ARRIVEDERCI!

In volo per Monaco
Stacco per un po’ e me ne vado  >>> qui

Come al solito, mi collegherò da qualche Internet Point, continuerò a leggere ma non scriverò, perchè le tastiere non italiane mi fanno andare in tilt…  

Al mio ritorno risponderò ai commenti di ieri e di oggi ai quali non posso adesso dedicare il tempo che meritano e ad eventuali altri che dovessi trovare.
 Nel frattempo…nel blog non manca certo di che leggere,  se si ha voglia di gironzolare negli archivi 

Auf wiedersehen!  

BECKETT e PROUST

Alessandro Piperno ha scritto un articolo pubblicato sul Corriere della Sera su Proust visto da Beckett di cui voglio riportare uno stralcio.

Mi ha particolarmente interessata perchè riguarda un aspetto (secondo me fondamentale) dell’opera di Proust che troppi proustomani tendono a non vedere, a rimuovere, ad esorcizzare…

Proust e Beckett“Beckett vede in Proust un uomo che non crede nella comunicazione tra gli esseri. Che si sente immerso in un irredimibile mare di egoismo. E che vive i rapporti umani come uno sconfortante nonché beffardo succedersi di fraintendimenti. «L’amicizia, secondo Proust, è la negazione di quella solitudine senza rimedio alla quale è condannato ogni essere umano» scrive Beckett, e subito rincara la dose: «L’amicizia è un espediente sociale, come la tappezzeria o la distribuzione di bidoni delle immondizie». Come si evince dal tono della scrittura, nessuno meglio di Beckett può capire il cinismo proustiano, e il suo disincanto estremista. «Noi siamo soli. Non possiamo conoscere e non possiamo essere conosciuti», scrive Beckett interpretando la famosa asserzione di Proust secondo cui: «l’uomo è l’essere vivente che non può uscire fuori da sé, che conosce gli altri solo in se stesso». Beckett tiene a spiegarci come queste parole — come ogni discorso pronunciato da Proust — non esprimano alcun punto di vista morale. Anzi, come esse siano fuori da ogni struttura etica. Beckett sa che l’eroe tragico è oltre la moralità borghese: «Il personaggio tragico rappresenta l’espiazione del peccato originale, dell’originale ed eterno peccato di lui, e di tutti i suoi socii malorum: il peccato di essere nato». Insomma, è leggendo e interpretando Proust, che Beckett impara a essere Beckett. Che Beckett incontra se stesso. E, nel farlo, quasi per caso, ci mostra la vera faccia della Recherche: un’opera dantesca nella sua ambizione di distribuire orribili castighi ai personaggi, ma anche shakespeariana nella capacità di mettere in scena tragedie che dicono tutto ma non insegnano nulla”

Il testo integrale dell’articolo di Alessandro Piperno si può leggere   >>> qui

QUANTE LETTURE?

Leggere e scrivere
“La rilettura, operazione contraria alle abitudini commerciali e ideologiche della nostra società, che raccomanda di “buttar via” la storia una volta che è stata consumata (“divorata”), perchè si possa passare ad un’altra storia, comprare un altro libro, e che è tollerata solo in alcune categorie marginali (i bambini, i vecchi e i professori), è qui promossa in partenza, giacchè essa sola può salvare il testo dalla ripetizione (coloro che fanno a meno di rileggere si costringono a leggere dappertutto la stessa storia), lo moltiplica nella sua diversità e nella sua pluralità: lo tira fuori dalla cronologia interna (“questo succede prima o dopo quello” e ritrova un tempo mitico (senza prima né dopo); contesta la pretesa secondo cui la prima lettura è una lettura prima, schietta, fenomenica, che, successivamente, potremmo solo analizzare, intellettualizzare (come se vi fosse un cominciamento della lettura, come se tutto non fosse già letto: non c’è una prima lettura, anche se il testo si adopra a darcene l’illusione mediante qualche funzione di suspense, artifici spettacolari più che persuasivi); essa non è più consumo, ma gioco (quel gioco che è il ritorno del differente).
Se, quindi, voluta contraddizione in termini, rileggiamo immediatamente il testo, è per ottenere, come sotto l’effetto di una droga (quella del ricominciamento, della differenza), non il testo “vero” ma il testo plurale: uguale e nuovo”.

TUTTO SCORRE – VASILIJ GROSSMAN

Grossman - Tutto scorre
Vasilij GROSSMAN, Tutto scorre… (tit. orig. Vsë tecët ), traduz. di Gigliola Venturi, p.229, Adelphi, Collana Fabula, ISBN 9788845902482

Tutto scorre…, il romanzo cui Grossman, già malato di cancro, lavorò ridefinendolo ed aggiustandolo continuamente sin quasi il giorno della sua morte avvenuta nel 1964 era stato iniziato nel 1955 ma poi messo da parte per Vita e Destino.

Grossman riprese a lavorarci dopo la confisca da parte della polizia politica del manoscritto di Vita e Destino e la totale emarginazione operata nei suoi confronti da tutte le istituzioni sovietiche (Governo, Associazione degli Scrittori, giornali, case editrici) che lo avevano progessivamente ma inesorabilmente isolato.

Il regime non lo aveva imprigionato e non l’aveva mandato a morte, ma gli aveva tolto qualunque possibilità di far sentire la propria voce.

Grossman perciò scriveva sapendo perfettamente di non avere alcuna speranza di vedere il suo lavoro pubblicato in vita. Scrisse Tutto scorre per i posteri, per le future generazioni russe.

Il romanzo è oggi considerato, assieme al racconto breve Pace a voi! (Dobra Vam!)   “il riepilogo della sua stessa vita e un’ultima esplorazione delle tematiche e degli eventi dei terribili anni in cui era stato condannato a vivere”, come dicono John e Carol Garrand nella splendida biografia Le ossa di Berdicev. La vita e il destino di Vassilij Grossman in cui, chi volesse approfondire, può trovare anche i dettagli di tutte le peripezie che gli amici di Grossman dovettero affrontare per riuscire a far giungere il manoscritto in Occidente dove, molti anni dopo la morte dello scrittore, venne finalmente pubblicato.

In Tutto scorre viene raccontato in terza persona il ritorno di un prigioniero politico liberato, a seguito della morte di Stalin, dopo trent’anni di detenzione nei lager della Kolyma.

Nella scelta del soggetto non c’era niente di sovversivo, anzi questo tema era perfettamente in linea con la campagna antistaliniana che in quel momento veniva condotta da Kruscev.

Ma così come Vita e Destino è molto, molto più del racconto di una epica battaglia (Stalingrado) e di una saga familiare, Tutto scorre è molto più che la semplice cronaca del ritorno a casa di un ex detenuto.

Grossman infatti utilizza la storia personale di Ivan Grigor’evic (il protagonista del romanzo) per condurre una analisi spietata del comunismo e dell’intero esperimento sovietico non risparmiando nemmeno Lenin, che sino a quel momento era considerato un “intoccabile” e che Grossman ritiene invece il primo responsabile delle tragedie accadute nella Russia sovietizzata.

In questa “storia di un uomo giunto dal regno dei lager” Grossman attaccava quindi le fondamenta stesse del regime sovietico.

La trama del libro si può riassumere molto rapidamente.

Arrestato per la prima volta quando era uno studente universitario, Ivan fa ritorno a Mosca nel 1954 dopo quasi trent’anni di gulag, ricevendo una fredda e politicamente corretta accoglienza dai famigliari e dagli amici con cui una generazione prima era stato a contatto a Mosca e Leningrado. Viaggia poi verso sud, trova un lavoro come fabbro ed affitta una stanza nella casa di una vedova di guerra, Anna Sergeevna e il suo giovane nipote Alioscia.
Ivan ed Anna si innamorano, ma lei muore di cancro. Tramontata l’ultima possibilità di felicità, Ivan decide di andarsene a vivere in solitudine sulla costa del mar Nero.

Disegno di Eufrosinia Kersnovskaya
Il gulag di Norillag in un disegno della prigioniera Eufrosinia Kersnovskaya

Al di là della semplicità e linearità delle vicende narrate, Tutto scorre è un libro molto denso in cui il lettore che già conosca la vita dell’autore trova molti riferimenti chiaramente autobiografici, riflessioni sulla storia della Russia e sull’essenza del regime comunista e della sovietizzazione, sugli effetti delle ideologie, riflessioni sull’uomo e sulla sua straordinaria capacità di fare tanto il bene quanto il male.

Se in Vita e Destino è il fisico nucleare Strum, figlio di madre ebrea, a rappresentare l’Alter Ego di Grossman, in Tutto scorre è invece al personaggio di Nikolaj Andreevic (il cugino di Ivan) che Grossman attribuisce il senso di colpa da lui stesso più volte provato per non avere, negli anni più bui dei processi staliniani, delle delazioni e delle deportazioni, tentato di fare qualcosa per parenti ed amici innocenti denunciati ed accusati ingiustamente e di altri atti che per tutta la vita si pentì di avere commesso (o non commesso).

“Era assurdo adesso […] inorgoglirsi di quello di cui si era sempre inorgoglito: di non aver mai fatto delle denunce; che, convocato alla Lubjanka, si era rifiutato di dare informazioni compromettenti su un collega arrestato; che incontrando per strada la moglie di un compagno deportato, non si era voltato dall’altra parte, ma le aveva stretto la mano, informandosi sulla salute dei bambini.
Cosa c’era da inorgoglirsi…”
(p.37)

L’incontro di Ivan con Pinegin, l’antico compagno di università che era stato il suo delatore e che con la sua denuncia lo aveva messo nelle mani della polizia politica condannandolo di fatto a decenni di lager offre lo spunto a Grossman per un intero, importante capitolo (chiamato dai lettori “il processo dei Quattro Giuda”) tutto centrato sul tema della responsabilità individuale in cui egli analizza la tipologia e riflette sulle motivazioni dei vari tipi di delatori.

Sembra impossibile, per chi abbia letto Vita e Destino, che nei libri successivi Grossman potesse avere ancora qualcosa da dire sui temi che più gli stavano a cuore e che già aveva tanto splendidamente affrontato nel suo grande romanzo. Eppure, nelle duecento pagine circa di questo suo ultimo libro, ci sono passaggi di grande profondità e che suscitano una vasta gamma di emozioni.

Pagine notevoli sono ad esempio quelle — intensissime e drammatiche — in cui Anna Sergeevna racconta ad Ivan la tragedia delle deportazioni in massa ed il massacro dei kulaki e della Grande Carestia in Ucraina, o il corrosivo capitolo dedicato alla morte di Stalin:

“E improvvisamente, il cinque marzo, Stalin morì. […]. Stalin morì senza che ciò fosse pianificato, senza istruzione degli organi direttivi. Morì senza l’ordine personale dello stesso compagno Stalin” (p.33).

Ad un certo punto del romanzo Ivan sente il bisogno, dopo decenni trascorsi in carcere e nei lager, di cercare di rispondere alla domanda: “com’è potuto accadere tutto questo?” e allora, per cercare di mettere ordine nei suoi pensieri si mette a scrivere degli appunti per “sforzarsi di capire la verità della vita russa, di trovare un nesso tra il passato e il presente” (p.162)

Negli appunti di Ivan, Grossman riversa le sue considerazioni sulla storia della Russia, sulla libertà, su Lenin e Stalin. Sono capitoli, questi, in cui Grossman, analizzando la personalità e l’opera di Lenin, sferra un vero e proprio “J’accuse” contro quello che lui considera senza mezzi termini il primo e principale responsabile di quel processo che vide la costruzione, da lui iniziata, di uno “Stato Padrone”, di uno Stato inteso come fine e non come mezzo. Stalin continuò e perfezionò l’opera di Lenin nella soppressione della libertà: “La libertà è vita, e sconfiggendo la libertà Stalin uccideva la vita” (p.214)

Grossman considera la Russia vittima di una schiavitù millenaria che secondo lui starebbe alla base della mistica dell’anima russa, ed è forse per questo che “Libertà” è la parola che ricorre in maniera quasi ossessiva in tutto il romanzo.

“Quante cose aveva visto la Russia nei mille anni della sua storia. Negli anni sovietici, poi, aveva veduto formidabili vittorie militari, grandiosi cantieri, nuove città, dighe che sbarravano il corso del Dnepr e del Volga, un canale che univa i mari, e possenti trattori, e grattacieli… Una sola cosa la Russia non aveva visto in mille anni: la libertà” (p.59)

Per Grossman la “legge sacra della vita” è la libertà dell’uomo che “sta al di sopra di tutto, non v’è al mondo obiettivo degno del sacrificio della libertà dell’uomo” (p.180) ma l’ex deportato Ivan (e probabilmente Grossman con lui) finisce per concludere sconsolato: “Dov’è il tempo dell’anima russa libera e umana? Quando mai verrà quel giorno? Chissà, forse non verrà mai, mai spunterà” (p.203)

Naturalmente molte pagine sono dedicate alla rievocazione della vita nei lager, e come già in Vita e Destino torna il parallelismo tra nazismo e comunismo il quale “per il trionfo dell’anima russa” ha proceduto “accozzando lo stridore del filo spinato teso verso la taigà siberiana a quello di Auschwitz” (p.202)

Raccontando lo straziante destino di Mascia Ljubimova, una giovane madre strappata ai suoi figli e mandata nel gulag solo perchè moglie di un condannato a morte per “attività controrivoluzionaria” Grossman dedica ben due capitoli alla condizione delle donne nei lager. La sua è una descrizione lucida e allo stesso tempo commossa, che si conclude con la considerazione che il destino delle donne era peggio di quello degli uomini e che “Ai lavori forzati della Kolyma non c’è parità, tra uomini e donne” (p.129).

Ma nonostante tutto Grossman non idealizza affatto le persone dei lager perchè — scrive Ivan nei suoi appunti — “durante gli anni trascorsi nei lager […] aveva appreso molte cose sulle debolezze umane, ed ora vedeva quante ce ne fossero da ambedue le parti del filo spinato” (p.99)

Grossman pensa che il castigo peggiore per i carnefici sia quello di avere perso la propria umanità: “Uno è il castigo del carnefice: lui, che non considera la sua vittima un uomo, cessa di essere uomo lui stesso; egli uccide l’uomo che è in lui, è il suo proprio carnefice; la vittima, invece, resterà un uomo nei secoli, per quanto tu lo distrugga” (p.135).

Pensando ai crimini nazisti e staliniani nei suoi appunti Ivan scrive: “Nel momento del trionfo più completo della disumanità, si è fatto evidente che tutto quanto è basato sulla violenza è assurdo e inutile, non ha futuro, né lascia traccia. E’ questa la mia fede” (p.222)

Ancora una volta, leggendo Tutto scorre, si comprende perchè questo autore sia stato indicato da Todorov nel suo libro Memoria del male, tentazione del bene come una di quelle figure che secondo lui hanno rappresentato in qualche modo il versante “luminoso” dell’umanità del Novecento e sia stato definito da John e Carol Garrard “un essere umano che passò attraverso il fuoco dell’inferno e ne riemerse con l’anima intatta”

Tutto scorre. Come un convoglio ferroviario che attraversa le sterminate distese siberiane.

“Si, tutto scorre, tutto muta, impossibile salire sullo stesso, immutabile convoglio” (p.107)

  • Il libro >>

UNA FINESTRA PER CIASCUNO DI NOI

Edward Hopper
Edward Hopper, Sun in an empty room, 1967

"Una finestra ci dovrebbe essere da qualche parte, per ciascuno di noi"

Richard Yates, Costruttori, in Undici solitudini

L’INESORABILE INDIFFERENZA DEL TEMPO

Edward Hopper
Stainway at 48 rue de Lille, Paris 1906
Whitney Museum of American Art

“Penso che questo sia il mestiere più duro e solitario al mondo, questa folle, ossessiva faccenda del cercare di essere un bravo scrittore. Nessuno di noi sa mai quanto tempo gli rimane, né come sarà in grado di usare questo tempo, e in ogni caso, anche se lo userà bene, il suo lavoro dovrà sempre affrontare la terribile, inesorabile indifferenza del tempo stesso”

Richard Yates in “An Interview with Richard Yates” Henry DeWitt e Geoffrey Clark

Testo integrale dell’intervista a Yates (in inglese) >>> qui

L’ANGELO DEL MALE (LA BÊTE HUMAINE) – JEAN RENOIR (1938)

Jean Gabin-La Bete Humaine

Il titolo originale di questo film, considerato assieme a La grande illusione uno dei capolavori di Jean Renoir, è La bête humaine ed è tratto dal romanzo omonimo di Émile Zola, diciassettesimo volume del ciclo dei Rougon-Macquart.

Non riesco proprio a spiegarmi perchè si sia sentito il bisogno di dare alla versione italiana questo orrendo titolo Angelo del male. Non ne capisco il senso, e se anche lo capisco non mi trova d’accordo. Ma così è e dunque tant’è. Ne riparlerò. Forse.

Jacques Lantier (Jean Gabin) è uno scrupoloso macchinista ferroviario che percorre ogni giorno la tratta Parigi-Le Havre.
Assieme a lui c’è sempre il fuochista ed amico Pecqueux (Julien Carette). I due amici e compagni di lavoro sono diversissimi ma inseparabili.

Jean Gabin

Un giorno, a causa del surriscaldamento di un cilindro della locomotiva — che Jacques chiama “Lison” ed alla quale è affezionato come se si trattasse di un essere vivente (“sono sposato con la Lisa”, dice all’amico fuochista che gli risponde sbuffando: “Figuriamoci! Sposato con… una locomotiva?!” ) — Lantier e Pecqueux sono costretti, aspettando che il guasto venga riparato, a trascorrere il turno di riposo a Le Havre.

Jean Gabin

Lantier ne approfitta per andare a Bréauté a trovare la madrina malata (Charlotte Clasis).

Jean Gabin

Qui incontra anche la bella scontrosa Flore (Blanchette Brunoy), innamorata di lui e che conosce fin da quando erano ragazzini.
Baciandola, Lantier è preda di un raptus che lo porta sul punto di strangolare la ragazza

Jean Gabin-Blanchette BrunoyJean Gabin-Blanchette Brunoy

Jacques Lantier è figlio di Auguste Lantier e Gervaise, della famiglia dei Rougon-Macquart.

Il suo sangue ha ereditato la tara dell’alcolismo che lo tormenta con tremende emicranie, spaventosi accessi di tristezza e furibondi attacchi di collera.

Passato il momento di crisi, Lantier spiega a Flore il suo problema e rifiuta l’amore della ragazza: ha paura per lei, teme che in uno dei momenti in cui la sua tara ereditaria prende il sopravvento egli possa ucciderla.

Jean Gabin-Blanchette Brunoy“E’ una specie di nebbia che mi sale alla testa e deforma tutto. Mi sento come un cane rabbioso che vuole mordere. Eppure non bevo mai, neppure un goccio di vino a tavola. Se bevo alcoolici divento un pazzo. Sembra che io debba pagare per gli altri. I padri, i nonni che bevevano. Ho nel sangue generazioni e generazioni di ubriachi. Devo ringraziare loro per questo malanno”

Sul treno che lo riporta a Le Havre Lantier incontra Roubaud (Fernand Ledoux), il sottocapo stazione di Le Havre e la sua bella moglie Séverine (Simone Simon) .

Jean Renoir-La bete humaine

Durante il viaggio, Lantier, mentre si trova nel corridoio a fumarsi tranquillo una sigaretta, vede Roubaud che all’interno di uno scompartimento uccide Grandmorin, un uomo ricco e potente, notabile del luogo, padrino e protettore di Séverine che, orfana, è stata allevata in casa sua.

Roubaud ha infatti scoperto solo da qualche ora che Grandmorin ha sedotto Séverine quando questa era ancora quasi una bambina.

Reso folle dalla gelosia, il capostazione ha ora costretto con la violenza la moglie ad essere sua complice.
Tutto questo, Lantier non lo sa, ma lo sappiamo noi spettatori. Perchè Renoir ce lo ha fatto vedere, l’antefatto.

Jean Renoir-La bete humaine
Simone Simon

Jean Renoir-La bete humaine

Il delitto al quale Séverine era contraria ma al quale non si è opposta ed a cui ha oggettivamente collaborato, anche se costretta, ormai lega il suo destino a quello del marito.

Séverine si è accorta che Lantier ha visto tutto.
Decide perciò di sedurlo per impedirgli di parlare.

Simone Simon

Roubaud agevola le manovre di Séverine invitando spesso a casa Lantier.

Jean Renoir La bete humaine

Nel corso delle indagini, Lantier non parla di quello che ha visto e lascia che del delitto venga accusato l’innocente Cabuche (Jean Renoir), un povero cantoniere che per caso si trovava anche lui sul treno.

Jean Renoir-La bete humaineJean Renoir

Il regista Jean Renoir nel ruolo di Cabuche

Séverine però si innamora davvero, di Lantier, ed esplode la passione.
Per un certo tempo i due si incontrano clandestinamente di notte in un capannone della stazione.

Jean Renoir-La bete humaine

In seguito, capiscono che Roubaud è al corrente della loro relazione ma che — lui, che la gelosia nei confronti di Grandmorin aveva spinto sino al delitto — non se ne cura affatto. Roubaud è ormai sprofondato nel vizio del gioco. Da quel momento, i due amanti non hanno più alcuno scrupolo ad incontrarsi a qualunque ora in casa di Roubaud e Séverine.

A poco a poco Séverine diventa sempre più esigente ed insofferente nei confronti del marito. Arriva al punto da cercare insistentemente di convincere Lantier ad uccidere il marito.

Jean Renoir-La bete humaineJean Renoir-La bete humaine

“Ah, se fossi libera, come saremmo felici!”
“Ma non possiamo mica ucciderlo!”

Lantier ci prova, ad ammazzare Roubaud, ma non riesce a commettere l’omicidio.

Jacques Lantier è infatti un uomo fondamentalemente onesto, non è un assassino.
Non vuole uccidere nessuno.

Cerca invece di convincere Séverine a fuggire con lui. Che cosa la trattiene dall’abbandonare il marito che ormai non si cura più di lei? Perchè non possono semplicemente andar via insieme, lontano, magari in America?

Ma — delusa — Séverine comincia ad assumere nei confronti di Lantier atteggiamenti sempre più provocatori.

Una sera, nel corso di una scenata in cui per l’ennesima volta Lantier chiede a Séverine di partire con lui mentre lei si ostina nell’idea di uccidere il marito Lantier viene colto da una delle sue terribili crisi provocate dalla tara ereditaria e uccide l’amante.

La strangola in una sequenza in cui le scene dell’omicidio si alternano — in drammatico contrappunto — a quelle di una festa di ferrovieri in cui uno chansonnier canta una vecchia canzone sentimentale.

Jean Renoir-La bete humaineJean Renoir - La bete humaine

Jean Renoir-La bete humaine

Il giorno dopo, mentre come al solito è alla guida del treno diretto a Parigi confessa all’amico Pecqueux il delitto commesso

Jean Renoir-La bete humaine
“L’ho uccisa. L’amavo, sai”

Folle di dolore e di rimorso e disperato per la sua impossibilità a dominare le sue crisi si uccide gettandosi dalla “sua Lison” lanciata a tutta velocità.

Jean Renoir-La bete humaine

Jean Gabin, divenuto con questo film il più celebre ferroviere del cinema francese (per noi italiani c’è il Pietro Germi de Il ferroviere) era figlio di un conduttore di locomotive, ed anche per questo voleva interpretare la parte d’un ferroviere.

Jean Renoir aveva soltanto un vago ricordo del romanzo di Zola, in cui i tre protagonisti sono visti come moderni Atridi che il peso dell’ereditarietà condanna ai peggiori delitti.

Dopo aver rifiutato a malincuore un adattamento dello scrittore Roger Martin Du Gard (Premio Nobel per la Letteratura nel 1937) che si concludeva con la dichiarazione di guerra dell’agosto 1914, Renoir scrisse lui stesso una sceneggiatura operando rispetto al testo originario scelte molto radicali centrate soprattutto sullo sviluppo di una tragica storia d’amore e di morte che si svolge nel contesto di un ambiente ferroviario.

Renoir sfronda allora il testo di Zola da tutte le vicende dei personaggi secondari (quella di Cabuche e di Flore, ad esempio, che nel romanzo ha un ruolo determinante mentre nel film compare in una sola scena).

Ambientando la vicenda nei contemporanei anni Trenta elimina l’affresco sociale così importante in Zola mantenendo però lo sfondo determinista in cui si colloca la vicenda causata dalla tabe ereditaria (il film si apre con una didascalia iniziale che riporta testualmente le parole di Zola) e da un contesto in cui l’estrazione proletaria dei personaggi opera un condizionamento sociale che mira alla soppressione dell’individuo.

Simone Simon Ne è venuta fuori un’opera in un meraviglioso bianco e nero nella quale ciascun interprete porta il contributo del suo stile e delle sue caratteristiche personali: l’opacità pesante ed inquietante di Ledoux (il marito di Séverine), il fascino felino di Simone Simon (Séverine) che sempre più nel corso del film connota il suo personaggio come una “dark lady” e “femme fatale” tipica del noir, il romanticismo lirico di Jean Gabin (un Lantier allo stesso tempo duro e vulnerabile), l’affettuosa ironia di Carette (il fuochista Pecqueux), testimone impotente del suicidio di Lantier.

I tre personaggi sono dominati dalle passioni: condizionati da spinte pulsionali che non riescono a controllare e che li obbligano a commettere gesti irreversibili che li conducono alla rovina.

L’inizio del film è ormai entrato nell’antologia della storia del cinema: una lunga sequenza che dura quasi sette minuti che mostra il tratto Parigi-Le Havre visto da una locomotiva in corsa, capolavoro di montaggio (tra parentesi: il montaggio è opera di due donne, Marguerite Renoir e Suzanne de Troeye) di grande ma efficacissima semplicità. Sette minuti senza dialogo e senza musiche di sottofondo: udiamo solo lo sferragliare del treno lanciato a tutta velocità.

Tutte le sequenze di viaggio (ce ne sono parecchie, nel film) sono realizzate con la macchina da presa collocata come se noi spettatori vedessimo con gli occhi del macchinista Lantier.

Memorabile, all’inizio del film, la fine del viaggio e l’arrivo del treno a Le Havre con la lunghissima corsa del treno lanciato verso l’uscita del tunnel, in cui qualcuno ha visto una metafora di un tunnel esistenziale: i personaggi sperano di vedere finalmente la luce ma di fatto sono incosapevolmente diretti verso un destino che li porterà alla tragedia.

Renoir ha costruito un film tragico e possente, eppure molto meno feroce del testo di Zola.

Potrei fare molti esempi di “ammorbidimento dei toni”: in Zola, la scena in cui Roubaud, in preda ad una folle gelosia costringe la moglie Séverine a scrivere a Grandmorin un biglietto per attirarlo al treno dove troverà la morte, è di una violenza feroce.

Renoir sostituisce poi con lo strangolamento (che peraltro si intuisce ma che non viene mostrato con chiarezza) l’omicidio per sgozzamento che Zola descrive con grandissima cura di ogni macabro dettaglio.

Tutte le volte in cui Lantier viene colto dalle sue crisi, è di una gola femminile in cui affondare la lama affilata di un coltello che egli fantastica, ed è l’immagine di uno sgozzamento che gli provoca brividi di piacere e di lussuria.

Sia il romanzo che il film di Renoir si chiudono con la morte di Lantier, ma il regista francese modifica radicalmente il finale del testo di Zola per renderlo più coerente con la scelta di fondo da lui fatta, e cioè di mantenere la centratura della narrazione sul dramma della passione, della gelosia e dell’omicidio.

Renoir dunque opera pesanti modifiche del testo originale, ma le sue sono scelte consapevoli che rendono il suo film un dramma vigoroso e coerente dominato comunque dalla concezione fatalistica e naturalistica di Zola per il modo con cui è presentato il carattere maledetto di Lantier.

“Je regrette une chose:
c’est que Zola ne puisse voir Jean Gabin interpréter ce personnage.”
Jean Renoir (1939)

Jean Gabin
Jacques Lantier (Jean Gabin) si prende cura della “sua Lison”

Ancora una curiosità a proposito del titolo, ché la questione mi ha innervosita assai.
Allora: ho visto su  >>> imdb che in tutti i paesi in cui il film è stato distribuito è stato mantenuto il titolo originale di La bestia umana.

Ma l’ Inghilterra ha fatto peggio dell’Italia: lì il titolo l’hanno tradotto infatti con Judas Was a Woman.

La bête humaine, regia di Jean Renoir, dall’omonimo romanzo di Émile Zola, sceneggiatura di Jean Renoir.

Fotografia Curt Courant, Montaggio Marguerite Renoir, Suzanne de Troeye, Scenografia Eugène Louré, Musiche Joseph Kosma, Costumi Laure Lourie Assistenti alla regia Suzanne de Troeye, Claude Renoir

Interpreti e personaggi: Jean Gabin (Jacques Lantier), Simone Simon (Séverine Roubaud), Fernand Ledoux (Roubaud), Blanchette Brunoy (Flore), Gérard Landry (Il figlio Dauvergne), Jenny Hélia (Philomène Sauvagnat), Colette Régis (Victoire Pecqueux), Claire Gérard (Una viaggiatrice), Charlotte Clasis (Tante Phasie la madrina di Lantier), Jacques Berlioz (Grandmorin), Tony Corteggiani (Dabadie, il capo sezione), André Tavernier (Il giudice istruttore), Jean Renoir (Cabuche), Julien Carette (Pecqueux)

B/N, durata 100′, Francia, 1938

Jean Renoir-La bete humaine

UN COLPO DI DADI NON ABOLIRA’ MAI IL CASO

Odilon Redon
Odilon Redon
Litografia per il poema
Un coup de dés jamais n’abolira le hazard
di Stéphane Mallarmé

Il poema di Mallarmé lo si può vedere e leggere >>> qui

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