LENZUOLA GUALCITE

Titano, la luna di  Saturno

“…dove un’opera si rivela commisurabile alla sua parafrasi, là non ci sono lenzuola gualcite, la poesia, per così dire, là non ha pernottato”

Su Conversazione su Dante, sulle   folgoranti osservazioni di Mandel’stam sulla Commedia, sul grande amore di questo grande russo per la lingua italiana che egli  definisce “la più dadaistica delle lingue romanze” in cui “il baricentro dell’attività discorsiva [s’è] spostato verso le labbra, verso l’esterno della bocca”, verso questa lingua italiana che lo colpisce con il   “carattere puerile” della sua fonetica e la sua “stupenda infantilità” avevo cominciato a scrivere un post.

Per fortuna, a metà strada mi sono imbattuta in rete in questo articolo di Eusebia Perrotto che dice già e molto meglio di quanto avrei saputo fare io esattamente le cose che io stessa avrei voluto scrivere.

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L’immagine in alto è una foto di Titano, la luna di Saturno. (Fonte)

DALLA PARTE DI MARCEL – EVA TOMEI

Eva Tomei

Cliccando sull’immagine potrete vedere alcune splendide foto che la fotografa Eva Tomei ha scattato in molti luoghi citati ne Alla ricerca del tempo perduto di Marcel Proust.

Queste bellissime foto sono in mostra a Roma fino al 2 luglio alla galleria Hybrida Contemporanea di via Reggio Emilia 32B.

Gli scatti di Eva Tomei sono anche raccolti nel libro ‘Dalla parte di Marcel’ edito da Postcart.

Per saperne di più leggere qui e qui

L’EPOCA E I LUPI – NADEZDA MANDEL’STAM

Nadezda Mandel'stam
Nadezda Jakovlevna Chazina Mandel’stam

Iosif Brodskij nel 1981 scrisse di lei:

“Degli ottantuno anni della sua esistenza, Nadezda Mandel’stam ne ha vissuti diciannove come moglie e quarantadue come vedova del più grande poeta russo di questo secolo, Osip Mandel’stam. Il resto fu infanzia e adolescenza”

Il manoscritto del primo volume di memorie, redatto da Nadezda intorno al 1964 e cioè quando lei aveva 65 anni e Osip era morto da ventisei arrivò clandestinamente negli Stati Uniti con il semplice titolo “Ricordi”.

Venne pubblicato per la prima volta in inglese con il titolo Hope against Hope e poi in francese Espoir contre Espoir. Sia il titolo inglese che quello francese significano Speranza contro Speranza.

In russo, Nadezda vuol dire Speranza.

Qui in Italia venne pubblicato per la prima volta da Mondadori nel 1971, poi scomparve dagli scaffali ed è stato finalmente ripubblicato nel 2006 dalla casa editrice Liberal con il titolo L’epoca e i lupi.

Il racconto di Nadezda inizia nel 1934, quando Mandel’stam venne arrestato per la prima volta. Nadezda evoca poi i tre anni di confino cui Osip venne condannato e dove lei lo seguì volontariamente.

Prima a Cerdyn e poi Voronez.

Il racconto prosegue con il brevissimo intervallo di tempo intercorso tra lo scadere del periodo di confino e il secondo arresto del 1938 (il periodo della Grande Illusione) e si chiude con la morte di Osip quasi certamente avvenuta nel vagone del treno che lo portava in un gulag della Kolyma, in un certo giorno del 1938.

Nel libro, all’interno di questo quadro ed arco temporale, Nadezda Mandel’stam, che quasi mai parla di se stessa e utilizza poco o nulla la parola “io” non parla solo di se e di Osip: evoca nel modo più vivo tutta una intera generazione di intellettuali e di politici.

Nelle pagine di Nadezda troviamo tutti quelli che all’epoca contavano qualcosa: da Bucharin ad Anna Achmatova, da Pasternak a Sklovskij, da Belyi a Bulgakov, da Gorkij ad Ehremburg…

Leggiamo della messa del bavaglio e della rapida riduzione al silenzio, negli anni 1920-1930 della parte più viva e feconda della cultura russa del tempo.

“sto parlando del periodo staliniano e le fasi attraverso cui passò Mandel’stam servono ad illustrare il processo di asservimento della letteratura; altrettanto accadeva in altri settori, in forme un po’ diverse, naturalmente, ma la sostanza era sempre la stessa” (p.177)

Achmatova Mandel'stam
Mosca, 1933-34.
I primi tre da destra sono Anna Achmatova, Osip e Nadezda Mandel’stam.
(Fonte)

Il nuovo Stato aveva cominciato a imprigionare e ad uccidere dal 1918, quando era stato aperto il primo campo in cui rinchiudere quelli che “non sono dei nostri”.

Nel 1934 la categoria dei “non dei nostri” si è già ingrandita parecchio. Dapprima si cerca di trovare una motivazione, per gli arresti: se chi è arrestato è colpevole io, che non ho commesso alcuna colpa, non verrò arrestato, è l’illusorio ragionamento.

Arriva però il momento in cui Anna Achmatova, Osip e Nadezda sono costretti a comprendere l’inconcepibile: si arrestano le persone anche senza alcuna motivazione. Basta essere qualcuno. O non sorridere abbastanza, e dunque si può esser sospettati di avere paura, di non approvare il regime.

Tutti si aspettano di venir prelevati da un momento all’altro.

Le notti trascorrono insonni (gli arresti avvengono di notte). Ogni automobile che si ferma davanti al condominio può essere “quella” e si tira un sospiro di sollievo se l’ascensore non si ferma al piano in cui si abita.

Ma se questo vuol dire che per questa volta è andata, vuol dire anche che la “cosa” è solo rimandata. Prima o poi succederà anche a noi.
Molti arrivano al punto di dormire con la valigia già pronta, per non farsi trovare impreparati quando “loro” verranno…(“Non ci si riprende più, dalla paura. Chi ha respirato questa atmosfera è perduto, anche se ha salvato la vita”).

Per Mandel’stam arrivano una notte di maggio del 1934.

Osip se lo aspettava. Nel suo sacco (bisogna esser sempre pronti!) aveva messo anche un copia del suo amatissimo Dante, comprato apposta in una edizione piccola e non ingombrante proprio per essere portato in carcere o chissà dove.

Nel momento cruciale però perde il suo Dante di carta, ma non importa.

Osip    la Divina  Commedia la sa tutta a memoria.

Osip ha conosciuto l’Europa, è stato in Francia, in Italia ma ha scelto di tornare in Unione Sovietica, per fedeltà a questa terra in cui si sta facendo la Storia. Ama ancora la Rivoluzione come se fosse una religione, ma ha anche capito che sarà sempre uno dei “non dei nostri”.

Ha scritto una poesia su Stalin, i suoi “occhiacci da blatta”, le sue “tozze dita [che] come vermi sono grasse”. La legge a pochi amici. Un suicidio, perchè Stalin ordina che il poeta Mandel’stam sia “isolato, ma conservato in vita”. Viene condannato a tre anni di esilio in un villaggio di provincia. Una pena benevola (considerati i tempi). Ma i Mandel’stam scopriranno anche troppo presto il vero significato di quella formula “isolare, ma conservare in vita”.

Seguendo le vicende di Osip e Nadezda (che ha seguito volontariamente il marito al confino) scopriamo che migliaia, decine di migliaia di condannati al confino cercano un alloggio, dei mezzi per sopravvivere, un pezzo di pane. Dappertutto si vedono persone che fanno code interminabili, impazziscono, vediamo contadini spogliati di tutto, aristocratici espulsi da quella che fu San Pietroburgo, ma anche l’annientamento di Quadri del Partito, di scrittori, di operai.

Dopo i tre anni di confino Mandel’stam — al quale viene proibito di tornare nella sua casa di Mosca — è messo nell’impossibilità di trovarsi un qualsiasi lavoro retribuito. Il solo fatto di stringergli la mano può portare dritti in prigione. I Mandel’stam riescono a sopravvivere solo grazie all’elemosina di pochissimi amici fidati che ogni tanto — rischiando grosso — allungano loro qualche rublo. Osip e sua moglie sono veri e propri mendicanti.

Eppure, e nonostante tutto, Osip è felice e le pagine in cui Nadezda descrive la sua gioia di vivere, il suo rifiuto di suicidarsi (Nadezda più volte gli propone di suicidarsi entrambi) sono forse tra le più difficili da comprendere, per noi.

“che hai da lamentarti?” mi diceva [Osip] “Solo da noi hanno rispetto per la poesia, visto che uccidono in suo nome. In nessun altro paese uccidono per motivi poetici” (p.202)

E infine, nel 1938, ecco scattare la trappola. Osip Mandel’stam viene arrestato di nuovo.

Questa volta lo mettono su un treno diretto ad un gulag. Osip morirà su quel treno, ma a Nadezda — come a tutte le mogli di detenuti — non viene comunicato nulla sulle circostanze di questa morte.

Questo era il vero significato della formula “isolare, ma conservare in vita”:

“l’isolamento prometteva non la conservazione ma la solita liquidazione, eseguita però alla chetichella, senza testimoni e ‘nel momento adatto’ ” (p.88)

Stalin faceva cancellare dai libri i nomi di tutti coloro che venivano liquidati, faceva di tutto per uccidere anche la memoria.

Ma Stalin non è riuscito a cancellare Osip Mandel’stam dalla memoria dell’umanità e questo, grazie soprattutto alla memoria di Nadezda.

Morto il marito, per venticinque anni e contro ogni speranza (ricordiamo che Nadezda vuol dire Speranza) la vedova Mandel’stam riesce a sfuggire all’arresto spostandosi continuamente da un villaggio all’altro.

“A salvarmi dall’arresto fu la mancanza di un alloggio” (p.175), “per me non si trovò una trappola e così, senza casa, fui dimenticata, e mi sono salvata e ho salvato i versi di Mandel’stam” (p.176)

Nadezda è aiutata a volte da operai, altre volte denunciata da una padrona di casa. Ricorre a mille stratagemmi per rendersi invisibile a spie e delatori, vive della carità e della generosità della Achmatova, anche lei in pericolo costante ed anche lei perseguitata dal regime e ridotta in povertà (“Non si passa indenni attraverso una vita simile. Il nostro equilibrio psichico è turbato…”)

Nadezda MandelstamPer venticinque lunghi anni i manoscritti di Osip che Nadezda ed Anna sono riuscite a salvare dalle grinfie dei cekisti sono rimasti nascosti in un luogo sicuro. Per venticinque anni Nadezda e pochi amici (Anna Achmatova soprattutto) hanno ripetuto a memoria le poesie di Osip di cui non esisteva più il testo scritto.

Se l’opera di Osip Mandel’stam è riuscita a sopravvivere, questo è dovuto al coraggio ed al costante esercizio di memoria di Nadezda. Trascrivere le poesie sulla carta sarebbe stato un suicidio.

L’epoca e i lupi è un libro in cui sfilano innumerevoli personaggi, ma in cui grande protagonista è la poesia di Osip:

“per me, in quella notte di maggio, si profilò un […] compito, ed è per esso che ho vissuto e continuo a vivere. Modificare il destino di Osip Emil’evic era al di sopra delle mie possibilità, ma sono invece riuscita a salvare una parte dei suoi scritti e molti ne ho conservati nella memoria. Io sola potevo salvarli” (pp.31-32)

“Bisogna lottare contro l’oblio anche a costo della morte” diceva Osip Mandel’stam. E Nadezda, in quell’ “epoca pre-gutenberghiana” come la chiamava l’Achmatova — in cui lasciare qualcosa di scritto era pericolosissimo, non ha altra scelta, per lottare contro l’oblio e perchè le poesie del marito non vengano perse per sempre, che ripeterle costantemente, incessantemente nella sua memoria.

“Di notte, mentre correvo su e giù per l’enorme reparto a sistemare le macchine, mormoravo versi. Dovevo imparare tutto a memoria […] La memoria era un mezzo supplementare di custodia, e mi è servita moltissimo nella mia difficile impresa” (p.421)

Le memorie di Nadezda Jakovlevna Chazina Mandel’stam sono un grande libro.

Sono innanzitutto la testimonianza di una donna che ha amato, aiutato, supportato, seguito Osip Mandel’stam nella sua straordinaria lotta di un Davide contro il gigante Golia.

Sono una descrizione degli anni più drammatici e fecondi di colui che è ormai unanimamente considerato come il più grande poeta russo del XX° secolo ma non sono certo semplicemente classificabili come i ricordi di una “vedova di uno scrittore”.

Sono una testimonianza eccezionale sull’asfissia della cultura russa che ha accompagnato la prese del potere da parte di Stalin.

Lucidissima l’analisi e la critica alla dottrina del determinismo storico che “Ci aveva privati di ogni volontà e di ogni libertà di giudizio” (p.66) e che aveva sprofondato un’intera generazione nella paura, in un “sonno ipnotico”, nel “letargo“, nell’ “ipnosi” causato dalla “peste psicologica” (p.70) che aveva accompagnato il passaggio da quello che Anna Achmatova chiamava “il periodo vegetariano” del confino a quello in cui “dalla prigione […] si stendevano due sole strade: verso il lager o verso l’altro mondo” (p.273).

Precisa, sarcastica, mordace, Nadezda Mandel’stam è un giudice istruttore cui nulla sfugge; il suo giudizio sul comportamento degli intellettuali è spietato e può anche apparire cattivo perchè pochi si salvano, ai suoi occhi. Ma per quei pochi ha parole di grande tenerezza ed affettuosità.

L’epoca e i lupi è molto, molto più che una testimonianza su Mandel’stam.

Lo comprese molto bene la grande giornalista americana Martha Gellhorn che, avendo trovato per caso il libro di Nadezda in una biblioteca pubblica ed avendo cominciato a sfogliarlo “con una curiosità un po’ tiepida” subito

“Ne fui elettrizzata, e lo lessi tutto di un fiato, interrompendomi solo per mangiare e per dormire. Nessun altro testo mi aveva spiegato così bene come fosse la vita, un giorno dopo l’altro, tra paura ed afflizione, sotto il terrore di una dittatura. Tanti erano i pregi di quel libro che non sapevo da dove cominciare. Il coraggio di quella donna? La potenza dei suoi ricordi? Lo stile nitido e risoluto che esprimeva senza sforzo quello che l’autrice voleva dire?”

>>> Martha Gellhorn, Uno sguardo alla Grande Madre Russia, in In viaggio da sola e con qualcuno <<<

L’opera di Nadezda è un vero e proprio processo istruito nei confronti di una intera epoca, di una intera generazione che, malata della “peste psicologica” capitola davanti all’idolo che la Storia ha imposto alla generazione della Rivoluzione.

Nadezda demolisce anche il mito degli Anni Venti:

“I sospiri idilliaci intorno agli anni Venti sono una leggenda […] In realtà gli anni Venti sono il periodo in cui furono poste tutte le premesse del nostro futuro: la dialettica artificiosa, la sconsacrazione dei valori, il desiderio di unanimità e sottomissione” (p.213)

Una piccola (apparente) divagazione: sono rimasta molto impressionata da quanto questo giudizio della Mandel’stam sia sostanzialmente identico a quello che, su quegli anni, esprime Vasilij Grossman (il quale, ricordiamolo tra parentesi, venne anche lui sottoposto dal regime alla formula “isolare, ma mantenere in vita”) nel capitolo dedicato a Lenin in Tutto scorre e a quello che (mutatis mutandis) in Hammerstein, o dell’ostinazione fornisce Hans Magnus Enzensberger a proposito degli anni Venti nella Germania della Repubblica di Weimar…

Concludo utilizzando ancora una volta parole di Brodskij:

“I suoi libri […] non erano tanto memorie e guide alla vita di due grandi poeti […] i suoi libri illuminavano la coscienza della nazione” .

“Una fragile donna di sessantacinque anni si rivela capace di rallentare — se non di scongiurare, in una prospettiva più lunga — la disintegrazione culturale di un’intera nazione. Le sue memorie sono qualcosa di più che un testimonianza dei suoi tempi; sono un modo di vedere la storia alla luce della coscienza e della cultura”

Nadezda Mandel'stam
L'epoca e i lupi

Nadezda MANDEL’STAM, L’epoca e i lupi
Traduz. e note di Giorgio Kraiski, Prefazione di Vittorio Strada, p.523
Ed. Fondazione Liberal, 2006

Qualche link di approfondimento

  • Nadezda Jakovlevna Mandel’stam >>
  • Il libro >>
  • Da ascoltare: Serena Vitale su Radio3 ci parla di Nadezda Mandel’stam >>
  • Varlam Salamov, Correspondance avec Alexandre Soljenitsyne et Nadejda Mandelstam >>
  • Otto poesie di Mandel’stam (a cura di Fiamma Giuliani) sul sito Fili d’Aquilone >>
  • Stralci dai Taccuini di Voronez di Osip Mandel’stam >>

N.B. Le citazioni di Iosif Brodskij sono tratte da “Nadezda Mandel’stam. Un necrologio” in Fuga da Bisanzio, Adelphi.

JOSÉ SARAMAGO

Frecuentemente me preguntan que cuántos años tengo… ¡Qué importa éso!  

Tengo la edad que quiero y siento. La edad en que puedo gritar sin miedo lo que pienso. Hacer lo que deseo, sin miedo al fracaso, o lo desconocido. Tengo la experiencia de los años vividos y la fuerza de la convicción de mis deseos.

¡Qué importa cuántos años tengo! No quiero pensar en ello. Unos dicen que ya soy viejo y otros que estoy en el apogeo.

Pero no es la edad que tengo, ni lo que la gente dice, sino lo que mi corazón siente y mi cerebro dicte.

Tengo los años necesarios para gritar lo que pienso, para hacer lo que quiero, para reconocer yerros viejos, rectificar caminos y atesorar éxitos. Ahora no tienen por qué decir: Eres muy joven… no lo lograrás.

Tengo la edad en que las cosas se miran con más calma, pero con el interés de seguir creciendo. Tengo los años en que los sueños se empiezan a acariciar con los dedos, y las ilusiones se convierten en esperanza.

Tengo los años en que el amor, a veces es una loca llamarada, ansiosa de consumirse en el fuego de una pasión deseada. Y otras un remanso de paz, como el atardecer en la playa.

¿Qué cuántos años tengo? No necesito con un número marcar, pues mis anhelos alcanzados, mis triunfos obtenidos, las lágrimas que por el camino derramé al ver mis ilusiones rotas… Valen mucho más que eso.

¡Qué importa si cumplo veinte, cuarenta, o sesenta! Lo que importa es la edad que siento.

Tengo los años que necesito para vivir libre y sin miedos. Para seguir sin temor por el sendero, pues llevo conmigo la experiencia adquirida y la fuerza de mis anhelos.

¿Qué cuantos años tengo? ¡Eso a quién le importa!

Tengo los años necesarios para perder el miedo y hacer lo que quiero y siento.
José Saramago

Premio Nobel Litaratura 1998

 

(Sono sicura   non ci sia alcun bisogno di tradurre. Certe cose le comprendiamo tutti)

IL MIO PRIMO TROLLOPE

Heywod Hardy
Heywod Hardy (1843 – 1933)
The Start of The Hunt

Finito ieri di leggere il mio primo romanzo di Anthony Trollope.

Per avvicinarmi a questo baffutissimo e barbutissimo signore vittoriano mi sono mossa con molta cautela e sono stata bene attenta a non scegliere un romanzo che facesse parte di un ciclo.

Anthony TrollopeNon volevo esser costretta — qualora il signore in questione mi avesse annoiata o delusa — a proseguire arrancando tomi dopo tomi o a mollarlo di punto in bianco.

Questa è, infatti, cosa che destesto fare: mi arrendo solo in casi davvero estremi e disperati…

Ma Orley Farm (è questo il romanzo che ho scelto) mi ha conquistata, trovo che qui in Italia Trollope sia sino ad oggi ingiustamente rimasto nell’ombra, e trovo che sbagliassero di grosso Henry James e Virginia Woolf ad arricciare il naso, quando parlavano o scrivevano dei suoi libri, anche se capisco perfettamente — conoscendo abbastanza bene l’idea di letteratura che avevano sia l’uno che l’altra — il perchè del loro molto tiepido apprezzamento.

Henry James e Virginia Woolf erano grandissimi scrittori con una precisa personalità e convinzioni estetiche e letterarie.

Io invece, che sono soltanto una “common reader” (per dirla con Virginia) posso permettermi il lusso di essere meno fedele e meno ancorata a precisi canoni letterari e quindi ho già arruolato Trollope tra i miei autori preferiti.

Nel mio scaffale mentale l’ho collocato accanto al tedesco Theodor Fontane.

So che può sembrar strano, ma a me sembra che l’inglese e il tedesco abbiano molte caratteristiche in comune: la pacatezza, il ritmo, l’ironia, la capacità di approfondimento psicologico dei personaggi, l’attenzione nei confronti delle figure femminili (bellissimo e complesso, in Orley Farm, il personaggio della protagonista Lady Mason), la sensibilità nei confronti della vita della campagna e della provincia (l’immaginario Barsetshire nel caso dell’inglese Trollope, la realissima Marca del Brandeburgo nel caso del prussiano Fontane)…

Insomma, e per non farla tanto lunga: mi sono messa immediatamente a caccia di tutti i romanzi di Trollope pubblicati in italiano ed in particolare di quelli che costituiscono il “ciclo del Barset”.

Di questo ciclo sono riuscita sino adesso a trovare quattro volumi su sei, e per cominciare a leggere aspetto di averli tutti.

Non ho fretta, non intendo fare una full immersion. Ho capito che Trollope è ormai un amico sul quale posso contare e mi fa piacere sapere di avere a disposizione tanta roba sua, ancora da leggere.

Così come sono contenta di avere ancora qualche Dickens, Marai, Magda Szabò, Zola, Balzac e un’altra decina di autori che sonnecchiano placidi nella mia libreria ed ai quali so di poter ricorrere nei momenti di vacche magre…

Trollope è stato recentemente pubblicato da Sellerio, ma molti volumi (come Lady Anna, ad esempio) risultano già esauriti ed introvabili anche presso la libreria Sellerio che c’è qui a Palermo, a Mondello, dove ieri ho fatto razzia di tutto quello che ancora era disponibile.

Autobiografia compresa.

BAVAGLI(O)

Vladimirsky
B.I. Vladimirsky, Rose per il Compagno Stalin (1949)

Viviamo senza più fiutare sotto di noi il paese,
a dieci passi le nostre voci sono già bell’e sperse,
e dovunque ci sia spazio per una conversazioncina
eccoli ad evocarti il montanaro del Cremlino.
Le sue tozze dita come vermi sono grasse
e sono esatte le sue parole come i pesi d’un ginnasta.
Se la ridono i suoi occhiacci da blatta
e i suoi gambali scoccano neri lampi.
Ha intorno una marmaglia di gerarchi dal collo sottile:
i servigi di mezzi uomini lo mandano in visibilio.
Chi zirla, chi miagola, chi fa il piagnucolone;
lui, lui solo, mazzapicchia e rifila spintoni.
Come ferri di cavallo, decreti su decreti egli appioppa:
all’inguine, in fronte, a un sopracciglio, in un occhio.
Ogni esecuzione, con lui, è una lieta
cuccagna ed un ampio torace di osseta.

>>> Osip Mandel’stam, Ottanta poesie – Einaudi <<<

Costò molto cara, questa poesia, a Mandel’stam.
L’aveva scritta nel 1933, non l’aveva  pubblicata, ma solo letta ad una decina di amici.

Ma il  regime lo seppe, e  il regime sentenziò:

isolare, ma mantenere in vita”.

La tregua (o la grande illusione)  per Osip  e Nadezda   durò tre anni.
Ovvio che alla prima occasione   spedirono  Osip   in un gulag.
Dove crepò nel giro di pochi mesi.

Perchè tutto questo?

Nadezda scrive:

“Osip diceva sempre che da noi arrestano senza commettere sbagli: vogliono distruggere non soltanto un uomo, ma anche il pensiero”

LOST. PER RICORDARE. E LASCIARSELO ALLE SPALLE

Lost S06_The_EndLost S06 The End

Sono arrivata anch’io al termine della lunga avventura di LOST, ho voglia di parlarne e, cari i miei Happy Few… questa volta non sarò breve. Sappiatelo.
Dopo ben sei anni, penso di essermelo guadagnato, il diritto al lusso di non esser breve.

Tanto, voi mica siete obbligati a leggere quello che io scrivo, nevvero?

Si sappia però che in questo post c’è parecchio SPOILER, quindi chi decide di proseguire con la lettura lo faccia a suo rischio e pericolo 

Lost S01 The HatchLost, S01E25

Lost S06 The End

Lost, S06E18

THE END

Comincio proprio da qui, dal Gran Finale, dal “puntatone” intitolato The End.

Un finale che non solo si è rivelato assolutamente spiazzante rispetto alle mie prefigurazioni e aspettative, ma soprattutto di grande impatto emotivo e, non mi vergogno di dirlo, a tratti persino commovente.

Lost mappe Si tratta di un finale “chiuso” o “aperto”?

Lo si può definire “aperto” perchè non fornisce quelle risposte che tutti noi — chi più chi meno — attendevamo, speravamo.

Eppure si tratta, allo stesso tempo, di un finale molto “chiuso” perchè non è vero che non ci siano risposte: la risposta c’è, però è una sola e si indirizza al cuore e non alla mente.

Fa appello al Sentimento, piuttosto che alla Ragione.

RAGIONE E SENTIMENTO

LOST è stato sempre, fin dall’inizio, giocato sulla dualità e sul tema del doppio binario: Noi e gli Altri, l’isola e il resto del mondo, scienza e fede, bianco e nero, il bene e il male… logica e intuito, razionalità ed istinto…

Anche tra noi spettatori (che siamo stati milioni) c’è chi ha privilegiato guardandolo, e forse spesso anche inconsapevolmente, l’elemento della ragione rappresentato dagli innumerevoli misteri di cui era costellato ogni episodio e riguardo ai quali ci si aspettava risposte e soluzioni e chi privilegiava quella del sentimento rappresentato dai singoli personaggi, dalle loro storie, dalle loro dinamiche interpersonali, dai loro amori, le loro debolezze, il mutare di atteggiamenti, comportamenti…

E’ per questo io credo che il finale fortemente emotivo piuttosto che logico ha scatenato da una parte le ire di tutti coloro che dal finale risposte e soluzioni non ne ha ricevute e, dall’altra, la soddisfazione di chi invece, pur rimanendo inevitabilmente deluso su questo fronte ha trovato comunque bella e poetica la modalità di chiudere questa lunga, appassionante avventura.

In questi anni LOST ha sempre giocato con la contrapposizione fra i personaggi che sostenevano che c’era un disegno che aveva portato i protagonisti sull’Isola e quelli che non erano d’accordo.

Un po’ come chi, fra gli spettatori, si attendeva risposte logiche e razionali per ogni singola domanda e chi invece preferisce muoversi all’interno degli spazi interpretativi che gli sceneggiatori hanno lasciato.

Io non mi ritrovo completamente nè con gli uni nè con gli altri, mi sento di stare nel mezzo.

NELLA TERRA DI MEZZO

Infatti, anche se a me The End è piaciuto molto, non per questo non sono ben consapevole dei tanti limiti, incongruenze, sbavature, scricchiolii, crepe che l’impalcatura generale del “Progetto LOST” ha mostrato a partire già dal quarto anno. Negli ultimi tempi, poi, stavano cedendo persino — mi si passi la metafora — anche i pilastri che credevo essere di cemento armato…

Fino all’inizio di questa Sesta Stagione sono sempre stata convinta che esistesse un impianto progettuale a livello macro all’interno del quale poi, nel corso dei singoli episodi, venissero inserite varianti, abbellimenti, depistaggi che però non minavano quella che ritenevo essere la solidità  narrativa dell’impianto generale e non ero d’accordo con tutti coloro che invece continuavano a ripetere che un progetto generale non c’era, che gli autori improvvisavano, che accumulavano materiale in quantità tale da essere poi, alla resa dei conti, impossibilitati ad uscirsene in maniera decente…

Adesso, a visione ultimata, penso che una impostazione di fondo ci sia stata, all’inizio, che questa impostazione abbia retto sino alla fine della Terza Stagione ma che poi tutto sia andato lentamente ma inesorabilmente tracimando.

IL PATTO E L’IM-PATTO

Gli autori di LOST non hanno, alla fine, mantenuto il Patto che avevano stretto con gli spettatori.

Per circa metà della serie avevano fatto capire che le spiegazioni sarebbero arrivate.

A partire dalla quarta stagione hanno però, inaspettatamente, cominciato a lanciare meta-messaggi del tipo “non aspettatevi risposte, non ce ne saranno”.

Ma a quel punto era ormai troppo tardi.

Non è corretto — una volta sicuri di avere ottenuto la fidelizzazione del cliente/spettatore — mutare in corso d’opera ed unilateralmente i termini del contratto.

Di spiegazioni non ne hanno dato nemmeno una e dunque il Patto non è stato rispettato. Questa è la verità pura e semplice.

Cercare — come pure ho visto fare girando per la rete — di dimostrare il contrario mi sembra solo un arrampicarsi sugli specchi ed un tentativo di razionalizzazione davanti a un qualcosa che da molti fan è stato vissuto non solo come una cocente delusione ma un vero e proprio tradimento.

Davanti ad una dissonanza affettiva ancor prima che cognitiva, si cerca di far quadrare un cerchio che gli autori per primi non sono riusciti a far quadrare.

Gli autori non hanno districato nemmeno un decimo delle centinaia di garbugli in cui si erano e ci avevano cacciati ed hanno tentato di cavarsela cercando di utilizzare alla grande l’impatto emotivo di un puntatone finale bello, si, e commovente, e con musiche meravigliose e con intelligenti agganci al primo episodio della prima serie.

Tutto questo non può però certo far dimenticare a chi negli anni ha seguito con passione quello che continuo a ritenere uno degli eventi più importanti della storia della televisione i mille problemi che rimangono irrisolti.

Soprattutto, nemmeno le splendide sequenze finali di The End possono  far ignorare il cambiamento di registro che dalla terza stagione ha subito LOST, e cioè una vera e propria svolta mistica in cui religione, mitologia, metafisica, irrazionale sono ad un tratto diventati non solo elementi preponderanti, ma sono stati sin troppo spesso utilizzati anche assai furbescamente per non dare spiegazioni che gli autori non erano in grado di fornire.

Il pur bellissimo e commovente The End non riesce a far dimenticare che una splendida serie TV è stata letteralmente rovinata nelle ultime due/tre stagioni dall’aggiunta forsennata ed indiscriminata di tutta una serie di elementi fuori luogo.

I PERSONAGGI

Uno dei punti forti per i quali milioni di persone (tra cui la sottoscritta) si è appassionata alla serie era l’eccellente caratterizzazione di tutti i personaggi, anche di quelli secondari.

Ebbene, da un certo momento in poi e specialmente in questa Sesta Stagione abbiamo assistito al massacro di gran parte dei personaggi ridotti a semplici stereotipi con il conseguente effetto di mortificare anche, in questo modo, la bravura e la professionalità di attori che si erano mostrati tutti eccellenti.

Basti per tutti vedere come hanno ridotto Benjamin Linus (Michael Emerson), che da personaggio chiave e molto complesso è stato trasformato in una figura assolutamente marginale e con un ruolo di spalla.

Personaggi ridotti ormai a pedine di una sorta di gioco dell’Oca, dimentichi di sè e delle proprie storie…

Guarda come hanno ridotto in quest’ultima Stagione, ad esempio, Sayid (Naveen Andrews): irriconoscibile, o Kate Austen (Evangeline Lilly) che abbiamo visto muoversi come una marionetta senza vita… senza che le si facesse dire niente di minimamente interessante e significativo.

Da personaggi di una Commedia Umana a pupazzi di un video game…

E meno male che Juliet (Elizabeth Mitchell) è morta con l’esplosione: lei, almeno, si è salvata da quell’ altro tipo di massacro che — a questo punto ci posso scommettere — del personaggio avrebbero fatto gli sceneggiatori…

Almeno per Juliet, il suo “It worked!” ha effettivamente funzionato.

A SPASSO ATTORNO A UN TAPPO

LOST chiude sì dignitosamente, ma chi ha seguito attentamente tutta la serie non può non vedere il mucchio di macerie in cui viene sepolta una storia che nel tempo si è andata riempiendo di buchi e di falle atroci, con un affastellarsi di misteri su misteri, piena di storie aperte e mai più chiuse e non è possibile assolvere gli autori per avere cercato di far quadrare il cerchio gettando alla fine tutto —- persone, cose, storie, misteri insoluti — nel gran calderone di luce di una fontana con un tappo (sull’isola) e nella luce divina che si vede quando Christian Shepard (il Pastore Cristiano! Ma nooo! Ma dai…) spalanca la porta della chiesa.

Lost S06 Il tappo

Certo, nessuno di noi era così ingenuo da poter pensare e pretendere che tutti gli interrogativi di LOST ottenessero una risposta, ma come hanno potuto pensare di potersela cavare facendo finire il tutto con… un tappo?!?

Ma mi facci il piacere.

Non sono mai stata tra quelli che volevano che alla fine mi dicessero tutto, che volevano spiegato anche il minimo dettaglio. Avevo accettato (ed apprezzato) da tempo l’impianto mitologico-onirico di LOST.

Quello che mi interessava soprattutto erano i personaggi e le loro storie ma… a tutto c’è un limite, e il venirsene fuori con una storiella così banale come quella dei due fratelli, del tappo e della caverna con la fontana e la luce l’ho percepito come un’offesa alla mia intelligenza e mi ha fatto sentire molto in imbarazzo per loro: sì, per gli autori.

I quali autori hanno avuto a disposizione almeno ben 15 episodi di questa serie (più le ultime della scorsa stagione) per provare a dare, strada facendo, qualche spiegazione se non a tutte almeno ad alcune delle macro-domande.

Invece si sono persi in episodi inutili, in storie senza senso (che diavolo ci hanno messo a fare tutta quella stupida sequenza del Tempio, l’interminabile (e noiosissima) sequenza del tentativo di resuscitare Sayid, tutti quegli inutili andirivieni da un posto all’altro dell’isola?

PASSEGGIANDO NEL TEMPO E NELLO SPAZIO

Nei primi anni, i curatissimi flash back e flash forwards costruiti sui singoli personaggi avevano l’obiettivo (raggiunto in modo egregio, bisogna dirlo) di fare emergere la complessità di ogni singolo individuo, i suoi cambiamenti.

Ma i Flash-sideways, la “realtà parallela” di quest’ultima stagione?!?!

Solo in Jack c’è stata una evoluzione (o involuzione, a seconda dei punti di vista) perchè da laico e uomo di scienza si è trasformato in un uomo di fede.

Per il resto, quale valore aggiunto hanno apportato, i Flash-sideways ? Che obiettivo hanno avuto, in realtà, se non quello — pensiero maligno, il mio — di un menare il can per l’aia e far passare il tempo in attesa di arrivare a The End?

“COERENZA”.
E’ FORSE PAROLA OBSOLETA?

Tutta la cornice entro la quale la storia dei losties è racchiusa non ha alcuna coerenza interna.

C’è forse una logica nel fatto che sull’isola qualcuno guarisce miracolosamente ed altri si ammalano e muoiono? E perchè mai insistere tanto sulle quattro dita del piede di una statua egizia (ricordate Sayid: “È più inquietante che non ci sia il resto della statua o che il piede abbia quattro dita?”), se poi questa statua non compare mai più e di essa non si parlerà mai più?

Insomma, per dirla senza giri di parole: quello che a LOST è mancato completamente, guardando retrospettivamente e nel suo complesso ***tutta*** la serie è, da un punto di vista squisitamente narrativo, la coerenza interna.

Davvero lo dico con gran dispiacere, ma ormai mi sono convinta che dietro l’accumularsi di sottomarini, balzi temporali, statue egiziane, orsi polari, geroglifici non c’era nessun disegno logico che desse un senso a tutto.

MISTERI E PERSONAGGI

I poli di interesse/attrazione di LOST, che hanno determinato la passione di tanti fan sono stati due, di uguale peso entrambi: i personaggi e i misteri.

Non è corretto, adesso, tentare di banalizzare il ruolo che questi ultimi hanno avuto all’interno della serie.

Quello che mi ha tenuta incollata allo schermo, stagione dopo stagione, era la voglia di sapere perché Kate era una fuggitiva, ma era anche la voglia di sapere perchè in quell’isola le donne incinte non potevano portare a termine una gravidanza.

Era l’emozione di veder Locke che torna a camminare, ma era anche la curiosità di scoprire perchè Locke ci riesce e Rose guarisce miracolosamente dal cancro mentre altri, invece, non solo si ammalano, ma muoiono come mosche.

Era l’emozione di veder ricongiungere Desmond e Penny, di assistere all’uccisione a bruciapelo di Ana Lucia da parte del mite Michael ma anche il voler sapere il perchè della necessità di premere un bottone ogni 108 minuti.

Era l’emozione di veder Sawyer il “duro” commuoversi fin quasi alle lacrime nel leggere la sua lettera, ma anche voler capire perchè diavolo e con quale criterio gli Others rapivano alcune persone e non altre.

Mi sono appassionata alla storia personale di Kate, mi sono sentita partecipe del suo rapporto conflittuale con la madre, del suo grande sentimento materno che si manifesta nel disperato salvataggio di Aaron e del suo amore disinteressato per il bambino di Claire.

…Ma questo non esclude che mi sarebbe piaciuto anche capire perchè le storie di Walter e Aaron, bambini dei cui “poteri speciali” ci hanno riempito la testa per episodi su episodi, tirando in ballo persino un sensitivo (ve lo ricordate?) ad un certo punto semplicemente si perdono nel nulla e perchè dei “bambini speciali” da un certo punto in poi non si parla proprio più.

Era emozionante scoprire una dopo l’altra le Stazioni del Cigno e dell’Idra ma… mi sarebbe piaciuto sapere anche, alla fine, qualcosina del perchè di tutto quell’ambaradan della Dharma.

Pretendevo troppo? No, se penso che sulla Dharma ci hanno costruito un’intera stagione. E i numeri misteriosi, le statue egizie, i piedi con quattro dita con cui ci hanno portato a spasso episodi dopo episodi? etc. etc. etc… E non basta: non solo non sono stati risolti i misteri delle passate stagioni, ma a questi si sono aggiunti gli interrogativi posti con questa serie. Ma stendiamo un velo pietoso. In rete si trovano interminabili elenchi di “domande senza risposta”.

Hanno deciso di fare un finale che chiude soltanto sui personaggi.

Un finale autocelebrativo ed autoreferenziale, ma OK, ci può stare.

Mi sta bene, puntare sulla “mozione degli affetti” è una scelta narrativa legittima.

Ignorare però completamente tutto l’altro aspetto della serie quello no, che non mi può star bene.

DIETRO LE QUINTE

E’ noto ormai da tempo che Carlton Cuse e Damon Lindelof — creatori e produttori esecutivi di LOST — erano decisi a fare una serie di tre stagioni (ed infatti le prime tre stagioni sono decisamente le migliori), ma che poi, visto il successo planetario che LOST stava ottenendo, i dirigenti della ABC hanno imposto di prolungarlo adddirittura per dieci anni, utilizzando anche nuovi sceneggiatori.

Per nostra fortuna questo non è successo e si è arrivati all’accordo per sei stagioni.

E’ stata scongiurata quindi la jattura dei dieci anni, ma il compromesso dei sei anni ha prodotto egualmente effetti decisamente non positivi.

Il risultato è stato infatti che gran parte della coerenza interna che sicuramente all’inizio LOST aveva è andata a farsi benedire per fare spazio all’affastellarsi di indizi, vicoli ciechi, digressioni che hanno creato tutta una serie di ‘nodi’ che poi sciogliere è diventato impossibile, anche solo in parte.

Credo che questo (importante) elemento abbia giocato parecchio nella scelta del taglio da dare al finale.

GABBATA E SODDISFATTA? SI. MA CONSAPEVOLE

In questi giorni leggo in rete molti commenti di chi ha mollato la serie al primo o al secondo anno o non l’ha vista per nulla che dicono compiaciuti: “L’avevo detto, io,  che era tutta una bufala! Ho fatto bene, io!” etc. etc. con variazioni sul tema.

Il meta-messaggio di tutti questi è ovviamente: “… Ma come sono stato/a furbo/a io!” e/o “… e come siete stati imbecilli voi”.

Vabbè.

Io mi dichiaro invece ufficialmente e pubblicamente

gabbata, soddisfatta e consapevole.

Già.

Non sono affatto pentita di aver seguito LOST per tutto questo tempo non perdendomi nemmeno un episodio.

Le sei stagioni di LOST  mi hanno regalato momenti di grande coinvolgimento; mi sono divertita, intenerita, incuriosita, spaventata, appassionata. A volte anche irritata, infastidita, annoiata.

Nonostante tutto quello che ho scritto sopra, nonostante le critiche, le delusioni, le frustrazioni, io sono grata a LOST, a chi l’ha ideato, scritto, prodotto, intepretato.

Per apprezzare una “cosa” credo non ci sia bisogno di narcotizzare il proprio spirito critico e nemmeno di castrare il proprio côté “mozione degli affetti”.

LOST finisce là dove era cominciato: sull’isola, in un campo di bambu, con l’occhio di Jack che si chiude.

Il viaggio tra questi due momenti sono stati, per me e nonostante tutte le critiche di cui ho scritto sopra, un viaggio indimenticabile.

Jack e gli altri non sono gli stessi di quelli che erano in quel settembre del 2004 e nel frattempo, con loro, sono cambiata anche io.

Mi fa piacere pensare che, in universi paralleli, abbiamo vissuto — loro ed io — vite emozionanti.

Mattew Fox, Evangeline Lilly, Naveen Andrews, Michael Emerson, Terry O’ Quinn, Josh Holloway, Emilie de Ravin, Jorge Garcia, Elizabeth Mitchell, Yunjin Kim, adesso si separeranno e ciascuno interpreterà altri ruoli, altri film.

Ciascuno di loro proseguirà (auguro da parte mia gran successo a tutti) la propria carriera professionale ma per me e sono sicura anche per moltissime altre persone essi rimarranno ancora per molto, se non per sempre, Jack, Kate, Sayid, Ben Linus, Locke, Sawyer, Claire, Hurley, Juliet, Sun

Lost S06_The_End
“Per ricordare.
E lasciarselo alle spalle”
(Lost, S06, The End)

LOST ANSWERS

Niente spoiler, tutti possono guardare questo video.

Cliccate sull’immagine.

Lost answers

… Ragassse/i, la mia elaborazione del lutto è appena all’inizio…
Fatevene una ragione.

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