Il titolo originale di questo film, considerato assieme a La grande illusione uno dei capolavori di Jean Renoir, è La bête humaine ed è tratto dal romanzo omonimo di Émile Zola, diciassettesimo volume del ciclo dei Rougon-Macquart.
Non riesco proprio a spiegarmi perchè si sia sentito il bisogno di dare alla versione italiana questo orrendo titolo Angelo del male. Non ne capisco il senso, e se anche lo capisco non mi trova d’accordo. Ma così è e dunque tant’è. Ne riparlerò. Forse.
Jacques Lantier (Jean Gabin) è uno scrupoloso macchinista ferroviario che percorre ogni giorno la tratta Parigi-Le Havre.
Assieme a lui c’è sempre il fuochista ed amico Pecqueux (Julien Carette). I due amici e compagni di lavoro sono diversissimi ma inseparabili.
Un giorno, a causa del surriscaldamento di un cilindro della locomotiva — che Jacques chiama “Lison” ed alla quale è affezionato come se si trattasse di un essere vivente (“sono sposato con la Lisa”, dice all’amico fuochista che gli risponde sbuffando: “Figuriamoci! Sposato con… una locomotiva?!” ) — Lantier e Pecqueux sono costretti, aspettando che il guasto venga riparato, a trascorrere il turno di riposo a Le Havre.
Lantier ne approfitta per andare a Bréauté a trovare la madrina malata (Charlotte Clasis).
Qui incontra anche la bella scontrosa Flore (Blanchette Brunoy), innamorata di lui e che conosce fin da quando erano ragazzini.
Baciandola, Lantier è preda di un raptus che lo porta sul punto di strangolare la ragazza
Jacques Lantier è figlio di Auguste Lantier e Gervaise, della famiglia dei Rougon-Macquart.
Il suo sangue ha ereditato la tara dell’alcolismo che lo tormenta con tremende emicranie, spaventosi accessi di tristezza e furibondi attacchi di collera.
Passato il momento di crisi, Lantier spiega a Flore il suo problema e rifiuta l’amore della ragazza: ha paura per lei, teme che in uno dei momenti in cui la sua tara ereditaria prende il sopravvento egli possa ucciderla.
“E’ una specie di nebbia che mi sale alla testa e deforma tutto. Mi sento come un cane rabbioso che vuole mordere. Eppure non bevo mai, neppure un goccio di vino a tavola. Se bevo alcoolici divento un pazzo. Sembra che io debba pagare per gli altri. I padri, i nonni che bevevano. Ho nel sangue generazioni e generazioni di ubriachi. Devo ringraziare loro per questo malanno”
Sul treno che lo riporta a Le Havre Lantier incontra Roubaud (Fernand Ledoux), il sottocapo stazione di Le Havre e la sua bella moglie Séverine (Simone Simon) .
Durante il viaggio, Lantier, mentre si trova nel corridoio a fumarsi tranquillo una sigaretta, vede Roubaud che all’interno di uno scompartimento uccide Grandmorin, un uomo ricco e potente, notabile del luogo, padrino e protettore di Séverine che, orfana, è stata allevata in casa sua.
Roubaud ha infatti scoperto solo da qualche ora che Grandmorin ha sedotto Séverine quando questa era ancora quasi una bambina.
Reso folle dalla gelosia, il capostazione ha ora costretto con la violenza la moglie ad essere sua complice.
Tutto questo, Lantier non lo sa, ma lo sappiamo noi spettatori. Perchè Renoir ce lo ha fatto vedere, l’antefatto.
Il delitto al quale Séverine era contraria ma al quale non si è opposta ed a cui ha oggettivamente collaborato, anche se costretta, ormai lega il suo destino a quello del marito.
Séverine si è accorta che Lantier ha visto tutto.
Decide perciò di sedurlo per impedirgli di parlare.
Roubaud agevola le manovre di Séverine invitando spesso a casa Lantier.
Nel corso delle indagini, Lantier non parla di quello che ha visto e lascia che del delitto venga accusato l’innocente Cabuche (Jean Renoir), un povero cantoniere che per caso si trovava anche lui sul treno.

Il regista Jean Renoir nel ruolo di Cabuche
Séverine però si innamora davvero, di Lantier, ed esplode la passione.
Per un certo tempo i due si incontrano clandestinamente di notte in un capannone della stazione.
In seguito, capiscono che Roubaud è al corrente della loro relazione ma che — lui, che la gelosia nei confronti di Grandmorin aveva spinto sino al delitto — non se ne cura affatto. Roubaud è ormai sprofondato nel vizio del gioco. Da quel momento, i due amanti non hanno più alcuno scrupolo ad incontrarsi a qualunque ora in casa di Roubaud e Séverine.
A poco a poco Séverine diventa sempre più esigente ed insofferente nei confronti del marito. Arriva al punto da cercare insistentemente di convincere Lantier ad uccidere il marito.

“Ah, se fossi libera, come saremmo felici!”
“Ma non possiamo mica ucciderlo!”
Lantier ci prova, ad ammazzare Roubaud, ma non riesce a commettere l’omicidio.
Jacques Lantier è infatti un uomo fondamentalemente onesto, non è un assassino.
Non vuole uccidere nessuno.
Cerca invece di convincere Séverine a fuggire con lui. Che cosa la trattiene dall’abbandonare il marito che ormai non si cura più di lei? Perchè non possono semplicemente andar via insieme, lontano, magari in America?
Ma — delusa — Séverine comincia ad assumere nei confronti di Lantier atteggiamenti sempre più provocatori.
Una sera, nel corso di una scenata in cui per l’ennesima volta Lantier chiede a Séverine di partire con lui mentre lei si ostina nell’idea di uccidere il marito Lantier viene colto da una delle sue terribili crisi provocate dalla tara ereditaria e uccide l’amante.
La strangola in una sequenza in cui le scene dell’omicidio si alternano — in drammatico contrappunto — a quelle di una festa di ferrovieri in cui uno chansonnier canta una vecchia canzone sentimentale.
Il giorno dopo, mentre come al solito è alla guida del treno diretto a Parigi confessa all’amico Pecqueux il delitto commesso
“L’ho uccisa. L’amavo, sai”
Folle di dolore e di rimorso e disperato per la sua impossibilità a dominare le sue crisi si uccide gettandosi dalla “sua Lison” lanciata a tutta velocità.
Jean Gabin, divenuto con questo film il più celebre ferroviere del cinema francese (per noi italiani c’è il Pietro Germi de Il ferroviere) era figlio di un conduttore di locomotive, ed anche per questo voleva interpretare la parte d’un ferroviere.
Jean Renoir aveva soltanto un vago ricordo del romanzo di Zola, in cui i tre protagonisti sono visti come moderni Atridi che il peso dell’ereditarietà condanna ai peggiori delitti.
Dopo aver rifiutato a malincuore un adattamento dello scrittore Roger Martin Du Gard (Premio Nobel per la Letteratura nel 1937) che si concludeva con la dichiarazione di guerra dell’agosto 1914, Renoir scrisse lui stesso una sceneggiatura operando rispetto al testo originario scelte molto radicali centrate soprattutto sullo sviluppo di una tragica storia d’amore e di morte che si svolge nel contesto di un ambiente ferroviario.
Renoir sfronda allora il testo di Zola da tutte le vicende dei personaggi secondari (quella di Cabuche e di Flore, ad esempio, che nel romanzo ha un ruolo determinante mentre nel film compare in una sola scena).
Ambientando la vicenda nei contemporanei anni Trenta elimina l’affresco sociale così importante in Zola mantenendo però lo sfondo determinista in cui si colloca la vicenda causata dalla tabe ereditaria (il film si apre con una didascalia iniziale che riporta testualmente le parole di Zola) e da un contesto in cui l’estrazione proletaria dei personaggi opera un condizionamento sociale che mira alla soppressione dell’individuo.
Ne è venuta fuori un’opera in un meraviglioso bianco e nero nella quale ciascun interprete porta il contributo del suo stile e delle sue caratteristiche personali: l’opacità pesante ed inquietante di Ledoux (il marito di Séverine), il fascino felino di Simone Simon (Séverine) che sempre più nel corso del film connota il suo personaggio come una “dark lady” e “femme fatale” tipica del noir, il romanticismo lirico di Jean Gabin (un Lantier allo stesso tempo duro e vulnerabile), l’affettuosa ironia di Carette (il fuochista Pecqueux), testimone impotente del suicidio di Lantier.
I tre personaggi sono dominati dalle passioni: condizionati da spinte pulsionali che non riescono a controllare e che li obbligano a commettere gesti irreversibili che li conducono alla rovina.
L’inizio del film è ormai entrato nell’antologia della storia del cinema: una lunga sequenza che dura quasi sette minuti che mostra il tratto Parigi-Le Havre visto da una locomotiva in corsa, capolavoro di montaggio (tra parentesi: il montaggio è opera di due donne, Marguerite Renoir e Suzanne de Troeye) di grande ma efficacissima semplicità. Sette minuti senza dialogo e senza musiche di sottofondo: udiamo solo lo sferragliare del treno lanciato a tutta velocità.
Tutte le sequenze di viaggio (ce ne sono parecchie, nel film) sono realizzate con la macchina da presa collocata come se noi spettatori vedessimo con gli occhi del macchinista Lantier.
Memorabile, all’inizio del film, la fine del viaggio e l’arrivo del treno a Le Havre con la lunghissima corsa del treno lanciato verso l’uscita del tunnel, in cui qualcuno ha visto una metafora di un tunnel esistenziale: i personaggi sperano di vedere finalmente la luce ma di fatto sono incosapevolmente diretti verso un destino che li porterà alla tragedia.
Renoir ha costruito un film tragico e possente, eppure molto meno feroce del testo di Zola.
Potrei fare molti esempi di “ammorbidimento dei toni”: in Zola, la scena in cui Roubaud, in preda ad una folle gelosia costringe la moglie Séverine a scrivere a Grandmorin un biglietto per attirarlo al treno dove troverà la morte, è di una violenza feroce.
Renoir sostituisce poi con lo strangolamento (che peraltro si intuisce ma che non viene mostrato con chiarezza) l’omicidio per sgozzamento che Zola descrive con grandissima cura di ogni macabro dettaglio.
Tutte le volte in cui Lantier viene colto dalle sue crisi, è di una gola femminile in cui affondare la lama affilata di un coltello che egli fantastica, ed è l’immagine di uno sgozzamento che gli provoca brividi di piacere e di lussuria.
Sia il romanzo che il film di Renoir si chiudono con la morte di Lantier, ma il regista francese modifica radicalmente il finale del testo di Zola per renderlo più coerente con la scelta di fondo da lui fatta, e cioè di mantenere la centratura della narrazione sul dramma della passione, della gelosia e dell’omicidio.
Renoir dunque opera pesanti modifiche del testo originale, ma le sue sono scelte consapevoli che rendono il suo film un dramma vigoroso e coerente dominato comunque dalla concezione fatalistica e naturalistica di Zola per il modo con cui è presentato il carattere maledetto di Lantier.
“Je regrette une chose:
c’est que Zola ne puisse voir Jean Gabin interpréter ce personnage.”Jean Renoir (1939)
Jacques Lantier (Jean Gabin) si prende cura della “sua Lison”
Ancora una curiosità a proposito del titolo, ché la questione mi ha innervosita assai.
Allora: ho visto su >>> imdb che in tutti i paesi in cui il film è stato distribuito è stato mantenuto il titolo originale di La bestia umana.
Ma l’ Inghilterra ha fatto peggio dell’Italia: lì il titolo l’hanno tradotto infatti con Judas Was a Woman.
La bête humaine, regia di Jean Renoir, dall’omonimo romanzo di Émile Zola, sceneggiatura di Jean Renoir.
Fotografia Curt Courant, Montaggio Marguerite Renoir, Suzanne de Troeye, Scenografia Eugène Louré, Musiche Joseph Kosma, Costumi Laure Lourie Assistenti alla regia Suzanne de Troeye, Claude Renoir
Interpreti e personaggi: Jean Gabin (Jacques Lantier), Simone Simon (Séverine Roubaud), Fernand Ledoux (Roubaud), Blanchette Brunoy (Flore), Gérard Landry (Il figlio Dauvergne), Jenny Hélia (Philomène Sauvagnat), Colette Régis (Victoire Pecqueux), Claire Gérard (Una viaggiatrice), Charlotte Clasis (Tante Phasie la madrina di Lantier), Jacques Berlioz (Grandmorin), Tony Corteggiani (Dabadie, il capo sezione), André Tavernier (Il giudice istruttore), Jean Renoir (Cabuche), Julien Carette (Pecqueux)
B/N, durata 100′, Francia, 1938

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