Nel film Le Roi danse di Gérard Corbiau (2000) c’era un trio formato da Luigi XIV (Benoit Magimel), Molière (Tchéky Karyo) e Jean Baptiste Lully (Boris Terral)
Il film nel suo complesso non è un chissacchè di capolavoro, ma le scene di danza sono molto belle e quel trio lì è davvero regale e di tutto rispetto…
Ho letto per la prima volta Il corsivo è mio —- l’autobiografia che Nina Berberova scrisse tra il 1960 e il 1966 —- negli anni Novanta; l’ho riletta per intero in questi giorni e non solo il libro mi ha regalato lo stesso intenso piacere (perchè voglio dirlo una volta e non ripeterlo più: la Berberova scrive splendidamente e sa bene come catturare i suoi lettori) ma mi ha coinvolta, incuriosita ed intrigata anche molto di più.
I motivi per cui il libro mi ha interessata oggi coincidono però solo in parte con quelli di allora.
Buon segno: vuol dire da una parte che il libro regge, ancora dopo più di dieci anni, alla prova della rilettura e che, da parte mia, qualcosa nel frattempo ho imparato e che oggi in questo libro riesco a scorgere più di quanto fossi riuscita a trovare allora.
La Berberova è uno di quei personaggi la cui vita, ai miei occhi, risulta forse più appassionante della sua stessa produzione letteraria, che pure considero di alto livello.
Nina Nikolaïevna Berberova (1901-1993), poetessa, autrice di racconti e romanzi è, per nascita, donna dalla duplice origine:
“porto come un dono del destino quello della condizione per cui due sangui diversi, quello russo, settentrionale, e quello armeno, meridionale, si sono fusi in me”.
Nel 1917 suo padre, giudicato antirivoluzionario, è costretto a dare le dimissioni e a lasciare San Pietroburgo e a trasferirisi con la moglie e la figlia a Mosca.
Nina conosce l’esilio sin dall’adolescenza: benchè ancora molto giovane ha già cominciato a scrivere poesie e frequenta i circoli letterari moscoviti. Ma già durante l’estate del 1922 comincia l’espulsione di massa dell’ intelligencija e iniziano le repressioni sistematiche.
Nina abbandona allora Mosca e i genitori e, assieme al poeta Chodasevic lascia la Russia per Berlino.
Per tutto bagaglio, uno zaino e i libri di Puskin. A Berlino i due giovani si ritrovano con altri scrittori russi emigrati, tra i quali anche Pasternak. Nel 1924 raggiungono Gorkij a Sorrento, per molti mesi sono suoi ospiti, poi si trasferiscono definitivamente a Parigi.
Con il loro passaporto di apolidi la Berberova e Chodasevic non possono godere dei diritti dei lavoratori francesi e non possono lavorare nemmeno come operai.
“Declassata” come gli eroi dei suoi romanzi, nella Parigi dell’emigrazione e quella dell’Occupazione Nina sperimenta l’estrema povertà (nella misera stanza presa in affitto la coppia possiede solo una pentola, un piatto e due posate, ci si nutre di the e di burro) ma anche il lusso intellettuale.
Berlino, settembre 1923. Da sinistra a destra, in piedi: Zajcev, Chodasevic, Osorgin, Bachrach e Remizov. Seduti: Nina Berberova, Muratov e Andrej Belyj
Perchè se da una parte la Berberova è costretta, per poter pagare l’affitto e mettere qualcosa in pentola, a darsi da fare lavorando in nero con ricami a punto a croce o infilando collane di perline d’altra parte frequenta i maggiori intellettuali russi del tempo presenti a Parigi e a Billancourt incontra la piccola gente dell’emigrazione russa che orbita attorno alle officine della Renault e che le fornisce spunto ed ispirazione per i racconti brevi delle Feste di Billancourt. Tutta la sua narrativa è costituita da storie fatte “di gloria, di miseria, di follia e di fango”, scrive lei al termine della sua autobiografia.
Tuttavia dovrà passare ancora del tempo perchè la sua opera venga conosciuta ed apprezzata.
La Berberova riconosce che, nonostante le privazioni le sofferenze, la rivoluzione l’ha liberata e che l’esilio l’ha temprata.
Nel 1932 abbandona Chodasevic (gli preparò un boršc che doveva bastare per tre giorni, gli rammendò tutti i calzini e poi se ne andò).
Trascorre tutto il periodo dell’Occupazione in campagna con il secondo marito ma poi, dopo la guerra, finisce anche il rapporto con Makeev (che però la Berberova indica nel libro sempre e solo con le iniziali). Delle cause di questa rottura, che si intuisce drammatica, la Berberova dice poco o nulla e al lettore non resta che cercare altrove, per saperne qualcosa di più.
Rimasta nuovamente sola, non sopportando più una Parigi che la guerra, i lutti, le partenze hanno spopolato di tutti gli amici russi di un tempo, la Berberova compie un’altra scelta radicale: andare a vivere negli Stati Uniti. Manhattan le appare come il simbolo di un nuovo slancio.
Lasciata nel 1950 la Francia per gli Stati Uniti, dopo sette anni in cui si barcamena facendo i lavori più diversi, la Berberova diventa docente di letteratura russa a Yale e poi a Princeton.
La ragazzina, che a dieci anni era indecisa se diventare un pompiere o un poeta, ci racconta dunque in questo libro — che si ferma, come ho detto, agli anni Sessanta — la storia di una vita movimentata straordinaria che attraversa un secolo tremendo e affascinante tanto sul piano storico che letterario.
E’ un’autobiografia, questa, piena di vita e di energia, dalla quale emerge una donna di grande intelligenza ed erudizione.
Formidabile testimone del proprio tempo, parlandoci del suo passato, la scrittrice ci fa conoscere la Russia alla nascita della Rivoluzione, le peripezie dell’emigrazione, Berlino, Praga, Roma, Venezia, Sorrento ed infine la Parigi degli anni ’20-’30 e quella della guerra dell’Occupazione; la miseria, le enormi difficoltà ed i pericoli sotto l’occupazione tedesca, e poi lo “spettacolo” che si presenta ai suoi occhi al suo arrivo negli Stati Uniti.
Nina Berberova è stata una donna forte ed energica, indipendente ed autonoma che, rifiutando il dualismo (“cucitura” è una delle sue parole chiave), ha sempre preferito una vita eccentrica ad una vita semplice divorata com’era da quella che lei stessa definisce “folle smania dell’azione”.
Questi sembrano essere i principi cardine della vita della Berberova, che sin dalle prime pagine del libro fa di tutto per darci ad intendere che questa sua autobiografia va letta come un viaggio attraverso la coscienza dell’autrice e come la descrizione di un processo di auto-scoperta ed autocoscienza.
“Consapevolezza” è un’altra delle sue parole d’ordine: consapevolezza nelle scelte di vita, capacità di decidere, capacità di adattamento ai capovolgimenti che la Grande Storia impone alle storie individuali.
Tutto il suo racconto è percorso da una grande, immensa “ansia di controllo”.
In questa mia rilettura ho apprezzato molto di più di quanto avessi fatto tanti anni fa molte parti del libro di cui allora avevo probabilmente sottovalutato l’importanza.
Gli anni non passano invano, per chi legge, ed oggi tanti nomi di personaggi russi che la Berberova cita soltanto o di cui parla abbondantemente mi erano, a quel tempo, quasi o del tutto sconosciuti. Sospetto, oggi, che ai tempi io abbia persino — orrore! — saltato interi capitoli…
Il libro è infatti anche una miniera di informazioni sulla vita all’interno delle redazioni delle riviste dell’emigrazione russa come la Sovremennye Zapiski.
Dieci anni fa le pagine dedicate a questa rivista mi annoiavano; oggi, dopo aver letto tanto di Nabokov e su Nabokov e sapendo che proprio su quella rivista di emigré Nabokov (Sirin) pubblicò i suoi primi capolavori me le sono invece godute immensamente.
Berberova delinea poi ritratti di moltissimi scrittori russi alcuni dei quali già all’epoca veri e propri “mostri sacri” ed altri che “mostri sacri” lo sarebbero ben presto diventati: (Tolstoj, Gorkij, Pasternak, Bunin, Achmatova, Cvetaeva, Belyj, Benois, Nabokov…)
Qualche assaggio:
Belyj: “Una persona che per tutta la vita aveva finto di essere più stupida, più ridicola, più pazza di quanto fosse realmente” (p.479)
Pasternak: “…Mi fece l’impressione di una persona dotata di ingegno, ma non matura. Rimase tale fino alla fine della sua vita […] il suo romanzo goffo, artificioso e non compiuto”
Bunin è presentato come uno snob ed un villano (vedi l’episodio del vaso da notte).
A Gorkij sono dedicate pagine particolarmente intense: lo scrittore russo è rappresentato come un despota con il quale non era facile discutere (“bisognava ascoltarlo senza replicare”) . La Berberova lo liquida scrivendo: “Le sue elucubrazioni cervellotiche non erano interessanti, la sua filosofia era priva di originalità, i suoi giudizi sulla vita e sugli uomini si fondavano su criteri a me estranei”. Lo dipinge come un credulone gabbato da Lenin e poi incastrato da Stalin.
Potrei continuare, perchè ce n’è per tutti, anche per Tolstoj.
L’unico che si salva è Nabokov, che la Berberova non finisce di descrivere che come un genio e del quale dice
“La tragedia per noi “minori” in esilio fu proprio la mancanza di uno stile nuovo. Nè io né i miei contemporanei eravamo in grado di rinnovare la scrittura. Soltanto il geniale Nabokov ci riuscì”
Nina Berberova a Princeton nel 1982
Questi ritratti sono molto spesso talmente ipercritici ed impietosi (Nabokov a parte) da avere attirato alla Berberova pesanti accuse da parte di esperti slavisti.
La Berberova è stata accusata di mancanza di veridicità, di aver messo insieme un mucchio di pettegolezzi, di aver scritto un libro pieno zeppo di errori fattuali, di aver messo giù una serie di ricordi filtrati da sete di vendetta e da invidia.
Il suo libro — è stato detto — non può esser considerato né un manuale sull’emigrazione russa né un libro di memorie .
Ettore Lo Gatto ricorda che quando Il corsivo è mio uscì furono in molti a deplorarne il tono e a persino giudicarlo un libro calunnioso.
Non ho certo le conoscenze e le competenze per entrare nel merito della diatriba che riguarda la veridicità a o meno di quanto la Berberova dice degli scrittori russi, però oggi, a questa mia seconda lettura del suo libro posso — senza per questo sminuire il valore che il libro ha, ai miei occhi — concordare sul fatto che, nonostante tutte le dichiarazioni programmatiche sbandierate nelle prime pagine in realtà la Berberova chiacchiera moltissimo di altri ma poi, gratta gratta ed alla fine della fiera parla molto poco di se stessa.
Preso atto di questo, e non crucciandomene più di tanto, mi sono interessata ad altre cose.
Qualche esempio.
La smitizzazione di quelli che ancora oggi da molti vengono chiamati “favolosi Anni Venti”:
“Che epoca spaventosa, tremenda, furono gli anni Venti e Trenta. Sulla carta d’Europa: Inghilterra, Francia, Germania e Russia. Un paese è governato da stolti, l’altro da cadaveri ambulanti, il terzo da scellerati e burocrati. L’Inghilterra si disarma; la Francia non riesce a mettere in pratica le sue decisioni, i nazionalsocialisti si riarmano avendo già annunciato pubblicamente i loro piani, tutto quello che faranno, senza che nessuno presti loro attenzione e dia loro credito […]”
Mi ha ricordato, in queste pagine, il memorabile paragrafo che Hans Magnus Enzensberger ha dedicato agli anni Venti della Germania all’epoca della Repubblica di Weimar in Hammerstein, o dell’ostinazione quando scrive “Resta un mistero, e non è giustificabile con l’ignoranza, né spiegabile con la mancanza di immaginazione storica, come i posteri abbiano potuto credere che gli anni Venti fossero davvero “dorati”, come vengono chiamati in Germania”
Il grande affresco che comunque dalle pagine del libro viene fuori sugli emigrati russi a Parigi (le pagine dedicate specificatamente alla “Parigi russa” degli anni Venti sono tra le più interessanti) e sui rivolgimenti del mondo del XX° secolo.
Le molte, appassionate pagine dedicate alla contrapposizione tra emigrati russi da una parte, intellettuali occidentali dall’altra: gli intellettuali francesi sono infatti entusiasti della rivoluzione russa e completamente ciechi di fronte alle sofferenze degli emigrati russi ed all’annientamento della loro letteratura.
La Berberova trova parole di rara ferocia quando parla dell’indifferenza, se non addirittura ostilità che mostrano molti intellettuali occidentali nei confronti dell’emigrazione russa (la stessa cosa scrive, lo ricordo per inciso, Nabokov nella sua autobiografia )
A quel tempo, in tutto l’Occidente neppure uno degli scrittori in auge si sarebbe schierato dalla nostra parte per denunciare le persecuzioni dell’intelligencija in Unione Sovietica, le repressioni, la censura, gli arresti, i processi la ferrea legge del realismo socialista che portava all’eliminazione fisica degli scrittori russi che non vi aderivano” (p.250)
Berberova fa nomi e cognomi, e l’elenco che compone va da Theodor Dreiser a Thomas Mann, da Paul Valery ad Hemingway a Virginia Woolf e a tutto il Bloomsbury.
Ma le parole più dure sono per George Bernard Shaw, Romain Rolland, Gide, Sartre e Jean Cocteau che
“idolo dei giovani scriveva “I dittatori stimolano l’insorgere di reazioni di protesta nell’arte, e senza protesta l’arte muore” (veniva voglia di domandargli: “E come la mettiamo con le pallottole nel cranio?”)”
Il corsivo è mio è un libro da leggere e rileggere. L’autobiografia di una donna comunque straordinaria che ha dovuto (e voluto) molte volte letteralmente cambiar pelle. Malgrado tre matrimoni ed otto professioni, la Berberova pensava sempre al domani, non si crogiolava mai nel passato. Una persona che non ha mai pensato di rifare il mondo ma di adattare se stessa al mondo anche quando questo comportava (come comportò) enormi stravolgimenti della vita personale.
Molte cose vengono dette, in questa autobiografia, ma molte vengono taciute.
Il vero motivo, ad esempio, per cui appena finita la guerra avvenne la drammatica rottura tra la Berberova ed il suo secondo compagno Makeev (si parla persino, nei confronti della Berberova, di voci di collaborazionismo con i nazisti). Oppure l’aver taciuto, nel libro, una bisessualità dichiarata, pare, soltanto nei Dialoghi sul letto di morte che, per quanto mi risulta, non sono stati ancora pubblicati.
Non trovo niente di strano in questo. Un’autobiografia non è detto debba dir tutto, e d’altra parte la stessa Berberova ha tenuto a precisare ne Il corsivo è mio:
“… Tengo ad assumermi la piena responsabilità di ciò che ho detto e anche di ciò che ho taciuto. Due regole mi hanno guidato nella loro redazione: una sincerità totale e la proccupazione di preservare la mia vita personale. La prima mi è stata ispirata dai miei contemporanei, la seconda da Epicuro”.
“Gli uomini per i quali l’espressione dei propri pensieri è la cosa più importante della vita, e tutto il resto è secondario, sono di gran lunga più liberi, più forti e felici di quelli che parlano non per liberare se stessi ma per provocare negli altri una reazione. Schiavi del loro pubblico, senza quello non si sentono vivi. Esistono solo in funzione del pubblico, e neppure hanno coscienza della loro mancanza di libertà”
“Avevo voglia di scrivere […] ma non volli mai sacrificare un minuto di vita reale per una riga, l’equilibrio per uno scritto, una tempesta dei sensi per la melodia delle liriche. Amavo troppo la vita. Io desideravo innanzitutto avere un’identità, in secondo luogo essere istruita, in terzo luogo essere istruita e moderna, in quarto luogo diventare istruita e moderna e in armonia con me stessa e con questo tremendo mondo disarmonico. E solo in quinto luogo desideravo scrivere, non per l’amico lettore, ma per purificarmi, sempre che fossi riuscita a capire chi ero prima di morire, e basta”
Vasilij GROSSMAN, Pour une juste cause (tit. orig. Za pravoe delo), traduz. dal russo al francese, prefazione e note di Luba Jurgenson, p.633, Editions L’Age d’Homme, Collection Au coeur du monde, 2008, ISBN-10: 2825138398 ISBN-13: 978-2825138397
Nel primo post dedicato a Per una giusta causa dicevo delle critiche che i due Caporedattori di Novyj MirSimonov e Tvardovskij avevano rivolto a Grossman prima della pubblicazione e dei pesanti attacchi mossi dalla Pravda dopo la pubblicazione.
E’ venuto il momento se non di elencarle tutte, di accennare almeno ad alcune di queste critiche.
Cosa c’era di tanto pericoloso per il regime, cos’è che poteva dare tanto fastidio in questo romanzo in cui in ogni pagina viene esaltato il coraggio, il sacrificio, l’immenso sforzo collettivo, la volontà di tutto un popolo di difendere la propria terra dall’invasione straniera?
Simonov e Tvardovskij non approvano:
Che alcuni personaggi, in certi momenti, appaiono spaventati e confessano i loro reali pensieri sulla guerra solo a coloro di cui ritengono potersi davvero fidare.
Il confronto tra Hitler e Napoleone che aveva invaso la Russia nel 1812: il solo fatto di considerarlo come termine di confronto dà ad Hitler sin troppo credito
L’insistenza con cui Grossman sottolinea l’ascesa ai più alti gradi della gerarchia militare di russi di classi popolari, rivelando così implicitamente il fatto che Stalin ha liquidato gli ufficiali veterani prima della guerra, nelle terribili purghe degli anni ’30
I molti brani del romanzo in cui spesso gli ufficiali del fronte prendono in giro gli ufficiali dello Stato Maggiore, che preferiscono le comodità dei bunker e delle retrovie al combattimento
la rappresentazione della corruzione dilagante all’interno del kolkhoz di Vavilov ed alcune frasi di un vecchio contadino secondo cui per molti versi la vita era migliore al tempo degli zar
Complessivamente, nel romanzo si parla troppo del popolo e troppo poco di Stalin
Il critico della Pravda dal canto suo scrive, tra tante altre cose: “Grossman difende una concezione della storia idealistica, superata, reazionaria”.
E infine, last but not least, Grossman è ebreo e, come giustamente ha notato Vittorio Strada in un articolo comparso sul Corriere della Sera del 12 gennaio 2006
” …era un paradosso intollerabile per i nazionalisti russi, comunisti o no, che a scrivere la più alta epopea su Stalingrado, momento cruciale militare e simbolico dell’immane conflitto, fosse un ebreo, per di più dissidente ante litteram.”
In effetti, Per una giusta causa è un romanzo in stile “sovietico” solo in apparenza e, nella parabola letteraria di Grossman, esso segna già una rottura con il resto della letteratura “consentita” dal sistema; le critiche ricevute e il voltafaccia di Tvardovskij, del quale ha grande stima, lo feriscono però profondamente, ed è solo per salvare Per una giusta causa dai tagli della censura o, peggio, dalla “scomparsa”, che accetta il compromesso che gli viene proposto, mette mano al testo e lo “aggiusta”.
Basta io credo un solo esempio, però macroscopico, per dare l’idea di quello che intendo: in tutte le 600 e passa pagine del romanzo la parola “ebreo” compare solo una manciata di volte.
Chi ha avuto modo di leggere i Taccuini di guerra si accorge subito e facilmente del fatto che interi brani sono stati riversati in Per una giusta causa ma si accorge anche di quanti importanti e significativi “aggiustamenti” Grossman abbia operato nel rielaborare narrativamente le sue impressioni.
G. Romano, il Librista che nel suo blog ha dedicato parecchi eccellenti post a Grossman, commentando il post in cui ho riportato un brano dei Taccuini che si riferisce alla drammatica ritirata del 1941, notava giustamente quanti rimandi, quanti riferimenti simbolici e non ci siano alla Bibbia e all’ebraismo.
Ebbene, questo stesso brano compare trascritto nel romanzo fedelmente quasi parola per parola ma… qualsiasi riferimento all’ebraismo è scomparso!
Grossman si mostrò tuttavia irremovibile sulla richiesta di togliere il personaggio di Štrum o almeno di non farlo comparire come ebreo. Su questo punto Grossman non cedette. Per lui era di vitale importanza che Štrum fosse ebreo sia perchè altrimenti l’assassinio della madre sarebbe risultato incomprensibile sia perchè, io penso e come ho già scritto nel secondo post, il fisico Viktor Štrum è da considerarsi una sorta di Alter Ego delle tragedie personali dello stesso Grossman.
L’autore di Per una giusta causa è (ancora) un comunista anche se il dubbio e la critica fanno più volte capolino, nel testo e nel sottotesto della narrazione mentre il Grossman di Vita e Destino cambierà direzione nel tentativo di comprendere i due grandi totalitarismi del XX secolo, il nazismo e lo stalinismo, le loro analogie e le loro differenze.
Per una giusta causa costituisce dunque l’inizio di un processo esplorativo fondamentale, la genesi dei grandi temi di Vita e Destino.
Per una giusta causa contiene già la traccia dei campi di sterminio, delle purghe e dei Gulag staliniani.
Mostovskoj, il vecchio operaio e militante del Komintern viene arrestato in una via di Stalingrado da un distaccamento avanzato della Wermacht mentre si trova in compagnia del medico militare Sof’ja Ossipovna Levinton.
Štrum riceve l’ultima lettera di sua madre Anna Semionovna.
Ma sarà solo in Vita e Destino che il lettore conoscerà gli ultimi pensieri dell’ebrea Sof’ja Ossipovna nella camera a gas di Treblinka, la resistenza del vecchio Mostovskoj nel lager nazista, gli ultimi giorni del ghetto ebraico e il contenuto della lettera di Anna Semionovna Štrum scritta prima di finire in un fossa comune, massacrata dai nazisti e dagli ucraini antisemiti e collaborazionisti.
In Per una giusta causa anche la realtà del Gulag è presente, anche se, ovviamente, solo accennata. Per poterlo fare Grossman si serve ancora una volta dell’escamotage di una lettera e Abartchouk (il primo marito di Ljudmila Šapošnikov, il “Robespierre della facoltà”, come lo chiama Grossman a causa del suo fanatismo comunista) viene arrestato come “nemico del popolo”.
Il commissario politico Krymov arriva infine a Stalingrado: sarà la sua ultima tappa in questa prima parte dell’epopea. Nella seconda parte Krymov finirà alla Lubjanka e a nulla gli varranno la sua fedeltà a Stalin, una vita intera dedicata a battersi per il comunismo e l’eroismo dimostrato nella “Grande guerra patriottica”.
Grossman, alla fine degli anni Quaranta, non è ancora pronto a trasgredire l’ideologia staliniana, cerca — dico io — ancora di far quadrare il cerchio — ma l’accoglienza glaciale che riceve il suo romanzo e quello che vede nell’attualità dell’URSS contribuiscono a far nascere e consolidare la sua riflessione antitotalitaria.
Il grande cambiamento che interverrà in Grossman nel passaggio da Per la giusta causa a Vita e Destino sarà proprio il rifiuto dell’ideologia.
Il mondo di Grossman era rimasto marchiato da Stalingrado.
A Stalingrado egli aveva trascorso i mesi più terribili: i suoi colleghi ripartivano per scrivere i loro articoli al sicuro nelle retrovie mentre lui restava sul posto, in mezzo all’inferno, accompagnato dalla morte: “La forza della sciagura è immensa”, scrive in Per una giusta causa.
Angelo M. Ripellino presentò per primo in Italia la traduzione di un racconto di Vasilij Grossman intitolato Anjuta accompagnandolo con queste parole:
«Le pene della guerra, la sua austera poesia, la passione, sono gli elementi essenziali degli scritti di Grossman. Più di chiunque altro egli ha rivelato le sorgenti dell’ epopea di Stalingrado. Allo stesso modo che in tempo di pace, gli eroi di Grossman erano animati dal sogno della creazione; in guerra, i suoi ufficiali e soldati compiono prodigi di coraggio, ispirati dal sogno della vittoria» (Fonte)
Stalingrado era stata anche la sua grande speranza.
Grossman si era illuso che quell’immane sforzo e sacrificio collettivo dell’esercito e del popolo sovietico avrebbe dato vita a una nuova politica, in cui non ci sarebbero state più purghe, deportazioni di massa, carestie provocate e pilotate.
Ma ben presto arrivò il tragico disinganno, perchè si accorse che questo non sarebbe avvenuto. E così, in Vita e Destino, vinti i tedeschi a Stalingrado, comincia l’ epurazione proprio di coloro che quella vittoria hanno permesso.
Per una giusta causa e Vita e Destino, i due volumi della dilogia raccontano l’infelicità, ma parlano anche di felicità: il kolkoziano Vavilov, il gruppo di sovietici dell’edificio del “civico sei barra uno” sono splendidi esempi di coraggio e di resistenza ai tedeschi invasori, ma nelle pagine di Grossman c’è anche amore, tanto amore: amore filiale, amore materno e paterno, amore di innamorati: il soldato Serioja e la radiotelegrafista Katia si amano nell’inferno del civico sei barra uno, Vera rimane incinta del pilota d’aereo Victorov che morirà in battaglia e partorisce il suo bambino sotto le bombe che cadono sulla centrale elettrica in cui è rimasta a fianco del padre Stepan Spiridonov, direttore della centrale.
Per una giusta causa e Vita e Destino costituiscono una sola opera divisa in due parti, ma tra le due parti è avvenuta una cosa importantissima: Grossman ha subito una vera e propria mutazione.
Come quella che, proprio a metà di Per una giusta causa, egli descrive quando, nel bel mezzo di una scena di guerra ci mostra dei soldati — tra di essi c’è anche Sergeij Šapošnikov — che sotto la pioggia di bombe guardano un serpente che muta la pelle:
“Appeso in un angolo, un elmetto dondolava tintinnando. Una colonna di luce densa, concentrata, lo illuminava. Sergeij vide che si trattava di una serpe, ramata sotto la luce del sole, che faceva muovere il casco. Appena la guardò più attentamente, comprese che la serpe lasciava la sua pelle lentamente, con uno sforzo doloroso, e la sua nuova pelle sembrava imperlata di sudore, brillava come una castagna novella. Gli uomini trattenevano il respiro osservando il travaglio della serpe: sembrava che stesse gemendo, che si lamentasse, perchè era difficile uscire da quella guaina dura, morta. Questa dolce penombra trafitta dalla luce, e l’incredibile spettacolo di una serpe, che, fiduciosa, cambiava pelle in presenza degli uomini catturò i soldati.” (p.341)
La “muta” di Vasilij Grossman durerà dieci anni e porterà lo scrittore ad un’eguale condanna dell’hitlerismo e del comunismo, intesi entrambi come due uccisori della libertà innata dell’uomo.
Vita e destino sarà il libro in cui l’antifascismo di Grossman fa un salto e diventa antitotalitarismo.
In Vita e Destino affiderà ad un personaggio minore, il “folle” Ikonnikov (“un tipo strano, di età indefinita”) – una sorta di principe Myskin compagno di prigionia di Mostovskoj nel lager nazista il compito di chiarire l’idea di “bontà illogica”, “al di là del bene religioso e sociale” e della sua concezione della vita:
“In quest’epoca tremenda, un’epoca di follie commesse nel nome della gloria di Stati e nazioni o del bene universale, e in cui gli uomini non sembrano più uomini ma fremono come rami d’albero e sono come la pietra che frana e trascina con sé le altre pietre riempiendo fosse e burroni, in quest’epoca di terrore e di follia insensata, la bontà spicciola, granello radioattivo sbriciolato nella vita, non è scomparsa”
“Non ci credo io nel bene. Io credo nella bontà […] la storia degli uomini non è […] la lotta del bene che cerca di sconfiggere il male. La storia dell’uomo è la lotta del grande male che cerca di macinare il piccolo seme dell’umanità. Ma se anche in momenti come questi l’uomo serba qualcosa di umano, il male è destinato a soccombere”.
In Per una giusta causa, parlando di Tolja Šapošnikov, Grossman aveva scritto:
“Le circostanze sono cambiate, ed allora tutto ciò che quest’uomo si portava dentro si è improvvisamente rivelato”
Vasilij GROSSMAN, Pour une juste cause (tit. orig. Za pravoe delo), traduz. dal russo al francese, prefazione e note di Luba Jurgenson, p.633, Editions L’Age d’Homme, Collection Au coeur du monde, 2008, ISBN-10: 2825138398 ISBN-13: 978-2825138397
Per una giusta causa è un romanzo di guerra che comincia il 29 aprile del 1942 e si conclude nell’autunno dello stesso anno. Un’unità di tempo che non impedisce all’autore di ricordare il recente passato dell’Unione Sovietica dal 22 giugno 1941, giorno dell’invasione tedesca che ha sprofondato l’alto comando militare nella depressione e l’Armata Rossa nel caos e di rievocare un anno di terribili ritirate e di sanguinose sconfitte.
Il romanzo è rigidamente strutturato in tre parti.
La prima è interamente dedicata alla rievocazione degli ultimi giorni di pace e dei momenti più drammatici di questo primo anno di guerra soprattutto attraverso il ricordo, i pensieri, le riflessioni di tre personaggi: il kolkhoziano Vavilov, il commissario politico Krymov e il colonnello Novikov, mentre con la seconda e la terza parte assistiamo al primo bombardamento aereo su Stalingrado che diventa il luogo chiave di tutto il romanzo, teatro di una delle battaglie più lunghe e sanguinose della Seconda Guerra mondiale: la battaglia di Stalingrado.
Per una giusta causa è un romanzo corale che ha per protagonisti i numerosi membri della famiglia Šapošnikov ed i loro amici ma che è popolato anche da una foltissima schiera di personaggi secondari.
Narrando le vicende di decine e decine di personaggi Grossman delinea così la prima parte di un grande affresco che, come in Guerra e Pace di Tolstoj, rappresenta un momento storico decisivo per la storia del popolo russo.
Seguendo i suoi personaggi sia nelle vicende private familiari e individuali che sugli scenari di guerra Grossman riesce a ricreare in pagine indimenticabili l’autenticità della guerra, o per meglio dire quella che nei Taccuini aveva chiamato più volte “la verità impietosa della guerra”.
Epopea della grande battaglia che secondo il giudizio di molti ha costituito il punto di svolta della seconda guerra mondiale, Per una giusta causa è anche un ritratto vivente del popolo russo colto nel momento della sofferenza e della grandezza.
Dietro un fitto mosaico di destini individuali, frenetiche battaglie, immensi sacrifici di militari e gente comune, di uomini, donne, bambini, vediamo già profilarsi, però, i vertiginosi interrogativi di Vita e Destino sulle grandi ideologie totalitarie del XX secolo.
Se Stalingrado rappresenta il luogo più importante, quello in cui si decide il destino della guerra per i sovietici, la città su cui si è abbattuta la potenza distruttrice della marea tedesca, il luogo attorno cui ruotano tutte le vicende del romanzo, essa non è però l’unico scenario su cui si svolge il dramma collettivo descritto da Grossman.
Olga Lander | Tending the Wounded, c. 1943
Assieme ai suoi personaggi noi ci troviamo a percorrere l’immenso territorio dell’URSS da Kiev a Kazan, dall’Ucraina alle steppe siberiane e Grossman ci descrive — con la precisione acquisita in lunghi anni di esperienza come giornalista e scrittore — i luoghi di lavoro in cui, con un enorme sforzo collettivo, il popolo russo reagisce e si attrezza per costruire le armi e per produrre tutto quanto può risultare utile a chi combatte sul fronte per ricacciare indietro l’invasore tedesco.
Con la stessa precisione con cui ci parla del funzionamento, delle dinamiche interne, delle gesta di un battaglione di artiglieria Grossman ci descrive il lavoro in una miniera, in un laboratorio di fisica o il funzionamento di una centrale elettrica di Stalingrado i cui tecnici, dirigenti ed operai continuano a lavorare ininterrottamente nonostante i bombardamenti, la morte e le distruzioni da cui sono circondati.
Il mondo del lavoro e il mondo della guerra costituiscono, nell’epopea di Grossman, due poli antitetici dell’esistenza: quello della costruzione e quello della distruzione.
Chi si trova a leggere Pour une juste cause dopo aver letto Vita e Destino (come è successo a me) scopre l’evoluzione delle storie dei singoli personaggi e dettagli importanti che costringono spesso a riconsiderare il giudizio che su alcuni di essi aveva dato leggendo il secondo romanzo.
A questo proposito, per esempio, in Per una giusta causa a Krymov (il commissario politico ex marito di Evgenija Nikolaevna Šapošnikova) è dedicato moltissimo spazio, capitoli su capitoli. Lo vediamo seguire i militari sovietici in lunghe e terribili marce lungo tutte le grandi ritirate del primo anno di guerra
In parecchi (tragici) momenti delle fughe è lui che che esorta i soldati, che sceglie, decide, impone percorsi che permettono a tutti loro di non farsi prendere dai tedeschi che stanno alle calcagna.
Krymov appare un uomo onesto, in buona fede, coraggioso, umano (e, ovviamente, comunista convinto) e dunque per noi, che avendo letto Vita e Destino sappiamo già la fine che farà, la sua figura risulta molto umana e struggente…
Sappiamo già, infatti, che sarà proprio Krymov a segnalare alle autorità e a chiedere la destituzione di Grekov, il valoroso comandante della casa “6 barra uno”, luogo di resistenza estrema e punta avanzata contro i tedeschi perchè Grekov esprime posizioni ideologiche anticonformiste rispetto al regime.
Ma Grekov morirà da eroe mentre Krymov finirà alla Lubjanka…
Intanto, in Per una giusta causa è al personaggio di Krymov (e a quello di Novikov), alle sue riflessioni, ai suoi pensieri che Grossman affida molte delle sue impressioni personali che abbiamo letto nei Taccuini.
Krymov e Novikov appaiono decisamente, per quanto riguarda l’aspetto delle osservazioni sulla guerra e sul suo andamento, due veri e propri Alter Ego di Grossman, così come, di contro, il fisico Viktor Štrum è il suo Alter Ego per quanto riguarda invece i problemi e lutti personali: la tragica morte della madre, l’ultima lettera che riceve da lei, le difficili scelte che si trova a compiere in quanto ebreo russo…
Innumerevoli le splendide pagine che mi piacerebbe poter citare.
Struggenti, ed esempio, quelle in cui il kolkoziano Vavilov, la sera prima di lasciare casa e famiglia per andare al fronte rievoca l’ultimo giorno di pace, o quella in cui il colonnello Novikov ricorda il primo giorno dell’attacco tedesco, o quelle in cui Grossman ci fa vedere attraverso il ricordo del commissario politico Krymov le scene in cui grandi masse di sfollati e di soldati sovietici in rotta fuggono i tedeschi che li incalzano e che puntano a Mosca, Kiev, Stalingrado… l’anno che — pensa Krymov — ha mostrato “tutta l’ampiezza della catastrofe nazionale” (p.97).
E tante, tante altre: dal colloquio/confronto tra il grande fisico sovietico di fama internazionale Tchepyguin e Viktor Štrum su fascismo e nazismo, sulle origini e peculiarità del nazismo in Germania (pagg. 162-166) alle numerose pagine dedicate a Stalingrado.
Stalingrado nel giorno del primo attacco aereo tedesco
“I primi aerei apparvero verso le quattro del pomeriggio. Sei bombardieri venuti dall’est, dall’oltre Volga, avanzavano verso la città ad una grande altitudine […] Gli aerei erano perfettamente visibili nell’aria trasparente. Il sole brillava, migliaia di vetri brillavano ai suoi raggi, e le persone, alzando la testa, guardavano gli aerei ripartire precipitosamente verso verso ovest. Una giovane voce gridò:
— Ce n’è qualcuno che è riuscito a passare! Non è nulla, non c’è nemmeno stato l’allarme.
Subito, le sirene dei battelli e delle fabbriche intonarono il loro urlo sinistro. Quest’urlo che annunciava la sventura e la morte, sospeso sopra la città, esprimeva l’angoscia che si era impadronita della popolazione. Era la voce della città intera, non soltanto quella degli uomini, ma degli edifici, dei veicoli, della pietra, dei pali, dell’erba e degli alberi nei parchi, dei fili elettrici e delle rotaie dei tram, un urlo che univa gli esseri viventi e gli oggetti nel presentire il loro annientamento. Solo una gola di ferro arrugginita può generare questo suono che esprime in egual misura il terrore di un animale e l’angoscia di un cuore umano.
Poi venne il silenzio, l’ultimo silenzio di Stalingrado”
Stalingrad August 24, 1942 | Photo: Emanuil Evzerikhin
At the Train Station during an Enemy Air Attack
Stalingrado ormai distrutta dai bombardamenti che Vavilov vede per la prima volta dalla riva opposta del Volga mentre si avvicina in battello al luogo per la cui difesa morirà.
“Stalingrado si ergeva sotto un cielo senza nuvole: una città in cui la sciagura si aggirava nelle strade e nelle piazze vuote, in cui non si sentiva più il rumore delle fabbriche e non ne si vedeva il fumo, in cui non si facevano più acquisti, in cui non c’erano più litigi tra marito e moglie, in cui le scuole non accoglievano più scolari, in cui nessuno cantava suonando l’armonica nei quartieri operai” (p.534)
E poi ci sono tutte le pagine dedicate ai sentimenti ed agli affetti familiari, al modo in cui tutti, dai soldati alla gente comune affrontano la morte di figli, madri, amici.
Lo stesso Grossman, lo ricordo, durante la guerra aveva perso il figlio maggiore caduto sul fronte e la madre Ekaterina Savel’evna massacrata a Berdicev in Ucraina dalle Einsatzgruppen tedesche perchè ebrea.
Centinaia, migliaia di persone assistono impotenti alla distruzione della propria casa e sono costrette a fuggire, spesso a piedi e prive di tutto sotto la continua minaccia delle bombe e delle armi tedesche.
Quante, le pagine appassionate dedicate alla ostinazione ed alla volontà di libertà di un intero popolo!
“la morale del popolo, la bontà del popolo sono indistruttibili“ (p.164)
Sempre presente fin da in Per una giusta causa il tema di fondo che in Vita e Destino sarà espresso in modo ben più esplicito e radicale e cioè il tema dell’ l’uomo e del suo innato ed irrinunciabile bisogno di libertà
Avendo letto il libro in francese non sono sicura che la mia translitterazione dei nomi russi in italiano risulti corretta e me ne scuso
I brani citati dal libro sono una mia traduzione dal francese.
La notte del 21 giugno prima notte di guerra,un capitolo di Per una giusta causa tradotto in italiano per l’antologia “Narratori russi moderni” di Bompiani (1962) dallo slavista Pietro Zveteremich>>
Vasilij GROSSMAN, Pour une juste cause (tit. orig. Za pravoe delo), traduz. dal russo al francese, prefazione e note di Luba Jurgenson, p.633, Editions L’Age d’Homme, Collection Au coeur du monde,2008, ISBN-10: 2825138398 ISBN-13: 978-2825138397
Come ho già accennato in un post precedente, chi legge Vita e Destino di Vasilij Grossman ha spesso l’impressione che molti particolari delle vite dei protagonisti non vengano forniti e che certe storie manchino di un antefatto che l’Autore lascia all’intuizione del lettore.
Tutto però diventa chiaro sapendo che Grossman in realtà ha già cominciato il suo racconto in un altro romanzo, Per una giusta causa, prima parte di una dilogia di cui Vita e destino è la naturale continuazione.
Purtroppo, però, Per una giusta causa non è mai stato tradotto in italiano.
Ho letto il libro in francese edito dalla casa editrice svizzera Age d’Homme, la stessa che per prima diede alle stampe in Occidente (prima in russo e poi in francese)Vita e Destino arrivato in Europa dopo mille traversie di cui ho parlato.
Spero proprio che qualcuno provveda al più presto alla traduzione italiana perchè se è innegabile che il capolavoro di Grossman è Vita e Destino, Per una giusta causa non solo contiene pagine memorabili, ma è anche un complemento fondamentale per comprendere sia l’ampiezza dell’affresco che Grossman ha delineato sui totalitarismi ed in particolare sugli anni della guerra tra Hitler e Stalin sia per misurare — attraverso le analogie e le macroscopiche differenze che ci sono tra i due romanzi — la profondità ed il travaglio del cambiamento personale ed ideologico di Grossman.
Anche per questo romanzo, già come per Vita e Destino, non mi è proprio possibile essere breve e ad esso dedicherò più di un post.
Innanzitutto è molto importante conoscere la genesi dell’opera ed il contesto storico-politico in cui avvenne la sua stesura e la pubblicazione.
Perchè anche Per una giusta causa ha avuto una storia molto avventurosa e travagliata. Al punto tale che, mentre combatteva con le lungaggini e gli ostacoli che gli venivano posti per la pubblicazione, Grossman sentì il bisogno di scrivere un Diario dei progressi di un manoscritto.
Provo ad andare con ordine.
Nell’estate del ’42, la 6° armata tedesca di Paulus arriva davanti Stalingrado, ultimo bastione per superare il Volga. Mai nessun invasore ha violato così in profondità il suolo russo.
Grossman, scrittore sovietico di onesto talento, come tanti altri suoi colleghi partecipa attivamente alla guerra; con il grado di luogotenente-colonnello, viene mandato al fronte come inviato speciale di Stella Rossa, il giornale dell’Armata Rossa e partecipa a tutti gli avvenimenti più importanti, dalle ritirate all’offensiva ed alla presa di Berlino.
Nel 1942 si trova a Stalingrado. Il suo grado ed il suo ruolo gli permettono di mettersi in contatto con tutti i tipi di combattenti, dagli alti gradi dei Quartieri Generali fino agli anonimi soldati degli avamposti sulle linee del fronte.
I suoi taccuini sono zeppi di appunti.
Grossman comincia a trasformare il suo materiale in una forma narrativa lavorando ad un grande romanzo già a partire dal 1943, ma si dedica completamente a quest’opera (per la quale ha pensato al titolo Stalingrado) nel 1948-49.
John e Carol Garrard — autori della eccellente biografia di Grossman Le ossa di Berdicev — dedicano parecchie pagine alle vicissitudini del manoscritto e della sua pubblicazione.
La storia è lunga e troppo complicata per riportarla tutta qui, ma è importante accennare ad almeno alcuni passaggi chiave.
Estratti del romanzo vengono pubblicati su due riviste settimanali, ma è quando si tratta di pubblicare l’intera opera su Novyj Mir che arrivano i guai.
Il caporedattore Simonov muove al manoscritto critiche pesantissime che nulla hanno a che fare con la letteratura ma sono esclusivamente di ordine politico-ideologico.
Anche Tvardovskij, il nuovo caporedattore che succede a Simonov, è molto critico.
Tornerò (ma solo alla fine) su queste critiche che sono molto illuminanti sia per comprendere il clima politico in cui Grossman si trovava a lavorare sia perchè capire quale livello di compromessi lo scrittore dovette accettare pur di vedere pubblicata la sua opera e su quali punti si dimostrò invece irremovibile aiuta a valutare meglio le profonde differenze che ci sono tra questo Per una giusta causa e Vita e Destino.
Finalmente, dopo una serie infinita di ostacoli burocratici, difficoltà di censura, problemi di ogni genere — Grossman, esasperato, arriva al punto di scrivere direttamente a Stalin senza peraltro ottenere alcuna risposta — il romanzo esce in quattro puntate consecutive su Novyj Mir tra luglio e ottobre del 1952.
Tra tagli e compromessi vari, al romanzo è stato cambiato anche il titolo: invece che Stalingrado, il titolo adesso è Per una giusta causa, espressione usata da Molotov nella guerra di propaganda contro la Germania nazista.
All’inizio, sembra andar tutto bene: Per una giusta causa è accolto da un vero e proprio coro di lodi, ottiene un successo straordinario e davanti alle librerie del Paese si creano code di lettori in attesa di mettere le mani su ogni nuovo numero della rivista.
Ricordo che Grossman era un giornalista molto amato dai lettori di Stella Rossa, le sue corrispondenze dal fronte erano sempre state seguitissime.
Si parla del romanzo addirittura come probabile candidato al Premio Stalin.
Dopo appena qualche settimana, però, la Pravda sferra una serie di pesantissimi attacchi sia al romanzo che a Grossman come persona; il redattore capo di Novij Mir Aleksandr Tvardovskij si reca di persona da Grossman per fargli notare come si parli troppo della volontà del popolo e troppo poco del ruolo del partito come organizzatore della vittoria, e come la figura di Stalin non sia messa nel dovuto risalto.
“Grossman passò da potenziale vincitore di un premio a potenziale prigioniero della Lubjanka”, scrivono giustamente i Garrard.
L’attacco della Pravda risulta comprensibile se si pensa che “la grande guerra patriottica” ha nel frattempo lasciato il posto ad una nuova ondata di purghe aggravata da un vero e proprio antisemitismo di Stato.
Stalin ha vietato la pubblicazione del Libro nero che, curato dallo stesso Grossman e da Il’ja Erenburg raccoglieva tutta la documentazione disponibile sul genocidio degli ebrei in Russia: per l’Unione Sovietica la Shoah non deve esistere. La “soluzione finale” degli ebrei voluta dai nazisti viene passata sotto silenzio.
A Praga, nel 1950, c’è stato il processo contro quattordici rappresentanti del partito socialdemocratico, socialista nazionale e popolare che si è concluso con quattro condanne a morte, tra cui quella di Milada Horaková.
A Mosca, l’attore Mihojels è scomparso nel 1948, lo scrittore Peretz Markish viene fucilato nel 1952.
La stampa sovietica ufficiale mette in piedi tutto un battage secondo cui medici ebrei avrebbero ordito un complotto per assassinare Stalin: si tratta di quello che viene chiamato il “complotto dei camici bianchi”.
Grossman diventa, a questo punto, una sorta di appestato che solo la morte di Stalin (5 marzo 1953) salva da un destino che sarebbe stato sicuramente funesto.
Dopo la morte del “Piccolo Padre” le critiche lentamente si attenuano, Grossman viene di nuovo festeggiato, ripubblicato, decorato, ma… lui ormai non sta più al gioco e si getta nella stesura di Vita e Destino.
E succede tutto quello che succede.
Oggi finalmente le due parti dell’epopea che Grossman consacrò a Stalingrado sono finalmente riunite. Due parti, due opere, ma non due volumi della stessa opera. Perchè tra Per una giusta causa e Vita e Destino lo scrittore sovietico è divenuto un clandestino della letteratura, un uomo che ha subito una crisi filosofica e morale talmente profonda da sovvertire le fondamenta stesse della sua percezione del comunismo.
Klaus Mann comincia a scrivere il suo diario intimo a 25 anni.
Questo volume contiene solo la prima parte dei Diari di Klaus, quella che va dal 1928 al 1935.
Nei Diari, egli non esita a mettere a nudo la propria anima.
Sono pagine che ci mostrano lo spirito irrequieto dell’autore di bellissimi romanzi come Il vulcano o di quel Mephisto ispirato alla figura dell’attore e regista Gustav Gründgens — ex marito della sorella Erika — che aveva aderito al nazismo per non sacrificare la propria carriera e che è stato poi trasposto sullo schermo nel 1981 con il bel film di Istvan Szabó magnificamente interpretato da Karl Maria Brandauer.
Pagine di diario scritte nel momento del crollo dell’universo della giovinezza di Klaus quando a Monaco, la città in cui egli vive, si assiste al disfacimento della Repubblica di Weimar mentre nei cabaret ci si batte a colpi di lancio di confetti.
Nelle pagine di questo diario fittissimo, frenetico, troviamo una miriade di informazioni perchè in esso è rappresentata, attraverso la scrittura e lo sguardo di Klaus, un’ intera epoca.
Leggendo i Diari ci si trova, all’inizio, molto spaesati. Non si tratta di una lettura facile.
Il materiale non è elaborato. Klaus butta giù annotazioni telegrafiche, i riferimenti di contesto sono molto scarsi e le pagine pullulano di sigle e di abbreviazioni. Per fortuna, però, il volume degli Editori Riuniti presenta un eccellente ed utilissimo apparato di note esplicative e un’ottima prefazione di Marino Freschi.
Molte delle annotazioni contenute nei Diari serviranno per la redazione de La Svolta, la bellissima autobiografia che verrà pubblicata per la prima volta nel 1942.
I Diari sono zeppi di nomi, eventi, luoghi, aneddoti.
Si possono però individuare alcuni filoni dominanti e temi ricorrenti.
Il rapporto con il padre, per esempio.
Klaus era il primo figlio maschio di Thomas Mann, nato un anno dopo Erika, la sorella alla quale fu legato sempre da un affetto così profondo da far pensare, ad alcuni, persino a caratteristiche incestuose.
Nei diari ci sono moltissime annotazioni (mai irriverenti) che riguardano il padre Thomas che Klaus chiama (come da sempre hanno fatto tutti i ragazzi di casa Mann) “Il Mago” ed i suoi rapporti con il nazismo avanzante.
Il rapporto con il nazismo, l’atteggiamento da tenere nei confronti dei nazisti e nel momento del disfacimento della Repubblica di Weimar, le discussioni sulla opportunità se non addirittura della necessità, per la famiglia Mann, di lasciare la Germania e di rifugiarsi all’estero cominciano, da un certo momento in poi, ad essere l’argomento principale delle discussioni in casa Mann e con i loro ospiti.
Da tenere presente anche che Katia Mann, moglie di Thomas e madre di Klaus apparteneva ad una ricca famiglia ebrea di Monaco, per cui il problema ebraico era molto presente nella famiglia Mann.
La parola “emigrazione” viene pronunciata per la prima volta il 19 dicembre 1931 ad una cena in casa Mann a Monaco; tra gli ospiti c’è anche il direttore d’orchestra Bruno Walter, legatissimo alla famiglia.
Da quella sera la parola “emigrazione” diventa ossessiva e ricorrente. Thomas esita, gli costa troppo lasciare la Germania, il suo mondo. Si deciderà a partire appena in tempo e quando la situazione è ormai precipitata.
Al contrario, Klaus mostra una grande preveggenza e lucidità politica. Egli infatti già alla fine del 1931 annota: “Sempre politica oltre gli affari”.
Ma l’esistenza di Klaus è contrassegnata anche, da un certo momento in poi, dalla droga dalla quale diventa sempre più dipendente e dall’omosessualità.
Le avventure omoerotiche vengono esibite provocatoriamente e di molte di esse Klaus fornisce, nelle pagine dei Diari, descrizioni ricche di particolari.
Intanto, tutti i salotti d’Europa sono aperti, per il figlio di quello che viene considerato il più grande autore tedesco vivente, a cui nel 1929 è stato conferito il Premio Nobel.
Klaus ha la possibilità di frequentare e di corrispondere con gli intellettuali e gli scrittori più rappresentativi del suo tempo. I Diari sono un turbinìo di nomi: da Crevel a Cocteau a Giraudoux a Gide a Julien Green e innumerevoli altri a quelli di lingua tedesca che Klaus ammira, che considera suoi Maestri: per esempio Stefan George, Gotfried Benn, Stefan Zweig.
Con alcuni di essi però ad un certo punto arriva alla rottura ed allo scontro verbale proprio a proposito dell’atteggiamento da loro tenuto nei confronti di Hitler e dei Nazisti. Questo avviene soprattutto con Gotfried Benn, da lui giudicato troppo condiscendente nei confronti del nazismo e con Stefan Zweig, al quale invia una lettera dai contenuti molto forti e a proposito del quale scriverà “Un altro vigliacco che si tira indietro”.
Gotfried Benn, molti anni dopo, si trovò ad ammettere in La doppia vita:“Quel ragazzo di ventisette anni aveva valutato la situazione, era stato più chiaroveggente di me”.
L’ebreo Zweig si rese conto anche lui di quanto giusto avesse visto Klaus Mann e riuscì a fuggire dall’Austria ormai occupata dai nazisti appena in tempo per non essere travolto dalla catastrofe.
Uno degli aspetti più singolari e inquietanti dei Diari è costituito dal grande numero di sogni che Klaus vi annota. La maggior parte si tratta di incubi, incubi eloquenti e profetici dell’approssimarsi del terrore nazista.
Klaus Mann lascia la Germania il 13 marzo del 1933.
La sua esistenza, così come viene fuori dai Diari, mostra una singolare, affascinante ma anche drammatica oscillazione tra una precoce maturità intellettuale, una lucidissima capacità di analisi politica ed uno stile di vita da dandy viziato, un mixing che si esprime attraverso una febbrile, nevrotica attività, un’esistenza stracolma di incontri, impegni, incarichi, progetti.
Eppure, dal 1933, questo dandy figlio di Thomas Mann si trasforma in vero intellettuale europeo, coinvolto lucidamente nella lotta antifascista.
Fino al suicidio, avvenuto il 21 maggio del 1949 in un albergo di Cannes, incarna una generazione profondamente impegnata e profondamente ossessionata dalla morte.
La lettura del Diario di Klaus spinge anche, in qualche modo, alla compassione per questo giovane uomo colto, intelligente, sincero; per questo tedesco che amava profondamente la Germania ma che forse proprio anche per questo ha saputo, molto prima di tanti altri intellettuali decifrare il nazismo e lottare contro di esso addirittura prima che il Terzo Reich consolidasse il suo potere.
Nella sua autobiografia Klaus, ricordando quei giorni, scriverà:
“Non capivo più i tedeschi! Ma non ero forse un tedesco anch’io? Certo lo ero; e non per la lingua soltanto. La cultura tedesca aveva formato la mia visione cosmica, la mia individualità spirituale, o quanto meno l’aveva influenzata in modo decisivo. Una casa paterna come la mia, un’infanzia sotto il segno dei canti e delle fiabe tedesche, una giovinezza trascorsa con Novalis, Hölderlin, George; come potevo esssere estraneo allo spirito tedesco? […] La Germania mi era divenuta estranea e io ero uno straniero in Germania prima ancora di essermi definitivamente staccato da lei”
E’ un vero peccato che — almeno per quel che ne so io — in Italia non risulta essere stato pubblicato anche il secondo volume dei Diari, quello che va dall’anno dell’esilio al suicidio.
In Francia non solo i Diari sono stati tutti pubblicati integralmente, ma proprio di recente è stato pubblicato dall’editore Daniel Arsand Contre la barbarie, un volume che raccoglie saggi, conferenze, cronache, articoli e lettere di Klaus Mann dal 1925 al 1948 tradotti dal tedesco al francese da Dominique Laure Miermont.
Klaus MANN, La peste bruna. Diari 1931-1935 (Tit. orig. Tagebücher 1931-1935), traduz. di Matilde de Pasquale, Prefazione di Marino Freschi, p. 368, Editori Riuniti, Collana Biblioteca di storia, 1998, ISBN: 8835945658, ISBN-13: 9788835945659 >>
Avvertenze per l’uso: questo è un post "for Lost-maniac only" come me.
Concedo però anche a scettici ed infedeli diritto di parola.
Sono un’integralista liberale
Ordunque.
Da oggi 2 febbraio comincia negli States la messa in onda della Sesta (ed ultima) Stagione di LOST.
L’immagine qui sopra è il manifesto "promo" per l’ultima stagione. Vi ricorda qualcosa?
Evvabbè, ecco un aiutino
Inutile dire che noi lostiani di lunga e provata fede siamo già lì che ci scucuzziamo e (ci) dibattiamo e ci accapigliamo con imprescindibili e spinosi ed angosciosi interrogativi del tipo:
Perchè quelli là erano tredici e qui sono quattordici?
Chi è che c’è e chi è che non c’è?
E perchè c’è chi c’è e non c’è chi non c’è?
E Juliet? Che fine ha fatto Juuuuuuliet?!?!
E perchè Kate è seduta al posto di Giuda e Locke al posto di Gesù?
Ma no, che dici, non lo vedi che è Sayd che è seduto al posto di Giuda?
… Ma allora è vero che Jack è proprio come San Tommaso…
E che vogliono dire quei teschi per terra? Chi sono i morti? Chi sono i vivi?
E le lattine della Darma?!
E che c’è scritto sulla bottiglia posata sul tavolo?! Acc… ho ingrandito l’immagine ma non riesco a leggere l’etichetta…
Ma è vero quello che si dice in giro, che Sawyer diventa di nuovo un cattivone?
Insomma, una goduria. Un vero spasso.
I fedeli lostiani sanno anche che Barack Obama ha modificato la data del Discorso sullo stato dell’Unione per non sovrapporsi alla prima puntata di Lost.
Lo ha confermato il portavoce del presidente americano, Robert Gibbs, quando ha assicurato che "con il suo discorso sullo stato dell’Unione davanti al Congresso, il presidente Barack Obama non metterà in pericolo la messa in onda della prima puntata della sesta e ultima stagione di Lost" ed ancora: "Non credo sia plausibile uno scenario in cui milioni di persone che sperano di risolvere al più presto i dubbi posti da Lost siano sopraffatti dal presidente."
Invece che il 2 febbraio, Obama infatti ha parlato il 27 gennaio
Nemmeno il Presidente degli Stati Uniti può mettersi fra Lost e il suo pubblico? Pare sia andata proprio così
Dimenticavo di dire (ma i fondamentalisti lostiani sono sicura lo sanno già) che, come si legge in questo comunicato, su un sito appositamente messo in piedi da Telecom Italia insieme a The Walt Disney Company tutti gli episodi saranno messi a disposizione in streaming entro 24 ore dalla messa in onda negli Usa, nella versione originale inglese ma sottotitolati in italiano.
Ed ora un piccolo ripassino (con qualche innocua anticipazione)