
Irène NÉMIROVSKY, Le vin de solitude, ed. Albin Michel, 2004, ISBN 2226156755
Il libro (del 1935) racconta — in terza persona — la vita di Hélène da quando è una bambina di otto anni sino alla maggiore età e si svolge tra l’Ucraina e San Pietroburgo, la Finlandia, Parigi.
Ucraina, 1914.
Hélène è una bambina molto sola, figlia unica e trascurata dai suoi genitori: il padre Boris Karol, un ebreo di modeste origini (“un obscur Juif”) che è riuscito a fare fortuna lavora ma soprattutto è un uomo divorato dalla passione per il gioco e non c’è quasi mai; Hélène vuole bene al padre, ma Boris è troppo preso dal gioco e dall’ossessione di far soldi per occuparsi di lei: una sera arriva al punto di dimenticarsi della figlia abbandonata per ore nella hall di un Casino.
La bambina si sente come una valigia abbandonata (“J’ai l’état d’âme d’une malle oubliée à la consigne”, songea-t-elle en essayant de se moquer d’elle-même.)
La madre Bella è una donna affascinante ma frivola ed egoista, completamente priva di sentimenti materni e che preferisce il lusso, i divertimenti e gli amanti piuttosto che occuparsi di sua figlia.
Non è che la caricatura di una madre.
In Finlandia, M.me Haas dirà parlando di Bella: “Ça une mère ? …La caricature d’une mère, oui!”
Priva di amore e di attenzioni Hélène si forgia molto presto un cuore duro e un modo di pensare sin troppo adulto, starato rispetto alla sua età anagrafica (“Tu n’as pas grandi, ni vieilli, comme tu me le faire croire, mais rajeuni simplement. A quinze ans, tu etait une petite vieille… Maintenant, enfin, tu as ton âge”, le dirà il cugino Max sulla nave che li porta in Francia)
Fortunatamente, la piccola si trova accanto, durante l’infanzia, la simpatica, affettuosa ed intelligente M.lle Rose, la governante francese. E’ lei la sola persona al mondo dalla quale Hélène è amata ed alla quale la bambina è sinceramente affezionata.
Hélène cresce, la famiglia si trasferisce a San Pietroburgo. Il padre è sempre assente ma sempre più ricco perchè riesce a sfruttare e a speculare, assieme ad altri ambigui personaggi ebrei come lui, il momento di crisi economica e la grande inflazione.
Il cuore di Hélène si indurisce sempre di più; la bambina si rinchiude sempre più in se stessa, l’unico conforto e punto di riferimento è la sua M.lle Rose.
Ma il giorno in cui la madre comprende che Hélène ha scoperto la sua relazione con il cugino Max, che tra l’altro è molto più giovane di lei (ha appena ventiquattro anni) fa in modo di sbarazzarsi della governante.
M.lle Rose, lontana da anni dalla sua terra, la Francia, che si trova in una terra — la Russia — della quale dopo tanto tempo non riesce a capire nemmeno la lingua, che ormai non ha altri al mondo che Hélène, perde completamente la testa e, dopo una violenta crisi, muore sola in un ospedale di Pietroburgo.
Adesso Hélène è davvero completamente sola.
La Rivoluzione costringe la famiglia Karol (ma si possono considerare una famiglia, questi Karol?) a fuggire dalla Russia e dopo una breve permanenza in Finlandia arriva in Francia stabilendosi infine a Parigi. Max, cugino di Hélène e amante della madre, è sempre con loro. Il padre non può non sapere, ma si ostina sino alla fine a non voler sapere, a chiudere gli occhi.
La vita di Hélène si trascina all’interno di questo trio (il padre, la madre, l’amante della madre) senza mai trovare una sua vera collocazione, un suo spazio vitale.
L’odio (perchè di vero e proprio odio si tratta) per la madre cresce ogni giorno di più, e così Hélène decide di vendicarsi di tutte le sofferenze che le sono state inflitte dalla madre per tutti questi anni. Ha ormai diciotto anni ed il grande vantaggio, nei confronti di Bella il cui invecchiamento —- nonostante i milioni spesi in vestiti e cure di bellezza —- è ormai visibile, di essere giovane e bella.
Se ed in che modo riesce Hélène a vendicarsi e quale sarà infine il suo destino è giusto che il lettore lo scopra da solo.
“Le vin de solitude” è un romanzo feroce, a tratti soffocante ed opprimente, cinico, ma che contiene anche brani di un intenso lirismo nei momenti in cui la Némirovsky descrive i paesaggi notturni, le corse in slitta in Finlandia, le notti di luna che Hélène trascorre affacciata alla finestra della sua stanza.
Nonostante i personaggi si muovano in più luoghi geografici (dalla Russia alla Finlandia alla Francia) il vero “luogo” del romanzo, la vera “scena” è tutta all’interno del quadrilatero familiare, tutto si svolge all’interno dell’universo claustrofobico delle dinamiche di relazione tra Hélène, la madre Bella, il padre Boris ed il cugino Max.
Nonostante il senso di continua instabilità che pervade la vita di Hélène e degli altri ( “La vie était mouvante, instable, peu sûre. Rien ne durait”), a ben pensarci nel romanzo accadono, in realtà, ben poche cose.
E’ molto lentamente, in maniera sottile e sorniona che in questo huit-clos familiare vediamo svilupparsi l’odio e la durezza di Hélène — prima bambina, poi adolescente e infine giovane donna.
E, soprattutto, la sua terribile solitudine.
Per chi abbia già letto altri romanzi di Irène Némirovsky Le vin de solitude non presenta — almeno a prima vista — grandi novità.
Ritroviamo infatti qui i temi ormai noti dell’emigrazione e dello sradicamento, della relazione perversa tra una madre bella ed egoista ed una figlia di cui a lei non importa nulla, degli ebrei avidi e rapaci che ammucchiano soldi e speculano sulle disgrazie altrui, dell’amore per Parigi e la Francia…
Ma quello che almeno ai miei occhi ha reso questo romanzo molto particolare rispetto ad altri lavori narrativi della Némirovsky è la violenza, la durezza con cui questi temi vengono trattati e la chiarezza con cui elementi decisamente autobiografici sono esposti.
Con quanto amaro e persino sadico compiacimento Hélène-Irène descrive le varie fasi dell’invecchiamento della madre, che non chiama mai “mamma” e nemmeno “mia madre” ma sempre “Elle”… e “sorcière”, “strega”!
Solo uno dei tanti passaggi:
“Le visage de Bella commençait à vieillir; les muscles se détendaint; sous la poudre et la crème, Hélène voyait apparaître les rides que le fard engluait sans les masquer, au coin des yeux, des lèvres, des tempes. La surface peinte de la peau se craquelait, perdait son aspect lisse et crémeux, devenait grumeleuse, plus grossère, plus rude”
Gli ebrei del romanzo sono ancora una volta rappresentati attraverso le caratteristiche stereotipali della peggiore letteratura antisemita, come una “razza” (si, la Némirovsky adopera sempre proprio questo termine, quando parla di ebrei) che non potrà mai integrarsi con “gli altri” (“les deux races irréconciliables”). Tutto questo l’abbiamo già visto in David Golder, il romanzo che nel 1929 rese famosa la Némirovsky ad appena 25 anni e lo ritroveremo più tardi ne I cani e i lupi del 1940 ma anche. per esempio, in Le maître des âmes del 1939.
Héléne, come Iréne, è innamorata della Francia e adora Parigi.
Conosce il francese quasi meglio del russo, e nel romanzo troviamo pagine e pagine che sono un vero canto d’amore per “questa dolce terra, la più bella del mondo” (“cette douce terre, la plus belle au monde”) in cui Héléne è stata più volte, e per mesi, durante la sua infanzia.
Quando, dalla nave che porta i Karol in Francia, Hélène scorge da lontano le luci di Le Havre
“elle les contemplait avec tendresse. Jamais, en revoyant la Russie, son coeur n’avait battu si joyeusement…”
Leggendo le pagine sull’amore di Hélène per la Francia, come non pensare all’amore che Iréne aveva sempre avuto per questo Paese che non solo non le concesse mai la cittadinanza, ma che alla fine la consegnò ai nazisti? Come non pensare alla nota che si trova in margine di uno dei quaderni in cui febbrilmente, incalzata dai drammatici eventi, scriveva Suite francese?
In questa nota del giugno del 1942 Irène scrisse: “Mio Dio, cosa mi combina questo paese? Dal momento che mi respinge, osserviamolo freddamente, guardiamolo mentre perde l’onore e la vita”
Le vin de solitude è, tra quelli che ho letto, il romanzo più inequivocabilmente autobiografico della Némirovsky e non soltanto perchè anche Irèné Némirovsky, come Hélène, era un’ebrea ucraina nata a Kiev, trascurata dalla madre, rifugiata con la famiglia prima in Finlandia e poi in Francia ma perchè nel suo modo di descrivere l’odio implacabile e il desiderio di Hélène di vendicarsi della madre non si può non (ri)conoscere la profondità della ferita esistenziale della stessa Némirovsky che fa pronunciare ad Hélène diciottenne una delle frasi chiave del romanzo:
“Il aurait fallu si peu de chose, alors, songeait-elle…Maintenant, il est trop tard…. Jamais je ne lui pardonnerai. Je pourrais lui pardonner si elle me faisit du mal maintenant, à moi telle que je suis à présent…Oui, je crois que lui pardonnerais… Ma on ne pardonne pas une enfance gâchée“
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