JOSEFINE E IO – HANS MAGNUS ENZENSBERGER

Josefine ed io-Enzensberger
Hans Magnus ENZENSBERGER, Josefine e io (tit. orig. Josefine und Ich), traduz. Valentina Tortelli, p.134, Einaudi, 2010, ISBN 9788806185510

Germania, 1990.

Un incontro proprio strano, quello tra Joachim, un trentenne ricercatore in scienze economiche e la settantacinquenne Josefine, un tempo famosa cantante lirica e l’intesa non sembra proprio facilissima. Tuttavia, Joachim non riesce a sottrarsi agli inviti settimanali a casa della vecchia, eccentrica signora.

Un giorno Joachim, assistendo per strada al tentativo di scippo nei confronti di un’anziana signora è intervenuto in suo soccorso; lei lo ha ringraziato ed invitato a casa sua a prendere il te. Da allora, ogni martedi alle cinque Joachim si presenta puntualmente in Kastanienallee e bussa alla porta del grande, vecchio appartamento un po’ malridotto in cui Josefine vive con una vecchia e fedele domestica che si chiama Fryda.

Josefine K. è una gran dama, disinvolta, raffinata, altera, piena di verve, particolarmente propensa alla superbia e ai giudizi caustici e tranchants. Gli argomenti sono i più svariati: Dio, la società, il mondo, l’arte, la cultura, la musica; il tempo che passa, la vita, la malattia e la morte… Josefine riesce ad essere sempre spiazzante.

Di volta in volta affascinato, emozionato o esterrefatto e spesso anche irritato dai discorsi di Josefine, Joachim non riesce a spiegare a se stesso che cosa lo spinga a trascorrere tanto tempo con questa anziana signora dalla quale lo dividono la grande differenza di età, la differente visione del mondo, le esperienze di vita.

Cosa mai può avere in comune con questa donna che colleziona scarpe e passa il tempo a disquisire su tutto fumando Gauloises?

La conversazione di Josefine è molto sagace e brillante (il che non le impedisce di essere anche contraddittoria) e non conosce censura. In casa sua niente telefono nè giornali ma libri, tantissimi libri sparsi dovunque, che lei legge voracemente e che molto spesso cita. Josefine esalta il valore del denaro, considera la pigrizia un’arte e l’oblio un valore; disprezza lo Stato (“questo sinistro parassita”), la Riunificazione tedesca, i francesi, l’arte contemporanea, lo sport…

Reazionaria dichiarata, ironizza allegramente sulla democrazia, l’ideale di giustizia, sui politici e sui matematici. Il modo franco di parlare di questa “sirena” di un’altra epoca non sempre convince il giovane ma in qualche modo lo “ipnotizza”.

Il giovane economista cerca di capire quale sia stata veramente la vita di questa donna libera e così poco convenzionale: una bella carriera sotto il III Reich, tre matrimoni ciascuno dei quali durati molto poco, molti amanti, parecchio denaro, molte spese.

Joachim sente che nonostante Josefine parli molto, molto di se stessa gli nasconde e quando il giovane le rivolge domande precise sulla sua vita passata, lei riesce sempre a glissare ed a cambiare discorso con grande abilità; ci sono troppi particolari che a Joachim non risultano affatto chiari.

Eppure, nonostante tutto, ad un certo punto Joachim si rende conto che tra lui e la sua ospite si è creata — entro i limiti definiti dal rispetto reciproco e dal riserbo cui entrambi tengono molto — una sorta di strana intimità.

E che pensare inoltre della misteriosa Fryda, che già appena dopo poche pagine si rivela un elemento fondamentale del racconto?

Enzensberger, con lentezza ed una maestria che è fatta tutta di allusioni letterarie, fa intravedere gradualmente la storia dell’anziana signora attribuendole anche un altro passato, completamente diverso, di origine letteraria.

“La nostra cantante si chiama Josefine. Chi non l’ha mai ascoltata non conosce la potenza del canto”.

Con queste parole si apre l’ultimo racconto di Kafka, Josefine, la cantante o il popolo dei topi, pubblicato nel 1924, l’anno della sua morte.

Come tutti gli scritti di Kafka, anche questo è stato oggetto di svariati tentativi di interpretazione; la più congruente con questo racconto di Enzensberger a me sembra quella che nel testo di Kafka legge una parabola sulla natura e sulla funzione dell’arte e del rapporto tra artista e società. Enzensberger “gioca” in modo molto raffinato con Kafka a cominciare dal nome e dal cognome dell’anziana ex cantante: Josefine infatti — oltre ad essere una esplicita allusione all’ultimo racconto di Kafka — è anche, al femminile, il nome di alcuni celeberrimi personaggi kafkiani così come il cognome indicato con la sola iniziale K. non può che rimandare a Il processo ed all’agrimensore K. de Il castello.

Lo scrittore però non esagera ed il suo gioco è condotto con grande leggerezza. Le allusioni al testo di Kafka sono molto poco esplicite e soprattutto sono funzionali al senso del racconto, che uno straordinario finale a sorpresa colora tutto di una luce completamente nuova e costringe il lettore ad un ripensamento riguardo ciò che ha appena finito di leggere.

Il racconto Giuseppina la cantante, ossia il popolo dei topi inizia  con la perentoria affermazione che “chi non l’ha sentita cantare non conosce il potere del canto. Non c’è nessuno che non sia trascinato dal suo canto” ma nel giro di appena due paragrafi Kafka arriva a sostenere l’esatto contrario, e cioè che Giuseppina non solo canta in modo mediocre, ma che non sa nemmeno cantare. il suo è più un fischio, che un canto.

Perchè allora stanno tutti ad ascoltarla?
Perchè il fischio di Giuseppina è capace di risuonare come una straordinaria melodia soltanto a chi le presta un ascolto attento, e per costoro, Giuseppina funziona come una sorta di specchio perchè: “in lei ammiriamo ciò che non ammiriamo affatto in noi”.

Il racconto sembra una parabola con la quale Kafka invita l’ascoltatore/ il lettore a non fermarsi alla superficie del suono/testo, ma a cimentarsi in una lettura attenta e profonda, ad una continua rilettura, perché la letteratura non è soltanto narrazione, ma infinita ricerca.

Perchè il giovane trentenne va ogni martedi alle cinque a prendere il tè dalla vecchia signora?

Forse la risposta ce la dà lo stesso Joachim quando ad un certo punto chiama Josefine “La mia terapeuta involontaria” (p.111).

Ambientato nel 1990, nel momento della riunificazione delle due Germanie, Josefine ed io è però anche da leggere, a mio parere, come un apologo della storia tedesca del Novecento visto attraverso il confronto tra due generazioni ed in cui il ricorrere, nei serrati dialoghi tra il trentenne Joachim e la settantacinquenne Josefine, del tema della memoria e dell’oblio (e della rimozione!) non mi pare certo casuale.

Voglio citare solo un esempio: questo stralcio di dialogo tra Josefine e Joachim in cui la ex cantante che, celebre al tempo dei nazisti, era riuscita ad utilizzare la sua frequentazione con Goebbels per salvare la vita di una ebrea parla proprio del suo “dimenticare”.

— Ovviamente, la maggior parte delle cose l’ho prontamente dimenticata. Non sorprende, alla mia età! Lei è giovane […] crede di avere ancora tutta la vita davanti e crede che si debba tenere a mente ogni cosa significativa. Io no. Ci tengo alla mia smemoratezza. Mi mantiene in salute.

[…]

— E ha rimosso tutto? Che peccato. Il momento spiacevole è sempre quello della verità

— Un giorno capirà che è meglio rinunciare a  verità del genere. Gli psicologi sono i soli ad avercela con la rimozione. Non sorprende che siano infelici (pp. 24-25)

 

Hans Magnus Enzensberger
Hans Magnus Enzensberger
Foto © C. Hélie/Gallimard

L’USANZA DEL PAESE – EDITH WHARTON

John Singer Sargent

L’usanza del Paese è un romanzo di Edith Wharton che oggi purtroppo in Italia mi risulta essere fuori catalogo e che io ho avuto la fortuna di trovare qualche giorno fa per soli due euro in una bancarella dell’usato, qui a Palermo.

I motivi per cui questo ottimo romanzo che la Wharton pubblicò nel 1913 meriterebbe di venir riscoperto e ripubblicato in Italia sono diversi, a mio parere.

In esso, tra l’altro, l’autrice americana vissuta, come il suo grande amico Henry James, tanti anni in Europa (lui in Inghilterra, lei in Francia) anticipa tutti i temi che ritroveremo in seguito nel decisamente più celebre L’età dell’innocenza del 1920, molto più noto anche grazie al successo del bellissimo film che da esso fu tratto da Martin Scorsese nel 1993.

New York, inizio del 1900.

Arrivata da poco da Apex, una oscura cittadina della provincia, la giovanissima Undine Spraag, divorata dall’ambizione, vorrebbe fare un matrimonio favoloso che le porti riconoscimento sociale, fasti mondani e tanti, tanti soldi. Dalla sua parte non ha che giovinezza, straordinaria bellezza e la ricchezza consistente, si, ma non solidissima accumulata da suo padre.

Figlia unica, Undine è adorata e viziatissima dai genitori, che appartengono a quella schiera di “nuovi ricchi” ignoranti per i quali l’unico valore è rappresentato dal denaro capace, secondo loro, di aprire tutte le porte.

L’ambiziosa Undine vuole in effetti “fare carriera”, e cioè arrivare in cima alla scala sociale utilizzando i mezzi che la società le offre: il matrimonio, le relazioni, la sua bellezza.

Il problema è che non è facile incontrare uomini ricchi, ed ancora più difficile è riuscire a farsi sposare quando non si ha un nome, e non serve a molto essere la ragazza più bella ed ammirata di un ricevimento o di un ballo…

I primi tentativi di Undine per farsi largo nell’alta società sono molto maldestri.

Undine però, sebbene molto provinciale e profondamente ignorante, è intelligente e molto astuta e si mostra subito non solo bravissima nell’ imparare velocemente tutte le sfumature delle regole di comportamento sociale ma anche capace di sfruttarle al meglio per i suoi fini e dopo poco tempo riesce a far innamorare di lei Ralph Marvell, rampollo di una delle più antiche e tradizionaliste famiglie newyorkesi.

I due si sposano e Ralph la porta anche a fare un lungo viaggio in Europa, dove Undine rimane stregata dal fascino della vita mondana di Parigi.

Dal momento del matrimonio con Ralph vediamo dunque Undine farsi largo nell’alta società newyorkese ed europea; smaniosa di riconoscimento sociale, riesce a definire la propria identità soltanto in relazione a questo.

Seguiamo con curiosità tutti i suoi maneggi, le sue astuzie, le sue manipolazioni e ci ritroviamo a sorridere di certi suoi comportamenti a volte stupidi, delle sue gaffes, della sua tracotanza.

Ma ci è chiaro sin dalle primissime pagine del libro che Undine è una vera e propria macchina da guerra e che pur di ottenere quello che vuole travolge tutti coloro che, anche amandola appassionatamente (il padre, i mariti) lei percepisce in qualche modo come un ostacolo ai suoi piani di ascesa mondana.

Undine passa la sua vita ad elaborare stratagemmi, a divorziare nella speranza di accalappiare un partito migliore di quello precedente ritrovandosi però comunque sempre, malgrado la sua inarrestabile ascesa sociale, eternamente insoddisfatta.

Non sono pochi i momenti in cui leggendo il libro, si smette di sorridere: la determinazione e la pressocchè assoluta incapacità affettiva di Undine fanno paura.

Bisogna proprio dire che Edith Wharton ha avuto davvero un bel coraggio a porre come protagonista assoluta del suo romanzo un’eroina così poco simpatica se non addirittura detestabile.

Undine infatti, la cui vanità non è pari che all’ambizione, non ha in effetti proprio nulla di simpatico. Frivola e calcolatrice, passa le sue giornate tra sarti e modiste a rinnovare il suo guardaroba, spendendo fiumi di denaro (che pretende dagli uomini che le sono vicini, siano essi il padre o i mariti) e a studiare tattiche e strategie per la sua ascesa sociale. E poco importa se, per ottenere i suoi obiettivi, ferisce e porta alla rovina chi, pur amandola moltissimo, non riesce per un qualunque motivo a soddisfare tutti i suoi capricci.

Posseduta dal desiderio di possedere, Undine compra vestiti, gioielli, mobili ma non ne ha mai abbastanza: come un bambino viziato, lei chiede sempre, a suo padre e poi anche ai suoi mariti.

Allevata con l’idea che gli uomini non esistono che per soddisfare i desideri e i capricci delle loro donne, l’unica attenuante che le si può concedere la si può trovare nel fatto che Undine è talmente egocentrica da avere appena la consapevolezza del male che infligge a chi le sta vicino, e pensa sempre di stare agendo per il meglio. Una cosa che pensa spesso è infatti: se io sono felice, gli altri dovranno necessariamente esser felici per avermi reso tale.

La grande forza di questo romanzo è che la Wharton riesce a rendere questa donna detestabile, sciocca, frivola, superficiale, capricciosa, avida e fredda … interessante!

Il libro si legge tutto d’un fiato e ci si ritrova catturati anche nostro malgrado — e come tutti gli uomini del romanzo — nelle trame di questa Undine il cui nome, sia detto per inciso, non viene affatto, come poeticamente pensa il colto e raffinato Ralph da quello delle Ondine ninfe del Reno ma, molto più prosaicamente da… quello della marca di un ferro per ondulare i capelli!

…Questo, giusto per dare l’idea del livello sociale e della cultura dei genitori della ragazza ed in particolare della madre che ha scelto il nome da dare alla figlia.

Attraverso il personaggio di Undine, Edith Wharton dipinge una società newyorkese in piena mutazione in cui la vecchia aristocrazia rappresentata dai Marvell declina e in cui appaiono speculatori senza scrupoli e senza cultura che si arricchiscono con le speculazioni di Borsa.

Si tratta di una società codificata all’estremo e che imprigiona i suoi membri in una rete di convenzioni sociali e di pregiudizi tenaci. Una società in cui le donne sono sempre dipendenti dai loro mariti e considerate come decorativi soprammobili.

Un universo regolato da ferrei codici di comportamento, basato su pregiudizi profondamente radicati.

Di questo sistema che Edith Wharton denuncia, Undine è, alla fine, vittima: per quanto antipatica possa risultare (ed antipatica, credetemi,questa donna lo è davvero) la sua eterna insoddisfazione suscita anche, in qualche modo, compassione perchè Undine, anche quando raggiunge i suoi obiettivi, è incapace di accontentarsi di ciò che ha ottenuto. A questo proposito, l’ultima frase del romanzo — che volutamente non cito — è illuminante e, di per sè, un capolavoro

Il romanzo della Wharton analizza i meccanismi della società americana ed europea e ci si rende conto che la cosa più importante è l’apparenza. Finchè si osservano le convenienze, i codici di comportamento, tutto fila liscio ed è significativo che le sequenze che si svolgono nel privato siano davvero pochissime (forse perchè nel privato Undine, non potendo mostrarsi, esibirsi, non ha nulla ma proprio nulla da fare?). Tutto si svolge in pubblico: alle cene, all’opera, negli atelier di artisti, alle mostre. I personaggi del romanzo (con l’unica eccezione di Ralph) vogliono esibirsi, mettersi in mostra, “apparire” e proprio per questo i loro discorsi ed i loro comportamenti sono stereotipati, perchè le persone non fanno che riprodurre gli schemi ed i pregiudizi della loro classe. Quando discorsi e comportamenti si discostano dal codice sono di grande cinismo e disillusione.

Abbiamo qui uno studio della società che la Wharton porta avanti con la meticolosità e la precisione di una etnologa.

Edith Wharton svolge dunque un’appassionata analisi sociologica che decripta differenti tipi di contrapposizioni.

Innnanzitutto quella che vede da una parte la vecchia aristocrazia newyorkese — rappresentata dai Marvell — incistata nei suoi principi e che disprezza il denaro e dall’altra la massa dei nuovi ricchi che costruiscono le loro fortune a Wall Street incarnata dal personaggio di Elmer Moffat, una sorta di “doppio” al maschile di Undine perchè come lei è assetato di denaro e divorato dall’ambizione mondana.

C’è poi la contrapposizione tra la cultura americana e cultura europea (tema questo carissimo sia alla Wharton che a Henry James), francese in particolare attraverso Raymond de Chelles e tutti i componenti della sua numerosa ed aristocratica famiglia.

Anche qui, profondi pregiudizi esistenti da una parte e dall’altra determinano la profonda incomprensione tra l’aristocrazia francese e gli americani.

Anche se ritengo L’età dell’innocenza superiore a L’usanza del Paese, considero questo un romanzo di eccellente qualità, in cui Edith Wharton dà prova di tutta la sua ironia e di una sottigliezza non priva di cinismo e di corrosiva satira.

Ultima notazione: il romanzo della Wharton, la sua antipaticissima eroina Undine, la descrizione minuziosa dei maneggi per arraffare, arricchirsi, acquisire visibilità e prestigio affidandosi esclusivamente alla potenza del denaro, l’ignoranza e il disprezzo per la cultura manifestato da tutti i “nuovi ricchi” che popolano le pagine del libro rendono questo testo, ai miei occhi, purtroppo tremendamente attuale.

Basta guardarsi attorno per convincersene.

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John Singer Sargent, Lady Millicent Fanny St. Clair-Erskine, The Duchess of Sutherland, 1904

PER ELISA – MAGDA SZABÓ

Magda Szabo Per Elisa
Magda SZABÓ, Per Elisa (tit. orig. Für Elise), traduz. Vera Gheno, Introduz. Danilo Gheno, Note di Mónika Szilágyi, p.370, Editrice Anfora, 2010, ISBN: 8889076240, ISBN-13: 9788889076248

Magda Szabó, la grande scrittrice ungherese (poetessa, drammaturga, insegnante, critica e nominata per il Nobel) è diventata famosa come narratrice.

Dalla lettura dei suoi libri tradotti e pubblicati in italiano chi, come me, la segue e la apprezza da tempo aveva già compreso che nella sua opera letteraria è presente parecchio materiale autobiografico, ma — con l’eccezione di Abigail — nulla che riguardi la sua infanzia e la sua adolescenza.

Con questo Per Elisa, primo volume di quella che nelle intenzioni avrebbe dovuto essere il primo di una trilogia rimasta incompiuta per la morte dell’autrice nel 2007, Magda Szabó ci racconta la storia della sua vita dal 1917 al 1935 e ci parla della sua famiglia, degli amici e dei suoi insegnanti nel contesto storico di un’Ungheria che si è appena lasciata alle spalle la Prima Guerra mondiale e che da questa è uscita smembrata e mutilata dal famigerato Trattato di Pace del Trianon.

Da quando è apparso in Ungheria nel 2002, questo libro autobiografico si è affermato presso i lettori ungheresi della Szabó come uno dei più conosciuti ed amati lavori della scrittrice.

Für Elise è stato letto da ragazzi, giovani, uomini e donne maturi, diventando un vero bestseller.

La casa editrice Anfora lo ha pubblicato adesso in italiano corredato da una introduzione di Danilo Gheno e dalle note di Mónika Szilágyi, molto utili perchè nel testo della Szabó si incontrano molte citazioni e riferimenti ad autori, personaggi ed eventi storici ungheresi che non è affatto scontato siano noti alla stragrande maggioranza dei lettori italiani.

La storia di Per Elisa (tornerò in seguito sul significato del titolo) racconta la storia di Magda — o Magdolna, come la chiamano i genitori e gli insegnanti, o Dódi come viene chiamata affettuosamente in famiglia — dall’infanzia e la sua vita scolastica sino al diploma di maturità.

Magda appartiene ad una famiglia della migliore borghesia della cittadina di Debrecen ed i suoi genitori fanno di tutto perchè la loro vivace e intelligente figlia sia felice ed abbia un’infanzia eccezionale.

La Szabó tratteggia bellissimi ritratti dei genitori.

Del padre che — avendo Magda imparato da sola a scrivere ad appena tre anni — insegna alla bimbetta la poetica e la metrica latina facendola esercitare con i piedi metrici più bizzarri e parlando con lei in latino.

Della madre, ex pianista e grande    narratrice e improvvisatrice  di favole che “rigirava l’universo con una mano […] A volte registro intimorita qualche commento dei miei lettori, perchè so che non è indirizzato a me: io, quando parlo ai bambini, con l’inconscio sto semplicemente dando voce alle antiche parole di mia madre, e se riesco a volare, sono le sue ali spezzate che supportano il soggetto”. Per assecondare il gusto della bambina la madre arriva persino a modificare sia le fiabe tradizionali che le storie della Bibbia.

Dopo la prima guerra mondiale, gli Szabó decidono di adottare una bambina di quattro anni, Cécilia Bogdán, un’orfana i cui genitori sono morti durante la fuga dalla Voivodina nel nuovo Stato della Jugoslavia costituito dopo il Trattato del Trianon.

Cécilia, “l’orfana del Trianon” che tutti chiamano semplicemente Cili all’inizio viene accolta malissimo dalla sua coetanea Magdolna che, gelosa, vede in lei una rivale e certo non aiuta il fatto che le due bambine siano completamente opposte, fisicamente ma ancor di più per il carattere.
Cili è biondissima, timida, riservata; si rivelerà molto brava in matematica, molto musicale e con una bella voce da soprano; Magda è bruna, vivacissima, pronta ad apprendere, schietta ed estroversa. Dopo poco tempo Magda però non solo accetta Cili, ma le si affeziona immensamente; le due diventano inseparabili e si amano profondamente come due vere sorelle supportandosi e sostenendosi a vicenda.

Avvenne il miracolo, Oreste trovò il suo Pilade, Achille il suo Patroclo, io la sorella dalla cui perdita non mi sarei mai più ripresa

Magda non è semplice da gestire. A scuola incontra molte difficoltà; ai suoi insegnanti, molto conservatori, la ragazzina non piace.

Il sapere precoce della bambina non ottiene ammirazione e riconoscimenti nè dagli altri membri della famiglia, a cominciare da Béla, lo zio prete “che il mio fresco sapere faceva addirittura indignare” e nemmeno dalla maggior parte degli insegnanti. A scuola, infatti, le sue risposte alle interrogazioni “invece che con lodi erano accolte con silenziosa disapprovazione”.

Essendo cresciuta in un ambiente familiare intellettualmente molto stimolante ed avendo acquisito davvero precocemente un’educazione classica ancora da bambina, Magdolna si trova di fatto ad essere in continua contrapposizione con la maggior parte degli insegnanti che seguono in modo bacchettone le tradizioni della scuola che frequenta, l’Istituto di Educazione Femminile Riformato Gedeon Dóczi.

La mia insolita cultura dell’antichità […] non mi arrecò sempre vantaggio, non nei miei anni di scuola, e nemmeno durante il regno del terrore dopo la guerra perduta; […] i critici cresciuti secondo la dottrina zdanoviana, ferocemente sprezzante verso la cultura latineggiante, mi accusarono di studiare latino all’università a causa della mia inconscia fuga innanzi al marxismo

Con un simile background culturale, è inevitabile che gli anni della scuola risultino pieni di frustrazioni, disillusione e rabbia perchè Magda si ribella, è perfettamente consapevole delle sue conoscenze e capacità nelle materie scolastiche (in particolare quelle letterarie, classiche ed umanistiche in genere) e del suo non comune talento nello scrivere e nel raccontare storie.

Magdolna si ritrova anche emarginata ed esclusa dal gruppo delle compagne di scuola; è la sua prima esperienza di quella che la Szabó chiama “la danza dell’interferenza”:

Era la prima volta che venivo esclusa da qualche comunità. Non sapevo che questa sarebbe stata soltanto un’ouverture, il primo, il primissimo cerchio sul grande specchio d’acqua che era rappresentazione emblematica della mia vita; per la prima volta vi avevano gettato una pietra, dando inizio alla danza dell’interferenza che durerà fino alla mia morte, e che ridarà nuovamente immobilità alla superficie sconvolta dell’acqua soltanto quando non sarò più viva

Questo ritratto della micro-storia di Debrecen e dell’intelligencja calvinista, con le sottili interpretazioni della maturazione delle menti e della psiche delle ragazzine da parte dei genitori, i loro comportamenti, formano una realistica e anche divertente sequenza di eventi.

Per ragazzine che sono state allevate secondo principi intellettualmente liberali, lo stimolo per acquisire la conoscenza/imparare che è stato fornito dalla famiglia non può che entrare in rotta di collisione con i tentativi della scuola di educarle secondo i dettami di una stretta educazione religiosa.

I romanzi, i libri che a Magdolna e a Cili è stato permesso in famiglia di leggere hanno risvegliato in loro un precoce interesse verso il sesso, nasce l’amore.

Dall’appassionata prosa della Szabó emerge dunque la figura di un’allieva dall’immaginazione molto ricca, profondamente versata nel mondo classico antico, coraggiosamente tesa ad emergere, e che fa la sua prima esperienza con l’amore nel momento in cui, appena diplomata, sta per lasciare la scuola di Debrecen per andare a studiare a Vienna.

I molti episodi che si succedono in Per Elisa riflettono però non solo l’acutezza dell’approfondimento psicologico del racconto ma anche la meticolosa descrizione di un certo contesto storico. Il libro ci offre un ampio panorama di frustrazioni individuali e sociali nell’Ungheria post-Trianon, fornendo attraverso l’emergere della coscienza sociale e politica nella giovane Magdolna il senso dei processi che in Ungheria hanno poi condotto alla Seconda Guerra mondiale.

Magda SzaboL’esempio più significativo del libro è, in questo senso, il modo in cui le ragazze del ginnasio sono invitate corrispondere per lettera con cittadini tedeschi con il pretesto di agevolare ad entrambe le parti il perfezionamento della conoscenza rispettivamente del tedesco e dell’ungherese.

Magdolna, sempre entusiasta e pronta a gettarsi nelle nuove iniziative coglie al volo l’opportunità offertale e — nonostante la preoccupazione e i dubbi manifestati dal padre che vede nell’iniziativa proposta dal governo ungherese e da quello tedesco qualcosa di politicamente molto poco chiaro e addirittura inquietante — si lancia in uno scambio di lettere con un certo Fritz Lehner, commerciante di Berlino salvo poi scoprire, tempo dopo, che i dubbi del padre erano fondati e che quello che era stato presentato come un innocente ed utile mezzo per perfezionare la conoscenza linguistica non era che una manovra politica di avvicinamento al Reich tedesco.

Magda scopre infatti che a Berlino non esiste alcun commerciante di nome Fritz Lehner e di aver scambiato lettere con il Capitano Lehner, il cui vero obiettivo era di acquisire informazioni sull’Ungheria post Trianon.

Narrato in prima persona singolare e strutturato con un andamento temporale non lineare ma che procede con una serie continua di flash-back e soprattutto di flash-forward, il libro fornisce molte chiavi di lettura per comprendere la genesi dei romanzi (almeno, di quelli che sino ad oggi sono stati tradotti in italiano), i loro temi ed i loro personaggi. La Szabó dice chiaramente a chi si è ispirata, ad esempio, per l’ Abigail del romanzo omonimo o per la Blanka di Via Katalin o la Caieta de Il momento. Vi troviamo anche la fonte di alcuni nodi tematici che ricorrono spesso nei testi narrativi. Leggendo Per Elisa ho avuto la conferma della giustezza di alcune mie intuizioni riguardo al tema che sarà ricorrente e centrale in molti romanzi della Szabó (penso in particolare a La porta, La ballata di Iza e a Via Katalin) e cioè quello del far del male a qualcuno senza averne avuto l’intenzione ma anzi, al contrario, pensando di fare il suo bene.

In questo libro scopriamo una famiglia Szabó straordinaria e soprattutto una Magda bambina e adolescente che sono sicura nessuno di noi si aspettava.

Per Elisa torna molte volte sul forte legame che c’è tra Cili e Magdolna, legame così stretto da far dire a Magda che insieme formano una sola persona.

Cili divenne una delle quattro colonne portanti della mia vita: se Cili non ci fosse stata, io non avrei vissuto ciò per vivere il quale fui eletta dal destino

Questo legame viene brutalmente spezzato dalla prematura morte di Cili e così, le parole che Magdolna — su richiesta di Cili — ha scritto per il brano Per Elisa di Beethoven — che dà il titolo al libro — costituiscono il filo che percorre e lega la storia delle due sorelle.

“Scrivi un testo per questa melodia, Dódi […] io posso solo improvvisare, ma tu sai davvero scrivere poesie […] questa melodia è così bella: il maestro ha mandato un messaggio a quella ragazza, solo che la sua bacchetta magica di Prospero è il suono, la tua invece è la parola, quindi esprimi tu con le parole quello che lui esprime con le note. Beethoven voleva dire qualcosa del genere, tra le molte altre cose importanti: Io ho servito i tuoi sogni segreti sempre sempre, sempre”

Magda Szabo Debrecen
Alcuni oggetti di Magda Szabó esposti alla scuola riformata Dóczy di Debrecen
(Foto Flickr)
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UN VENDICATIVO FANTASMA CHE PORTA LA TESTA SOTTO IL BRACCIO

Nabokov_schede_Laura
Le schede autografe di
L’originale di Laura di Vladimir Nabokov

Nel romanzo di Vladimir Nabokov La vera vita di Sebastian Knight il fratellastro V.   riordina le carte del defunto grande scrittore Knight:

“Aveva lasciato tutto a me, e in una sua lettera mi incaricava di bruciare alcune delle sue carte. Era formulata in modo così oscuro che all’inizio pensai si trattasse di brogliacci o a manoscritti scartati, ma presto mi resi conto che quelli li aveva distrutti lui stesso molto tempo prima, tranne poche pagine sparse tra altre carte, perchè egli apparteneva a quel raro genere di scrittori i quali sanno che nulla deve più rimanere tranne l’opera compiuta: il libro stampato; che la concreta esistenza del libro è incompatibile con quella del suo spettro, del manoscritto grezzo che ostenta le proprie imperfezioni come un vendicativo fantasma che porta la sua testa sotto il braccio; e che per questa ragione gli scarti di bottega, nonostante il loro valore sentimentale o commerciale, non devono mai sopravvivere”

Vladimir Nabokov, La vera vita di Sebastian Knight

 


La vera vita di Sebastian Knight
fu scritto da Nabokov nel 1940.

Leggere questo brano oggi, dopo il benestare dato dal figlio Dmitri alla pubblicazione postuma delle schede contenenti la bozza del romanzo L’originale di Laura che Nabokov stava scrivendo prima di morire e che aveva chiesto alla moglie Véra di bruciare dopo la sua morte, certo fa riflettere non poco…

Di La vera vita di Sebastian Knight avevo scritto >> qui, di L’originale di Laura   >> qui

IN LOTTA CON LA VERITA’. LA VITA E I SEGRETI DI ALBERT SPEER – GITTA SERENY

Gitta Sereny
Albert Speer e Gitta Sereny a colloquio nel 1978
© Don Honeyman

Gitta Sereny, giornalista e scrittrice che, come lei stessa scrive “[ha] passato gran parte della [sua] vita a studiare l’impotenza morale che oppresse la Germania di Hitler” ha lavorato per dieci anni alla redazione di un libro su Albert Speer, architetto e Ministro per gli Armamenti di Hitler, condannato a Norimberga a vent’anni di reclusione nel carcere di Spandau.

Ne voglio parlare perchè si tratta di un libro veramente notevole — mi ha davvero impegnata a fondo, in questi giorni — che si sviluppa su molti livelli: è un commento critico dei due libri di memorie scritti dallo stesso Speer (il più celebre è pubblicato in italiano con il titolo Memorie del Terzo Reich) ma al tempo stesso ha qualcosa anche della saga familiare.

I personaggi del dramma infatti — la numerosa famiglia di Speer e le fedeli segretarie, in particolare Annemarie Kempf (la Sereny la definisce“donna di impeccabile integrità”) che avendo cominciato a lavorare con lui appena diciottenne gli rimase fedele e lo aiutò immensamente anche durante i lunghi anni di Spandau e fino alla morte di lui — sono costantemente presenti.

Gitta Sereny non perde mai di vista l’obiettivo principale che si è data: cercare di risolvere l’enigma di Speer, le sue scappatoie, la sua angoscia personale, la sua ossessione per lo sterminio degli ebrei. “Il fine principale di questo libro — scrive nell’introduzione — è stato imparare a comprendere Speer”.

A prima vista il libro sembra una biografia. In effetti lo è (anche), perchè si parla della nascita e della giovinezza del giovane Albert nella Germania tra le due guerre, poi della presa del potere — legale! — di Hitler e dell’ascesa folgorante di Speer che si distingue più che per il suo talento artistico — è architetto — per le sue enormi capacità organizzative. Un talento fenomenale che lo porterà ad avere in mano tutta l’economia di guerra del grande Reich.

Non ho certo intenzione — e non sarebbe possibile — raccontare o riassumere questo libro estremamente ricco e complesso, fittissimo di nomi, informazioni, avvenimenti, dati di ogni genere.

Quello che mi sembra importante segnalare è che si tratta di un libro che pur avendo al centro Albert Speer è un potente affresco del periodo più tragico del Novecento (europeo ma non solo) in una ricostruzione che vede l’ascesa di un giovane e brillante architetto in un paese in piena ricostruzione.

Figura particolarissima, quella di Albert Speer.

Nessun altro dirigente del Terzo Reich ha conosciuto un successo analogo al suo, e, per giunta, un doppio successo.

L’ascesa al potere di Hitler che, rapidamente, rimette al lavoro la Germania ottenendo un consenso sempre più dilagante in tutto il Paese significa per il giovane Speer, come per la maggior parte dei tedeschi, l’arresto di una crisi disastrosa che ha messo tutti in ginocchio.

Il giovane architetto appena laureato, ancora senza esperienza nè reputazione incontra per caso Hitler negli anni 30 e a poco a poco, per le sue capacità ma anche per uno strano gioco di seduzione diventa uno dei suoi favoriti, forse addirittura “il” favorito del nuovo padrone della Germania.
Sembra non avere opinioni politiche, c’è solo, fortissima, questa fascinazione esercitata nei suoi confronti da quest’uomo che nonostante l’iniziale disprezzo dimostratogli dall’aristocrazia ha rimesso in piedi la Germania, rimanendo completamente sedotto in un rapporto che Joachim Fest ha definito “un platonico rapporto omoerotico”.

Albert Speer con Hitler

Speer si ritrova, all’inizio con una piccolissima equipe, nel mezzo di questo maelstrom… Albert, gli altri architetti dello studio, le segretarie, sono giovani, brillanti, hanno orari e ritmi di lavoro pazzeschi, ma essi costruiscono, ricostruiscono… per loro Hitler è un genio.

Diventa l’architetto personale di Hitler, il depositario dei suoi più deliranti sogni di grandezza. Negli allestimenti delle grandi tribune dalle quali parla il Fuhrer, nella costruzione della nuova Cancelleria del Reich o nel progetto per la costruzione di una “nuova Berlino” Speer si fa traduttore di questa architettura colossale che con il passare degli anni si fa sempre più megalomaniaca.

Speer and Hitler

Albert  Speer e  Hitler
Nel 1942 Speer viene nominato Ministro per gli Armamenti e delle Munizioni (nel 1943 di tutta la produzione di guerra della Germania).

In questo ruolo Speer dispiega alla grande tutto il suo genio di tecnocrate e un enorme talento organizzativo mobilitando per la guerra totale le risorse dell’impero nazista giungendo al punto da scontrarsi con i Gauleiter e alla fine persino con lo stesso Hitler negli ultimi disastrosi mesi di guerra opponendosi al Fuhrer e rifiutandosi di obbedire ai suoi deliranti ordini di fare della Germania “terra bruciata”.

Bruno Ganz  Heino Ferch
Hitler (Bruno Ganz) e Speer (Heino Ferch)
nel film La caduta. Gli ultimi giorni di Hitler
regia di Olivier Hirschbiegel (2004)

Speer non è un estremista nè un fanatico, durante la guerra gli uffici del suo Ministero utilizzano persino ebrei o persone ricercate. Speer è un amministratore, un organizzatore. Utilizza tutti i suoi mezzi, il suo talento, le sue capacità manageriali per rispondere ai bisogni della Germania in guerra… giungendo anche ad utilizzare — visto il disperato bisogno di manodopera determinato anche soprattutto dal fatto che la maggior parte degli uomini tedeschi è a combattere — prigionieri di guerra, persone internate nei campi di concentramento.

Lui ha bisogno di manodopera; ma chi (le SS) e con quali (brutali) mezzi gliela fornisce, in che condizioni vivono e lavorano queste persone (tra di loro ci sono sono anche donne e bambini) non è affar suo…

La consapevolezza di ciò che sta facendo comincia dal ’43 ma gli diviene veramente chiara solo nel 1944: il momento della crisi arriva quando trovandosi a visitare il campo di Dora si rende conto delle spaventose condizioni di vita dei prigionieri che, nelle caverne sotterranee costruiscono i missili di Von Braun. Rimane profondamente colpito da quello che ha visto e prova ad opporsi ad Hitler al punto tale che — dice — nel 1944 pensa persino di ucciderlo… ma non riesce ad affrancarsi dal fascino che Hitler esercita su di lui.

A Norimberga, Speer è il solo tra gli imputati che accetta il peso del male assoluto che ha consumato la Germania durante dodici anni. Questo gli salva la vita e durante i vent’anni di Spandau non fa che riflettere sulle sue azioni passate, scrivendo memorie ed innumerevoli lettere che riesce a inviare all’esterno con l’aiuto di alcune guardie compiacenti.

All’uscita da Spandau, nei suoi libri (in particolare in Memorie del Terzo Reich) regola i conti con l’uomo della sua vita, confessa il suo accecamento, ripete il suo mea culpa.

Allo stesso tempo, fa di tutto per dare di se stesso l’immagine di un tecnico apolitico risucchiato dal vortice di una dittatura criminale. Continua a ripetere di non aver saputo mai nulla dello sterminio degli ebrei ma che avrebbe potuto sapere e che per questo, ed in questo si riconosce colpevole.

“La domanda: che cosa aveva saputo dello sterminio degli ebrei? […] la sua risposta era sempre stata la stessa: avrebbe dovuto e potuto sapere, ma non aveva saputo” (p.752)

Bisogna credergli? Il lavoro della Sereny è importante perchè è quello di una storica che nel corso di molti anni di interviste e di colloqui con Speer lo mette di fronte alle sue molte contraddizioni. Egli sembra accettare e addirittura cercare questo lavoro di introspezione ma a volte si blocca. Sapeva?

Le pubblicazioni di Speer vengono accolte con enorme interesse e… dividono: Speer è odiato dai nostalgici nazisti della sua generazione che lo accusano di tradimento e di “sputare sulla mano di chi l’ha creato”, apprezzato dai giovani tedeschi, ma sempre e comunque incalzato con quell’unica, fondamentale domanda sulla quale tutti, prima o poi, vanno a parare e cioè: “E’ davvero credibile che uno nella sua posizione non sapesse nulla dello sterminio degli ebrei?”

La lunga ricerca di Gitta Sereny ha proprio per obiettivo quello di sondare e verificare questa tesi di “colpevole ignoranza”.

Nel dialogo con Speer durato parecchi anni e fino alla morte di lui nel 1981 si percepisce la simpatia ma anche l’assoluta mancanza di compiacenza.

Il risultato è un testo densissimo in cui ogni capitolo è introdotto da un estratto dagli atti del processo di Norimberga, un libro che più che una biografia è una sorta di analisi, un’istruttoria rivolta a giudicare un uomo più che volta alla comprensione di un processo storico.
E’ una  lettura che appassiona anche se ancora nelle ultimissime pagine la Sereny — che anche dopo la morte di Speer non ha smesso di intervistare testimoni dell’epoca e consultare archivi in Europa e in America — non riesce a dare una risposta definitiva.

Pagina dopo pagina Speer si rivela una personalità complessa che seduce e manipola con una sconcertante facilità, capace di depistare e di sviare in un labirinto di contraddizioni, di ammissioni parziali e di cose non dette, nel suo probabile rimorso.

Nonostante tutti gli sforzi di Gitta Sereny, Speer nella sostanza non va al di là di quello che afferma da decenni. Fino alla morte, afferma in ogni modo una colpevolezza “generale” e di principio per sfuggire ad ogni interrogativo sull’implicazione concreta e personale e sul ruolo effettivo da lui sostenuto nella tragedia.

“L’ambivalenza tra la necessità morale di affrontare il senso di colpa, lungamente represso, generato dalla terribile consapevolezza e il disperato bisogno di negarla — o bloccarla — fu il grande dilemma della sua vita, e lo dominò dal processo di Norimberga fino a poco prima della sua morte” (p.22)

Albert Speer 1978
Albert Speer alla Fiera del Libro di Francoforte del 1978 con il suo libro Architettura

 

La “lotta con la verità”, per riprendere il titolo, era al di sopra delle forze di un uomo del quale si potrebbe dire, nel migliore dei casi, che fu prigioniero della sua doppia riuscita. Lo Speer nazista aveva fatto passare come perdite e profitti i crimini di un regime che sprofondava nella disfatta perchè la curva discendente di questo regime coincideva con la crescita di potere dello stesso Speer. In quanto allo Speer del dopoguerra, il successo della sua tesi della “colpevole ignoranza” gli ha reso più facile evitare un serio esame di coscienza. Forse, in questo, ha rappresentato anche uno specchio in cui ha potuto riconoscersi tutta una generazione di tedeschi.

La mia opinione, alla fine di queste fittissime settecento e passa pagine è che Speer non abbia consentito a se stesso di “sapere”. Accollandosi un lavoro incredibile (per anni ha lavorato circa venti ore al giorno, senza quasi mai vedere la famiglia e i suoi numerosi figli) non ha pensato altro che ad organizzare e produrre, evitando accuratamente (consapevolmente o meno non è dato a nessuno saperlo) di interrogarsi sulle terribili conseguenze di molte sue decisioni e richieste: penso in particolare alla richiesta di sgombro degli alloggi di Berlino che guarda caso erano tutti abitati da ebrei e ad alle continue richieste di manodopera per le fabbriche di armamenti, richieste che venivano rivolte alle SS e che le SS soddisfacevano inviando a Speer centinaia di migliaia di deportati dai campi di concentramento).

Inoltre, anche se la Soluzione Finale veniva mantenuta più segreta possibile anche per gran parte delle più alte cariche dello Stato non è possibile che Speer, specialmente dopo la famigerata conferenza di Posen del 6 ottobre 1943 in cui Himmler pronunciò il suo terribile discorso in cui spiegava a chiare lettere il programma dettagliato dello sterminio, egli abbia potuto ignorare cosa stava accadendo e cosa sarebbe accaduto agli ebrei d’Europa.

Gitta Sereny scrive, verso la fine del suo libro:

” anche se forse non aveva saputo delle camere a gas prima di Norimberga e anche se, prima di allora, come mi disse, non aveva potuto raffigurarsi visivamente l’assassinio di intere famiglie, credo che dopo Posen — fosse o non fosse stato effettivamente presente al discorso di Himmler — egli fosse consapevole del genocidio degli ebrei, incluse le donne e i bambini, pianificato da molto tempo e quasi completato. E dunque, per quanto egli fosse lontano da questo eccidio sistematico, una volta che ne venne a conoscenza e tuttavia continuò a lavorare per Hitler, egli divenne un complice attivo del crimine” (p.769)

Il lavoro di ricerca, il rigore, il metodo con cui il lavoro di Gitta Sereny è stato condotto è straordinario. Ogni affermazione, ogni frase di Speer è messa sistematicamente a confronto con altre fonti (d’archivio, testimoniali) senza una presa di posizione aprioristica.

In lotta con la verità è libro affascinante su un’epoca orribile ed un uomo tanto potente quanto cieco, un testo che richiede pazienza e molta attenzione, ma decisamente appassionante e coinvolgente come e molto più di tanti romanzi.

Ghitta Sereny   Gitta Sereny

Gitta SERENY, In lotta per la verità. La vita e i segreti di Albert Speer (tit. orig. Albert Speer: his battle with the Truth), traduz. Massimo Birettari, Brunello Lotti e Maria Barbera Piccioli, p. 825, Rizzoli, 2009, ISBN 9788817028714

La foto di Gitta Sereny è © Don Honeyman

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