mi sono ritrovata a ridere come una matta) ha però anche, per certi versi, suscitato nostalgia e malinconia. Ma questo è solo un mio problema personale.

Sono sicura che qualunque lettore può trarre molto piacere dalla lettura di questo volume, apprezzare la brillantezza dello stile, la precisione da grande narratore con cui Lampedusa si ferma sui dettagli, le sue appassionate descrizioni paesaggistiche.

Certo, non si può anche non notare, in alcuni passaggi, alcune frasi a proposito di personaggi ebrei che denotano un certo antisemitismo, o il giudizio superficiale di Lampedusa sull’avanzare del fascismo. Sono elementi, questi, che in quegli anni e nell’ambiente di Lampedusa erano, purtroppo, abbastanza comuni. Ma quello di Lampedusa non è un giudizio ideologico, il suo è piuttosto lo sguardo scettico di quello che si rivelerà, con Il Gattopardo, un grande narratore.

Prendiamo ad esempio la lettera da Londra del 10 Agosto 1927 e in particolare quella parte che è espressamente indirizzata a “Casimiro pittore”.

In essa, Lampedusa descrive la sua visita alla Tate Gallery di Londra e dedica due mi-ci-di-a-li pagine ai “nove ritratti della famiglia Wertheimer che pare costituiscano il capolavoro di Sargent”.
I Wertheimer erano una ricca famiglia di mercanti d’arte ebrei.

“Il Mostro si ci è seduto davanti e si è divertito come fosse a teatro, perchè davvero sembra di assistere  a una commedia tanto quelle tele sono caratterizzate e profonde”

Non posso riprodurre qui tutta la lettera. Posso però dire che se uno la legge poi, se va vedere la famigliola Wertheimer alla Tate, non può non tornargli in mente la lettera di Giuseppe.

Nota Gioacchino Lanza che Lampedusa a Berlino, nel 1930, avverte subito l’atmosfera sinistra che incombe sulla Germania. Scrive Lampedusa: “fra dieci anni i tedeschi credo che invieranno a tutte le nazioni un bigliettino, per mezzo di un cameriere…”.
“Questo singolare principe” nota Gioacchino Lanza “aveva l’occhio lungo: […] Fra dieci anni, se non prima, suoneranno le trombe dell’Apocalisse”.

Giuseppe Tomasi di Lampedusa
Gioacchino Lanza, Lucio Piccolo e Giuseppe Tomasi negli anni Cinquanta

E’ stato giustamente fatto notare che le ottime biografie su Tomasi di Lampedusa tacciono sempre sul periodo 1925-1930, e che questo epistolario fornisce un contributo editoriale che davvero colma un vuoto di notizie considerevole.

L’epistolario è preceduto da due utili brevi saggi introduttivi: La Memoria e le Lettere di  Gioacchino Lanza Tomasi e Il romanzo di un turista di Salvatore Silvano Nigro.

Giuseppe Tomasi di Lampedusa
Giuseppe Tomasi a palazzo Lampedusa. Metà degli anni Trenta
  • Il libro >>
  • Le foto di Londra dall’album Lampedusa le ho prese dall’ottimo libro di Gioacchino Lanza Tomasi I luoghi del Gattopardo >>

ADDII

I promessi sposi
Francesco Gonin (1808-1889)
Illustrazione per l’Addio ai monti (capitolo 8) dell’edizione del 1840 de I Promessi Sposi di Alessandro Manzoni


Carlo Emilio Gadda
amava immensamente I Promessi Sposi di Manzoni.

Nel 1927 gli aveva dedicato un bellissimo saggio intitolato Apologia manzoniana in cui scriveva, tra l’altro:

“Volle poi che il suo dire fosse quello che veramente ognun dice, ogni nato della sua molteplice terra, e non la roca trombazza di un idioma impossibile, che nessuno parla, (sarebbe il male minore), che nessuno pensa, nè rivolgendosi a sé, né alla sua ragazza, né a Dio […]. Egli volle parlare da uomo agli uomini, come, a lor modo, parlarono tutti quelli che ebbero qualche cosa di non cretino da raccontare. Ebbe compagno nell’impresa della spazzatura un altro conte suo contemporaneo, disgraziatissimo e macilento della persona. La parola di quest’ultimo ha una nitezza lunare: “Dolce e chiara è la notte”.

In La malattia dell’infinito, Pietro Citati delinea un ritratto molto umano e toccante di Carlo Emilio Gadda, da lui conosciuto alla fine del 1955. Citati aveva allora ventisei anni ed era ancora solo un giovane e sconosciuto aspirante critico letterario. La loro frequentazione durò fino alla morte di Gadda.

Tra tante altre cose racconta, Citati, che l’ultimo desiderio di Gadda moribondo fu che qualcuno gli leggesse ad alta voce uno dei libri da lui più amati: I Promessi Sposi.

“Grazie ai Promessi Sposi la morte fu più lieta. Aveva sempre provato un “sentimento di venerazione privata” verso la persona di Manzoni. Da ragazzo, tra i nove e i sedici anni, aveva letto dieci volte I Promessi Sposi, abbandonandosi alla lettura, mi scrisse “con la semplice profonda gioia di chi si disseta in montagna ad una fonte di acqua chiara”.
Ora, giunto alla fine, voleva ripetere l’esperienza di adolescente, e chiese a Ludovica Ripa di Meana, a Giancarlo Roscioni e a me di leggergli I Promessi Sposi. Ci alternammo al capezzale. Mi ricordo che qualche giorno prima (o il giorno prima) della morte, gli lessi il meraviglioso ottavo capitolo […]. Disteso sul letto, con la testa rialzata dai cuscini, Gadda rideva sussultando nel suo grande corpo moribondo — il riso, che tante volte lo aveva salvato.
Allora pensai che la letteratura è davvero una cosa bellissima, se conserva la vita come la vita non riesce a conservarsi, e fa ridere di gioia in punto di morte”

(Pietro Citati, Carlo Emilio Gadda, in Ricordo di amici, contenuto in La malattia dell’infinito, pagg. 484-485)

CIME TEMPESTOSE

Cime tempestose
Laurence Olivier (Heathcliff) e Merle Oberon (Catherine Earnshaw)

Da Wuthering Heights, l’unico romanzo lasciatoci da Emily Bronte, sono stati tratti molti film e fiction televisive (>> qui un elenco delle principali).

Ho rivisto in questi giorni la trasposizione forse ancora oggi più famosa, il film di William Wyler del 1939.

Rivederlo non mi ha delusa, mi sembra ancora un film godibilissimo soprattutto per la presenza di un ottimo cast tra cui due attori come Laurence Olivier e Merle Oberon ed il meraviglioso bianco e nero di Greg Toland (il mitico direttore della fotografia di Quarto potere) che per Wuthering Heights vinse l’Oscar.

Merle Oberon
Cate (Merle Oberon)

Velocissimo riassunto della trama giusto per rispolverare la memoria.

La storia si svolge in un angolo sperduto dello Yorkshire, fra le brughiere selvagge. L’orfano Heathcliff (Laurence Oliver), cresciuto presso gli Earnshaw, una famiglia di coltivatori inglesi che abita in una casa chiamata “Cime tempestose”, s’innamora della loro figlia Catherine (Merle Oberon).

Wuthering Heights
Heathcliff e Cate bambini, nella brughiera alle Rocce Rosse
Wuthering Heights
Heathcliff -“Ma queste sono solo rocce!”
Catherine – “Se non sai vedere che è un castello non sarai mai un principe”
Wuthering Heights Wyler

Ma la relazione dei due ragazzi è osteggiata dal fratello di lei, Hindley, un uomo violento e alcolizzato. Così, sebbene Catherine ami Heathcliff, la sua ambizione la porta a sposare l’aristocratico vicino di casa Edgar Linton (David Niven),

Wuthering Heights
Cate (Merle Oberon) ed Edgard Linton (David Niven)

Il matrimonio di Cate ed una conversazione tra lei e la governante Nellie udita solo a metà spingono Heathcliff alla disperazione e ad emigrare in America.

Laurence Olivier

Tre anni dopo Heathcliff, divenuto ricco e potente, ritorna con lo scopo di vendicarsi ed inizia il suo progetto sposando Isabel, l’ingenua sorella di Edgar.

Laurence Olivier
Geraldine Fizgerald
Isabel Linton (Geraldine Fitzgerald)

Il film riporta fedelmente la vicenda descritta dalla Brontë ma solo fino a metà romanzo, perchè viene omessa la parte riguardante i figli dei protagonisti. Viene tagliata fuori la seconda generazione e cioè tutta la seconda parte del libro.

Pur tenendo presenti tutti i distinguo che è doveroso fare tra un libro e la sua trasposizione cinematografica e salvaguardando il sacrosanto diritto di registi, produttori e sceneggiatori di dare la loro personale interpretazione di un testo cui si ispirano, non per questo è vietato, credo, dire che è innegabile che la scelta di Wyler di limitare la storia degli abitanti di Wuthering Heights (gli Earnshaw ed Heathcliff) e di Thrushcross Grange (i Linton) alla prima generazione falsa completamente il senso profondo del romanzo della Bronte — in cui la morte di Cate arriva appena ad un quarto del romanzo, che poi continua narrando le vicende di un’intera altra generazione.

Non ho visto le altre trasposizioni cinematografiche. Però so che eliminando completamente la seconda parte del libro la storia di Heathcliff e Catherine Earnshaw si riduce ad una love story che, se pure ottimamente recitata, commovente ed appassionante, non è poi alla fine molto diversa da mille altre che abbiamo letto in altri romanzi o visto in decine di altri film.

Tutto, nel film di Wyler, porta lo spettatore a vedere nei due protagonisti niente più che due poveri ed innocenti innamorati sfortunati, a provar simpatia e pena e a prendere le parti di Heathcliff giustificando il suo comportamento nei confronti di Isabel e di Hingley assolvendolo in nome del suo sfortunato amore e del suo dolore per la morte di Cate.

Eppure, se il romanzo della Bronte fu (ed è ancora, a mio parere) tanto dirompente, tanto fuori dagli schemi da far l’effetto — per dirla con Magris che definisce il libro “sconvolgente capolavoro di sgradevolezza, scostante e poeticamente irresistibile” — di “un pugno nello stomaco”, se i due protagonisti furono considerati così innovativi fu per la carica di assoluta negatività autodistruttiva di cui erano portatori in un romanzo che, come bene scrisse Mario Praz, non è da leggere con l’ottica della “morale” ma con quella della “premorale”.

Heathcliff è il personaggio il cui significato viene maggiormente stravolto, se si taglia il romanzo a metà.

La monomaniacalità, la passione ossessiva ed alla fine patologica per Catherine e per il ricordo di lei, l’estrema crudeltà, il vero e proprio sadismo di cui dà prova nei confronti di tutti coloro che vengono a contatto con lui compreso il suo proprio figlio fanno parte integrante e fondante della struttura narrativa del romanzo della Bronte.

Laurence Olivier

Togliere ad Heathcliff la crudeltà, ripulirlo dal sadismo, sterilizzare la storia dal vento di morte che percorre tutto il romanzo, eliminare il potente istinto distruttivo ed autodistruttivo dei due protagonisti trasformandoli in una sorta di innamorati alla Peynet (va bene, sto esagerando, ma giusto per rendere l’idea) significa per me tradire completamente l’opera della Bronte.

Certo, è possibile (come no?) apprezzare egualmente il film, che è bellissimo. Io personalmente lo rivedo sempre, come ho già detto, con molto piacere. Tenendo presente però che poco ha a che vedere con il romanzo.

Guardando l’Heathcliff e la Catherine di Wyler chi non conosce il romanzo io credo debba stentare parecchio a comprendere una serie di giudizi che su Wuthering Heights e la sua autrice sono stati espressi nel tempo. Voglio riportarne qui solo qualcuno ma a mio parere molto significativo.

Virginia Woolf, ad esempio, in un articolo del 1929 intitolato Fasi della narrativa accostava questo libro dalla “selvaggia, procellosa atmosfera” al Moby Dick di Melville mentre Giuseppe Tomasi di Lampedusa scriveva della sua autrice: “Emily Brontë, l’ardente, la geniale, l’indimenticabile, l’immortale Emily. Non scrisse che pochi versi, brevi liriche aspre, ferite, alla cui malia non si sfugge. E un romanzo, Cime tempestose, un romanzo come non ne sono mai stati scritti prima, come non saranno mai più scritti dopo. Lo si è voluto paragonare a King Lear. Ma, veramente, non a Shakespeare fa pensare Emily, ma a Freud; un Freud che alla propria spregiudicatezza e al proprio tragico disinganno unisse le più alte, le più pure doti artistiche.”

In un lungo saggio contenuto in La letteratura e il male, Georges Bataille definiva Wuthering Heigths “uno dei più bei libri della letteratura di tutti i tempi […] forse la più bella, la più profondamente rapinosa storia d’amore”.

Una storia però percorsa da un “furore mortale” il cui tema principale è, secondo Bataille, la rivolta del Male contro il Bene in cui Heathcliff incarna l’Eroe Maledetto, “una verità primordiale, quella del bambino che si rivolta contro il mondo del Bene, contro il mondo degli adulti e, con la sua rivolta senza riserve, si consacra al Male”.

Emily Bronte mette in scena “la rivolta dell’uomo maledetto, che il destino caccia dal suo regno, e che niente può ostacolare nel suo desiderio bruciante di ritrovare il regno perduto” perchè “non c’è forza, non c’è sentimento di pietà, nè convenzione che freni per un istante il furore di Heathcliff: neanche la morte […] non vi è legge che Heathcliff non si compiaccia di trasgredire”.

Bataille arriva ad accostare il Sade di Justine alla Bronte di alcune frasi più crudeli di Heathcliff. Chi ha letto il libro sa di cosa si parla. La seconda parte del romanzo è costellata infatti di puro sadismo.

Per Bataille, il romanzo ha “un’andatura paragonabile a quello della tragedia greca, nel senso che il tema del romanzo è la trasgressione tragica della legge”.

Ancora Bataille: “Emily Bronte sembra essere stata privilegiatamente maledetta fra tutte le donne. La sua breve vita fu infelice, solo fino ad un certo punto. Ma, pur restando intatta la sua purezza morale, ella ebbe degli abissi del Male un’esperienza profonda. E sebbene pochi esseri siano stati più rigorosi, più coraggiosi, più retti di lei, scese fino al fondo della conoscenza del male”.

Se Bataille punta sulla dicotomia Male contro il Bene, Mario Praz nella sua Storia della letteratura inglese centra la sua analisi su un’altra dicotomia, quella tra “il principio della tempesta — l’aspro, lo spietato, il dinamico” rappresentato dagli abitanti della casa di Wuthering Heights — ed “il principio della calma — il dolce, il clemente, il passivo, il mansueto”— rappresentato dai Linton, che abitano a Thrushcross Grange. Sia nel caso di Bataille che in quello di Praz abbiamo dunque una guerra tra opposti.

“La tigre e l’agnello: quel contrasto […] è il motivo centrale della Bronte”, scrive Praz.

L’universo rappresentato dalla Bronte è costituito dai due microcosmi claustrofobici di Wuthering Heights e di Thrushcross Grange. Nonostante l’immensità della brughiera e l’abbondanza di spazi aperti niente, nel libro della Bronte, esiste in realtà all’esterno di quei due mondi concentrazionari.

Di Magris ho già detto, ma mi piace ricordare che per lui in Cime tempestose troviamo la “repellente violenza della vita” e che infine “al pari di tutti i grandi libri, Cime tempestose costringe il lettore a ridiventare ingenui come nell’adolescenza, a desiderare la punizione di Heathcliff, il demoniaco protagonista. Ogni tanto si è violentemente tentati di mettere da parte quel libro che fa toccar con mano come il sole splenda indifferente sui giusti e sui malvagi, sui carnefici ugualmente che sulle vittime di Auschwitz, e come i deboli umiliati e offesi periscano senza lasciar traccia e perdendo talora perfino la dignità. Ma non si può non leggere quel grande libro sino alla fine, anche se, quando lo si chiude, si prova sollievo tornando a storie e pensieri meno conturbanti.”

Wuthering Heights
Illustrazione di Fritz Eichenberg per l’edizione del 1943 di Wuthering Heights
Arts of the Book Collection, Yale University Library
Copyright © 2000 Lamar Stonecypher

La voce nella tempesta, tit. orig. Wuthering Heights, 1939, regia di William Wyler. Tratto dal romanzo Wuthering Heights di Emily Bronte, Sceneggiatura di Charles MacArthur, Ben Hecht, John Huston
Interpreti e personaggi Laurence Olivier (Heathcliff), Merle Oberon (Catherinne Earnshaw), David Niven (Edgar Linton), Flora Robson (Nelly Deale), Geraldine Fitzgerald (Isabel Linton), Miles Mander, Donald Crisp, Hugh Williams, Leo G. Carroll, Cecil Kellaway, Cecil Humphreys, Sarita Wooton, Rex Downing, Douglas Scott
Fotografia Greg Toland, montaggio David Mandell, musiche Alfred Newman.
Premio Oscar per la Fotografia (1939), New York Film Critics Award (1939)

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  • Il film di Wyler su imdb >>
  • Il film di Wyler su Youtube >>
    Su Youtube si trovano  stralci e trailer anche di altre versioni di Wuthering Heights

LA SECONDA MANO

Trieste Caffè San Marco

Trieste, Caffè San Marco

“Un’onesta e fedele divulgazione è la base di ogni seria cultura, perchè nessuno può conoscere di prima mano tutto ciò che sarebbe, anzi è necessario conoscere. Tranne pochi settori che riusciamo ad approfondire, tutta la nostra cultura è di seconda mano: è impossibile leggere tutti i grandi romanzi della letteratura universale, tutti i grandi testi mitologici, tutto Hegel e tutto Marx, studiare le fonti della storia romana, russa o americana.

La nostra cultura dipende in buona parte dalla qualità di questa seconda mano: ci sono divulgazioni che, pur riducendo e semplificando, trasmettono l’essenziale e altre che lo falsificano o lo alterano, magari con presunzione ideologica; molti vecchi riassunti scolastici sono talora più vicini al testo di tante lambiccate interpretazioni psico-pedo-sociologiche. Una buona divulgazione invita ad approfondire l’originale”

(Claudio Magris, Alcesti indiana, articolo pubblicato sul Corriere della Sera il 17/8/2003, contenuto in Alfabeti. Saggi di letteratura)

INVITO A UNA DECAPITAZIONE – VLADIMIR NABOKOV

Invito a una decapitazione
Vladimir NABOKOV, Invito a una decapitazione, (tit. orig. Invitation to a Beheading), traduz. Margherita Crepax, Cura editoriale di Anna Raffetto, p. 222, Adelphi, Collana Biblioteca Adelphi n.460, ISBN 9788845918476

Anche Invito a una decapitazione ha, come molti romanzi di Nabokov, una genesi ed una storia che merita di essere ricordata.

La prima stesura del romanzo avvenne a Berlino in piena ascesa di Hitler e del nazismo. Nabokov scrisse il libro di getto, in sole due settimane e in russo, subito dopo il ritorno di sua moglie Véra dalla clinica dove aveva dato alla luce il loro figlio Dmitri. Poi, come sempre, Véra lo battè a macchina sotto dettatura di Vladimir.

Scrive Stacy Schiff che “Nabokov ricordava che dall’esterno dell’appartamento al terzo piano “sentivamo la voce di Hitler che veniva dall’altoparlante sul tetto”. All’interno la macchina da scrivere ticchettava…”Il romanzo venne pubblicato in russo nel 1935.

Venticinque anni dopo, quando già Nabokov si trovava ormai da  molto tempo  in America, il romanzo venne tradotto in inglese con il titolo di Invitation to a Beheading. La traduzione venne realizzata dal figlio Dmitri in collaborazione con lo stesso Autore. Nabokov colse questa occasione per rivedere il tutto, constatando però con piacere che il romanzo non aveva bisogno, a suo giudizio, di particolari aggiustamenti o modifiche.

Per la versione italiana che oggi noi possiamo leggere in questo volume di Adelphi Anna Raffetto, curatice editoriale dell’opera, ci avverte che “con l’approvazione di Dmitri Nabokov si è […] privilegiato, come testo di riferimento, […] Invitation to a Beheading apparso a New York nel 1959”.

La trama di Invito a una decapitazione è, in sé,  molto semplice: Cincinnatus C. è condannato a morte per un crimine orribile quanto misterioso: egli è infatti “impenetrabile ai raggi altrui e pertanto […] produceva una strana impressione, come di un solitario, oscuro ostacolo in quel mondo di anime reciprocamente trasparenti […] Cincinnatus era […] opaco”. Questa peculiarità di Cincinnatus rappresenta, per il regime di questo paese immaginario e senza nome in cui si svolge la sua storia, una “turpitudine”, un delitto che viene punito con la morte. In un universo totalitario, il mantenere delle zone oscure che sfuggono al controllo è un delitto imperdonabile.

Incontriamo Cincinnatus già in cella, prigioniero nella fortezza che costituisce la sua prigione e Nabokov descrive gli ultimi giorni della sua prigionia mettendo in scena anche una serie di personaggi che lo accompagnano in questo terribile lasso di tempo che lo separa dall’esecuzione capitale: il direttore del carcere, il secondino, un bizzarro vicino di cella che si chiama M’sieur Pierre, la moglie Marthe, la bambina Emmie, figlia del direttore.
Se però è certo che Cincinnatus verrà giustiziato, per nulla certo è il “quando”: nessuno vuol rispondere alla sua pressante domanda “quando avverrà?”. E’ questa l’angoscia più grande che accompagna lui e noi fino ad un originalissimo gran finale che mi guardo bene dal rivelare.

Durante tutto questo tempo i suoi carcerieri sembrano giocare con lui un gioco sadico: oltre che il rifiuto di comunicargli la data dell’esecuzione gli viene promessa una visita della moglie che alla fine non arriva, gli si fa balenare l’illusione di una possibile evasione… Cincinnatus ricorda molti eventi importanti della propria vita mentre vive l’attesa angosciosa della morte.

E’ davvero difficile riassumere questo romanzo e commentarlo.

Lo stile di Nabokov è, come al solito, meraviglioso anche se forse può non incontrare il gusto di tutti. E’ uno stile basato soprattutto sulla costruzione di immagini, è una di quelle sue opere che puntano più sull’onirico e il fantastico, a trasmettere sensazioni. Le sue frasi — limpide e bellissime — danno vita a un universo denso, che sembra possedere un’esistenza ed una logica (spesso una logica capovolta) tutta propria.

Il lettore si trova spesso spiazzato, perduto, non trova i suoi riferimenti logici abituali, si trova spesso a chiedersi quale sia veramente il senso di quello che sta leggendo. Per esempio, quando Cincinnatus comprende finalmente che non gli diranno quando verrà giustiziato, dice che in fondo questo è ciò che succede a tutti gli uomini liberi e sani: tutti sanno che dovranno morire, ma nessuno sa quando.

Si può  arrivare al punto, in alcuni momenti, a chiedersi se veramente Cincinnatus morirà, se per caso Nabokov non ci sta menando per il naso, se tutto questo non è altro che un gioco o un sogno. Invito a una decapitazione è un libro davvero molto, molto strano, e richiede a mio avviso una grande disponibilità e cooperazione da parte di chi legge. Sicuramente non è uno di quei romanzi che si possono leggere distrattamente, in treno o qualche pagina la sera prima di addormentarsi. E’ un libro bello ma molto faticoso.

Credo però che la fatica che può richiedere  questo tipo  di lettura valga la pena d’esser sostenuta, se si amano gli scrittori capaci di creare un universo completamente personale e di grande intensità.

Nella breve e gustosissima Prefazione al romanzo, scritta nel giugno del 1959 in Arizona, Nabokov dà una definizione del romanzo che io trovo splendida. Dice che è “un violino nel vuoto”.

“Invito a una decapitazione […] è un violino nel vuoto. La gente di mondo lo riterrà uno scherzo. Le persone anziane gli volteranno frettolosamente le spalle preferendogli romanzi rosa di ambientazione regionale e biografie dei personaggi in vista. Nessuna frequentatrice di circoli femminili fremerà d’entusiasmo. I malpensanti vedranno nella piccola Emmie una sorella della piccola Lolita, e i discepoli dello stregone viennese se la rideranno sotto i baffi nel loro grottesco mondo di sensi di colpa collettivi […] Ma […] conosco (je connais) alcuni (quelques) lettori che faranno un balzo, scompigliandosi i capelli”.

Parlando di Invito a una decapitazione non è possibile — checchè ne pensi Nabokov — non evocare immediatamente Kafka e in particolare i suoi due grandi romanzi Il Processo e Il Castello. Il Cincinnatus condannato non per quello che fa ma per “quello che è”, il labirintico mondo senza senso in cui si muove, l’atmosfera di incertezza, di angoscia ma anche di (involontario?) umorismo di certe situazioni, l’impossibilità di mantenere uno spazio privato in un mondo dominato dal controllo totale non possono non far venire in mente i K. e le atmosfere dei due romanzi kafkiani.

Eppure Nabokov, sempre nella Prefazione, è molto puntiglioso su questo (secondo me inevitabile) accostamento e con la pignoleria che lo contraddistingue scrive testualmente “I critici émigrés, disorientati da un libro che pure apprezzavano, credettero di cogliervi una vena “kafkiana” senza sapere che non conoscevo il tedesco, ignoravo del tutto la letteratura tedesca moderna, e non avevo ancora letto traduzioni, francesi o inglesi, delle opere di Kafka. Senza dubbio esistono legami stilistici tra questo libro e, per esempio, le mie narrazioni precedenti […] ma non ne esistono affatto con Il Castello o Il Processo. Le affinità spirituali non trovano posto nella mia concezione di critica letteraria, ma se poprio dovessi indicare uno spirito affine la scelta di certo cadrebbe su quel grande artista”.

Una curiosità che personalmente mi ha molto divertita: l’immagine di copertina che Adelphi ha scelto per questo testo di Nabokov è la Tavola di Alexandre Alexeieff realizzata per I fratelli Karamazov di Dostoevskij, Éditions de la Pléiade, J. Schiffrin, Paris, 1929

Ora, sapendo quanto poco Nabokov stimasse Dostoevskij come scrittore, non so quanto avrebbe apprezzato questo accostamento 😉

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