LEZIONE DI TEDESCO – SIEGFRIED LENZ

Lezione di tedesco
Siegfried LENZ, Lezione di tedesco (tit. originale Deutschstunde), traduz. di Luisa Coeta, p.506, Neri Pozza, Collana I narratori delle tavole, ISBN 9788854501027

Nato nel 1926 nella Prussia orientale, per molto tempo redattore del giornale Die Welt, Siegfried Lenz appartiene alla stessa generazione di Heinrich Böll e Günter Grass, con il quale ha condiviso la battaglia politica a fianco di Willy Brandt. Lezione di tedesco, pubblicato nel 1968 in Germania dove ha avuto un immenso successo e dove è stato anche adattato per la televisione, è stato tradotto in sette lingue.

Figlio di un ufficiale della Dogana, il giovane Siegfried si iscrisse al Partito Nazista nel luglio del 1943 e arruolato nella marina tedesca.

Quando però gli venne ordinato di partecipare alla esecuzione di un altro marinaio accusato di abbandono del dovere, disertò e si nascose in Danimarca fino a quando venne fatto prigioniero di guerra dagli inglesi.

Liberato molto presto, diventò giornalista a Die Welt e, dopo pochi anni, cominciò la sua carriera di scrittore.

Poco conosciuto, io credo, in Italia, Lenz merita invece di esser letto. Questo Lezione di tedesco è un romanzo molto bello, in cui Lenz racconta la vicenda di Siggi, figlio adolescente di un poliziotto tedesco. Il ragazzo si ribella all’autorità  (il che gli procura l’invio in riformatorio) mentre il fratello maggiore, Klaas, arruolato nella Wermacht, prima si spara ad una mano per non essere mandato a combattere e poi finisce per disertare.

Nel riformatorio “per ragazzi disadattati” in cui viene rinchiuso Siggi — l’adolescente protagonista ed io narrante del romanzo  — e che si trova in un’isoletta dell’Elba vicino ad Amburgo, durante una lezione di tedesco viene assegnato ai ragazzi un componimento che ha per tema “Le gioie del dovere”.

Allo scadere del termine, Siggi restituisce il foglio bianco. Per questo viene, ovviamente, punito.
Ma se non ha svolto il tema non è stato per negligenza nè tanto meno — spiegherà al direttore della casa di correzione — perchè lui non abbia nulla da dire sull’argomento, ma, al contrario, perchè cose da dire ne ha troppe, e non sapeva da dove cominciare e come sintetizzare.
Posto infatti in cella di isolamento fino a quando non avrà svolto il tema, Siggi comincia a scrivere e dopo due o tre giorni il direttore gli fa sapere di essere soddisfatto della sua dimostrazione di buona volontà e di considerare il compito perfettamente assolto anche dopo una decina di pagine. Siggi può dunque ritornare tra i suoi compagni. A questo punto però è lo stesso Siggi a chiedere, implorare che gli venga concesso di rimanere in cella fino a che non avrà scritto tutto quello che ha da dire. Effettivamente Siggi rimarrà volontariamente in cella per mesi e riempirà più di cinquecento pagine. Le cinquecento pagine del libro che leggiamo.

Il romanzo si sviluppa dunque su due piani temporali e in due luoghi diversi della Germania del nord. Quando Siggi scrive il suo componimento e riempie quaderni su quaderni siamo ad Amburgo nel 1954, il ragazzo compie ventun anni. Ma i fatti di cui narra Siggi si svolgono in un piccolo e sperduto paese battuto dai venti e dal mare del Nord, nella pianura dello Schleswig-Holstein. Siamo nel 1943.

Emil Nolde
Emil Nolde
Nuvole estive, 1913
© Museo Thyssen Bornemisza © Nolde Stiftung Seebüll

Questa data non è affatto casuale: è infatti quella in cui lo stesso Lenz disertò dall’esercito tedesco.

Il padre di Siggi è l’unico poliziotto della stazione di polizia di Rügbull ed è maniacalmente, ottusamente rispettoso dell’ordine e dell’obbedienza al dovere. In questo caso si tratta di obbedire agli ordini in regime nazista, ma potrebbe anche trattarsi di un qualsiasi altro regime. Il padre di Siggi non fa distinzioni tra un regime o un altro: per lui è l’obbedienza che conta, ed il rispetto degli ordini emanati dall’Autorità. A prescindere dal contenuto di questi ordini, a prescindere da chi sia questa Autorità.

Succede un giorno che Berlino ordina al poliziotto di … impedire ad un pittore di dipingere!
Il pittore in questione — che abita nella sua circoscrizione — è Max Ludwig Nansen. Nonostante sia molto famoso in Germania e a livello internazionale, i nazisti hanno confiscato tutti i suoi quadri perchè la sua arte è considerata “arte degenerata”.

“Se si guarda la gente che fa: facce verdi, occhi da mongoli, corpi sbiaditi, tutte immagini straniere: è la malattia che dipinge assieme a lui. Una faccia che sia tedesca non c’è. […] Alla febbre, vien fatto di pensare, tutto è dipinto in preda alla febbre. Ma all’estero è molto richiesto, la interruppe mio padre. […] Perchè là sono tutti malati allo stesso modo, disse mia madre. Per questo si circondano di quadri malati.  Ma guarda le bocche delle sue figure, storte e nere, gridano o balbettano: una parola assennata non esce mai da quelle bocche, comunque non una parola tedesca. Ogni tanto mi chiedo che lingua parli quella gente.

Tedesco no di certo, disse mio padre”(p.198)

Emil Nolde
Emil Nolde
Emil Nolde,
Masks Still Life III (1911)

Adesso il poliziotto non solo deve recapitare al pittore l’ordine di non dipingere, ma anche controllare che non contravvenga al divieto.

“Nel 1943, tanto per cominciare, un venerdi di aprile di primo o tardo mattino, mio padre Jens Ole Jepsen, guardia della stazione di polizia di Rugbüll, l’avamposto più a nord dello Schleswig-Holstein, si preparò per la missione di servizio a Bleekenwarf: doveva trasmettere al pittore Max Ludwig Nansen — che da noi tutti chiamavamo semplicemente il pittore e non hanno mai smesso di chiamare così — l’ordine giunto da Berlino che gli vietava di dipingere”

Nansen e il poliziotto si conoscono sin dall’infanzia, sono amici. Le loro famiglie si frequentano. Tutti i motivi che — ci si aspetterebbe — potrebbero calmare l’ ardore repressivo di Jensen ed attenuare gli effetti pratici del divieto non fanno in realtà che esasperarli sino a livelli patologici. Il poliziotto tiene infatti a dimostrare a tutti, ai suoi superiori, alla moglie, ai figli, a tutti gli abitanti del paese a che punto l’obbedienza agli ordini sia ritenuto da lui un valore supremo: “Mi basta solo che quelli vedano che ho fatto il mio dovere” (p.82)

A questa idea del dovere, qualunque altra considerazione o affetto deve soccombere: “io non mi chiedo che cosa uno ci guadagni facendo il proprio dovere e se ci ricavi qualcosa o meno. Dove andremmo a finire se per ogni cosa ci domandassimo: dopo che succederà? Il proprio dovere non si può compierlo a seconda dell’umore che hai e di quel che ti suggerisce la prudenza […]” ed al vecchio portalettere che gli ricorda: “Ce ne sono stati diversi che si sono salvati perchè al momento opportuno non hanno fatto il loro dovere. E allora non l’hanno fatto mai, concluse mio padre asciutto” (p.316).

“Io faccio solo il mio dovere” (p.82)

Quante volte abbiamo letto e sentito la fatidica frase “Io obbedivo soltanto agli ordini” “Io non ho fatto che eseguire un ordine”? Quanto sangue, quanti crimini sono stati commessi trincerati dietro questa frase?

Il giovane Siggi però, affezionato a Nansen ed affascinato dai suoi dipinti si opporrà all’accecamento imbecille e criminale di suo padre. Dapprima in modo passivo, poi in maniera attiva. Schierandosi di fatto dalla parte del pittore, l’adolescente Siggi contrapporrà al “dovere di obbedienza” maniacalmente ed ottusamente professato dal padre quello che possiamo definire il “dovere di disobbedienza”. All’obbedienza cieca viene contrapposta la libertà della creazione artistica (“Si può forse proibire di sognare?” dice il pittore al poliziotto).

“Bene, disse a bassa voce [il pittore Nansen al poliziotto], se sei convinto che si debba fare il proprio dovere, allora io ti dico il contrario: si deve fare anche qualcosa contro il proprio dovere. Il dovere per me è solo cieca presunzione. E’ inevitabile che si facciano cose non richieste dal dovere” (p.189).

Autore sensibile ed intelligente, Siegfried Lenz sembra cercare di esorcizzare nella sua opera ciò che venne imposto a lui stesso nella sua infanzia e adolescenza.

Lezione di tedesco è uno splendido libro, che conquista a poco a poco, lentamente ma inesorabilmente. Cattura con il suo ritmo calmo, con il suo equilibrio tra i due piani temporali del presente e del passato, con i suoi personaggi tutti ben delineati e caratterizzati, per il modo con cui vengono trattati i temi della della funzione della memoria e del ricordo nella costruzione dell’identità personale, della dialettica tra dovere e disobbedienza, tra costrizione e libertà, del potere sovversivo/eversivo dell’arte. Perchè, dice il giovane Siggi se esistono “le gioie del dovere”, ci sono anche “le vittime del dovere: in genere non se ne parla” (p.386)
E’ un libro da leggere senza fretta, in cui contenuto e forma si trovano, secondo me, in rara armonia.

E poi c’è la natura, descritta magnificamente.
Alla natura, al paesaggio, ai fenomeni atmosferici Lenz dedica pagine splendide. Mentre leggiamo Lezione di tedesco ci par proprio di sentirlo, questo vento del mare del Nord che travolge tutto e che costringe le persone a camminare con la schiena piegata in due, ci par proprio di vedere, nel cielo che può diventare anche di un limpidissimo blu, il volo delle cicogne e sentire le grida assordanti delle migliaia di gabbiani, presenza costante in tutte le scene del romanzo che si svolgono all’aperto.

Non può quindi stupire che il libro abbia avuto un così grande successo ed in Germania abbia valso a Lenz la stessa notorietà di Grass e di Böll.

Personalmente mi auguro che in Italia dove, per quel che mi risulta, per ora è reperibile (grazie all’iniziativa di Neri Pozza) soltanto questo romanzo, vengano tradotte e pubblicate anche altre opere di Siegfried Lenz. Io le leggerei davvero con grande piacere.

Per Max Ludwig Nansen, uno dei personaggi pricipali del romanzo, Lenz si è fortemente ispirato alla personalità ed alla vita del pittore espressionista Emil Nolde, (il cui vero nome era Emil Halsen) cui sotto il Terzo Reich venne vietato di dipingere in quanto “artista degenerato”.

Siegfried Lenz
Siegfried Lenz
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GLI USI DELLA MEMORIA

Terezin

Tzvetan Todorov, nel capitolo su Gli usi della memoria del suo libro Memoria del male, tentazione del bene, parla di quelli che, secondo lui, sono le due derive da evitare: la sacralizzazione e la banalizzazione della memoria.

Voglio riportarne uno stralcio che riguarda in particolare la sacralizzazione della memoria e la specificità dello sterminio degli ebrei (o giudeocidio, come scrive Todorov) da parte dei nazisti.

“La sacralizzazione di un avvenimento passato non si confonde con l’affermazione della sua singolarità. Ritorniamo all’esempio dello sterminio degli ebrei d’Europa da parte dei nazisti. Descriverlo come un avvenimento singolare e specifico è legittimo, per poco che si precisi il livello a cui ci si situa. Non sul piano dei valori: tutti gli esseri umani sono preziosi gli uni come gli altri, e quando le vittime di un regime si contano a milioni, è vano, per non dire di più, volere stabilire gerarchie del martirio — soprattutto perchè, come dice uno dei personaggi lucidamente disperato di Woody Allen, a proposito del giudeocidio, “i record sono fatti per essere battuti”. Oltre una certa soglia, i crimini di tale natura hanno un bel restare specifici, essi si riuniscono nell’orrore senza sfumature che suscitano e nella condanna assoluta che meritano. Ciò vale egualmente, ai miei occhi, per lo sterminio degli amerindi come per la sottomissione in schiavitù degli africani, per gli orrori del gulag come per quelli dei campi nazisti. La vita e la dignità di un uomo o di una donna, di un bambino o di un vecchio sono egualmente preziose, qualunque ne sia la razza, la nazione o la cultura. La messa a morte dei popoli senza scrittura non è meno ignobile che quella di un gruppo i cui antenati hanno inventato il monoteismo e la religione del Libro.

E più avanti, a proposito della specificità dello sterminio degli ebrei, di cui si parla molto nel corso del libro:

“Ciò che è specifico e merita di essere interrogato, è il senso dell’avvenimento. Si è visto in che cosa consisteva la singolarità del giudeocidio nazista: la messa a morte sistematica come obiettivo assunto, mirato su un popolo indissociabile dall’identità europea nei secoli

(Tzvetan TODOROV, Memoria del male, tentazione del bene. Ne avevo parlato >> qui)

Terezin

Le immagini che ho inserito sono disegni fatti da bambini rinchiusi dai nazisti nel ghetto di Terezin.

Terezin è una località poco distante da Praga, ha la pianta a forma di stella racchiusa da una fortificazione.
Tra il 1941 e il 1945 servì da ghetto per circa 140.000 ebrei deportati dai nazisti dall’Europa Centrale ed Orientale.
Fra i prigionieri del ghetto di Terezin ci furono all’incirca 15.000 bambini, compresi i neonati. Erano in prevalenza bambini degli ebrei cechi, deportati a Terezin insieme ai genitori. La maggior parte di essi morì nel corso del 1944 nelle camere a gas di Auschwitz.

Ricordo ancora il nodo alla gola quando ho visto tanti di questi disegni al Museo ebraico di Praga, Pinkas Synagogue.

Terezin
Terezin

AUSTERLITZ – W. G. SEBALD

Sebald Austerlitz
Winfried Georg SEBALD, Austerlitz (tit. orig. Austerlitz), traduz. Ada Vigliani, p. 315, Adelphi, ISBN 9788845920448

Di Austerlitz, di Sebald e di Marcel Proust.

E’ di questo che vorrei parlare, oggi.

Però prima  forse è meglio dire qualcosa su Sebald ed il suo romanzo Austerlitz, anche se ormai autore e romanzo sono entrambi talmente celebri che, almeno teoricamente, non dovrebbero aver bisogno di presentazioni.

Austerlitz di W. G. Sebald è il quarto ed ultimo romanzo di un autore tedesco che, andato via dalla Germania di cui non sopportava — così si dice, così ho letto — il clima “asettico” del dopo guerra, nel 1970 si trasferì definitivamente in Inghilterra dove per molti anni insegnò letteratura tedesca all’universita. Sebald è morto nel dicembre del 2001 in un incidente stradale.

La storia è narrata in prima persona da un uomo senza nome, che nella macchina narrativa ha la funzione dell’ “io” narrante di primo livello — quello strutturale, quello che dà “la forma” al romanzo.

Questo Narratore incontra per caso il protagonista per la prima volta nel 1967 nella Sala dei Passi Perduti della stazione di Anversa. Quest’uomo, intento a prendere appunti sulla struttura architettonica della stazione, ci viene descritto come di “aspetto quasi giovanile, con i capelli biondi singolarmente ondulati, come li ho visti soltanto all’eroe germanico Siegfried nel film di Lang sui Nibelunghi. Anche questa volta ad Anversa Austerlitz portava calzature pesanti, una sorta di pantaloni di tela blu sbiadita e una giacca di buon taglio, ma completamente fuori moda”. Veniamo così a sapere che questa persona si chiama Jacques Austerlitz.

Ma che caspita di nome è “Austerlitz” per un uomo che ha in viso la stessa espressione di sofferenza, ci dice il narratore-Sebald, del filosofo Ludwig Wittgenstein?! Austerlitz è infatti anche il nome del villaggio della Moravia divenuto celebre per la vittoria di Napoleone ma è anche il nome della Gare d’Austerlitz, una stazione della metropolitana di Parigi. Che c’entra questo nome “Austerlitz” con un distinto e biondo inglese appassionato di architettura e di fotografia?!

Il Narratore approccia direttamente l’uomo, e senza tanti fronzoli gli chiede come mai si interessi tanto all’architettura della stazione di Anversa.

Come tanti solitari che hanno perduto l’abitudine di parlare, Austerlitz accetta volentieri la conversazione con sconosciuti di passaggio. La sua vita, che scopre progressivamente al narratore, è in gran parte una ricerca su se stesso e sulla storia contemporanea europea: “Per quanto mi è possibile risalire indietro col pensiero, disse Austerlitz, mi son sempre sentito come privo di un posto nella realtà” (p.199)

Qual’è la ragione di questa impressione di inesistenza al mondo? Per molto tempo, Austerlitz non ha cercato di vedere chiaro nelle sue origini e nella sua identità.

Egli sa solo di essere cresciuto nel freddo e nel silenzio della casa di un predicatore calvinista in un paese del Galles. Ha vaste conoscenze perchè sin da ragazzo si è rifugiato nello studio e nella lettura, si interessa alle meraviglie del mondo animale e vegetale. Studia Darwin, è appassionato di fotografia. Esperto di architettura, è diventato uno specialista della storia dei monumenti europei. Soprattutto lo interessano le costruzioni insolite, le stazioni ferroviarie, le fortezze trasudanti barbarie, burocrazia, annientamento dell’individuo. Scoprirà com’era strutturato il ghetto di Theresienstadt ed il lettore scoprirà anche le ragioni per cui Austerlitz detesta la nuova Bibliothèque nationale di Parigi, detta Mitterrand…

Attraverso il destino di un uomo sensibile, Sebald ci fa così visitare l’Europa del XX° secolo, un continente di vecchia ed alta cultura, ma anche luogo di atrocità e disumanizzazione.

Austerlitz, uomo dalla personalità complessa con un passato che non può che rivelarglisi gradualmente, a quattro anni — e dunque troppo piccolo per poterne avere conservato il ricordo — aveva fatto parte dei convogli del kindertransport, quei treni dell’ultima ora che portavano bambini ebrei in Inghilterra, salvandoli in extremis dallo sterminio hitleriano.

Da questo primo fatale viaggio che dalla Boemia lo aveva condotto in Inghilterra, dall’esilio, dallo spaesamento e della memoria deriva tutto il resto. Austerlitz, che per tutta la vita (e metà romanzo) non ha fatto nulla per conoscere il suo passato avverte sempre più urgente l’esigenza di fare luce sulle proprie origini e sulla propria storia.

Sono tre i narratori della storia di Austerlitz: lo scrittore riferisce quello che Austerlitz gli ha raccontato, in incontri a distanza di anni che coprono il tempo delle sue ricerche, e Austerlitz a sua volta inserisce nel proprio racconto quello dell’ amica della madre.

Un triplice io narrante, un triplice filtro per una storia che si dipana lentamente e che è un racconto della memoria.

Come tutti i grandi libri, Austerlitz (cui giustamente a mio parere Pietro Citati dedica un intero capitolo nel suo La malattia dell’infinito) presenta parecchi livelli di lettura e si presta a più di un approccio interpretativo. Molte delle recensioni che ho letto si soffermano soprattutto sugli aspetti più “politici” del romanzo, sui temi della responsabilità, della storia europea del Novecento, sul rapporto individuo – collettività. Temi tutti sicuramente presenti, e che meritano di venire sottolineati.

Sebald è davvero uno scrittore singolare, che viene paragonato spesso a Musil, Kafka, George Perec, Paul Auster e Thomas Bernard soprattutto per lo stile di scrittura, la mancanza di uno sviluppo lineare nella struttura narrativa delle sue opere letterarie, per la complessità della sintassi, per la lunghezza delle sue frasi, per l’uso singolare che fa dei segni di interpunzione.

Tutti questi accostamenti hanno senso e sono molto validi.

Ma se oggi scrivo, a proposito di un romanzo di cui si è gia parlato tantissimo e del quale in rete esistono molte eccellenti e interessanti recensioni è perchè sono rimasta particolarmente colpita dalle molte analogie e contiguità esistenti secondo me tra l’Austerlitz di Sebald e Alla ricerca tempo perduto di Marcel Proust.

Con la RTP Austerlitz ha infatti molte cose in comune. Lo stile, innanzitutto: come non pensare, leggendo Sebald, alle lunghissime frasi proustiane piene di parentetiche e subordinate, alla mancanza di una scansione in paragrafi, alla forte presenza di simboli, metafore, allusioni ad opere della pittura e della letteratura?

Joseph Mallord William Turner
Joseph Mallord William Turner (1775 – 1851)
Funeral at Lausanne, 1841
Londra, Tate Gallery

“Ecco gli elementi di una scena di addio che, caso strano, ho ritrovato alcune settimane or sono in uno dei rapidi schizzi ad acquerello nei quali Turner spesso annotava quanto accadeva sotto il suo sguardo […] . Il quadro evanescente, dal titolo Funeral at Lausanne…” (p.122)

Ma è soprattutto la presenza di alcuni temi presenti in entrambi gli scrittori ed il modo con cui vengono trattati che mi sembra costituisca una vicinanza fondamentale. Come la Memoria e il Tempo, ad esempio. E il senso del Passato.

In Austerlitz il tema della memoria è assolutamente centrale.

Non si tratta solo, e genericamente, della memoria di un uomo strappato a quattro anni dalla sua terra, dalle sue origini, dalla sua lingua materna. In Austerlitz si parla di quella memoria involontaria tanto importante in Alla ricerca del tempo perduto e che non è la memoria intellettuale ma quell’altra, la memoria involontaria appunto, quella che da una madeleine inzuppata in una tazza di tè fa risorgere un intero paese (“tutti i fiori del nostro giardino e di quelli del parco di Swann, e le ninfee della Vivonne e la buona gente del villaggio e le loro casette e la chiesa e tutta Combray e i suoi dintorni, tutto quello che vien prendendo forma e solidità, è sorto, città e giardini, dalla mia tazza di tè”) o dal pavimento un po’ sconnesso del cortile di un palazzo parigino il selciato di San Marco a Venezia.

A questo proposito, c’è nel testo di Sebald un passaggio in cui Austerlitz si trova a Praga che sembra proprio un’allusione   (non so quanto intenzionale) del celebre brano de Il tempo ritrovato in cui il Narratore inciampa in una dalle del cortile Guermantes:

“Dacchè presi a girare in quell’intrico di vicoli attraverso case e cortili fra la Vlasská e la Nerudova, e soprattutto nel momento in cui, avanzando in salita passo dopo passo, avvertii sotto i piedi il lastrico diseguale della Sporkova, fu come se avessi già camminato per quelle strade, come se — non mediante lo sforzo della riflessione, ma piuttosto grazie ai sensi rimasti a lungo sopiti ed ora di nuovo desti — si dischiudesse in me il ricordo” (pagg.164-65)

E’ quella memoria che fa risorgere il nostro essere in tutta la sua purezza perchè ciò che lo fa risorgere non è corrotto dalle nostre difese e dalle nostre rimozioni.

(Piccola divagazione/curiosità: anche Heinrich Böll in Foto di gruppo con signora fa riferimento all’episodio del “ciottolo un po’ meno rialzato” di palazzo Guermantes.
Jacques Austerlitz per la maggior parte della sua esistenza ha temuto i ricordi. Ha chiuso gli occhi davanti al passato, ha voluto ignorare tutto della Germania per lui — architetto e uomo coltissimo — “il più sconosciuto dei paesi, ancora più esotico dell’Afganistan o del Paraguay”. Le sue difese si manifestano attraverso l’angoscia, che lo divora e lo paralizza, che gli impedisce di coltivare la relazione con la donna che ama e dalla quale è riamato, e finisce persino per impedirgli di scrivere, tanto le parole gli sembrano false, le frasi incoerenti.

Jacques Austerlitz è un uomo blindato nei confronti del ricordo. Lui stesso parla della sua “autocensura del pensiero, il costante rifiuto di qualsiasi ricordo si delineasse in me” (p.154) e di “…quanto poco fosse esercitata la [sua] memoria e quanti sforzi avess[e] profuso, invece, per non ricordare nulla […]” (p.153) e si rende conto di aver perfezionato sempre più i suoi meccanismi di difesa.

“Sentivo di non aver fatto altro per tutta la vita che cancellarmi volgendo le spalle al mondo e a me stesso” (p.136).

Ma ad un certo punto della sua vita, a cinquant’anni passati, Austerlitz ritrova le sue origini, la sua storia ed il viso della madre perduta quando aveva quattro anni.

Non posso ripercorrere qui nel dettaglio il procedimento narrativo, il tragitto all’indietro che compie Austerlitz, basta dire che in lui tutta una serie di immagini sorgono senza un ordine apparente, egli le descrive e subito alcuni contorni prendono forma. Bruxelles, Anversa, Londra, il paese del Galles. Sono tutti luoghi di memoria. Ed ecco apparire infine il bimbetto ebreo che in un lontanissimo giorno della sua infanzia alla stazione di Praga la madre, per salvarlo dai nazisti, ha fatto salire su uno di quei treni che, attraversando tutta la Germania e poi il Belgio arrivavano finalmente in Inghilterra.

Ci rendiamo allora conto che non è un caso se nella vita e nel racconto di Austerlitz le stazioni ferroviarie sono tanto importanti così come importante è la Gare d’Austerlitz di Parigi, città nel quale era riuscito a rifugiarsi il padre scomparso poi senza lasciare alcuna traccia, molto probabilmente deportato in un campo di sterminio.

Austerlitz è la storia di un uomo che, seguendo in modo pressochè inconscio ed — all’inizio almeno — anche contro la propria volontà ricordi vaghi che gli riportano strane sensazioni che alcuni luoghi gli provocano, ritrova il ricordo, la memoria, dopo cinquant’anni, della sua infanzia a Praga e delle sue origini ebraiche, che erano state completamente cancellate, così come il ceco, la sua lingua madre. Quando inizia a studiare la storia dell’architettura della stazione di Liverpool Austerlitz sente a poco a poco ” lacerti di memoria che cominciavano a vagare alla periferia della coscienza “:

“Erano ricordi come questo ad assalirmi nella Ladies’ Waiting Room abbandonata della stazione di Liverpool Street, ricordi dietro i quali e nei quali si celavano cose risalenti ancora più in là nel tempo ed embricate le une sulle altre, così come le volte labirintiche, che mi parve di distinguere nella luce grigio polvere, si susseguivano in una serie infinita. Ed effettivamente, avevo la sensazione che quella sala d’aspetto, al centro della quale stavo in piedi come abbacinato, contenesse tutte le mie ore trascorse, tutte le mie angosce e i desideri da me sempre repressi e soffocati, che il disegno a losanghe bianche e nere delle lastre di pietra sotto ai miei piedi segnasse il terreno su cui avrei dovuto giocare la partita finale della mia esistenza e che tale disegno si estendesse sull’intera superficie del tempo” (p.150)

Come una vertigine che provoca il fatto di guardare un oggetto secondo una prospettiva obliqua, la reminiscenza del passato si manifesta dunque come una vera e propria tempesta di immagini, di oggetti e di parole che fluttuano nella coscienza. Ricordare è ricostruire, ma non secondo un modo narrativo lineare ma come i frammenti sparsi nello spazio e nel tempo, il passato riemerge secondo procedure complesse per scomparire nuovamente non appena si cerca di dar loro un senso.

Tutto questo fa sorgere in Austerlitz “il pensiero di non essere stato mai veramente in vita o di essere venuto al mondo solo allora, per così dire alla vigilia della morte” (p.151)

L’assenza di linearità nel susseguirsi delle reminiscenze di Austerlitz (tanto simili alle famose “intermittenze del cuore” di cui parla Proust) non lo porta però alla dissoluzione dell’identità o alla perdita della consapevolezza di sè e della dimensione etica della memoria che rimane quella di un uomo cresciuto con una profonda avversione per gli anni del dopo guerra.

Chi per caso abbandonasse la lettura prima di essere arrivato almeno a metà romanzo rimarrebbe con l’impressione errata che tutta la prima parte del libro sia una divagazione: che senso ha tutto quel parlare di fortezze e stazioni, fotografia, di architetture a pianta stellare? La figura della stella è una presenza ricorrente in tutto il libro (come non pensare alla stella di Davide, di cui peraltro nel libro non si parla mai?) E tutto quel soffermarsi sugli orologi?

E invece tutto, nel romanzo, ha un significato: stazioni come punto di partenza e punto di arrivo, stazioni come luoghi di separazione ma anche di incontro, e sono tre le stazioni che segnano la vita del protagonista e dei suoi genitori: Praga, Liverpool, Gare d’Austerlitz. E Therezin infine, una fortezza dalla pianta a stella trasformata dai nazisti in ghetto, quel ghetto in cui è stata deportata la madre di Austerlitz per poi essere inviata in un campo di sterminio; la fotografia che ferma il tempo e ha lo stesso meccanismo della memoria, quando la pellicola esce dal bagno di acidi con figure incerte che assumono lentamente chiarezza.

Il Tempo, il senso di extratemporalità: Austerlitz ha sempre aspirato ad “essere fuori dal tempo” (p.113), non ha mai posseduto alcun tipo di orologio “forse perchè mi sono sempre ribellato al potere del tempo […] nella speranza […] che il tempo non passasse” (p.122)

Il passato è di fatto, per Austerlitz e in Austerlitz, una vera e propria ossessione: rifiutato e rimosso nella prima metà della storia, esplorato, cercato, studiato con appassionata tenacia nella seconda metà.

Non è in fondo, anche quella di Austerlitz-Sebald, in qualche modo una sorta di “ricerca del tempo perduto”?

W.G. Sebald
Winfried Georg Sebald
 

RAGAZZE IN UNIFORME – LEONTINE SAGAN (1931)

Madchen in uniform

Mädchen in uniform (Ragazze in uniforme) della regista Leontine Sagan, tratto dal dramma teatrale Gestern und Heute (Ieri ed oggi) di Christa Winsloe è un film davvero particolare che mi ha interessata molto per parecchi aspetti di cui parlerò.

La storia si svolge in Germania alla vigilia della guerra del 1914, in un collegio di Potsdam riservato a figlie di ufficiali che vi sono educate con severissima disciplina prussiana.

Ragazze in uniformeMadchen in uniform

Madchen in uniform

“Tutto qui è ordine e disciplina, gli affetti non hanno spazio, qui”

“La disciplina deve essere la cosa principale. Così devono essere allevati i veri tedeschi”

Il film inizia con l’ingresso in collegio di Manuela von Meinhardis (Hertha Thiele), una ragazzina di quattordici anni figlia di un ufficiale prussiano ed a cui è venuta da poco a mancare la madre.

Madchen in uniform
Madchen in uniform

Manuela, pur essendo molto bene accolta dalle compagne, e pur facendo del suo meglio per adattarsi alle regole severe e quasi militaresche imposte dalla Direttrice, è un’adolescente ipersensibile, sente molto la mancanza della madre ed ha un disperato bisogno di affetto.

Hertha Thiele

Manuela von Meinhardis (Hertha Thiele)

E’ così che (quasi inevitabilmente, verrebbe da pensare) s’innamora della giovane professoressa Fräulein von Bernburg (Dorothea Wieck),

Dorothea Wieck

Frau von Bernburg (Dorothea Wieck)

E’ la sola educatrice che si dimostri, oltre che molto severa, anche sinceramente interessata alle sue allieve come esseri umani, ragazzine nel bel mezzo dell’età adolescenziale. Fräulein von Bernburg comprende subito la solitudine affettiva di Manuela, e pur non volendo fare discriminazioni tra le ragazze non riesce a non mostrare nei confonti di Manuela una predilezione ed un affetto particolare.

Hertha Thiele

L’affetto di Manuela nei confronti dell’insegnante assume ben presto i toni di una vera e propria passione amorosa, la ragazzina esalta il significato di ogni minimo gesto della professoressa e riesce sempre meno a nascondere quello che ormai è diventato, per lei, un vero e proprio tormento d’amore.

Ragazze in uniforme

Per festeggiare il compleanno della Direttrice, si allestice una recita scolastica. Si mette in scena un dramma teatrale, il Don Carlos di Schiller.

Madchen in uniform

“Non c’è niente di meglio per le ragazze che imparare i grandi classici tedeschi…”

Guidate nella recitazione dall’insegnante di tedesco Fräulein von Attems sono le ragazze ad interpretare tutti i ruoli del dramma, sia quelli femminili che quelli maschili.

Manuela è la protagonista. In vesti maschili, interpreta il ruolo di Carlos ottenendo un grande successo soprattutto per la grande passione che dimostra nella grande scena d’amore con la regina Elisabetta.

Ma è a questo punto che la situazione precipita.

Esaltata dal suo successo, completamente ubriaca per il punch che — eccezionalmente — in questa sera di festa è stato servito anche alle ragazze, Manuela dichiara pubblicamente i suoi sentimenti per Fräulein von Burnburg provocando uno scandalo tremendo e l’ira della Direttrice, che la espellerebbe immediatamente se Manuela non appartenesse ad una delle famiglie più vicine alla Corte prussiana.

Hertha ThieleHertha Thiele

Ma se Manuela non può — per motivi di opportunità — venire espulsa, può essere punita. La direttrice ordina una punizione che, per un carattere fragile come quello di Manuela, è veramente terribile. Ordina infatti che più nessuna (le compagne, le professoresse, il personale di servizio) rivolga più alla ragazza nemmeno una sola parola. La ragazza “deve essere completamente emarginata”, è la sentenza della direttrice, e chiunque verrà sorpreso a parlare con lei sarà punita a sua volta. La stessa Fräulein von Burnburg viene convocata in direzione, pesantemente rimproverata e minacciata di licenziamento.

Nonostante le compagne facciano di tutto per mostrarle — nei limiti a loro consentiti dalla sorveglianza della direttrice — la loro solidarietà, Manuela perde completmente la testa.

Terrorizzata dalla sua presunta colpa, tenta di uccidersi buttandosi dall’alto della grande scalinata del collegio.

Hertha Thiele

Verrà salvata appena in tempo dalle sue compagne.

Hertha Thiele

Ragazze in uniforme è il dramma di un’infatuazione giovanile, una di quelle infatuazioni cieche, esclusive e un poco isteriche di scolara verso maestra, come ne può produrre, su temperamenti particolarmente inclinati, la reclusione del collegio. Questa infatuazione, che in un clima di educazione normale e sereno avrebbe probabilmente avuto il calmo decorso di un sentimento buono, portata nell’atmosfera di soffocazione di un convitto prussiano per fanciulle nobili si esaspera fino a rasentare la tragedia. Lo stesso comportamento di Fräulein von Burnburg appare a tratti ambiguo e conseguenza di un contesto che risulta claustrofobico per una qualsiasi mancanza di rapporto/confronto con qualsiasi persona non di sesso femminile.

Ragazze in uniformeIl film vuole dimostrare la superiorità educativa dell’amore sulla disciplina, e proprio per questo la tragedia è scongiurata dall’amore. E’ infatti l’affetto che le compagne di Manuela nutrono per lei a fare si che, allarmate della sua disperazione e infrangendo la rigidissima consegna, le spinge all’ultimo momento a correre alla ricerca della ragazzina, arrivando appena in tempo a salvarla.

Dorotea Wieck nella parte della maestra e Herta Thiele in quella di Manuela stanno al centro di tutto. Ma anche tutte le altre sono bravissime.

E’ un film che impressiona anche oggi per la ricostruzione attenta ed appassionata di un ambiente, per la vena erotica implicita ma molto presente, per il tatto e la sensibilità della narrazione, per la qualità dell’interpretazione.

Ragazze in uniforme ha, dicevo, alcune peculiarità.

Innanzitutto è un film scritto, diretto, prodotto  ed interpretato interamente da donne.

La regista Leontine Sagan, nata Leontine Schlesinger a Vienna nel 1889, cominciò la sua carriera come attrice. Era stata allieva di Max Reinhardt. Aveva sfidato il mondo tutto maschile della direzione teatrale mitteleuropea, diventando in Austria nel 1920 direttrice di teatro. Promossi vari spettacoli di autrici, decise di fare un film basandosi sul dramma Ieri e Oggi della tedesca Christa Winsloe, testo teatrale diventato famoso per il cast completamente femminile. Sagan tradusse l’opera teatrale in Ragazze in Uniforme, film che diresse in Germania nel 1931.

Leontine Sagan

La regista Leontine Sagan

Christa Winsloe, l’autrice del testo teatrale, nata nel 1888, era figlia di un ufficiale. Proprio come Manuela la protagonista del film, subito la morte precoce della madre Christa era stata mandata in un collegio a Potsdam. Lo scopo del convitto era educare le donne a diventare mogli di soldati e madri. E’ educata anche in un collegio svizzero. In seguito va a Monaco dove sceglie una strada insolita: una Scuola di Arti applicate con indirizzo alla scultura.

Christa Winsloe

Christa Winsloe, l’autrice del testo teatrale

Oltre a avere un cast femminile, Mädchen in uniform era anche il primo film in lingua tedesca prodotto cooperativamente così che le persone coinvolte avessero sia i proventi del film che il salario.

Le interpreti sono attrici professioniste ma anche non professioniste. Nel cast compare anche Erika Mann (figlia primogenita di Thomas e Katia e sorella di Klaus), che interpreta Fräulein von Attems, l’insegnante di tedesco e di recitazione incaricata di curare l’allestimento del Don Carlos e della regia dello spettacolo.

Erika MannErika Mann

Erika Mann

Il film è una denuncia dell’autoritarismo prussiano ma anche un’evocazione molto discreta dell’omosessualità femminile nella scuola. La lavorazione si svolse in un vero istituto, un orfanotrofio dì Potsdam.

Leontine Sagan dichiarò di aver voluto soprattutto condannare “un sistema che trasforma le allieve in automi spaventati”. Ma voleva anche descrivere lo sbocciare della sessualità nelle adolescenti.

Spesso indicato come il primo film a tema lesbico, a me sembra che il film mostri soprattutto i possibili effetti di criteri educativi basati esclusivamente sulla reclusione, sulla pretesa di bandire l’affettività, l’impossibilità di avere contatti con l’altro sesso. Il tutto espresso con grande tatto e sensibilità, come ad esempio nella scena più delicata, quella del bacio dato dalla professoressa sulle labbra dell’allieva.

Madchen in uniformRagazze in uniforme

Il pubblico ne venne conquistato e il film risultò un grande successo internazionale. Vinse anche diversi premi tra cui quello   per la “miglior perfezione tecnica” al Venezia film festival.

Per l’edizione francese del film fu Colette a scrivere i sottotitoli.

Mädchen in uniform venne proiettato per la prima volta il 27 novembre 1931 a Berlino al “Gloria Palast”.

La data è importante.

Consideriamo infatti il contesto storico in cui il film apparve. Nel 1931 Hitler era infatti in ascesa e riuscire a produrre e a proiettare pubblicamente un film che, come questo, è apertamente anti-nazionalistico, anti-prussiano, anti-autoritario e che per di più mostrava apertamente la possibilità di amore fra donne non è roba da sottovalutare.

Dopo la vittoria di Hitler – nel 1933 – la produzione artistica non ariana venne vietata. Leontine Sagan, che era ebrea, Erika Mann ed altre artiste della sua equipe fuggirono dalla Germania e dal nazismo.

Un altro aspetto molto particolare circa la storia di questo film riguarda il finale.

Nella pellicola originale tedesca (quella che ho visto  io) Manuela non muore ma viene salvata dalle compagne.

Quando però, negli anni ’30, due distributori americani acquistarono la pellicola, d’accordo con l’Hays Office cambiarono il finale. Il codice Hays era la nota censura americana anticomunista ed era vietato parlare dell’omosessualità per entrambi i sessi. Nel 1931 il finale pattuito in USA fu dunque il suicidio di Manuela. Far morire Manuela costituiva, secondo i distributori americani, “un messaggio politicamente più valido”.

Manuela, colpevole di aver amato una donna, non poteva cavarsela, doveva morire (traduco io).

Esiste un remake di Mädchen in uniform realizzato nel 1958 da Geza von Radvanyi con Lilli Palmer e Romy Schneider. Non l’ho visto, ma da quel che ne ho letto e sentito dire, a parte la bravura delle due attrici protagoniste pare  sia molto più soft di quello girato dalla Sagan nel 1931.

Ragazze in uniforme (titolo originale: Mädchen in uniform), dal dramma teatrale Gestern und Heute (Ieri e oggi) di Christa Winsloe, regia di Leontine Sagan, sceneggiatura Christa Winsloe

Interpreti e personaggi principali: Dorothea Wieck (Fräulein Von Bernburg), Ellen Schwanneke (Ilse Von Westhagen), Hertha Thiele (Manuela von Meinhardis), Emilia Unda (la Preside), Hedwig Schlichter (Fräulein Von Kesten), Erika Mann, Fräulein von Attems

Musica Hanson Milde-Meisser, fotografia Reimar Kuntze e Franz Weihmayr

durata 88′, Germania, 1931

 Dotohea Wieck Hertha Thiele

MEMORIA DEL MALE, TENTAZIONE DEL BENE – TZVETAN TODOROV

Todorov
Tzvetan TODOROV, Memoria del male, tentazione del bene (tit. orig. Mémoire du mal Tentation du bien) traduz. dal francese di Roberto Rossi, p. 408, Garzanti, Collana Gli Elefanti, ISBN 9788811678236

Nell’assumere – nei suoi saggi che spaziano nei più diversi campi e tempi della letteratura e della cultura del mondo – l’individuo come valore, Tzvetan Todorov richiama la straordinaria attualità dell’ideale umanistico, rispettoso dell’equilibrio fra esigenze del pluralismo e aspirazione dell’essere all’unità. Nell’insieme delle sue opere, tutte di assoluto impegno morale e intellettuale, emerge con chiarezza l’ostilità verso le tentazioni utopiche sotto qualunque forme prospettate. Critico nei confronti d’ogni determinismo, biologico, sociale, culturale o psichico è convinto con Montaigne, che l’esistenza umana resterà sempre un “giardino imperfetto”. In un mondo dove ciascuno è chiamato alla consapevolezza d’una responsabile azione per il bene, e dove tuttavia abita la speranza che si affida all’educazione.

Questa che ho riportato è la motivazione che la giuria del Premio Nonino 2002, presieduta da Claudio Magris ha dato scegliendo come vincitore dell’edizione internazionale destinato ai “maestri del nostro tempo” Tzvetan Todorov (Sofia 1939), linguista, filosofo e antropologo nato e vissuto per gran parte della sua vita in Bulgaria ma poi trasferitosi in Francia nel 1963 per sottrarsi al regime comunista e ormai da anni francese d’adozione.

Memoria del male, tentazione del bene è il primo libro che leggo di questo studioso che ha tra gli altri meriti quello di scrivere su temi profondi ma anche molto attuali e coinvolgenti in maniera chiara e scorrevole.

In questo saggio (che ha per sottotitolo Inchiesta su un secolo tragico) Todorov affronta ed analizza   quello che per lui è l’avvenimento centrale del XX secolo e cioè “la comparsa di un nuovo male, di un regime politico inedito, il totalitarismo” e riflettte sullo scontro fra il totalitarismo e il suo nemico, la democrazia. Va detto subito che per Todorov fascismo e comunismo sono due sottospecie del medesimo genere, di quel “male estremo” che è il totalitarismo. Il campo d’indagine è delimitato dalla data della nascita del primo regime totalitario della storia, quello bolscevico nel ’17, e dall’implosione di questo nell’89. In mezzo, la nascita degli altri regimi, quello nazista in primis, e la lotta con la democrazia con tutte le variazioni delle alleanze possibili, compresa quella tra nazisti e comunisti con il patto Molotov-Ribbentrop.

Todorov indaga il carattere di questi regimi, mettendone in luce gli aspetti ideologici quali lo scientismo, il velo del mito comunitario che cela società fortemente gerarchizzate, il monismo assoluto che si contrappone al pluralismo democratico con l’assolutizzazione del capo e del partito, e che si conservava attraverso il terrore, la censura e il disconoscimento dell’alterità.

Ma se, dice Todorov, i due totalitarismi che hanno dominato la scena europea nel secolo scorso costituiscono la “Memoria del Male”, il rischio delle democrazie — comunque il migliore dei regimi possibili — è quello di cadere nella “Tentazione del Bene”. Nel capitolo infatti intitolato Diritto di ingerenza o dovere di assistenza? Todorov si interroga sulla liceità dell’esportazione di un modello culturale, quello liberista e democratico, qualora venga imposto come unica alternativa anche in contesti e culture che hanno logiche diverse.

La “tentazione del bene” si manifesta con le varie “guerre umanitarie” e “bombe intelligenti” (un lungo capitolo è dedicato all’analisi della guerra del Kosovo, ad esempio). Guerra etica, gerarchia “preliminare nel costo delle vite umane” (quando le morti dei civili “nemici” vengono considerate meno importanti di quelle dei soldati mandati a bombardare), umanitarismo che accompagna le azioni militari: ecco alcuni esempi di malafede e di inganno (talvolta anche di autoinganno) che oggi imperano, in cui la “tentazione del bene domina”, quando cioè anche le peggiori azioni vogliono ammantarsi di un significato eticamente accettabile, se non addirittura nobile. Non bisogna guardarsi solo dalle tentazioni del male, dice Todorov, ma spesso anche da quelle del bene.

Come ci si ricorderà del secolo passato? Non è stato solo tenebra, e Todorov ci tiene a sottolinearlo quando scrive:

“Come ci si ricorderà un giorno di questo secolo? Sarà chiamato il secolo di Stalin e di Hitler? Sarebbe accordare ai tiranni un onore che non meritano: è inutile glorificare i malfattori […] per parte mia preferirei che si ricordassero, di questo cupo secolo, le figure luminose di alcuni individui dal destino drammatico, dalla lucidità impietosa, che hanno continuato malgrado tutto a credere che l’uomo merita di rimanere lo scopo dell’uomo”.

Il libro è dunque contrappuntato con le biografie di alcune figure che hanno rappresentato in qualche modo questo versante “luminoso” dell’umanità. Vasilij Grossman (di Vasilij Grossman sono, tra l’altro, tutte le citazioni poste in epigrafe ad i singoli capitoli del saggio), Margarete Buber-Neumann, David Rousset, Primo Levi , Romain Gary, Germane Tillion. Una delle principali caratteristiche di queste figure è il non aver avuto il vizio di sentirsi “l’incarnazione del bene”, di autocelebrarsi, di non essere insomma stati “tentati dal bene”.

Il metodo di Todorov è quello dell’inchiesta documentata, ci si muove tra storia, filosofia e politica perchè è con la interdisciplinarietà, la trasversalità che è possibile non cadere nelle trappole degli schemi ideologici prestabiliti.

Il libro è ricchissimo di stimoli e di spunti di riflessione, non mi è certo possibile riproporli tutti. Vorrei ricordarne solo due che mi hanno particolarmente coinvolta.

Il primo è il tema della scala di valori al negativo degli eventi occorsi. Secondo Todorov infatti non è semplice e nemmeno scontato creare una scala di valori al negativo degli eventi occorsi: ad esempio per un giapponese (viene citato il Nobel Kenzaburo Oe) la bomba atomica scagliata su Hiroshima sarà giudicata come il maggior crimine del secolo. È ciò che in qualche modo ci riguarda quello che crea un giudizio più forte.

Il secondo è il tema della memoria e la distinzione che Todorov fa tra “memoria sacralizzante” e “memoria banalizzante”: “… il passato, sacralizzato, non ci richiama ad altro che a sé stesso e a chiunque. Ma, per di più, le funzioni che si fanno assumere a questo passato non sono tutte ugualmente raccomandabili”

L’interesse di Todorov, pensatore senza dogmi e o schemi intellettuali imbrigliati in categorie ideologiche, è “la storia delle idee”, I temi di attualità qui trattati sono davvero molti, tutti coinvolgenti, tutti ugualmente ambigui. La lettura di questo saggio mi ha appassionata, i problemi affrontanti mi sono sembrati estremamente attuali e mi ha arricchita di strumenti migliori per potermi orientare nella massa di messaggi spesso propagandistici e stereotipali da cui veniamo ogni giorno bombardati dai media.

Voglio chiudere con queste parole di Todorov:

“Per disfarsi di un’ideologia manichea, erede delle dottrine totalitarie, che divide l’umanità in due metà ermetiche, i buoni e i cattivi, noi e gli altri, la cosa migliore è non divenire a propria volta manichei. Un precetto per il prossimo secolo potrebbe essere: iniziare a combattere non il male in nome del bene, ma la sicurezza di quelli che pretendono di sapere sempre dove si trovano bene e male; non il diavolo ma ciò che lo rende possibile: il pensiero manicheo stesso” (p.235)

Tzvetan Todorov
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SEBALD e VAN VALKENBORCH

Lucas van Valkenborch

Lucas van Valkenborch (1530-1597)

Veduta di Anversa con la Schelda gelata

Städelsches Kunstinstitut, Frankfurt

“Austerlitz riprese le sue considerazioni il giorno successivo, per il quale ci eravamo dati appuntamento con l’intenzione di passeggiare sulla terrazza prospiciente la Schelda. Indicò la grande massa d’acqua baluginante nel sole del mattino e raccontò di un quadro, dipinto da Lucas van Valckenborch verso la metà del XVI secolo al tempo della cosiddetta piccola glaciazione, nel quale si poteva vedere   la Schelda gelata dalla sponda opposta e, dietro di essa, molto scura, la città di Anversa e un striscia di campagna piatta digradante verso la costa. Dal cielo cupo sopra il campanile della cattedrale di Nostra Signora scende una fitta nevicata, e laggiù sul fiume, che noi adesso a trecento anni di distanza, stiamo guardando, disse Austerlitz, gli abitanti di Anversa si divertono sul ghiaccio, il popolo minuto in casacche color terra, i signori con mantelli neri e gorgiere di pizzo bianco. In primo piano verso il margine destro del quadro, è caduta una dama. Indossa un abito giallo canarino, mentre il cavaliere che si china preoccupato su di lei porta dei calzoni rossi, molto appariscenti in quella luce scialba.

Se adesso guardo laggiù e penso a quel dipinto e alle sue minuscole figure, ho come la sensazione che il momento raffigurato da Lucas van Valkenborch non sia mai trascorso, che la dama giallo canarino sia caduta o abbia perso i sensi in questo istante, che la cuffia di velluto nero le sia scivolata giù di lato solo un attimo fa, come se quel piccolo incidente, che certo la maggioranza degli osservatori non notano, continuasse a ripetersi, come se non smettesse mai, e nulla e nessuno potesse porvi rimedio.”

(da Austerlitz di W.G. Sebald)

Da sempre, quando incontro in un testo di narrativa descrizioni di opere d’arti figurative, mi viene la curiosità/voglia di visualizzarle. Prima dell’avvento di Internet era un problema, perchè bisognava andare in cerca di volumi o riviste d’arte e non sempre mi era facile procurarmi le riproduzioni specialmente quando si trattava di artisti non popolarissimi.

Ricordo di aver letto per la prima volta Alla ricerca del tempo perduto con la frustrazione di non conoscere un buon 50% se non di più delle opere d’arte di cui Proust parla nel romanzo (e che sono davvero tante, eh).

Adesso con Internet tutto è diventato più semplice, oggi mi posso consentire il lusso di andar subito a cercare in rete l’immagine delle opere d’arte di cui leggo in un libro di narrativa.

Spesso questo mi consente di scoprire quadri, architetture, statue che non conoscevo (e dunque di imparare cose nuove) e di riflettere, di volta in volta, sull’uso che i narratori fanno di tali opere nei loro romanzi o racconti. Questo van Valkenborch, ad esempio, non l’avevo mai neppure sentito nominare. Adesso grazie al romanzo di Sebald l’ho cercato, l’ho trovato, ho visto altri suoi dipinti, mi sono fatta qualche idea.

Sempre tenendo a mente quello che ha scritto Virginia Woolf e di cui ho già parlato >>> qui.

KATYN – ANDRZEJ WAJDA (2007)

Katyn Wajda

Katyn di Andrzej Wajda è il primo film sul massacro di 22.000 polacchi avvenuto nella foresta di Katyn, che si trova in Ucraina, non lontano dalla frontiera russa. Il primo film sulla “bugia di Katyn”.

Questo massacro venne effettuato nel 1940, nel momento in cui la Polonia veniva invasa contemporaneamente dall’ Armata Rossa dell’URSS e dalla Wermacht della Germania nazista.

Ad ottantatre anni, il grande regista polacco, Oscar alla carriera nel 2000, ha fatto uno splendido film su un tema assolutamente tabu ai tempi del comunismo in Polonia. Tanto tabu che il solo fatto di essere parente di una vittima di Katyn poteva avere come conseguenza anche l’interdizione agli studi universitari.

Centoventiquattro minuti di immagini che raccontano ciò che accadde nella foresta di Katyn e la tragedia delle famiglie delle vittime.

A Katyn vennero uccisi su ordine di Stalin e Beria più di 22.000 civili ed ufficiali polacchi, rappresentanti la maggior parte l’èlite della società polacca o quanto meno i principali corpi dirigenti ed i quadri più importanti dell’apparato statale della Polonia.

Vennero uccisi uno per uno con un colpo alla nuca e gettati poi ammassati in fosse comuni. II massacro (una vera e propria mattanza) aveva uno scopo ben preciso: eliminare la classe dirigente della Polonia.

Furono i nazisti i primi a scoprire il massacro quando, nel 1943, le loro truppe d’occupazione invasero la Russia e trovarono le fosse. Stalin accusò i tedeschi di essere stati loro gli autori dell’eccidio dei polacchi, ma i tedeschi insistevano nel propagandare la scoperta fatta in Russia per mascherare i loro propri massacri degli ebrei, degli zingari…

Questo soggetto non era affrontabile nella Polonia del dopoguerra, visto che la Polonia fu sotto il regime comunista fino al 1989. I sovietici insistevano nella loro propaganda addossando l’eccidio agli uomini di Hitler e punivano con il carcere chiunque osasse dire la verità.

Soltanto nel 1990 Mikhail Gorbaciov ammise la responsabilità del suo paese.

Nel film, la narrazione si apre in data 17 settembre 1939 con una grande scena simbolica: due folle di fuggitivi polacchi si trovano su un ponte correndo gli uni in direzione degli altri, scappando gli uni dai nazisti della Wermacht e gli altri dai sovietici dell’Armata Rossa.

L’Urss invadeva la Polonia facendo seguito al patto Molotov-Ribbentrop con cui il regime nazista e la controparte staliniana si erano spartiti nel 1939 il territorio polacco.

Katyn - WajdaKatyn - Wajda

Katyn

“Dove andate? Ci sono i tedeschi dietro di noi!”

“Sono entrati i sovietici!”

“Dove andate, tornate indietro, sono entrati i Russi!”

“Ma dietro di noi ci sono i tedeschi!”

Una scena che è una grande metafora della condizione bellica di un popolo stritolato tra due potenze, condannato qualsiasi direzione decida di prendere.

Altrettanto potente è la scena seguente, in cui si vedono due soldati sovietici strappare in due la bandiera polacca. Uno di loro appenderà all’asta la parte rossa della bandiera, mentre l’altro soldato adopererà la stoffa bianca per pulirsi i piedi…

Katyn

Appena qualche giorno dopo l’invasione ha inizio la deportazione in massa dei graduati migliori dell’esercito polacco nei campi di Kozielsk, Starobielsk, Ostaszkow.

Katyn - Wajda
Katyn - Wajda
Katyn - Wajda
Katyn - Wajda

Il 6 novembre dello stesso anno i professori dell’Università di Cracovia, scienziati e ingegneri di tutto il Paese vengono arrestati dai Nazisti e deportati in Germania.

Anche i tedeschi vogliono “decapitare” la Polonia.

Katyn - Wajda

Comincia così il racconto su due piani paralleli: da una parte la condizione degli ufficiali prigionieri dei sovietici. Pensano ancora di essere normali prigionieri di guerra, non sanno di essere dei condannati a morte. Beria, infatti, ha già firmato il decreto.

Katyn

Il giorno di Natale del 1939 nel campo di Kozelsk

Katyn
Katyn

Dall’altra parte assistiamo al calvario delle famiglie, che non cessano di chiedere invano notizie dei loro padri, mariti, fratelli di cui non sanno più nulla, di aspettarli, di sperare.

Katyn

Katyn Wajda

Finché, nell’aprile del 1943, i quotidiani e la filodiffusione organizzata dai nazisti non inizia a ribadire un giorno dopo l’altro la notizia del ritrovamento di migliaia di corpi nella fossa comune di Katyn, uccisi per mano sovietica.

Katyn Wajda

La pubblicazione e la lettura dei nomi degli scomparsi aleggia come uno spettro sulla vita quotidiana. Il dramma di chi ha perso qualcuno non è maggiore di quello di chi lo sospetta solamente, lo percepisce ma non lo accetta.

Katyn

La fine della Guerra rappresenta, per i familiari delle vittime di Katyn, l’inizio di un’altra guerra: quella per la verità.

Katyn Coloro che non accettano la versione imposta dall’Unione Sovietica alla nuova Repubblica Popolare Polacca, ovvero che responsabili del massacro siano i nazisti, devono fare i conti con la propria coscienza, con la prigione, con una vita da braccati o reclusi. L’università è vietata a chi nel proprio curriculum scrive che il proprio padre è stato ucciso dai russi, la lapide di una tomba non può portare la scritta “ucciso a Katyn”…

Per loro la guerra non è davvero mai finita; sono condannati a vivere in eterno le battaglie che i loro cari hanno solo potuto immaginare dal campo di prigionia.

E’ solo nel finale del film che, tornando indietro al 1940, Wajda ci fa vedere quello che è successo in quei giorni a Katyn.

Una terribile sequenza che dura circa un quarto d’ora ed è di una crudezza quasi insostenibile. In essa Wajda ricostruisce il processo automatico con cui vengono giustiziati i prigionieri, una vera e propria mattanza.

KatynKatyn

Le inquadrature restituiscono il ritmo del massacro, gli uomini che scendono dai camion, trasportati come animali al macello, le mani legate dietro la schiena, molti vengono incappucciati, per tutti il colpo di pistola alla nuca, le fosse comuni, e poi le ruspe che scaricano la terra sui mucchi di cadaveri. Molti tengono in mano un rosario. Sono morti recitando il Pater Noster.

Katyn Wajda
Katyn

Katyn

Il regista ha anche utilizzato immagini d’archivio di filmati girati dai tedeschi durante la riesumazione dei corpi nel 1943, e poi quelle girate dalla propaganda sovietica.

“Mi sono chiesto” ha detto Wajda “se fosse il caso di mostrare o no queste immagini. Mi è sembrato necessario farlo, perchè questo è il primo film che viene realizzato su questo soggetto. Non basta sapere che tutto questo è accaduto. Bisogna che venga visto, sentire e capire come la tragedia si è svolta. Questo è stato vietato per decenni, ed è per questo che c’è bisogno di verità”

Il film si chiude con un intero minuto di schermo completamente nero, mentre risuonano le note del Requiem Polacco di Krzysztof Penderecki.

Wajda dedica il film “ai miei genitori”, perchè anche suo padre, Jakub, fu una delle vittime del massacro di Katyn. Aveva 43 anni, era capitano di un reggimento di fanteria dell’esercito polacco, uno degli ufficiali fatti prigionieri dai sovietici e fu ucciso dagli uomini dell’NKDV con un colpo di pistola alla nuca nella foresta di Katyn.

Come centinaia di altre donne, la madre di Wajda per molto tempo non ha accettato di credere alla sua morte. “Mia madre si è nutrita di illusioni fino alla fine della sua vita, perchè il cognome di mio padre compariva con un altro nome sulla lista degli ufficiali massacrati” ha raccontato il regista in una conferenza stampa.

Il film di Wajda permette di individuare le responsabilità dei due grandi invasori della Polonia, perchè mostra anche la complicità della Germania nello scopo comune di sopprimere le èlites intellettuali e militari della Polonia.

Katyn è un film struggente, magnificamente diretto e interpretato. Una buona parte si svolge a Cracovia e racconta l’attesa delle donne (mogli, madri, figlie, sorelle) negli anni tra il 1939 e il 1950.

Il film è articolato attorno alle tre date che segnano questo itinerario del massacro e della menzogna: 1939-1940, con la duplice occupazione e la cattura degli ufficiali da parte dei sovietici. 1943, in cui gli altoparlanti e i giornali tedeschi diffondono i nomi degli uccisi ed polacchi apprendono il massacro di Katyn. 1945, quando la menzogna dei sovietici che cercano di addossare l’eccidio ai nazisti arriva alla nuova generazione: vediamo un ragazzo rifiutato all’università perchè figlio di un ufficiale scomparso a Katyn e che viene ucciso poco dopo per aver strappato un manifesto della propaganda sovietica.

Quello che vediamo è una fiction, certo, ma Wajda ha insistito molto nel dire che è basato su episodi autentici.

Per raccontare la tragedia dei quattro ufficiali del film, delle loro mogli che li aspettano senza notizie e dei loro figli che avranno in eredità il silenzio e la menzogna, Wajda ha utilizzato storie dal diario autentico del maggiore Adam Solski trovato durante l’esumazione del cadavere nel 1943.

Katyn

Il film ha un duplice obiettivo: raccontare il massacro in quanto tale e la soppressione della verità e le conseguenze che tutto questo ha prodotto sulle famiglie delle vittime.

Katyn Per raggiungere questi due obiettivi, Wajda parla soprattutto dei sentimenti di coloro che vissero il dramma. E’ attraverso la narrazione di storie personali ed intime vissute da alcuni personaggi, che il film diventa testimone della storia.

Katyn è un grande film: ha il respiro dell’epopea, una grande potenza evocativa, riesce a soddisfare i canoni dello spettacolo popolare senza rinunciare alle esigenze storiche. E’ angosciante, commovente, coinvolgente.

Non sono per nulla d’accordo con coloro (pochi, in verità) che, arricciando il naso, hanno sentenziato che Katyn ha troppo elementi da telenovela, da melodramma.

Può darsi. Ma io me lo spiego così: quella di Wajda è stata una precisa scelta di codici di comunicazione. Voleva raggiungere il cuore di molte persone, e per ottenere questo ha utilizzato un codice cinematografico non ermetico, non per “i soliti pochi”.

Ha fatto bene, ha fatto male?

Io so solo che il film mi ha commossa profondamente, mi ha provocato una notte di incubi e mi sono detta: “…ma chi me lo fa fare a vedere film così?”.

Eppure, nei giorni seguenti l’ho rivisto altre tre volte. E cose del genere assicuro che non mi succedono tanto spesso e facilmente.

… E poi ho sentito l’esigenza di documentarmi, di leggere, di cercare altro materiale. Di legger libri. Tutto questo, per me è importante.

Wajda ha voluto che il suo film fosse interamente polacco, tutto, in Katyn, è polacco. Ha anche rifiutato qualsiasi forma di co-produzione.

La fotografia è di Pawel Edelman, l’operatore de Il pianista, la musica — bellissima — è di Krzysztof Penderecki.

Stralci della Terza Sinfonia, del Secondo Concerto per Violoncello e del Requiem Polacco sottolineano ma allo stesso tempo amplificano, con le loro quiete ma inquietanti dissonanze, tutto l’orrore di quello che avviene sullo schermo.

La sceneggiatura è un adattamento di Post mortem, un libro di Andrzej Mularczyk.

Nel cast sono presenti i migliori attori contemporanei della Polonia.

I più giovani di essi non erano nemmeno nati, all’epoca dell’eccidio, e in conferenza stampa hanno detto di avere appreso i particolari di questa tragedia soltanto durante la lavorazione del film.

Andrzej Wajda

Andrzej Wajda

La Cancelliera tedesca Angela Merkel ed altri rappresentanti del governo tedesco hanno assistito alla proiezione del film al Festival del Cinema di Berlino, dove era stato presentato fuori concorso. La presenza della Merkel è stata molto apprezzata da Wajda, che ha spiegato, in una conferenza stampa, che secondo lui questo gesto è stato tanto più ammirevole in quanto simbolizza il fatto che non si può andare avanti facendo tabula rasa del passato.

Katyn (2007), Regia Andrzej Wajda, scritto da Andrzej Mularczyk, Przemyslaw Nowakowski, Wladyslaw Pasikowski, Andrzej Wajda

Interpreti e personaggi principali: Artur Zmijewski (Andrzej), Maja Ostaszewska (Anna), Andrzej Chyra (Tenente Jerzy), Danuta Stenka (Róza), Jan Englert (il Generale), Magdalena Cielecka (Agnieszka), Agnieszka Glinska (Irena), Pawel Malaszynski (Tenente Piotr), Maja Komorowska (madre di di Andrzej), Wladyslaw Kowalski (Professor Jan), Oleg Savkin (Ufficiale della NKWD), Antoni Pawlicki (Tadeusz), Agnieszka Kawiorska (Ewa)
Musica di Krzysztof Penderecki.
Fotografia Pawel Edelman, Scene Wieslawa Chojkowska, Costumi Magdalena Biedrzycka
Colori, durata 118 min., Polonia 2007
Nomination per l’Academy Award (Oscar) per il miglior film in lingua straniera.

Documento scritto da Lavrentj Beria, Commissario di Primo Grado della Sicurezza di Stato (il Ministro per gli Affari Interni) con cui viene richiesta l’autorizzazione ad uccidere 14.700 prigionieri di guerra e altri 11.000 prigionieri.
La firma e l’autorizzazione di Stalin compaiono nella parte superiore del documento.

(da Wikipedia)

MORS STUPEBIT

Krysztof Penderecki

Mors stupebit et natura,
cum resurget creatura,
judicanti responsura

Stupiranno morte e natura,
quando risorgerà la creatura
per rispondere al giudice

Judex ergo cum sedebit,
quidquid latet apparebit,
nihil inultum remanebit.

Quando sarà assiso il giudice,
tutto ciò che  è ignoto apparirà,
nulla rimarrà impunito.

Domine Deus,
Rex Caelestis, Deus Pater Omnipotens

Signore Iddio,
Re dei Cieli, Dio Padre Onnipotente

Penderecki Requiem
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