VASILIJ GROSSMAN

Vasilij Grossman

“Grossman fu in realtà segnato da profonde contraddizioni, come l’epoca in cui visse. La sua fu una vita contrassegnata da conflitti morali, culturali e filosofici. Benchè egli fosse stato uno dei primi beneficiari del regime sovietico, nonchè un intellettuale che aveva lavorato e lottato per la sopravvivenza di quest’ultimo, egli si spostò dall’adesione alla Rivoluzione d’Ottobre a un graduale, ma totale rifiuto delle premesse e dei valori fondamentali del marxismo-leninismo. L’esistenza dell’ebreo Grossman si svolse alternando assimilazione ed opposizione. Egli fece esperienza sia dell’antisemitismo nazista che di quello sovietico. Benchè amante della letteratura russa e della cultura europea, fu costretto ad operare in un ambiente letterario dominato dal realismo socialista e dallo sciovinismo sovietico. Benchè grande ammiratore di Spinoza e di Cechov, si battè per dare un senso all’amoralità e alla Realpolitick del regime leninista-stalinista. Rimase in silenzio quando parenti e amici furono spazzati via dal Grande Terrore degli anni Trenta, eppure mostrò eroico coraggio come principale corrispondente del fronte orientale. Predicò la fedeltà e l’amicizia, ma ebbe un paio di relazioni con le mogli di suoi stretti collaboratori.

Sia come ebreo che cone romanziere, Grossman fornisce una prospettiva senza uguali sul XX secolo”.

(John e Carol Garrard, prefazione a  >>> Le ossa di Berdicev. La vita e il destino di Vasilij Grossman)

Ho cominciato oggi a leggere questo libro ed ho già capito non ne verrò fuori presto.

Ci sono libri che non vogliono  fretta ma lentezza.
Molta, molta lentezza.

TENTAZIONE – JÁNOS SZÉKELY

Janos Szekely - Tentazione
János SZÉKELY, Tentazione (tit. orig. Kísértés), traduz. Vera Gheno, p.683, Adelphi, Collana Fabula, ISBN 9788845923531

Il protagonista Béla ci fornisce subito, sin dall’incipit, il “tono” di questo romanzo: “La mia vita è iniziata come un autentico romanzo d’appendice. Mi volevano assassinare.”

Tentazione è la storia dell’infanzia e dell’adolescenza di Béla, un orfano abbandonato a sè stesso nell’Ungheria degli anni 1920.

Concepito accidentalmente, non desiderato dalla madre sedicenne che ricorre ai mezzi più atroci nel tentativo di abortire, abbandonato subito dopo la nascita nelle grinfie di zia Rosika, una vecchia ex prostituta riciclatasi in mammana che tiene con sè i figli delle ragazze madri povere ricattandole e facendosi dare tutti i loro miseri guadagni, il bambino trascorre l’infanzia nelle condizioni di più nera miseria e soffrendo i tormenti del freddo e della fame più spaventosa.

A quattordici anni, il 31 dicembre del 1931, la madre — che non vede da più di otto anni — viene a riprenderlo e lo porta con sè a Budapest. Ma a Budapest Béla non trova certo condizioni di vita migliori: comincia adesso una vera e propria saga di questo ragazzino e di sua madre per sopravvivere nell’Ungheria degli anni 20 e 30.

La madre per guadagnare qualche soldo che non basta nemmeno a sfamarli lavora anche dieci ore al giorno come lavandaia; Béla riesce a farsi assumere come ragazzo dell’ascensore nel più grande albergo di lusso della città.

Esposto alle luci ed alle turpitudini della capitale, la vita di Béla si divide in due: la miseria della vita domestica con la madre in uno dei quartieri più squallidi e poveri di Budapest da una parte, lo sfolgorante mondo del lusso sfrenato degli ospiti dell’albergo che è un vero e proprio tempio del denaro, della corruzione e della lussuria dall’altra.

Il ragazzo è continuamente sottoposto alla tentazione (la tentazione del titolo) e si trova continuamente in bilico tra la cattiva e la retta via come succede a tutti coloro che si trovano agli ultimi gradini della scala sociale e nei bassifondi della miseria.

Béla sperimenterà così l’amore romantico ed adolescenziale con  Patsy, una sua coetanea americana, l’erotismo e la lussuria con una bellissima e corrotta “femme fatale” dell’alta aristocrazia ungherese, la vita…

André Kertész
 
André Kertész, Lovers in Budapest

Tutto questo, mentre di notte studia da solo l’inglese, guardando il Danubio, sognando di poter prendere un giorno la nave che da Budapest va a Vienna e da lì poi emigrare in America, idealizzata e fantasticata come una Terra Promessa.

Romanzo tumultuoso e affascinante, popolato da numerosissimi personaggi, denso e fluviale, Tentazione è un grandioso, commovente affresco in cui viene rappresentato il destino di una nazione straziata nel quale si riconosce la giovinezza dello stesso János Székely il quale, come Béla da bambino e da adolescente, aveva vissuto d’amore e di politica, di folli speranze e del sogno di un’America in cui era poi finalmente riuscito ad arrivare.

In gran parte autobiografico, Tentazione — che nonostante la mole si legge tutto d’un fiato — è un romanzo di iniziazione e formazione, di appassionata denuncia della crudeltà delle ingiustizie sociali, ricchissima galleria di ritratti, rappresentazione della durissima vita della campagna ungherese e di quella della capitale.

La Budapest descritta da Székely è una metropoli allo stesso tempo cosmopolita e brillante ma anche livida, sinistra e crudele in una Ungheria malata che il Trattato di pace del Trianon ha smembrato e ridotto ad un un corpo senza arti mentre il mondo, ignaro,  è ormai prossimo alla catastrofe della seconda guerra mondiale.

“Doveva essere mezzanotte. L’Ungheria dormiva. L’Europa dormiva. Il mondo dormiva. Si erano addormentati con la ninnananna di Briand e Kellogg, sessantadue paesi avevano solennemente dichiarato che non avrebbero più fatto ricorso alla guerra. Nathan Söderblom aveva ricevuto il premio Nobel per la pace, il numero dei disoccupati cresceva, si scrivevano operette sull’Ungheria, e il mondo canticchiava sognante del bel Danubio blu, che trasportava, ad un ritmo di tre quarti, i cadaveri enfiati dei suicidi dalla Foresta Nera al Mar Nero” (p.677)

Andre Kertesz-Budapest
 
André Kertész, Budapest 1914

Impossibile inoltre, leggendo questo libro di Székely, non pensare a Dickens.

In Tentazione gli ingredienti dickensiani ci sono tutti ma proprio tutti. Bambini orfani, poverissimi e maltrattati, vecchie megere, ignobili sfruttatori, giovanissime ragazze madri, giovinetti sedotti da donne ricchissime, bellissime e perverse, miseria estrema e lusso sfrenato… Spie e delatori, ladri e ruffiane ma anche anime nobili ed integerrime…

Il tutto narrato con una scrittura sanguigna ed estremamente plastica, supportata da una robusta dose di ironia che, adoperata dall’autore anche nelle situazioni più terrificanti serve magnificamente a sdrammatizzare evitando così al tono mélo del romanzo di sprofondare nel ridicolo dello strappalacrime a qualsiasi costo.

La struttura del libro è una macchina davvero ben congegnata, la chiusura ed apertura di capitoli sono mozzafiato come nelle migliori tradizioni del feuilletton di una volta tanto da far venire continuamente voglia di “vedere cosa succederà adesso”. Io non ho avvertito un solo momento di noia o di stanca.

Székely sa bene come tenere al guinzaglio i suoi lettori. Almeno, con me c’è riuscito ottimamente…

D’altra parte, come tenere sempre viva l’attenzione era proprio il mestiere di János Székely, personaggio sul quale conviene soffermarsi per saperne di più.

Nato nel 1901 a Budapest, Székely si fece notare dapprima come poeta (anche il Béla di Tentazione scrive poesie già a quattordici anni). Diventa in seguito sceneggiatore per il cinema Janos Szekely espressionista tedesco e poi ad Hollywood, dove nel 1936 conosce il successo con la sceneggiatura realizzata per il film di Frank Borzage Desire.

Firmandosi John S. Toldy — pseudonimo che si era scelto al suo arrivo in America — vinse persino, nel 1940, un premio Oscar per il soggetto del film Arise, my love (Arrivederci in Francia).

Nel 1956, dopo vent’anni trascorsi negli Stati Uniti, per sottrarsi alla persecuzione maccartista Székely emigrò in Messico e poi si trasferì a Berlino Est. Malato, chiese di poter tornare in Ungheria, ma morì nel 1958, prima di aver ottenuto il visto.

Leggo nel risvolto di copertina del volume Adelphi che Tentazione venne pubblicato per la prima volta in inglese (fu lo stesso Székely a tradurlo in inglese con l’aiuto di Ralph Manheim), sotto pseudonimo, nel 1946. Distribuito in Ungheria nella versione originale, il libro divenne subito popolare, ma appena si scoprì che sotto lo pseudonimo di John Pen si nascondeva un ungherese venne ritirato dal commercio e mandato al macero.

E’ merito di Adelphi se oggi questo romanzo debordante, straripante, spesso anche truculento ma molto vivo può oggi venir conosciuto anche da noi.

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I MAGNIFICI AMBERSON – BOOTH TARKINGTON

I magnifici Amberson
Booth TARKINGTON, I magnifici Amberson (tit. orig. The magnificent Ambersons), traduz. Martina Testa, Adelaide Cioni, p.372, Fandango Libri, ISBN 8887517894

“Il maggiore Amberson aveva fatto fortuna nel 1873, quando gli altri le fortune le perdevano, e la magnificenza degli Amberson cominciò allora”.

Così inizia questo romanzo di Booth Tarkington, prolifico autore americano dei primi del Novecento la cui opera è rimasta sinora inedita in Italia.

I Magnifici Amberson — secondo volume della trilogia Growth (Crescita) — venne pubblicato per la prima volta nel 1918, ebbe un grande successo e vinse il Premio Pulitzer. Nonostante ciò, il romanzo non arrivò mai in Italia e soltanto recentemente è stato tradotto e pubblicato dalla Fandango Libri.

Si tratta di un romanzo corale, popolato da molti personaggi, che racconta la storia di tre generazioni di una grande famiglia — gli Amberson, appunto — in una piccola cittadina del midwest americano via via sempre più opulenta, in cui gli Amberson primeggiano per denaro, sfarzo, status sociale.

Di questa famiglia Tarkington racconta l’ascesa ed i fasti in un’epoca in cui le automobili, ritenute una  bizzarria da inventori dell’ultima ora, iniziavano a prendere il posto delle carrozze al grido incredulo dei passanti: “Compratevi un cavallo! Compratevi un cavallo!”, in cui “tutte le donne che vestivano di seta o di velluto conoscevano tutte le altre donne che vestivano di seta o di velluto” ed in cui “tutti riconoscevano la carrozza ed i cavalli di tutti gli altri, e ne sapevano identificare la silohuette da mezzo miglio di distanza e così sapevano chi stava andando al mercato o ad un ricevimento, o tornava a casa dall’ufficio o dal negozio per il pranzo e per la cena”.

The magnificient Ambersons

Dei “magnifici Amberson” viene descritto però anche il declino, che arriva inesorabile quando la piccola cittadina si trasforma in una grande città, quando la modernità, le industrie, le invenzioni meccaniche, le automobili che sostituiscono le carrozze e i cavalli arrivano portando non solo lavoro e ricchezza ma anche un cambiamento irreversibile che fagocita le famiglie e gli individui, travolge tutte le gerarchie e le antiche grandezze.

La piccola cittadina, diventata un grande città, si popola di volti sconosciuti (“la città era così grande, ora, che la gente ci scompariva dentro, senza che nessuno se ne accorgesse”), gli anonimi condomini si sostituiscono alle ville e l’aria diventa sempre più irrespirabile per il fumo delle ciminiere delle fabbriche.

Protagonista del romanzo è George Amberson Minafer, arrogante e viziato nipote del fondatore della famiglia, cresciuto tra gli agi ed accontentato in ogni capriccio da zio, nonno e soprattutto da Isabel, la madre iperprotettiva che, divenuta vedova, arriva a sacrificare la felicità del proprio amore appassionatamente corrisposto per Eugene Morgan all’egoismo ed all’assurdo senso dell’onore del figlio.

Tim Holt
George Amberson Minafer (Tim Holt) nel film di Orson Welles del 1942
Tim Holt Dolores Costello Joseph Cotten
George Amberson (Tim Holt), Isabel (Dolores Costello), Eugene Morgan (Joseph Cotten)
Dolores Costello Tim Holt

Si intrecciano due livelli: quello di due storie d’amore parallele (Isabel ed Eugene, George e Lucy, la figlia di Eugene) e quello del rapidissimo cambiamento sociale e degli effetti che questo provoca. Difficile dire quale dei due temi sia il più importante, narrativamente.

Tim Holt Anne Baxter
George Amberson (Tim Holt) e Lucy Morgan (Anne Baxter)

Perchè quello che I magnifici Amberson narra è, in buona sostanza, una storia di rovesciamento di destini individuali e collettivi.

George, il cattivo, arrogante, ignorante e borioso George — talmente insopportabile da far venir voglia di prenderlo a sculaccioni una pagina si e l’altra pure —, tanto cieco di fronte ai cambiamenti sociali da proclamare più volte di non avere alcuna intenzione di lavorare o di intraprendere una qualsiasi professione, benchè anagraficamente il più giovane della famiglia è in realtà il personaggio più culturalmente “vecchio”, quello che rappresenta i valori del passato, e per questo totalmente inadatto al suo tempo.

George è un personaggio distruttivo nei confronti degli altri (riesce a distruggere la vita della madre e il sincero amore di Eugene per lei) ma anche, di fatto, e senza che se ne renda conto, autodistruttivo.

Lo descrive bene Lucy — che, pure, di George è innamorata — quando parla di lui servendosi della metafora del capo indiano Vendonah, il cui nome significa “il Distruggi Tutto”.

Tim Holt

Neanche quando dagli agi dell’alta società George sarà costretto a sperimentare la vita precaria e difficile della classe operaia acquista vera consapevolezza di quello che nel suo destino è stato determinato da mutamenti esterni e quello di cui egli stesso è stato artefice principale.

La lettura de I magnifici Amberson mi ha lasciata molto perplessa e sicuramente non entusiasta.

Se l’avessi letto da ragazzina probabilmente  mi sarebbe piaciuto di più.
Oggi l’ho trovato un romanzo piuttosto mediocre, scritto nemmeno tanto bene.

Certo, ho molto apprezzato la vena di sottile ironia di cui Tarkington pervade il racconto, le digressioni sui costumi dell’epoca.
Ho trovato formidabile soprattutto l’intero primo capitolo in cui Tarkington descrive “il mondo di ieri” ma anche parecchie pagine in cui, verso la fine del romanzo, l’autore descrive le caratteristiche della “nuova città”.
Ho trovato bella la vena di malinconia con cui viene rappresentata la storia d’amore mancata a causa dell’egoismo di un figlio amato sino all’idolatria e troppo, troppo viziato.

La caratterizzazione dei vari personaggi mi è sembrata però piuttosto rozza, troppo “a tutto tondo”, statica dal punto di vista dell’approfondimento psicologico, tranne forse per quanto riguarda  la zia Fanny, l’unica che con le sue contraddizioni mostra di essere, in fondo, un essere umano e non una “maschera”.

E poi, se devo dirla proprio tutta: ho trovato insopportabile la figura (angelicata) di Isabel, la madre di George, vera e principale responsabile della intollerabile  spocchia dell’arrogante giovinotto.
E’ lei, Isabel  — confesso — che durante la lettura mi veniva voglia di prendere a sberle, prima ancora che il suo tenero virgulto…

I magnifici Amberson viene spesso paragonato a L’età dell’innocenza di Edith Wharton, pubblicato nel 1920.
Anche nel libro della Wharton — ambientato nell’alta società New Yorkese del primo Novecento di cui vengono descritte caratteristiche, limiti e contraddizioni — si parla delle trasformazioni dell’America, dei problemi causati dal mescolamento delle classi sociali, dei mutamenti economici e culturali di una società in trasformazione.
Anche la Wharton ebbe, e proprio per questo libro, il Pulitzer.

La scrittura della Wharton però, la sua capacità di approfondimento psicologico dei personaggi e di delineare il quadro di un’epoca e di un determinato ambiente sociale sono di ben altra levatura, rispetto a Tarkington.

I magnifici Amberson è l’unico libro di Tarkington tradotto e pubblicato in Italia, e questo è avvenuto a distanza di quasi un secolo da quando venne dato alle stampe in America, mentre gran parte dell’opera della Wharton è da tanti anni conosciuta, apprezzata, pubblicata e ripubblicata anche qui da noi.

Credo che tutto ciò non sia un caso, e che forse ogni tanto bisogna pure ammettere che se certi autori e certi libri sonnecchiano in un angolo, misconosciuti e/o semi-dimenticati una ragione c’è…
Devo dire in tutta sincerità che penso di poter sopravvivere bene, come lettrice, anche senza conoscere il resto dell’opera di Tarkington.

The magnificent AmbersonQuasi sicuramente di questo romanzo non avrei nemmeno parlato, qui sul blog, se nel 1942 Orson Welles non avesse tratto da esso il film The magnificent Ambersons (titolo italiano L’orgoglio degli Amberson.)

 D’altra parte, ho letto il libro soprattutto perchè da tempo conoscevo ed apprezzavo il film.

Un film dalla storia molto travagliata ed avventurosa, raccontata molto bene e dettagliatamente nella prefazione all’edizione italiana del romanzo di Edoardo Nesi che parla (sarà anche questo un caso?) per sola mezza paginetta del romanzo stesso e per parecchie pagine del film di Orson Welles.

Il film venne mutilato di molti minuti e completamente stravolto nel montaggio, a causa di una temporanea assenza del regista di cui la RKO approfittò persino per stravolgere il finale facendolo girare da Freddie Flick.

Le vicende che hanno portato al taglio di 33 minuti finali sono abbastanza note. Welles è all’apice della sua popolarità, al suo secondo film dopo quello che a tutt’oggi è considerato uno dei più grandi capolavori del cinema, Citizen Kane. Terminate le riprese, è costretto (gli scrive Roosevelt di persona) ad andare in Brasile a girare un documentario che nelle intenzioni dell’ amministrazione americana dovrebbe servire alla distensione delle relazioni panamericane.

Il montaggio rimane in mano agli studi della casa produttrice Rko che, dopo una proiezione esplorativa dai riscontri non esaltanti, decide di mettere mano pesantemente al film, considerato troppo lungo e farraginoso.

Finiranno dunque nel cestino 33 minuti di film, che Welles dal sudamerica proverà, senza successo, a salvare almeno in parte con un fitto carteggio di minuziose istruzioni al suo aiuto-regista Robert Wise che si adopererà inutilmente per fare rispettare le istruzioni di Welles.

Ma la Produzione cambia persino il finale, e viene data disposizione che tutti i negativi orginali del film vengano distrutti.

Orson Welles dichiarava di non aver mai voluto vedere il film e “invece lo vide almeno una volta […] insieme a Bogdanovich e a sua moglie, accucciato davanti allo schermo perchè non sopportava nè di stare nella stessa stanza con il suo film rovinato nè di non vederlo, e piangeva in silenzio, voltando le spalle ai suoi amici perchè non se accorgessero”, scrive Nesi.

Per quanto mi riguarda, al romanzo preferisco decisamente il film di Orson Welles, che pur con tutti i tagli, le manomissioni e i cambiamenti di finale operati dalla Produzione trovo decisamente molto meglio del romanzo.

E sono sono molto d’accordo con Nesi quando invita a vederlo e scrive: “Noleggiatelo. Fatevi un’idea. Perchè si vede quali sono le scene girate da Welles. Provate anche voi”.

Quanto a me, lo rivedo sempre con piacere, ed ora che ho anche letto il libro dal quale è stato tratto mi par proprio di poter dire che si tratta di uno di quei casi in cui da un’opera letteraria tutto sommato mediocre è stato ricavato un ottimo film.

A CENA CON I BUDDENBROOK

I Buddenbrook (film)
Thomas Buddenbrook (Mark Waschke), la moglie del Console Bethsy Buddenbrook (Iris Berben), il Console Jean Buddenbrook (Armin Mueller-Stahl), Tony Buddenbrook (Jessica Schwarz), Christian Buddenbrook (August Diehl)
© Warner Bros. Pictures 2008 /Bavaria Film / Stefan Falk

Nella saga de I Buddenbrook Thomas Mann descrive a lungo scene di pranzi e cene. Utilizza un vocabolario che evoca la ricchezza, l’opulenza, sia per i cibi che per il vasellame e le stoviglie o la biancheria da tavola al fine di sottolineare lo status sociale di questa famiglia.

“M.lle Jungmann e la donna di servizio avevano già aperta la bianca porta a due battenti, e gli invitati si avviarono lentamente verso la sala, aspettandosi con certezza dai Buddenbrook qualcosa di buono. […] In quel mentre la fresca servetta dalle rosee braccia nude, la piccola cuffietta candida in capo, aiutata da M.lle Jungmann e dalla ragazza della signora del console, servì la zuppa d’erbe con pane abbrustolito, e tutti cominciarono a mangiare.
[…]
I piatti vennero cambiati di nuovo. Un colossale prosciutto affumicato d’un bel color mattone, apparve ben cucinato sulla tavola, accompagnato da un’appetitosa Charlottensauce acidula quale contorno, e con tanta copia di legumi, che tutti avrebbero potuto saziarsi col contenuto di un’insalatiera sola […] Venne pure servito il capolavoro gastronomico della signora del console Buddenbrook, la “pentola russa”, un misto di frutta candita pizzicante e spiritoso, di ottimo gusto
[…] A questo punto vennero servite in tavola due grandi compostiere di cristallo ricolme di “Pettenpudding”, un impasto di amaretti, biscotti, lamponi e crema d’uovo. In fondo alla tavola, al posto dei bimbi, fiammeggiava già il budino al rhum, che rappresentava per loro la bevanda preferita.”

Queste cene farebbero impallidire un nutrizionista… e d’altra parte, si conclude con il giovane Christian Buddenbrook che si sente male per l’indigestione…

“Il dottor Grabow sorrise tra sé: il ragazzo, un’ora più tardi, avrebbe sicuramente mangiato, e sarebbe vissuto come vivono tutti gli altri, passando tranquillamente i suoi giorni come i suoi parenti e mangiando ancora, quattro volte al giorno, cibi pesanti…Oh! Si raccomandassero pure a Dio! Egli, Federico Grabow, non era certo da tanto da cambiar le abitudini e il modo di vivere in tutte quelle agiate famiglie di commercianti.”

I Buddenbrook (film)
Tony (Jessica Schwarz), Christian (August Diehl), Il Console Jean (Armin Mueller-Stahl), Thomas (Mark Waschke) e la moglie del Console Bethsy (Iris Berben)
© Warner Bros. Pictures 2008 / Bavaria Film / Stefan Falke

Le immagini sono tratte dal film “Buddenbrooks – Ein Geschäft von einiger Größe”

SEBALD, NABOKOV E GLI EMIGRATI

Dottor Selwyn
Il dottor Henry Selwyn

Ne Gli emigrati di W. G. Sebald, Vladimir Nabokov è una presenza che in qualche modo attraversa tutto il libro. Compare qua e là, a lui Sebald accenna spesso, direttamente o indirettamente.

Qualche esempio.

Nel primo racconto Il dottor Henry Selwyn il protagonista mostra al narratore una serie di fotografie scattate anni prima durante un viaggio a Creta fatto in compagnia dell’amico Edward.

“[…] vedemmo il dottor Selwyn, i pantaloni alla zuava, la borsa a tracolla e il retino per le farfalle. Una delle immagini assomigliava fin nei minimi particolari a una fotografia di Nabokov, scattata sulle montagne che sovrastano Gstaad, fotografia che qualche giorno prima avevo ritagliato da una rivista svizzera”

Vladimir Nabokov
Vladimir Nabokov

Nel racconto Ambros Adelwarth

“Proprio nel prato sbucò un uomo di mezza età, il quale teneva davanti a sé un retino bianco attaccato ad un bastone e, di tanto in tanto, eseguiva strani saltelli. Zio Adelwarth guardava fisso nel vuoto e tuttavia percepì la mia meraviglia perchè disse: It’s the butterfly man, you know. He comes round here quiete often”

La clinica psichiatrica in cui Ambros si è fatto ricoverare si trova in un luogo che si chiama Ithaca.

Chi conosce la biografia di Nabokov sa che Ithaca era il nome della cittadina in cui il grande scrittore russo emigrato in America visse con la moglie Vèra ed il figlio Dmitri durante gli anni in cui insegnava alla Cornell University…

GLI EMIGRATI – W. G. SEBALD

Sebald- Gli emigrati
W. G. SEBALD, Gli emigrati (tit. orig. Die Ausgewanderten), traduz. di Ada Vigliani, p.253, Adelphi Collana Fabula, ISBM 9788845921568

Il dottor Henry Selwyn, di origini lituane, laureato in Medicina a Cambridge, vive in una grande casa con parco nel Norfolk, affittata dall’autore nell’estate del 1970. Selwyn passa il tempo nel suo giardino, sdraiato sull’erba a guardare il cielo. Si suicida sparandosi con un fucile.

Il maestro elementare Paul Bereyter, del quale l’autore bambino fu alunno negli anni ’50, si suicida gettandosi sotto un treno.

Ambros Adelwarth era il prozio dell’autore. Si erano incontrati una sola volta nel 1951, quando egli era ancora un bambino e Adelwarth ormai anziano. Molti anni dopo Sebald ne ricostruisce la lunga e movimentata vita. Prima cameriere nei grandi alberghi d’Europa agli inizi de del Novecento e poi stabilitosi in America dove diventa maggiordomo dei Solomon, ricchissimi banchieri ebrei e amico del figlio, Cosmo, con cui viaggia frequentando  i tavoli da gioco e i casino europei ma che accompagna anche in lunghi viaggi a Gerusalemme e in Oriente. Dopo la morte di Cosmo, Ambros sprofonda sempre di più in accessi di malinconia, si fa ricoverare in una clinica psichiatrica e si sottopone volontariamente alla terribile terapia dell’elettroschok.

Il pittore Max Ferber vive a Manchester in un polveroso atelier. Negli anni e nel corso di lunghe conversazioni con l’autore, gli racconta a poco a poco la sua vita. Fuggito a quindici anni da Monaco nel 1939, il pittore, in ospedale ed ormai in punto di morte consegna al narratore un quaderno di appunti che la madre aveva scritto poco prima di venir deportata assieme al padre in un campo di sterminio.

Chi già conosce Austerlitz non può fare meno di vedere nella storia del piccolo ebreo tedesco Max, che i genitori riescono a mettere in salvo facendolo salire su un aereo diretto a Londra mentre loro, rimasti in Germania, verranno deportati, l’analogia con il destino del piccolo ebreo praghese Austerlitz, scampato allo sterminio perchè la madre riuscì a farlo salire uno dei “treni dei bambini” che portavano i piccoli ebrei in salvo in Inghilterra.

Che cosa dunque hanno in comune un chirurgo che vive appartato in una villa della campagna inglese, un maestro elementare che insegna in un villaggio della provincia tedesca, un maggiordomo al servizio di una famiglia di ricchi banchieri di New York, e infine un pittore in un atelier dell’ex quartiere industriale di Manchester?

Ne Gli Emigrati (Die Ausgewanderten, 1992) Sebald ripercorre il processo attraverso il quale sono state ricostruite quattro vite di uomini, tutti in qualche modo di origine ebraica, tutti emigrati dalle loro patrie per fame o per sfuggire alla persecuzione.

Il tedesco Sebald, non ebreo ma andato via dalla Germania perchè non sopportava il silenzio e la non volontà dei suoi compatrioti di affrontare il passato, si appassiona ai destini ebraici e racconta queste quattro vite, questi quattro incontri con figure che sono entrate nella sua vita di scrittore.

Lo fa nella sua maniera inconfondibile, con quello stile ammaliante ed ipnotico fatto di frasi lunghe ed evocative, intreccia finzione letteraria e ricerca storica, digressione personale e descrizone analitica, citazioni testuali. Lo fa inserendo nella narrazione fotografie e documenti, e disseminando suggestivi rimandi alla grande letteratura di ogni tempo. Non è certo un caso che un libro come Gli emigrati sia attraversato dalla figura di Vladimir Nabokov (il grande émigré) che torna costantemente.

I quattro racconti hanno sempre la voce narrante dell’autore che parla in prima persona e che fa da cornice ma anche commenta, riflette su ciò che altri narratori — il protagonista della storia o amici e parenti che ne sono stati testimoni in prima persona — gli dicono. A volte la seconda voce narrante è soltanto una (Madame Landau in Paul Bereyter), altre volte l’effetto è quello di una vera e propria serie di scatole cinesi, come ad esempio in Ambros Adelwarth, in cui le voci narranti sono ben tre (zia Fini, zio Kasimir, il dottor Abramsky) e, attraverso gli appunti contenuti in un’agendina, la voce dello stesso Adelwarth.

La stessa struttura la ritroveremo più tardi in Austerlitz, il romanzo che viene considerato il capolavoro di Sebald. Così come, ne Gli emigrati, sono già presenti tutti gli elementi ed i temi che, nella narrativa di Sebald, rappresentano una vera e propria costante.

Le foto – di cui Sebald dissemina le sue storie: sfocate, sgranate, in bianco/nero o seppia, dotate dell’impalpabile fascino dell’effimero che si fa eterno, dell’attimo sfuggito all’orologio. Gli album di fotografie, lettere ed appunti che provengono da persone morte da tanto tempo; la depressione e la malinconia. La botanica, il giardinaggio, l’entomologia.

I personaggi protagonisti di Sebald — che sono sempre uomini mentre alle donne è assegnato il ruolo di testimoni e di voci narranti — si muovono su uno scenario in cui sempre tutto è disfacimento e degrado: il campo da tennis ed il giardino in cui il dottor Selwyn trascorre le sue giornate sdraiato sull’erba o all’interno del rudere di una torre fatiscente; Deauville e il grande albergo Les Roches Noirs, Gerusalemme negli appunti trovati nell’agenda di Ambros Adelwarth, le case, le strade, il Midland Hotel di Manchester nella storia di Max Freber…

Ci sono i treni e le stazioni, simboli di spaesamento e di fuga, della eterna ricerca di un altrove, un altrove che, nel caso del maestro Paul Bereyter significa l’altrove della morte: “La ferrovia aveva per Paul un significato profondo. Probabilmente gli era sempre parso che conducesse alla morte” (p.71)

Sebald - Gli emigrati
“le rotaie […] poco lontano da S., là dove la strada ferrata sbuca con una curva dl boschetto di salici per correre in aperta campagna”

Stazioni ferroviarie descritte sempre in un modo che Pietro Citati nel capitolo di La malattia dell’infinito da lui dedicato ad Austerlitz ha — secondo me molto efficacemente — paragonato alle incisioni di Piranesi.

Ma come sempre, e sopra tutto, sono presenti i temi che sempre più mi appaiono come dominanti in assoluto, in Sebald: la Memoria e il Passato. Passato che viene di volta in volta negato, rimosso, ricercato ossessivamente.

Ci sono in particolare due passaggi che mi hanno particolarmente colpita. Sono entrambi contenuti nella storia di Ambros Adelwarth.

Sebald - Gli emigrati
“Del periodo da lui trascorso a Gerusalemme è rimasta […] una fotografia in costume arabo”

In uno, il medico che aveva avuto Ambros come paziente nella sua clinica psichiatrica dice, a proposito dell’arrendevolezza con cui Ambros si sottometteva all’elettroschock: “… tale arrendevolezza dipendeva in verità, e già allora avevo cominciato ad intuirlo, dallo struggente desiderio […] di veder distrutti in sé, nel modo più radicale e irrevocabile, il raziocinio e la memoria” (p.125)

Sempre nel racconto di Ambros Adelwarth, nell’ultimo appunto da lui scritto nell’agendina-diario leggiamo: “Ho spesso l’impressione che il ricordo sia una forma di stoltezza. Ci rende la testa pesante, ci dà le vertigini, come se non si stesse guardando all’indietro attraverso le fughe del tempo, bensì giù verso la terra da grandi altitudini, da una di quelle torri che si perdono nel cielo” (p.157)

Commentando il mio post su Austerlitz,   Rendl ha scritto, tra l’altro, una cosa che condivido molto e che riporto qui:

“a me pare che […] sia sì la memoria (e il Tempo), ma anche e soprattutto la meraviglia che causa la contemplazione degli effetti che il Tempo ha sui luoghi, sulle persone, sulle opere letterarie del passato. Sottolineo “meraviglia”; potrei usare anche un altro termine: “orrore” o “pietà” o “vertigine”; tutti sinonimi, per Sebald, dell’effetto che ha (o potrebbe avere) sull’uomo la contemplazione di quello che resta, che è sotterrato, che è stato tenuto (volutamente o meno) nascosto agli occhi dei vivi (quelli che, ahiloro, appartengono ancora al mondo del presente).”

Austerlitz è stato il primo libro di Sebald che ho letto. Mi era piaciuto talmente  che esitavo un poco a iniziarne un altro, temevo di rimanere delusa e che tutto, dopo Austerlitz, mi potesse sembrare non all’altezza delle aspettative.

Non solo questo non è avvenuto, ma mi sono resa conto che il mio percorso di approfondimento di questo autore che ormai si è decisamente conquistato un posto nel mio Pantheon personale è soltanto appena cominciato.

W. G. Sebald

 

BUDAPEST. I LUOGHI DI SÁNDOR MÁRAI – ANDRÉ RESZLER

André Reszler
André RESZLER, Budapest. I luoghi di Sándor Márai, traduz. dal francese di Irene Alessi, Presentazione di Gianni Contessi, p.220, Unicopli, Collana Le città letterarie, ISBN: 8840012672

André Reszler è nato a Budapest. Esule a partire dal tragico 1956 dei cosiddetti “fatti d’Ungheria”, da molti decenni vive in Svizzera. Storico, professore onorario dell’Università di Ginevra, ha insegnato nell’Istituto Universitario di Studi Europei della stessa città e negli Stati Uniti, a Bloomington, nell’Università dell’Indiana. È autore di numerose opere tradotte in più lingue.

Chi, come me, ama l’opera di Sándor Márai non potrà che apprezzare questo libro in cui Reszler esplora il complesso rapporto che Márai ebbe con Budapest.

Márai era nato non a Budapest ma a Kassa, cittadina nell’Alta Ungheria poi passata alla Cecoslovacchia (oggi fa parte della Slovacchia e si chiama Kosice). Anche prima del definitivo volontario abbandono dell’Ungheria nel 1948 aveva trascorso gran parte della sua vita a girare l’Europa. “Uomo dai molteplici esili”, come lo definisce Gianni Contessi nella presentazione del volume, Márai di fatto abitò continuativamente a Budapest dal 1928 — dopo circa un decennio di nomadismo europeo — al 1948.

Il ritratto di Márai che viene fuori dalle pagine di Reszler è quello di un homo europaeus e profondamente cosmopolita, amante della città (“non posso vivere che in città”, fa dire ad un personaggio dei suoi romanzi), indifferente ai piaceri della natura incontaminata e della campagna tanto che anche per le sue lughissime passeggiate quotidiane sceglieva sempre percorsi in cui si potessero incontrare tracce di esseri umani (case, fattorie). “Un lago, un tramonto; tutto dipende da chi li contempla. Se si tratta di Goethe o di un bambino, mi emozionano, altrimenti mi lasciano indifferente”.

Amava le città, e tra queste soprattutto Kassa, la sua città natale, e Vienna, in cui si sentiva “a casa”. E poi Berlino — dove aveva abitato tra il 1920 e il 1924 e di cui amava lo spleen e le dimesioni gigantesche — e Parigi, in cui assieme alla moglie trascorreva spesso settimane o addirittura mesi. Ma non amava le metropoli in quanto tali, perchè tra le sue città preferite c’erano anche Firenze, Weimar e Lipsia, quelle che lui chiamava “città dello spirito”.

E in Ungheria? “In Ungheria l’unica città è Budapest”. Una città che lo attrae e lo respinge; che gli è cara, ma che osserva con scetticismo.

Di Budapest, Márai preferisce decisamente Buda (“abitare a Buda è una questione di weltanschauung”) ed è infatti lì, nel quartiere di Krisztina che decide di alloggiare. A Buda e all’Isola Margherita scrive, cammina ore ed ore, gioca a tennis, frequenta gli stabilimenti termali dei bagni turchi mentre Pest è il luogo dei rapporti di lavoro, delle incombenze burocratiche, della vita sociale, dei numerosissimi e famosi caffè.

Budapest Central Cavehaz
Budapest Central Cavehaz
Il Central Cavehaz (Caffè Centrale)
uno degli storici caffè frequentati da Márai.
Le foto le ho scattate nel marzo 2007

Reszler ci accompagna in tutti i luoghi da lui frequentati, intrecciando la descrizione dettagliata dei bagni turchi, dei caffè, della casa in Mikó  Utca, i vagabondaggi per la parte vecchia di Buda o sulle colline dietro il Castello con le citazioni tratte dai suoi romanzi o dai libri di memorie. Seguiamo Márai nelle sue occupazioni giornaliere, e ci sembra di guardare luoghi, persone ed oggetti con i suoi occhi.

L’unico rammarico che ho avuto, leggendo questo libro, è che siccome della vastissima produzione letteraria dello scrittore ungherese gran parte non è stata (ancora?) tradotta e pubblicata in Italia, molti dei riferimenti di Reszler non ho potuto collocarli nel loro contesto.

Ma in fondo, questo non è molto importante, perchè il libro si legge bene egualmente.

Su fatti e luoghi non mi ha rivelato, per la verità, niente di nuovo. Le informazioni contenute nel testo di Reszler le conoscevo già, avendo letto tutti i libri di Márai finora tradotti in italiano.

Ma un “valore aggiunto” l’ho sicuramente trovato nell’intreccio tra storia personale di Márai e storia della città e delle trasformazioni urbanistiche di Budapest, città in cui sono stata complessivamente per più di un mese e che ha lasciato in me un bellissimo ricordo e tanta voglia di tornarci.

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C’ERA UNA VOLTA LA DDR – ANNA FUNDER

C'era un volta la DDR
Anna FUNDER, C’era una volta la DDR (tit. originale Stasiland), traduz. Bruno Amato, p.256, Feltrinelli, ISBN 9788807171079

“Spiare per controllare”

L’australiana Anna Funder (Melbourne, 1966), studi in Australia e Parigi, specializzata in lingua tedesca, ha soggiornato a lungo in Germania dove ha frequentato la Freie Universität di Berlino. Produce documentari per la Abc australiana ed è ricercatrice e traduttrice per la televisione di Berlino, Deutsche Welle.

In questo libro serio e documentato, ricco di dati e testimonianze, appassionante come un romanzo la Funder racconta “il romanzo” della Stasi, l’ex polizia politica della ex Germania Est.

Le incredibili vicende di un paese che aveva sviluppato un capillare sistema di monitoraggio dei comportamenti individuali, intervenendo con forza su qualunque tentativo di uscire dai binari segnati dal regime sono state ricostruite attraverso le testimonianze di vittime del regime ma anche di ex agenti ed informatori della Stasi.

Dal momento della sua nascita nel 1949 fino alla fine, la DDR (o RDT, la Repubblica Democratica Tedesca) allestì un sistema di spionaggio (la Stasi, la polizia politica del regime) tra i più efficienti e capillari.

Sorvegliando i suoi cittadini grazie alla collaborazione di gran parte di loro, reclutati come delatori, la Stasi riempì centinaia di fascicoli contenenti ogni minimo atto degli abitanti della Germania Est. L’apparato della Stasi, dice la Funder, era grande una volta e mezzo l’esercito regolare della Repubblica democratica tedesca.

Una persona su 63 era un informatore della Stasi, contro uno ogni 2000 della Gestapo ed 1 per ogni 5830 per il KGB. Con una popolazione di 17 milioni di abitanti, la Stasi contava 300.000 dipendenti (regolari e irregolari, informatori e agenti.

“La Stasi era l’esercito interno con cui il governo manteneva il suo controllo. Suo compito era sapere tutto di tutti, usando ogni mezzo. Sapeva quelli che erano venuti a farti visita, sapeva a chi avevi telefonato, sapeva se tua moglie ti metteva le corna. Era una burocrazia metastatizzata in tutta la società tedesco orientale: allo scoperto o al coperto, c’era dovunque qualcuno che riferiva alla Stasi su parenti e amici, ogni scuola, ogni caseggiato, ogni bar” (p.13)

Il 3 ottobre 1990, un anno dopo la caduta del Muro di Berlino, la Repubblica Democratica Tedesca cessò di esistere, a seguito della riunificazione delle due Germanie.

Fino all’ultimo giorno la Stasi aveva sperato di mantenere il controllo della situazione, finché era arrivato l’ordine di distruggere tutti i documenti, per lasciare meno tracce possibile della più poderosa e organizzata macchina investigativa della storia. In pochi giorni vennero bruciati o strappati una quantità impressionante di fascicoli (“Nei suoi quarant’anni, la “Ditta” aveva prodotto l’equivalente di tutti i documenti della storia tedesca a partire dal Medioevo”).

Cosa resta oggi di questa follia? Una montagna di 15.000 sacchi di frammenti di documenti.

Da anni, a Norimberga, una squadra di donne, le cosiddette “donne dei puzzle”, sta cercando di rimettere insieme i milioni di piccoli frammenti di carta sottratti al fuoco, per ricostruire i dossier con le notizie sulla vita privata di ogni cittadino della ex DDR. Il loro capo, il direttore del Centro, ha calcolato che per portare a termine questo immane lavoro ci vorrebbero 350 anni…

Anna Funder racconta tutto questo e quello che ne viene fuori è un quadro impressionante, che sta tra Ubu ed Orwell…Un mondo incredibile in cui l’autrice si aggira raccogliendo dati e testimonianze come una sorta di Alice in un drammatico Paese delle meraviglie. Non a caso il titolo originale del libro è Stasiland che con l’esplicito riferimento a Wonderland è, a mio parere, molto più pertinente di quello della edizione italiana.

Stasiland è un Paese delle Meraviglie che si trasforma in un paese da incubo, in cui si può venire arrestati all’improvviso ed arbitrariamente, in cui si viene condannati senza processo.

Il libro della Funder si colloca al di fuori della storiografia classica e non si pone come un saggio politico. La Funder procede con tocchi impressionistici — ritratti, confessioni, visite e descrizioni dei luoghi. Ecco che risorge così, davanti ai nostri occhi di lettori, uno Stato di polizia che presenta anche, e spesso, aspetti che avrebbero del surreale e persino del comico se non sapessimo quante sofferenze e quante vite distrutte tutto questo enorme apparato ha prodotto.

Chi ha visto il bel film Le vite degli altri (che dopo aver letto questo libro ho apprezzato, in retrospettiva, ancora più di quando l’ho visto per la prima volta circa un anno fa) capisce di cosa si sta parlando.

Le vite degli altri
Ulrich Mühe, agente Stasi
nel film Le vite degli altri di Florian Henckel von Donnersmarck (2006)

Il film Le vite degli altri aveva contribuito, io credo, ad una presa di coscienza sulla realtà della Germania dell’Est. Il libro di Anna Funder aggiunge le parole dei sopravvissuti.

Quello che rimane, quando si termina la lettura di queste pagine, è un sentimento di assurdità, di follia collettiva, un senso quasi di irrealtà. Una nazione in cui tutti sorvegliano tutti, in cui migliaia di agenti sono incaricati di controllare non qualche sovversivo ma una intera popolazione, in cui un agente si finge cieco per poter spiare meglio, in cui Miriam, una ragazzina di 16 anni viene torturata ed imprigionata per aver tentato di scavalcare il Muro. In cui dall’oggi al domani un mondo viene tagliato materialmente in due. Anna Funder si concentra sulla realtà concreta. Incontra gente, raccoglie le testimonianze delle vittime, donne ferite a sangue nella mente e nel corpo dalle privazioni subite ma anche testimonianze di ex agenti della Stasi, di semplici cittadini.

Il libro è composto dunque da storie concrete, rese tanto più incredibili dalla loro banalità quotidiana, in cui l’orrore ed il disprezzo per la vita umana vanno di pari passo con il ridicolo e la sproporzione.

Lo stile non è certo quindi del saggio ma piuttosto quello tra il diario di viaggio e il diario personale. Anna Funder non esita a mettersi in gioco direttamente esplicitando le proprie riflessioni, le proprie emozioni, le proprie considerazioni sulla società della Germania dell’Est. Considerazioni tanto più interessanti in quanto espresse da una donna australiana ma che conosce molto bene la Germania.

Leggendo questo libro ho ritrovato e rivissuto molti momenti della mia recente anche se breve permanenza (solo quindici giorni) a Berlino. Ho constatato pure io da una parte la velocità con cui è stato distrutto il Muro ma contemporaneamente quante persone vendono ed acquistano “frammenti autentici di Muro”. E ricordo benissimo, in una strada a due passi dal Reichstadt, la fila di croci bianche e la piccola mostra a cielo aperto tenuta da un ex prigioniero della Stasi.

Chiunque vada a Berlino e sia interessato non solo a mangiar wurstel e bere birra può constatare quanto il Muro ancora oggi sia una presenza mentale costante. La gente ha ancora “il muro in testa”.

Forse, più che una immersione in quell’ universo alla Orwell che fu la Germania dell’Est, Stasiland è un libro sul lavoro della memoria e sulla ricostruzione di una nazione che la caduta del Muro probabilmente non ha ancora risolto.

Stasiland, best seller nei paesi anglosassoni, sembra abbia trovato parecchie difficoltà a trovare un editore tedesco. Molti si sono tirati indietro, hanno parlato di “clima politico” poco favorevole, altri avrebbero accettato di pubblicarlo ma a condizione di operare tagli pesanti. E’ stato anche rimproverato all’australiana Anna Funder il fatto di essere una straniera. Ma è proprio grazie a questa distanza che essa ha potuto esplorare senza reticenze mentali la pieghe di un sistema totalitario ed ascoltare confessioni terribili e racconti agghiaccianti.

In Italia, per quel che mi risulta, la bibliografia sulla realtà dell’ex Germania dell’Est è ancora scarsissima.

A maggior ragione questo libro tradotto e pubblicato in italiano da Feltrinelli credo sia da considerarsi prezioso.

Anna Funder
Anna Funder
  • Su Google Libri è possibile leggere le prime pagine del volume >>
  • Un bel video (in inglese) in cui Anna Funder a Berlino ripercorre molti dei luoghi di  cui parla nel suo libro e ci fa vedere alcune persone di cui ha raccolto le testimonianze >>
  • Intervista ad Anna Funder su Stasiland (in francese) >>
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