IL DUBBIO – JOHN PATRICK SHANLEY (2008)

Meryl Streep

Il Dubbio di John Patrick Shanley è, assieme a The Reader e a Gran Torino, uno dei film di questa stagione che ho apprezzato di più, tra quelli che ho visto sinora.

Però non l’ho mica capito subito, eh, che si trattava di un gran film. Ci ho messo qualche giorno.

Il Dubbio non colpisce con immediatezza.
Non impiega effetti speciali e non credo abbia avuto necessità di un grande budget.

E’ invece uno di quei film che dopo aver frettolosamente liquidato con uno dei soliti “bello/no bello” si insinuano nella mente e che com’è e come non è ci si ritrova poi — magari parecchi giorni dopo — a scoprire che ci si sta riflettendo ancora sopra.

Si regge soprattutto su un ottimo testo — teatrale — e su pochi ma eccellenti attori.

Al termine della visione mi ero detta:  “certo, Philip Seymour Hoffman e Meryl Streep sono grandissimi (soprattutto Meryl Streep), ma in fondo non si tratta che di una eccellente prova di grande recitazione. Niente di più”.

E invece adesso penso che Il Dubbio sia un film raffinatissimo e molto complesso, tutto costruito su un gioco di specchi tra pochi personaggi.

La storia si svolge interamente nella scuola cattolica di St. Nicholas del Bronx nel 1964.
Il momento storico è quello che segue immediatamente l’assassinio del Presidente Kennedy ed in cui il Concilio Vaticano II sta ridefinendo i rapporti tra clero e fedeli.

Padre Flynn (Philip Seymour Hoffman) è un sacerdote carismatico ed appassionato che cerca di dare alla scuola nuove e più umane sembianze; i suoi modi sono seducenti, è di aspetto gradevole e vuole avvicinarsi ai suoi fedeli, essere parte della loro famiglia.
Predica il valore del dubbio, e sembra non avere granitiche certezze.

Philip Seymour Hoffman“Il dubbio può essere un legame tanto forte e rassicurante quanto la certezza.”

Philip Symour Hoffman

A lui si contrappone la figura della preside della scuola, Suor Aloysius Beauvier (Meryl Streep) decisamente conservatrice,  livorosa, maniacalmente ligia alle regole ed alla gerarchia, così diffidente e sospettosa nei confronti di Padre Flynn da diventare dura e crudele.

Meryl Streep Doubt“Nel perseguire il male, ci si allontana sempre da Dio”

Accusa il prete (dal quale per la gerarchia ecclesiastica comunque dipende) di essere un pedofilo e di avere sedotto David, l’unico ragazzino di colore presente nella scuola.

Il Dubbio

Amy Adams
Suor Aloysius non riesce a trovare alcuna prova concreta, e coloro con cui parla si dicono tutti convinti dell’innocenza del prete.

Anche la giovane Suor James (Amy Adams) che per prima aveva avuto dubbi sul comportamento di Padre Flynt nei confronti di David, si convince presto della loro infondatezza.

Ma Suor Aloysius, lei, per tutto il tempo, continua nella sua implacabile persecuzione.
Si dice certa della colpevolezza del prete perchè “è una questione di esperienza. Io conosco le persone”.

In un colloquio tra i due che diventa in pochi minuti un vero e proprio scontro frontale Padre Flynt cerca in ogni modo di convincere la Preside, ma lei è irremovibile.
Il prete dà le dimissioni e si allontana dalla scuola e dalla città.

Il dramma si sviluppa non tanto sul tema dell’abuso, quanto intorno al sospetto ed all’incertezza.

Emergono infatti a poco a poco, dietro una situazione che all’inizio poteva apparire molto schematica e priva di sfumature (il simpatico prete, umano e innovatore, accusato ingiustamente da un’anziana insopportabile suora bigotta ed invidiosa), tutta una serie di indizi, elementi, accenni che rendono sempre meno certo, per lo spettatore, da quale parte gli convenga “schierarsi”.

Di nessuno dei personaggi si può esser certi sia completamente innocente o completamente colpevole. Nemmeno del ragazzino.

Il Dubbio

Ciascuno dei personaggi è impregnato di verità e di menzogna.
Di sincerità e malafede.

Anche la madre di David con cui Suor Aloysius ha un memorabile colloquio — grande, grande  Viola Davis nel tener testa a quel mostro di bravura che è Meryl Streep! — dice cose talmente ambigue da far correre   brividi lungo la schiena.

Meryl Streep  e Viola Davis

Meryl Streep  e Viola Davis

E così, più si avanza nella visione del film, più si detesta Sorella Aloysius (Meryl Streep) e si parteggia per il simpatico Padre Brendan Flynn (Philip Seymour Hoffman) più però, e contemporaneamente, si avverte che qualcosa non torna,  che forse  le cose non sono così semplici come ci erano sembrate  prima.

Alla fine ci si accorge   (mi sono accorta) di pensare che non è mica detto che chi è antipatico debba aver torto ed essere colpevole e chi è simpatico debba necessariamente aver ragione ed essere innocente…

E poi: colpevole di cosa, ed innocente perchè? Su ciascuno di loro non è possibile non avere dubbi.

Un film circolare, in cui l’inizio  fornisce il senso della fine  (e viceversa)    che  comunque  non è veramente una fine, ma solo l’inizio del dubbio che, a poco a poco, si è instillato nello spettatore.

La frase su cui si chiude il film è pronunciata da Suor Aloysius, che con la sua granitica certezza non supportata da alcuna prova ha costretto Padre Flynt alle dimissioni ed alla resa.

Una frase davvero spiazzante.

Meryl Streep Doubt

“Io vivo nel dubbio”

Doubt .  Regia: John Patrick Shanley, Soggetto: John Patrick Shanley, Sceneggiatura: John Patrick Shanley

Interpreti e personaggi: Meryl Streep: Sorella Aloysius Beauvier, Philip Seymour Hoffman: Padre Brendan Flynn, Amy Adams: Sorella James, Viola Davis: Mrs. Miller, la madre di David
Scenografia: Ellen Christiansen, Musiche: Howard Shore, Costumi: Ann Roth
Colore, Durata 104 min, USA, 2008

Premi: 2 National Board of Review Awards 2008: miglior cast, miglior performance rivelazione femminile (Viola Davis)

Il film Il Dubbio è basato sull’opera teatrale di John Patrick Shanley, Premio Pulitzer 2005.

Il dramma è stato portato sulle scene italiane interpretato da Stefano Accorsi, Lucilla Morlacchi, la francese Nadia Kibout e la giovanissima Alice Bachi.

Nell’ allestimento italiano il testo di Shanley è stato adattato da Margaret Mazzantini e la regia è di Sergio Castellitto.

Lucilla Morlacchi Stefano Accorsi

IL RESIDUO FECALE DELLA STORIA

The Game
Fotogramma dal film The game, 1997, David Fincher

“Il dirmi che una scarica di mitra è realtà mi va bene, certo; ma io chiedo al romanzo che dietro questi due ettogrammi di piombo ci sia una tensione tragica, una consecuzione operante, un mistero, forse le ragioni o le irragioni del fatto… Il fatto in sé, l’oggetto in sé, non è che il corpo morto della realtà, il residuo fecale della storia…”

(Carlo Emilio Gadda, Un’opinione sul neorealismo, 1950, in   I viaggi e la morte)

MEDAGLIE INCOMPARABILI

Ruggero Raimondi nel ruolo di Don Profondo canta “Medaglie incomparabili” ne Il Viaggio a Reims di Gioachino Rossini

L’allestimento è quello del 1984 e per quanto mi riguarda (e chi non la pensa come me peste lo colga) rimane mitico e leggendario — ha avuto:

Claudio Abbado dir. d’orchestra

Un cast di cantanti che all’epoca era il meglio del meglio e cioè:

Cecilia Gasdia, Lucia Valentini Terrani, Lella Cuberli, Frank Lopardo, Ferruccio Furlanetto, Enzo Dara, Ruggero Raimondi, Carlos Chausson, Lucia Valentini-Terrani, Chris Merrit, Montserrat Caballé, Giorgio Surjan.

Regia di Luca Ronconi

Scenografia di Gae Aulenti.

Non credo di dover spiegare perchè questo cast era superbo.

Da tempo cerco disperatamente un decente DVD di quell’allestimento, ma non lo trovo. Io posseggo solo la VHS della registrazione da me stessa medesima realizzata quando una delle serate venne trasmessa dalla RAI

La RAI d’antan, of course. Oggi ce le sogniamo, robine del genere.
Per quanto mediocre sia la qualità della mia VHS, assicuro che la custodisco come nemmeno il Santo Graal.

Se però qualcuno dei viandanti che si trovano a passare da queste parti mi desse  notizia di un DVD da acquistare, della cosa sarei molto grata.

Ci sono due modi di vedere/ascoltare questa intervista.
Una modalità è quella di essere attenti prevalentemente agli elementi tecnici.

L’altra (ed è quella che ho privilegiato io, che di tecnica del bel canto molto ignorante sono) è quella di apprezzare la modalità con cui Raimondi spiega i problemi di un cantante lirico.

Per esempio: cosa comporta il cantare dovendo muoversi e recitare sul palcoscenico.

E poi, scusatemi tanto, ma ho enormemente apprezzato la perfetta dizione italiana di Raimondi ed il suo corretto uso di congiuntivi e condizionali.

Tutte cose che dovrebbero esser normali e scontate ma che ahinoi oggi non lo sono.
E poi m’è piaciuta la tranquillità con cui parla del grande lavoro e dei problemi che stanno dietro una performance che magari sulla scena dura poi solo qualche minuto.

Basta, mi fermo qui, chè potrei continuare “pur troppo”.

  • Il Viaggio a Reims (l’opera) >>
  • Il libretto dell’opera >>

LE OSSA DI BERDICEV. VITA E DESTINO DI VASILIJ GROSSMAN – JOHN E CAROL GARRARD

Le ossa di Berdicev
John e Carol GARRARD, Le ossa di Berdicev. Vita e destino di Vasilij Grossman (tit. orig. The Bones of Berdichev. The Life and Fate of Vasilij Grossman), traduz. di Roberto Franzini Tibaldeo e Marta Cai, p.488, Marietti 1820 editore, 2009, ISBN: 9788821194085

Cominciamo dal titolo.
Perchè intitolare Le ossa di Berdicev la biografia di Vasilij Grossman?

Berdicev è una cittadina dell’Ucraina che conta circa 60.000 abitanti, tanti quanto ne contava all’inizio della Seconda guerra mondiale, solo che allora metà circa erano ebrei. Gli ucraini la chiamavano “la capitale degli ebrei”.

Nel XVIII secolo era stata un importante centro del movimento chassidico e nel XIX dell’Haskalah, l’illuminismo ebraico.

Qui i soldati della Wehrmacht vennero accolti nel luglio del 1941 come liberatori dal giogo sovietico.

Qui due mesi dopo le SS e gli Einsatzgruppen con il volenteroso sostegno e la complicità attiva degli stessi ucraini arruolati nella Polizei, fucilarono in soli tre giorni tutti i trentamila israeliti della città, nella prima operazione di eliminazione degli ebrei sistematicamente pianificata su vasta scala.

Tra quei milioni di ossa di gente fucilata o gettata ancora viva nelle fosse comuni (malati o anziani per i quali “non valeva la pena sprecare nemmeno una pallottola”) c’erano anche quelle di Ekaterina Savel’evna, la madre di Vasilij Grossman.

Mappa dell'Ucraina
La mappa dell’Ucraina

Alla storia di Berdicev, città natale di Grossman, ed al terribile, dettagliatissimo racconto della preparazione e della realizzazione di quel massacro è dedicato il lungo capitolo-prologo (intitolato appunto Berdicev: inizia la Shoah) del libro di John e Carol Garrard.

John Garrard, docente di letteratura russa all’università dell’Arizona, e sua moglie spiegano nella prefazione che il loro obiettivo era quello di comprendere meglio in che cosa gli uomini del XX secolo – segnato da due terrificanti guerre mondiali e da due devastanti totalitarismi – abbiano sbagliato.
Non volevano farlo attraverso un’indagine storica sui maggiori eventi del Novecento, ma grazie a un altro tipo di approccio: l’esame dei loro riflessi nella vita e nelle opere di un uomo.

I Garrard decisero dunque di raccontare il secolo scorso attraverso la biografia del giornalista e scrittore ebreo ucraino Vasilij Grossman.

Ne è nato un libro estremamente prezioso, questo Le ossa di Berdicev. La vita e il destino di Vasilij Grossman che racconta la storia di “un essere umano che passò attraverso il fuoco dell’inferno e ne riemerse con l’anima intatta”.

Il libro, dopo l’importante prologo dedicato alla storia di Berdicev ed al massacro della metà della popolazione (quella ebrea) è strutturato in una serie di capitoli che scandiscono le fasi più importanti della vita di Grossman che si intrecciano alle vicende storiche fondamentali di quegli anni.

Il risultato è dunque la biografia di Grossman ma anche un approfondito e documentatissimo saggio storico su aspetti della vita dell’ex URSS decisivi ma poco noti e poco studiati: la grande carestia ucraina pilotata da Stalin e che produsse centinaia di migliaia di morti, le persecuzioni del Grande Terrore Staliniano, la seconda guerra mondiale e l’occupazione nazista dell’Ucraina. La scoperta della Shoah e la tragedia della menzogna nel mondo culturale post bellico.

I Grossman erano una famiglia ebrea benestante e cosmopolita, appartenente al ceto alto dei professionisti.

Profondamente europeizzati, i genitori di Vasilj non nutrivano alcun interesse per l’ebraismo o per alcun’altra religione. Parlavano il russo e non l’ yddish; la madre di Vasilij parlava correntemente il francese ed il padre il tedesco.

Tutto questo faceva sì però, scrivono i Garrard, che “le persone come i genitori di Grossman si mantenevano […] in equilibrio tra due comunità nessuna delle quali intenzionata ad accettarli: gli ebrei dello shtetl da una parte, i cristiani russi ed ucraini dall’altra”

La famiglia Grossman, da sempre avversa allo zarismo, aveva salutato con favore la rivoluzione. Così Vasilij (nato nel 1905) era uscito nel 1929 dall’Università di Mosca — dove si era laureato in chimica — deciso a darsi al giornalismo ed alla letteratura ed a mettere la sua penna a servizio di quell’ “uomo nuovo” che il comunismo diceva di voler costruire.

Come giornalista della Krasnaja Zvezda, dal 1941 al 1945 trascorse più di mille giorni al fronte con l’Armata Rossa durante la battaglia contro la Wehrmacht, divenendo il più importante corrispondente di guerra sovietico.

Assistette alle battaglie decisive sul fronte orientale: l’improvviso contrattacco sovietico dinanzi a Mosca nell’inverno del 1941; Stalingrado, la violenta battaglia che probabilmente segnò le sorti del conflitto, nell’autunno-inverno del 1942; Kursk, il più grande scontro di mezzi di tutta la storia militare, nell’estate del 1943; e molte altre battaglie nella sanguinosa avanzata verso Berlino.

Fu sempre Grossman a documentare per primo la Shoah, pubblicando resoconti già dal 1943, mentre il genocidio era in atto.

Sempre al seguito delle truppe sovietiche, in Ucraina poté vedere con i propri occhi, oltre a Babij Jar (l’immensa gola appena fuori Kiev che dalla fine del settembre 1941 aveva iniziato a riempirsi di corpi), centinaia di piccole Babij Jar insanguinare il suolo dell’Ucraina.

Nel 1943, mentre si dirigono a Berlino, Grossman torna a Berdicev, che si trova lungo il percorso.

A Berdicev scopre che tra le trentamila vittime dei nazisti c’era anche sua madre, le cui ossa giacciono ancora nell’enorme fossa comune, l’unica mai rimossa né dai nazisti, che non hanno avuto il tempo (come cercavano sempre di fare) di cancellare ogni prova dello sterminio, né dai sovietici, che però si diedero poi molto da fare per cancellarne la memoria.

Grossman fu il primo a scrivere delle fucilazioni di massa dì ebrei nell’Ucraina occupata dai nazisti, fu testimone della liberazione di molti campi di concentramento e di sterminio, cominciando da Majdenek. Il suo Inferno di Treblinka – scritto e pubblicato nel 1944, l’unico resoconto sul funzionamento del lager, scritto a meno di un anno di distanza dallo smantellamento del campo – fu portato come prova al processo di Norimberga.

A guerra finita si dedicò alla raccolta di tutta la documentazione disponibile sul genocidio degli ebrei in Russia, e curò assieme ad Il’ja Erenburg l’edizione di un Libro nero che la divulgasse e che costituiva l’unica prova documentaria dello sterminio degli ebrei sul suolo sovietico.

Stalin però non solo vietò la pubblicazione del Libro nero ma fece incarcerare ì membri più autorevoli del CAE (il Comitato Antifascista Ebraico) che lo aveva promosso, proibì ogni riferimento agli ebrei come vittime principali dei nazisti: la Shoah, per l’Unione sovietica, non doveva esistere.

Subito dopo la guerra, Stalin vietò ogni riferimento agli ebrei come vittime principali del genocidio nazista. Benché i nazisti avessero organizzato e attuato la Shoah, il Governo sovietico facendo di tutto per cancellare le prove dello sterminio degli ebrei in Russia divenne di fatto, agli occhi di Grossman, complice del suo nemico.

Di fronte all’uso sistematico della menzogna e all’emergere anche nel suo paese dell’antisemitismo di Stato Grossman finì per concludere che Germania nazista e Russia sovietica fossero in realtà il riflesso speculare l’una dell’altra, concezione che poi sviluppò ed espresse nel suo capolavoro e cioè il romanzo Vita e Destino.

Vasilij Grossman inoltre, che non si era mai posto il problema delle sue radici ebraiche, venne costretto a confrontarsi con esse dal genocidio nazista e dalle politiche antisemite del Governo; politiche che gli portarono via gli amici e minacciarono anche la sua stessa vita.

Il libro di John e Carol Garrard racconta gli anni (dieci anni!) della stesura di Vita e Destino,  il   categorico rifiuto alla pubblicazione, l’irruzione della polizia segreta e la requisizione di tutti i manoscritti nonostante nel frattempo Stalin fosse morto e l’era di Cruscev avesse fatto sperare in un disgelo.  Pubblica gran parte della straziante lettera che Grossman scrisse a Cruscev. Rende noti    i particolari dell’incontro che  Grossman ebbe con Suslov.

Uno dei capitoli più toccanti di Le ossa di Berdicev è quello intitolato Sepolto vivo in cui ci viene descritta dettagliamente l’implacabile opera di totale emarginazione-cancellazione messa in atto da parte delle istituzioni sovietiche (Governo, case editrici, giornali) nei confronti di Grossman e di tutti i suoi scritti, anche di quelli un tempo considerati “innocui” e politiciamente in linea con le direttive di Partito.

Il cancro — iniziato subito dopo la requisizione dei manoscritti.

La morte.

La surreale diatriba sul cimitero in cui  il suo  corpo  doveva esser  sepolto.

Il   desiderio  di Grossman  fu tradito, Vasilij Grossman   fu sepolto in un posto diverso da quello che avrebbe voluto.  Aveva lasciato scritto  con molta chiarezza la sua volontà, ma di questa non   si   tenne conto.

(Posso, a questo punto,  concedermi una divagazione, e dire che, a questo proposito, ho tanto pensato a quello che scrisse Kundera nel suo bellissimo  I testamenti traditi?)

Alcune copie dei manoscritti erano state però conservate da un piccolo gruppo di fedeli e coraggiosi amici che riuscirono a farli pubblicare solo molti anni dopo la sua morte.

Anche dopo che i manoscritti furono fatti uscire dall’Unione Sovietica, la loro pubblicazione non fu immediata.

L’autore era sconosciuto ed i media erano  interamente  presi dal clamore suscitato dai libri di Solzenicyn.
Quando però finalmente in Occidente vennero pubblicate le prime edizioni di Vita e destino e di Tutto scorre, fu come il crollo di una diga le cui conseguenze giunsero anche in Unione Sovietica. Anche qui, pur con difficoltà, cominciarono a essere pubblicate in vari modi e l’impatto fu dirompente. Con quelle opere, scrivono i Garrard, Grossman portava il proprio attacco al cuore stesso del marxismo e non risparmiava nemmeno Lenin che fino ad allora era rimasto un personaggio eroico e soprattutto intoccabile.

Uno dei tanti meriti dei due autori è quello di non enunciare giudizi né di essere assertivi, ma di riuscire a far trarre a chi legge le sue conclusioni attraverso la presentazione e l’analisi dei testi di Grossman.

Dovessi soffermarmi su questo aspetto del loro libro, ci vorrebbe già più che un post.

Posso però dire che ho trovato preziosissime le pagine in cui i Garrand parlano dei testi (di “tutti”) i testi di Grossman e li collegano alla sua esperienza di vita: dai primo articoli ed i primi racconti a quelli dolorosi ed impegnativi sulla Shoah (Ucraina senza ebrei e Il vecchio maestro), i racconti di guerra (Il popolo è immortale e L’asse di tensione principale) i Diari di Guerra in cui “si può riscontrare la prima traccia del paragone sorprendente (almeno per uno scrittore sovietico) che portò Grossman a identificare implicitamente la Germania nazista di Hitler e la Russia sovietica di Stalin” (p.204)

Il libro dei Garrard è molto denso, interessantissimo ma non certo di facile lettura. Io non riuscivo a leggerne più di venti-trenta pagine al giorno, mi dovevo fermare spesso e sentivo il bisogno di riflettere e metabolizzare bene quello che avevo letto prima di poter proseguire.

La difficoltà non mi era causata certo dallo stile di scrittura dei Garrard, assolutamente scorrevole e totalmente privo di qualsiasi “posa” accademica.

No, l’impegno che il libro mi ha richiesto derivava dalla estrema durezza dei contenuti (come nei capitoli dedicati ai metodi di sterminio utilizzati a Treblinka — e descritti e documentati da Grossman — ed ai massacri di Berdicev e di Babij Jar davvero al limite dell’intollerabile) e dalla molteplicità dei livelli e dei temi trattati.

Per quanto riguarda il percorso di vita di Vasilij Grossman, dal libro emergono molto bene alcuni dei nodi problematici, i punti di svolta.

Accenno solo ad alcuni temi ai quali nel libro è dato ampio spazio: il tema della costruzione dell’identità, con il significato — per sé e per gli altri — dell’essere ebrei, delle tante contraddizioni, dell’essere in fine dei conti Grossman “umano, troppo umano”, se vogliamo  dirla con Niezstche.

La tragica esperienza della guerra ed in particolare di Stalingrado (ma anche Kurks e Treblinka) come punto di svolta decisivo nel destino personale e nella costruzione della sua identità: “con lo scoppio della guerra, Grossman cercò una rinascita, tentò di costruirsi una nuova identità, sbarazzandosi del vecchio sé” (p.200)

L’arruolamento volontario e il coraggio dimostrato durante tutta la guerra viene (secondo me giustamente) interpretato dai Garrard come una sorta di “espiazione” e di “redenzione”: “Egli voleva redimersi ai propri occhi per non essere riuscito a comportarsi coraggiosamente come avrebbe dovuto nei momenti difficili degli anni Trenta […] Si sentiva responsabile per il destino di sua madre che era stata travolta dalla rapida avanzata tedesca” (pagg.192-193)

La “grande illusione” suscitata in Grossman dalla vittoria di Stalingrado: “I momenti peggiori della guerra furono paradossalmente i migliori per Grossman. Egli credeva che lo spirito di Stalingrado, un’atmosfera di camertismo e di libertà per i soldati, avesse neutralizzato tutti gli orrori degli anni Trenta”.

Il profondo, inguaribile rimorso di Grossman nei confronti della madre, il senso di colpa (che non lo abbandonò per tutta la vita) per non essersi adoperato a farla mettere in salvo a Mosca allontanandola da Berdicev.

Scrivono i Garrard sulla morte di Grossman:

“Grossman morì nell’anniversario di quella terribile sera in cui a Berdicev la Polizei ucraina e le SS cominciarono a radunare le persone che si trovavano nel ghetto Jatki, a mettere gli autocarri in fila e a preparare le mitragliatrici per fare la guardia agli ebrei, che non erano in condizione di opporre resistenza.

Gli oncologi sanno che i pazienti in fase terminale riescono in qualche modo a controllare il giorno e l’ora in cui morire […] può darsi che la morte di Grossman, capitata nel ventitreesimo anniversario dell’inizio del massacro di Berdicev, ci segnali che, come nell’esperienza di quasi-morte descritta non molto tempo prima, il suo spirito stava uscendo dal suo corpo morente, balzando fuori dallo spazio e dal tempo per ricongiungersi a sua madre e alle altre 30.000 vittime in questo giorno, che di tutti i giorni dell’anno era per Grossman il più terribile.”(p.402)

Nel settembre del 1961, nel ventesimo anniversario della morte della madre, Grossman aveva indirizzato una lettera a Ekaterina Savl’evna in cui egli la collegava esplicitamente a Vita e Destino.

Vasilij scrisse  alla madre morta:

“Fintantochè vivrò anche tu vivrai. Quando morirò, continuerai a vivere in questo libro, che ho dedicato a te e il cui destino è strettamente legato al tuo […] Lavorando [a Vita e Destino] negli ultimi dieci anni ho pensato a te costantemente. Il mio romanzo è dedicato al mio amore e alla mia devozione per il mio popolo. Questa è la ragione per cui è dedicato a te. Per me tu sei l’umanità e il tuo terribile destino è il destino dell’umanità in questi tempi inumani” (p.364)

Un paio di note a margine (che potrebbero aumentare, nel tempo, eh. Non abbandono gli scrittori che amo).

  • Nella presentazione del libro dei Garrand Michele Rosboch dell’Università di Torino, Presidente del Centro Studi Vita e Destino chiarisce ed informa che la pubblicazione del testo dei Garrand “si inserisce nel contesto di una diffusa ripresa di studi e di attenzioni per la vita e l’opera del grande scrittore russo, a ragione definito come uno dei più grandi e meno conosciuti romanzieri del secolo appena trascorso”
  • Tzvetan Todorov, nel suo libro Memoria del male, tentazione del bene di cui avevo parlato >>> qui aveva scelto Vasilij Grossman non solo come una delle figure che secondo lui hanno rappresentato “il versante luminoso dell’umanità”, ma aveva anche messo come epigrafi di tutti i capitoli del suo testo citazioni tratte da La Madonna di Treblinka di Grossman.
  • Attendo speranzosa che vengano pubblicate in italiano  *tutte* le altre opere di Grossman. Di cui ho letto, ma che sin’ora non posso leggere
  • La scheda del libro >>
  • Intervista a John e Carol Garrard >>
  • Un sito dedicato alla città di Berdicev ricco di informazioni e foto >>
  • Sul blog dispersioni tre eccellenti post dedicati a Vita e Destino >>> qui, >>> qui e >>> qui

EASTER PARADE – RICHARD YATES

Easter Parade
Richard YATES, Easter Parade (tit. orig. The Easter Parade), prefazione di Nick Laird, traduz. dall’inglese di Andreina Lombardi Bom, p. 288, Minimum Fax, 2008, ISBN 978-88-7521-183-7

Il film di Sam Mendes Revolutionary road tratto dall’omonimo romanzo di Richard Yates, in questo periodo sugli schermi italiani, ha tra gli altri meriti quello di contribuire a far (ri)scoprire l’opera letteraria di questo scrittore americano che la rivista Esquire definì — come ricorda Nick Laird“uno dei grandi scrittori meno famosi d’America”

Di Richard Yates, Minimum Fax sta gradualmente pubblicando l’opera, di cui fa parte questo bellissimo e struggente Easter Parade del 1976 tradotto e pubblicato oggi per la prima volta in Italia.

Easter Parade racconta la storia di una famiglia americana, quella dei Grimes.

Ma non si tratta di una saga familiare come tante altre:  qui non c’è spazio alcuno per la felicità, la speranza.
Qui tutti i personaggi sono dei perdenti la cui modalità di relazionarsi è caratterizzata dal silenzio, dalla superficialità dei rapporti affettivi.
Una saga familiare in cui dominano lo squallore e la sostanziale mediocrità.

L’incipit del romanzo è fulminante, e contiene, in poche righe, il presente, il passato e il futuro di Sarah ed Emily, le due sorelle che sono anche i personaggi principali della storia e che ci vengono presentate come in qualche modo “marchiate” dal divorzio dei loro genitori e dal destino di nascita:

“Né l’una né l’altra delle sorelle Grimes avrebbe avuto una vita felice, e a ripensarci si aveva sempre l’impressione che i guai fossero cominciati con il divorzio dei loro genitori”.

Sarah ed Emily, che conosciamo ancora bambine, sono costrette da una madre un po’ sciocca a continui traslochi alla ricerca della casa perfetta (“Trovava che i ricchi fossero più fini del ceto medio, e perciò nel crescere le sue figlie mirava agli atteggiamenti ed ai manierismi della classe più abbiente. Cercava sempre di andare ad abitare in posti “carini”, che potesse permetterselo o no”) hanno un padre — un mediocre correttore di bozze — che le ha abbandonate da piccole ma che ogni tanto vedono e che muore prematuramente.

Sarah ed Emily (più giovane di quattro anni) prenderanno strade diverse, alla ricerca di una “felicità” difficile da identificare e che comunque non otterranno.

Sarah bella, solare e piuttosto convenzionale, si sposa presto con un coetaneo del piano di sopra, con il quale si trasferisce a vivere in campagna e con il quale ha tre figli. Ma quest’uomo, un inglese apparentemente gentile ed affabile, bello e somigliante a Laurence Olivier si rivelerà un marito violento che la picchierà per vent’anni senza che Emily venga a saperne mai nulla.

Emily, più chiusa e indipendente, invece non si sposa. Ottiene una borsa di studio, frequenta il college e poi dopo la laurea lavora con un discreto successo in una società di comunicazioni.

Rimasta single per scelta, passa da un uomo all’altro nell’illusoria speranza di una autonomia che si rivela però solo esteriore. Per un serie di circostanze si ritroverà a cinquant’anni sola, senza lavoro, senza soldi e senza nessun amico: “Ho quasi cinquant’anni e non ho mai capito niente in tutta la mia vita”.

Il romanzo, benchè ricco di personaggi, è centrato prevalentemente sul rapporto che negli anni (la narrazione copre quasi mezzo secolo) intercorre tra queste due sorelle dal carattere tanto diverso ma che sono sempre unite da un legame profondo e superficiale al tempo stesso, fatto di complicità ma anche di invidia e rivalità.

Easter Parade è — detto brutalmente — la storia di due fallimenti.

Non esiste riscatto, non esiste lieto fine, non esiste messaggio, o retorica.

Modelli narrativi per Yates erano Hemingway e soprattutto Il Grande Gatsby che ritenne sempre, insieme a Madame Bovary, il libro chiave della tecnica narrativa (“Se non ci fosse stato un Fitzgerald non credo che sarei mai diventato uno scrittore”).

E in effetti, lo stile di scrittura di Yates è una lama tagliente in cui nessun aggettivo, nessun verbo, nessun avverbio è mai di troppo. Una scrittura lucida, cristallina, realistica ed al tempo stesso evocativa.

Yates, che qualcuno ha definito “maestro del cinismo e delle contraddizioni” ritrae la quotidianità della famiglia Grimes senza alcuna indulgenza e senza pietà.
Mette in scena con franchezza, con ostinazione, senza alcun cedimento a sentimentalismi e romanticherie tutto lo squallore di vite mediocri.

Lo sguardo di Yates mette ancora una volta (come aveva già fatto superbamente nel 1960 con Revolutionary Road) in evidenza difficoltà relazionali, grigiore e spesso sostanziale anaffettività che si nascondono dietro l’apparente normalità di molti nuclei familiari.

Easter Parade è un libro che trasmette anche rabbia perchè le vite delle due sorelle vengono, in qualche modo, spezzate da loro stesse perchè, come scrive ancora Laird citanto Philip Larkin “I personaggi yatesiani non riescono mai […] ad affrancarsi da inizi sbagliati. S’intrappolano da soli”.

Il continuo riferimento/accostamento a Revolutionary Road è, per chi legge questo libro bellissimo e crudele, inevitabile.

Anche qui ci viene presentato uno spaccato di vita di una famiglia della media borghesia americana rappresentata da una coppia infelice: marito e moglie (Frank ed April Wheeler)  in  Revolutionary Road, una coppia di sorelle con due destini femminili diversi ma egualmente infelici in Eastern Parade.

In entrambi i romanzi, la famiglia viene rappresentata come un incubo claustrofobico, in cui domina la banalità del quotidiano, famiglie con relazioni piatte e senza sentimenti reali, in cui i personaggi non hanno progetti di vita ma solo slanci velleitari. In cui il lavoro non è mai inteso come possibilità di autorealizzazione ma solo come qualcosa che si deve fare per disporre dei soldi che servono per mantenere un certo tenore di vita ma in cui non ci si deve impegnare più di tanto.

Il tutto scandito dal rito dell’ora dell’aperitivo, fiumi di birra e di Martini cocktail in cui le persone cercano di annegare la loro solitudine.

Eppure più che spietato o crudele lo sguardo di Yates è impietoso e le cose che mostra lo riguardano e ci riguardano e ci costringono a guardarci dentro.

Il volume Minimum Fax è corredato da una interessante ed utile prefazione di Nick Laird che fornisce molte informazioni sui riferimenti autobiografici presenti nel romanzo.

Particolarmente felice mi è sembrata la scelta della copertina, che non soltanto è molto gradevole esteticamente, ma che ha un senso ed un riferimento preciso con il testo del romanzo.

“Quando aveva nove o dieci anni, Sarah era, tra le due sorelle, di gran lunga quella più fantasiosa. Era capace di prendere uno di quei fascicoli di bambole di carta che vendevano nei negozi “tutto a dieci centesimi”, ritagliare le bambole e i loro vestiti con le linguette senza mai andare fuori dai margini, e attribuire a ciascuna bambola vestita una personalità tutta sua. Decideva quale di loro fosse la più carina e benvoluta (e se aveva l’impressione che il suo vestito non fosse abbastanza bello gliene faceva un altro ideato da lei, con i pastelli o gli acquerelli)”

Richard Yates
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LE MUSÉE IMAGINAIRE DE MARCEL PROUST – ERIC KARPELES

Musée imaginaire de M. Proust
Eric KARPELES, Le musée imaginaire de Marcel Proust. Tous les tableaux de À la recherche du temps perdu (tit. orig. Paintings of Proust: A Visual Companion to In Search of Lost Time), traduz. dall’inglese al francese di Pierre Saint-Jean, p. 352, 206 illustrazioni di cui 196 a colori, Thames & Hudson, ISBN 2878113268

E’ con vero entusiasmo che oggi voglio parlare di questo splendido ed utilissimo libro, irrinunciabile per tutti coloro che amano À la recherche du temps perdu, l’immensa opera di Marcel Proust.

Ecco finalmente realizzato qualcosa che tutti i proustiani hanno da sempre desiderato: un’opera che elencasse e riproducesse le opere d’arte figurative che Proust cita o di cui parla nella RTP.

Ecco un’opera la cui realizzazione ho sempre sognato, sin dagli ormai lontanissimi tempi in cui, a diciotto anni, lessi per la prima volta Alla ricerca del tempo perduto

Un’opera che se fosse esistita prima mi avrebbe evitato ore ed ore di ricerche su libri e soprattutto su Internet per scovare e visualizzare i dipinti di cui parla Proust.

Il merito è di un pittore e critico d’arte americano, Eric Karpeles, che ha pubblicato presso la casa editrice Thames & Hudson (in francese, ma per coloro che preferiscono l’inglese esiste l’edizione originale americana) questo Le musée imaginaire de Marcel Proust.

Il lavoro che ha realizzato Karpeles è davvero monumentale, perchè ne Alla ricerca del tempo perduto sono evocate, citate, descritte più di 200 opere d’arte di più di cento artisti.

Eric Karpeles le ha meticolosamente rintracciate una per una, le descrive e le riproduce di volta in volta nella pagina destra del volume mentre nella pagina sinistra colloca il testo estratto dalla RTP con l’indicazione del contesto nel quale il dipinto appare.

La stuttura del volume è molto intelligente nella sua semplicità: il libro è diviso in capitoli, ciascuno dei quali corrisponde a un volume della Recherche. Subito dopo l’introduzione abbiamo dunque il capitolo dedicato a Du côté de chez Swann, poi quello per À l’ombre des jeunes filles en fleur e così via.

Le opere d’arte vengono riprodotte e commentate nell’ordine esatto in cui compaiono nel testo della RTP (“in ordine di apparizione”, potremmo dire).

Il primo dipinto citato nella Reherche è di Corot. L’ultimo di Chardin.

In appendice al volume — molto elegante, in carta patinata e con ottime riproduzioni — troviamo anche un ricco apparato di note e un comodo indice analitico alfabetico di tutti gli artisti citati.

Nella lunga e densa prefazione/saggio, Karpeles analizza con molta finezza i rapporti tra Proust e la pittura.

Come i lettori di Proust sanno, nella RTP le tre grandi arti sono rappresentati da tre personaggi emblematici. La musica da Vinteuil (e la sua celebre Sonata), la letteratura dal romanziere Bergotte e la pittura da Elstir.

Se il personaggio di Vinteuil è fortemente ispirato a César Franck, e se quello di Bergotte ha molte delle caratteristiche di Anatole France, il personaggio del pittore Elstir è frutto di parecchie influenze. Eric Karpeles rintraccia in Elstir le caratteristiche dei pittori che Proust amava, tra cui Gustave Moreau, Degas, Turner, Renoir, Monet, Vuillard. Qualche esempio: il quadro di Elstir che rappresenta un mazzo di asparagi esisteva nella realtà, ed era stato dipinto da Manet. Ma altri moltissimi esempi sarebbe possibile citare.

Più in generale, quando si evocano i legami tra Proust e la pittura, si pensa subito al celeberrimo “petit pan de mur jaune” (“la piccola ala di muro gialla”) della Veduta di Delft di Vermeer esposta al Mauritshuis dell’Aja. Nel romanzo, quando il quadro viene esposto temporaneamente a Parigi lo scrittore Bergotte, benchè molto malato vuole a tutti i costi recarsi a vederlo. Bergotte muore davanti al dipinto ripetendo: “Petit pan de mur jaune avec un auvent, petit pan de mur jaune.”

Proust conosceva molto bene la storia dell’ arte ed era un assiduo frequentatore dei musei parigini, specialmente del Louvre. Adorava i musei, mentre da casa sua aveva bandito le riproduzioni. Le pareti della sua stanza di asmatico erano nude.

“Grâce à l’art, au lieu de voir un seul monde, le nôtre, nous le voyons se multiplier, et autant qu’il y a d’artistes originaux, autant nous avons de mondes à notre disposition” (“Grazie all’arte, invece di vedere un solo mondo, il nostro, lo vediamo moltiplicarsi, e finchè ci saranno artisti originali, noi avremo parecchi mondi a disposizione”), scrive Proust

Tra i suoi pittori preferiti c’erano Mantegna, Carpaccio, Giotto, Rembrandt, Tiziano, Chardin del quale amava la maniera di trascendere l’ordinario, il quotidiano: bicchieri, frutta, oggetti umili che rinviano all’essenza, proprio come nella RTP la madeleine o il ciottolo ineguale di un pavimento. Ma forse il suo pittore preferito in assoluto era proprio Vermeer e questo in un’epoca in cui il pittore olandese non era ancora così famoso e celebrato come lo è oggi.

La conclusione cui giunge Karpeles è che “Vermeer e la morte di Bergotte esprimono il credo fondamentale di Proust secondo cui la vita è nulla e l’arte è tutto”.

Nel suo amore per l’arte, Proust aveva seguito per molto tempo con passione John Ruskin (aveva persino tradotto in francese, lui che conosceva pochissimo l’inglese, alcuni testi del grande critico d’arte britannico) ma poi se ne era distaccato, criticando l’idolatria di Ruskin per una bellezza che Proust considerava superficiale: “Il grande critico non è stato in grado che di vedere le seducenti meraviglie del mondo esteriore che distraggono dalle verità necessarie che esse in realtà dissimulano”.

La pittura serviva anche, a Proust, come oggetto transazionale, nel senso psicoanalitico del termine, tra il mondo interiore affettivo ed il mondo esterno reale.

Nel suo libro Karpeles mostra la varietà, la complessità dello sguardo di Proust ed il risultato è un libro utilissimo ed appassionante sia per quanto riguarda l’arte che per la letteratura

Eric Karpeles
Eric Karpeles
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STORIA NATURALE DELLA DISTRUZIONE – W. G. SEBALD

W. G. Sebald
Winfried George SEBALD, Storia naturale della distruzione (tit. orig. Luftkrieg und Literatur), traduz. di Ada Vigliani, p.150, Adelphi, Collana Biblioteca Adelphi, ISBN 9788845919237

Alla fine della guerra, tra il 1943 e il 1945, oltre un milione di tonnellate di bombe inglesi ed americane piovvero — nel corso di quattrocentomila incursioni — su centotrentuno città tedesche provocando seicentomila morti fra i civili e sette milioni di senzatetto.

Berlino, Dresda, Amburgo, Colonia, Monaco — solo per citarne alcune, di quelle città — bruciavano in roghi apocalittici e vennero ridotte a cumuli di macerie. “E’ difficile” scrive Sebald “riuscire oggi a farsi un’idea anche solo vagamente adeguata” di quell’immane devastazione “e più difficile ancora riflettere sull’orrore che accompagnò tale devastazione”.

Eppure, quasi nulla di tutto questo compare dalle pagine della narrativa tedesca del dopoguerra.

Perchè nella letteratura tedesca dell’immediato dopoguerra la distruzione delle città tedesche operata dalle forze aeree inglesi ed americane è pressocchè assente?

“Sembra proprio che in quegli anni […] nessuno fra gli scrittori tedeschi volesse o sapesse mettere per iscritto qualcosa di concreto sul decorso e le conseguenze di quella lunghissima, immane campagna di annientamento.”

Dresda 1945

La tesi secondo cui la distruzione delle città tedesche non aveva trovato posto nella coscienza della nazione che andava costituendosi ex novo è il tema principale delle conferenze tenute da Sebald a Zurigo nel 1997 sul tema “Guerra aerea e letteratura” contenute nel volume Adelphi.

I testi originali sono corredati da un successivo approfondimento ed elaborazione e da un saggio molto critico (direi proprio al vetriolo) sullo scrittore   Alfred Andersch che procurò a Sebald molti attacchi da parte dell’intellighentia tedesca dell’epoca.

Il titolo della raccolta deriva dal titolo di un articolo che sul bombardamento di Colonia avrebbe dovuto essere scritto da Solly Zuckermann, appena rientrato dalla Germania, per la rivista londinese Horizon.

“Se le generazioni del dopoguerra volessero limitarsi alle testimonianze degli scrittori, troverebbero difficoltà a farsi un’idea dello svolgimento, dell’estensione, della natura e delle conseguenze che assunse la catastrofe abbattutasi sulla Germania”.

Dresda 1945

Sebald indica una sola eccezione significativa:  il    romanzo di Heinrich Böll L’angelo tacque (Der Engel schwieg).

Per il resto, “Siamo stati finora incapaci di far emergere gli orrori della guerra aerea nella coscienza collettiva attraverso raffigurazioni storiche o letterarie” (p.95)

Un grande tabù ha gravato per decenni sul tema della distruzione fisica e morale delle più grandi città tedesche, i tedeschi vennero colti da una vera e propria amnesia individuale e collettiva. La Germania mostrò “un’incredibile bravura nell’anestetizzare sè stessa” (p.24), nell’allestire una continua strategia di evitamento ed un “meccanismo di rimozione perfettamente funzionante” (p.24).

Al bisogno di sapere si opponeva la tendenza a chiudere occhi ed orecchie e gli stessi scampati alla catastrofe, dice Sebald, erano “testimoni inaffidabili colpiti da parziale cecità” (p.35)

La tesi di Sebald è che sia stata la “consapevolezza del proprio disonore”, unito a “un senso di sfida nei confronti dei vincitori” a spingere a “tacere e volgere gli occhi altrove” determinando un mutismo quasi assoluto ed il ripiegamento in sè stessi.

“…Forse fu proprio […] perchè noi stessi ci sentivamo in qualche modo complici — che nessuno, nemmeno gli scrittori incaricati di conservare la memoria collettiva della nazione, si riconobbe in diritto, più tardi, di richiamare alla nostra mente immagini così ignominiose come quelle, ad esempio, del Mercato vecchio di Dresda dove, nel febbraio del 1945, 6865 cadaveri furono bruciati sui roghi da un commando delle SS che aveva fatto le sue esperienze a Treblinka” (p.98)

Dresda 1945
Dresda 1945

La stessa colossale impresa, iniziata subito, della ricostruzione, il grande lavoro che richiese assolse di fatto (anche) alla funzione di impedire fin dal principio “che si volgesse lo sguardo al passato e, orientando la popolazione esclusivamente verso il futuro la costrinse a tacere su quanto aveva vissuto (p.22).

La lettura di Storia naturale della distruzione ha rappresentato per me un’esperienza importante. Questo libro (che ho divorato in un giorno) mi ha fatto conoscere eventi e riflettere su alcuni aspetti della drammatica storia della Germania e del ruolo che la sua letteratura hanno avuto nella memoria collettiva di quel travagliato paese, su tante cose su cui non mi ero mai soffermata a pensare.

Un libro che mi ha offerto anche una eccezionale ulteriore chiave per la comprensione delle opere narrative dello stesso Sebald da me lette sin’ora.

Adesso credo di poter capire molto meglio il perchè del suo costante scavare sul tema della memoria, del passato, sul valore del ricordo, sull’importanza degli scritti, delle fotografie, dei segni  concreti del trascorrere del Tempo.

Dresda 1945

Nelle foto: Dresda dopo i bombardamenti, nel 1945.

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