
Booth TARKINGTON, I magnifici Amberson (tit. orig. The magnificent Ambersons), traduz. Martina Testa, Adelaide Cioni, p.372, Fandango Libri, ISBN 8887517894
“Il maggiore Amberson aveva fatto fortuna nel 1873, quando gli altri le fortune le perdevano, e la magnificenza degli Amberson cominciò allora”.
Così inizia questo romanzo di Booth Tarkington, prolifico autore americano dei primi del Novecento la cui opera è rimasta sinora inedita in Italia.
I Magnifici Amberson — secondo volume della trilogia Growth (Crescita) — venne pubblicato per la prima volta nel 1918, ebbe un grande successo e vinse il Premio Pulitzer. Nonostante ciò, il romanzo non arrivò mai in Italia e soltanto recentemente è stato tradotto e pubblicato dalla Fandango Libri.
Si tratta di un romanzo corale, popolato da molti personaggi, che racconta la storia di tre generazioni di una grande famiglia — gli Amberson, appunto — in una piccola cittadina del midwest americano via via sempre più opulenta, in cui gli Amberson primeggiano per denaro, sfarzo, status sociale.
Di questa famiglia Tarkington racconta l’ascesa ed i fasti in un’epoca in cui le automobili, ritenute una bizzarria da inventori dell’ultima ora, iniziavano a prendere il posto delle carrozze al grido incredulo dei passanti: “Compratevi un cavallo! Compratevi un cavallo!”, in cui “tutte le donne che vestivano di seta o di velluto conoscevano tutte le altre donne che vestivano di seta o di velluto” ed in cui “tutti riconoscevano la carrozza ed i cavalli di tutti gli altri, e ne sapevano identificare la silohuette da mezzo miglio di distanza e così sapevano chi stava andando al mercato o ad un ricevimento, o tornava a casa dall’ufficio o dal negozio per il pranzo e per la cena”.

Dei “magnifici Amberson” viene descritto però anche il declino, che arriva inesorabile quando la piccola cittadina si trasforma in una grande città, quando la modernità, le industrie, le invenzioni meccaniche, le automobili che sostituiscono le carrozze e i cavalli arrivano portando non solo lavoro e ricchezza ma anche un cambiamento irreversibile che fagocita le famiglie e gli individui, travolge tutte le gerarchie e le antiche grandezze.
La piccola cittadina, diventata un grande città, si popola di volti sconosciuti (“la città era così grande, ora, che la gente ci scompariva dentro, senza che nessuno se ne accorgesse”), gli anonimi condomini si sostituiscono alle ville e l’aria diventa sempre più irrespirabile per il fumo delle ciminiere delle fabbriche.
Protagonista del romanzo è George Amberson Minafer, arrogante e viziato nipote del fondatore della famiglia, cresciuto tra gli agi ed accontentato in ogni capriccio da zio, nonno e soprattutto da Isabel, la madre iperprotettiva che, divenuta vedova, arriva a sacrificare la felicità del proprio amore appassionatamente corrisposto per Eugene Morgan all’egoismo ed all’assurdo senso dell’onore del figlio.
George Amberson Minafer (Tim Holt) nel film di Orson Welles del 1942
George Amberson (Tim Holt), Isabel (Dolores Costello), Eugene Morgan (Joseph Cotten)
Si intrecciano due livelli: quello di due storie d’amore parallele (Isabel ed Eugene, George e Lucy, la figlia di Eugene) e quello del rapidissimo cambiamento sociale e degli effetti che questo provoca. Difficile dire quale dei due temi sia il più importante, narrativamente.
George Amberson (Tim Holt) e Lucy Morgan (Anne Baxter)
Perchè quello che I magnifici Amberson narra è, in buona sostanza, una storia di rovesciamento di destini individuali e collettivi.
George, il cattivo, arrogante, ignorante e borioso George — talmente insopportabile da far venir voglia di prenderlo a sculaccioni una pagina si e l’altra pure —, tanto cieco di fronte ai cambiamenti sociali da proclamare più volte di non avere alcuna intenzione di lavorare o di intraprendere una qualsiasi professione, benchè anagraficamente il più giovane della famiglia è in realtà il personaggio più culturalmente “vecchio”, quello che rappresenta i valori del passato, e per questo totalmente inadatto al suo tempo.
George è un personaggio distruttivo nei confronti degli altri (riesce a distruggere la vita della madre e il sincero amore di Eugene per lei) ma anche, di fatto, e senza che se ne renda conto, autodistruttivo.
Lo descrive bene Lucy — che, pure, di George è innamorata — quando parla di lui servendosi della metafora del capo indiano Vendonah, il cui nome significa “il Distruggi Tutto”.
Neanche quando dagli agi dell’alta società George sarà costretto a sperimentare la vita precaria e difficile della classe operaia acquista vera consapevolezza di quello che nel suo destino è stato determinato da mutamenti esterni e quello di cui egli stesso è stato artefice principale.
La lettura de I magnifici Amberson mi ha lasciata molto perplessa e sicuramente non entusiasta.
Se l’avessi letto da ragazzina probabilmente mi sarebbe piaciuto di più.
Oggi l’ho trovato un romanzo piuttosto mediocre, scritto nemmeno tanto bene.
Certo, ho molto apprezzato la vena di sottile ironia di cui Tarkington pervade il racconto, le digressioni sui costumi dell’epoca.
Ho trovato formidabile soprattutto l’intero primo capitolo in cui Tarkington descrive “il mondo di ieri” ma anche parecchie pagine in cui, verso la fine del romanzo, l’autore descrive le caratteristiche della “nuova città”.
Ho trovato bella la vena di malinconia con cui viene rappresentata la storia d’amore mancata a causa dell’egoismo di un figlio amato sino all’idolatria e troppo, troppo viziato.
La caratterizzazione dei vari personaggi mi è sembrata però piuttosto rozza, troppo “a tutto tondo”, statica dal punto di vista dell’approfondimento psicologico, tranne forse per quanto riguarda la zia Fanny, l’unica che con le sue contraddizioni mostra di essere, in fondo, un essere umano e non una “maschera”.
E poi, se devo dirla proprio tutta: ho trovato insopportabile la figura (angelicata) di Isabel, la madre di George, vera e principale responsabile della intollerabile spocchia dell’arrogante giovinotto.
E’ lei, Isabel — confesso — che durante la lettura mi veniva voglia di prendere a sberle, prima ancora che il suo tenero virgulto…
I magnifici Amberson viene spesso paragonato a L’età dell’innocenza di Edith Wharton, pubblicato nel 1920.
Anche nel libro della Wharton — ambientato nell’alta società New Yorkese del primo Novecento di cui vengono descritte caratteristiche, limiti e contraddizioni — si parla delle trasformazioni dell’America, dei problemi causati dal mescolamento delle classi sociali, dei mutamenti economici e culturali di una società in trasformazione.
Anche la Wharton ebbe, e proprio per questo libro, il Pulitzer.
La scrittura della Wharton però, la sua capacità di approfondimento psicologico dei personaggi e di delineare il quadro di un’epoca e di un determinato ambiente sociale sono di ben altra levatura, rispetto a Tarkington.
I magnifici Amberson è l’unico libro di Tarkington tradotto e pubblicato in Italia, e questo è avvenuto a distanza di quasi un secolo da quando venne dato alle stampe in America, mentre gran parte dell’opera della Wharton è da tanti anni conosciuta, apprezzata, pubblicata e ripubblicata anche qui da noi.
Credo che tutto ciò non sia un caso, e che forse ogni tanto bisogna pure ammettere che se certi autori e certi libri sonnecchiano in un angolo, misconosciuti e/o semi-dimenticati una ragione c’è…
Devo dire in tutta sincerità che penso di poter sopravvivere bene, come lettrice, anche senza conoscere il resto dell’opera di Tarkington.
Quasi sicuramente di questo romanzo non avrei nemmeno parlato, qui sul blog, se nel 1942 Orson Welles non avesse tratto da esso il film The magnificent Ambersons (titolo italiano L’orgoglio degli Amberson.)
D’altra parte, ho letto il libro soprattutto perchè da tempo conoscevo ed apprezzavo il film.
Un film dalla storia molto travagliata ed avventurosa, raccontata molto bene e dettagliatamente nella prefazione all’edizione italiana del romanzo di Edoardo Nesi che parla (sarà anche questo un caso?) per sola mezza paginetta del romanzo stesso e per parecchie pagine del film di Orson Welles.
Il film venne mutilato di molti minuti e completamente stravolto nel montaggio, a causa di una temporanea assenza del regista di cui la RKO approfittò persino per stravolgere il finale facendolo girare da Freddie Flick.
Le vicende che hanno portato al taglio di 33 minuti finali sono abbastanza note. Welles è all’apice della sua popolarità, al suo secondo film dopo quello che a tutt’oggi è considerato uno dei più grandi capolavori del cinema, Citizen Kane. Terminate le riprese, è costretto (gli scrive Roosevelt di persona) ad andare in Brasile a girare un documentario che nelle intenzioni dell’ amministrazione americana dovrebbe servire alla distensione delle relazioni panamericane.
Il montaggio rimane in mano agli studi della casa produttrice Rko che, dopo una proiezione esplorativa dai riscontri non esaltanti, decide di mettere mano pesantemente al film, considerato troppo lungo e farraginoso.
Finiranno dunque nel cestino 33 minuti di film, che Welles dal sudamerica proverà, senza successo, a salvare almeno in parte con un fitto carteggio di minuziose istruzioni al suo aiuto-regista Robert Wise che si adopererà inutilmente per fare rispettare le istruzioni di Welles.
Ma la Produzione cambia persino il finale, e viene data disposizione che tutti i negativi orginali del film vengano distrutti.
Orson Welles dichiarava di non aver mai voluto vedere il film e “invece lo vide almeno una volta […] insieme a Bogdanovich e a sua moglie, accucciato davanti allo schermo perchè non sopportava nè di stare nella stessa stanza con il suo film rovinato nè di non vederlo, e piangeva in silenzio, voltando le spalle ai suoi amici perchè non se accorgessero”, scrive Nesi.
Per quanto mi riguarda, al romanzo preferisco decisamente il film di Orson Welles, che pur con tutti i tagli, le manomissioni e i cambiamenti di finale operati dalla Produzione trovo decisamente molto meglio del romanzo.
E sono sono molto d’accordo con Nesi quando invita a vederlo e scrive: “Noleggiatelo. Fatevi un’idea. Perchè si vede quali sono le scene girate da Welles. Provate anche voi”.
Quanto a me, lo rivedo sempre con piacere, ed ora che ho anche letto il libro dal quale è stato tratto mi par proprio di poter dire che si tratta di uno di quei casi in cui da un’opera letteraria tutto sommato mediocre è stato ricavato un ottimo film.
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