SULL’ARTE DI NARRAR STORIE

George Stubbs
George Stubbs
Lady Reading in a Wooded Park
1768-1770. Olio su tela. Collezione privata.

Anthony Trollope aveva idee molto precise, riguardo al modo di raccontar storie ed in particolare a proposito di quel che oggi con l’orrenda terminologia da cui è molto difficile rimanere immuni definiremmo “tormentone” o “spoileraggio” e cioè:

“Mi dici? Ma quanto mi dici? Mi racconti? Ma quanto mi racconti?!?!”

Che poi sarebbe quella vecchia storia dell’accorata — e legittima, per carità — preghiera che chi ha intenzione di leggere un certo libro rivolge all’amico (o all’amica) che quel libro ha invece già letto, preghiera che in genere così di seguito risuona:

“Però, per carità, non mi dire come va a finire!”

Purtroppo,  spesso questa preghiera viene espressa anche quando si tratta di grandi classici (in quel caso si trattava di Guerra e Pace).

Fin qui però il tema del “quanto dire, quanto anticipare circa la trama di un romanzo” l’ho considerato dal punto di vista di chi di quel romanzo si trova a scrivere e/o a parlare.

Ma trovo interessante anche guardare la cosa dal punto di vista dell’autore del romanzo, ed a questo proposito ecco, ad esempio, quel che dice Trollope riguardo la propria strategia di scrittura (i grassetti sono miei)

E qui forse si può permettere al romanziere di spiegare le sue idee su un punto molto importante dell’arte di narrar storie. Egli si arrischia a disapprovare il sistema che spinge fino a violare tutta l’opportuna confidenza tra l’autore e i suoi lettori, mantenendo quasi fino alla fine […] il mistero sul destino del loro personaggio preferito.

[…]

Non ci saranno segreti che possa rivelarvi. Anzi, prendete l’ultimo capitolo — scoprite dalle sue pagine tutti gli esiti della nostra travagliata storia, e la storia non avrà perso nulla del suo interesse, se davvero c’è dell’interesse da perdere.

La nostra dottrina è che l’autore e il lettore debbano procedere insieme con totale confidenza reciproca. Che i personaggi del dramma affrontino tra loro una perfetta commedia degli errori, ma che lo spettatore non scambi mai il siracusano per l’efesino, altrimenti diventa uno dei creduloni e la parte del credulone non è mai dignitosa.

Nel triangolo costituito da Autore — Testo — Lettore, Trollope chiama dunque  accanto a sè il Lettore e, mettendolo già dall’inizio a conoscenza dei nodi cruciali che la trama svilupperà, lo invita a guardare insieme a lui — come  fossero entrambi seduti accanto nel palco di un teatro —   i personaggi i quali — loro si, ignari del destino individuale che l’Autore ha loro apparecchiato —  si muovono e si dibattono in una vera e propria “commedia degli errori”.

Da questo deriva anche, secondo me, un aspetto che detto molto terra-terra io sintetizzerei così: se un libro è davvero interessante, se è veramente un buon libro, se è scritto bene, non ci può essere — eccezion fatta per i romanzi rigorosamente polizieschi in cui tutto è basato sulla ricerca e l’individuazione dell’assassino — riassunto e anticipazione fatta da altri che possano scalfire il piacere di chi quel testo leggerà.

LE PREMIER AMOUR – SÁNDOR MÁRAI

Sandor Marai
Sándor MÁRAI, Le premier amour, traduz. dall’ungherese al francese di Catherine Fay, ed. Albin Michel, 2008, ISBN 2226188711

“En effet, il ne s’est rien passé dans ma vie. ” (“in effetti, nella mia vita non è successo nulla”).

E’ tutto qui. In questa dichiarazione di impotenza, in questa accettata sterilità, in questa ammissione di sconfitta.

Sándor Márai ha 28 anni quando, nel 1928, scrive questo primo romanzo utilizzando la prima persona singolare, sotto forma del diario intimo di un uomo di 54 anni, rispettabile professore di latino che vive in una piccola cittadina della provincia ungherese intorno al 1910.

Questo professore, celibe, conduce una vita grigia ed abitudinaria, priva di sorprese e di affetti: le lezioni al liceo, i pasti preparati dalla governante, serate al club, qualche rara visita alla casa di tolleranza.

Ma basta pochissimo per mettere in pericolo l’ordinato tran tran di una vita regolata come una metrica latina, e l’occupazione principale del professore sembra consista soprattutto nel prendere tutte le precauzioni possibili per mettersi al sicuro da ogni imprevisto, evitare le sorprese, le incertezze, i dubbi.

Ogni relazione con un qualsiasi essere umano che non si limiti alle sole formule di cortesia ed alla conversazione stereotipata e convenzionale è da lui avvertita come una sorta di trappola. Ad un certo punto decide che anche la governante, al suo servizio da tanti anni, dovrà lasciarlo.

Perchè non c’è nulla che il professore ami di più che la solitudine e la routine.

Il professore decide di riprendere la stesura del suo diario per fuggire un poco la monotonia delle sue giornate.

In vacanza in una piccola stazione termale semideserta, distante tre ore di treno dalla cittadina in cui abita, egli ritrova la camera che aveva occupato circa trent’anni prima e questo, ad uno abitudinario com’è lui, va benissimo perchè tutto è immutato: solo, passa una notte intera  a cercare freneticamente un paio di cava stivali che trent’anni prima erano in dotazione della stanza e che ora non ci sono più. Certo  —  pensa —  perchè oggi gli stivali sono meno usati e dunque l’attrezzo non viene più fornito dalla Direzione, ma la spiegazione razionale che lui stesso si dà non gli impedisce di avere qualcosa che assomiglia molto ad una vera e propria crisi isterica.

Succede poi che rileggendo le vecchie pagine del diario su cui aveva smesso di scrivere e proprio ricominciando adesso ad appuntare i propri pensieri si trova a fare il bilancio del proprio passato.

Un bilancio che lo porta a constatare come egli abbia guardato scorrere il tempo senza reagire, accettando quelle che lui chiama delle “concessioni” che somigliano piuttosto ad un abbandono, ad un lento scivolare verso la vecchiaia e la morte.

Peggio ancora: l’uomo capisce di essersi lasciato sfuggire, con il suo comportamento apatico e negligente, un amore che avrebbe potuto cambiare la sua vita:

“C’est un peu comme si, un jour, j’avais découvert quelque chose que j’aurais ensuite oublié pendant vingt-huit ans et que, décidé pour une fois à agir, je n’avais rien trouvé de plus intelligent à faire que de renouveler une expérience passée. “

Dal 4 agosto al 20 giugno dell’anno successivo, questo diario diventa sempre di più il documento ed il rendiconto di una crisi imprevedibile e che si rivelerà fatale.

Nella misura in cui egli descrive i piccoli insignificanti fatti ed i gesti delle sue giornate, gli tornano alla mente brandelli di ricordi d’infanzia, il ghiaccio che ricopre le sue emozioni comincia ad incrinarsi.

Il professore si scopre en attente de quelque chose, quelque chose qui devrait arriver”, ma non ha la minima idea di cosa possa essere.

Tanti piccoli episodi, come per esempio l’incontro con un perfetto sconosciuto al quale inspiegabilmente ed improvvisamente si confida rivelandogli i suoi pensieri più intimi, la richiesta di un prestito di denaro che gli rivolge un collega immerso fino al collo in una sordida storia di adulterio annunciano l’evento che destabilizzerà la sua vita: il professore si innamora di una delle sue allieve, un’adolescente di diciassette anni…

Un primo amore violento, tardivo, rabbioso e del quale, paradossalmente, il professore non si rende nemmeno conto o di cui comunque si rifiuta di prendere coscienza perchè, pensa “Le temps des amours n’est plus de mon âge. Je suis passé à côté de ce temps-là.”

Il contrasto tra l’apparente banalità del racconto (cosa di più trito e ritrito della storia di un cinquantenne che perde la testa per una ragazzina?), l’ingenuità del narratore e la progressiva irruzione di elementi strani, di note false che per il lettore funzionano come segnali di allarme generano una tensione ed una suspense impressionanti.

Inezie, si direbbero. Eppure nel professore tutto cambia anche se sembra che proprio nulla cambi: un giorno si sveglia un’ora più tardi del solito…la decisione di tagliarsi la barba…l’acquisto di un vestito nuovo e di  colore chiaro…il percorso della passeggiata quotidiana leggermente modificato…Tutte inezie che sono veri e propri indizi.

L’unico a non capire questi segnali che   gli altri personaggi del libro (i colleghi, la governante, il portiere della scuola) avvertono è proprio lui. Non è in grado di comprendere i messaggi che gli altri gli rimandano; la sua ingenuità è disarmante, la sua incapacità di comunicare con il mondo sempre più devastante:

“Tous les mots me paraissent vides de sens. Quelquefois j’ai l’impression qu’ils ont perdu leur contenu. Les mots que ma bouche prononce ressemblent à du fer-blanc. Ils n’ont aucun goût, aucune couleur. Des mots vides, sans couleur.”

“Je suis triste.  Pourquoi ? Pour qui ? Je suis incapable de le dire”

Con una profondità di analisi e di approfondimento dei temi della solitudine e della vecchiaia —-  stupefacente per un debuttante e per un giovane uomo di 28 anni —  Márai descrive la discesa implacabile di un uomo nella psicosi.

Fingendo una neutralità che è soltanto di facciata, Sándor Márai costruisce mirabilmente un testo claustrofobico di rara potenza. Attraverso la descrizione del quotidiano, il passaggio dall’affetto all’odio e poi alla passione egli descrive  sentimenti estremamente intensi proprio nel momento in cui tutto sembrerebbe immobile attorno al personaggio centrale dai gesti sempre misurati.

Siamo di fronte al racconto dettagliato del momento in cui un essere umano va in frantumi.

Finchè non succedeva nulla, il professore poteva sopravvivere. Ma è successo qualcosa — per poco che sia — ed ecco che tutta l’impalcatura protettiva delle regole sembra essere crollata: da qui depressione, malinconia, malattia mentale.

Descrizione magistrale della nascita di una psicosi, Le premier amour descrive passo passo una discesa molto lenta ma che il lettore avverte come implacabile ed irreversibile. Tanto più terrificante proprio perchè descritta con le parole tranquille della quotidianità.

Eppure, dietro il distacco con cui Márai descrive con occhio “clinico” questo processo di dissoluzione noi lettori non possiamo non avvertire l’immensa compassione che l’autore nutre per il suo personaggio.

In questo primo romanzo, costruito con la tecnica narrativa che i lettori di Márai conoscono e cioè quella del lungo monologo si trovano già l’insistenza sui rituali dei suoi personaggi, la loro silenziosa banalità che nasconde invece una violenza infinita, la gradissima capacità di analizzare le più recondite sfumature delle dinamiche amorose e tutti i temi dominanti dei romanzi di Márai più famosi che, scritti successivamente, noi lettori italiani abbiamo già letto per la semplice ragione che sono stati tradotti prima di questo romanzo di esordio.

Le premier amour non è ancora disponibile in italiano, che io sappia. Mi auguro davvero che Adelphi, cui va il   merito di aver fatto conoscere in Italia questo grande scrittore pubblicando tanti  suoi libri provveda quanto prima.

C’est là que réside le plus grand secret : la façon dont quelqu’un s’abîme et reste seul. Il parle dans le vide, on n’entend pas sa voix. On ne le comprend pas. Il prend les mêmes chemins que les autres…mais il n’arrive nulle part. Il marche toujours en rond, toujours autour de lui-même.

 

LA VERA VITA DEL LIBRO

leggere

Il romanzo ha il dovere di non essere antologico. Non può essere giudicato da una pagina, né, meno ancora, da una frase, né dalla curiosa felicità di un epiteto (citiamo Petronio) o di una momentanea metafora. Forse diamo troppa importanza ai pregi o agli alti e bassi della successiva lettura di un libro; l’essenziale è l’immagine ulteriore, l’indefinita immagine inconfondibile che la lettura lascia nel ricordo

[…]

Chiuso il libro, il testo continua a crescere e a ramificarsi nella coscienza del lettore. Quest’altra vita è la vera vita del libro

Ho terminato ieri di leggere le 1249 pagine (più le note e l’introduzione) del Don Chisciotte.

Lo stralcio dell’introduzione di Borges che ho riportato vale, a mio parere per qualsiasi romanzo ma per alcuni — tra i quali appunto, il Don Chisciotte — in modo particolare.

Penso ad esempio, tanto per dirne una, a “À la recherche du temps perdu” di Proust, che si può non leggere affatto, per carità. Mica è obbligatorio.
Così come, d’altra parte,  della RTP si possono leggere solo alcune parti ed altre no.

Però sarebbe bene essere consapevoli del fatto che solo leggendola tutta ma proprio tutta, dal celeberrimo incipit “Longtemps, je me suis couché de bonne heure” alle righe finali alle quali si approda dopo un numero sterminato di pagine, “à des époques si distantes, entre lesquelles tant de jours son venus se placer — dans le Temps”, in cui il Tempo della prima riga di Du côté de chez Swann chiude il cerchio (ma non illudiamoci: solo perchè tutto ricominci — la RTP è un cerchio) con il Tempo della fine di Le Temps retrouvé si evita di prendere solenni cantonate di interpretazione di senso.

Così come, alla fine delle 1262 pagine di Cervantes mi sono resa conto che se mi fossi fermata alla Prima Parte e non avessi letto la Seconda mi sarei persa elementi che sono fondamentali per comprendere la grandezza di questo libro e non avrei nemmeno potuto non dico vedere ma nemmeno intravedere o sospettare il meraviglioso labirinto e le innumerevoli mise en abîme in cui mi ha fatto sprofondare Cervantes.

Ora, concluso il viaggio, essendomi tuffata in quella fornace di cui parlava Giuseppe Tomasi di Lampedusa nelle sue Lezioni su Stendhal il libro mi frulla nella testa e sto cercando di mettere un po’ d’ordine negli infiniti stimoli e nelle innumerevoli considerazioni che mi ha sollecitato.

E’ adesso il momento (sempre per dirla con Lampedusa) di aver “matita alla mano”.

Perchè secondo me ha ragione anche Vladimir Nabokov quando scrive

Permettetemi di darvi un suggerimento pratico. La letteratura, la vera letteratura, non deve essere tracannata come una pozione che può far bene al cuore o al cervello — il cervello, lo stomaco dell’anima.

Bisogna prenderla e farla a pezzetti, smontarla, spiaccicarla — ed allora il suo amabile profumo si farà sentire nel cavo del palmo, e la sgranocchierete e ve la farete passare sulla lingua con godimento; allora, e solo allora, la sua squisita fragranza potrà essere apprezzata nel suo vero valore e le parti frantumate e schiacciate torneranno ad unirsi nella vostra mente e riveleranno la bellezza di un’unità alla quale avrete contribuito con qualcosa del vostro sangue.

Tutto questo mi convince sempre di più di una cosa sulla quale vado riflettendo da un po’ di anni, e che cioè dovrei non avere la smania di leggere tanto e di più, ma dovrei imparare a leggere meglio.

La bulimia libridinosa va bene per gli anni dell’adolescenza e della prima formazione. Per quegli anni in cui ci si apre al mondo e si è — sanamente! — onnivori ed ingordi.

Dopo, occorrerebbe badare più alla qualità della lettura che alla quantità ed al numero dei libri che si leggono.

Ma questo è altro discorso ancora, ed io sto divagando.

MONDI NUOVI

gelo

Non so se quelli di Thomas Bernhard possano definirsi romanzi: sono superbi monologhi lirici, a solo per voce, poemi filosofici, deliri, visioni. Egli ha abolito le forme del romanzo: il racconto e il dialogo; ha adottato la voce di un narratore, spesso un anonimo narratore dostoevskijano sovrastato dal proprio compito, ed ha aperto dentro di essa la voce delirante di un personaggio — un pazzo, un megalomane, un paranoico, un pensatore malato, uno schizofrenico, un creatore di mondi, un nichilista, un veggente.

[…]

La sua sintassi — lenta, avviluppata, intricata, ramosa — si scardina, assalita da questa violenza. Tra parte e parte, tra scena e scena, tra periodo e periodo, muore qualsiasi movimento: tutto è immobile — brandelli di assoluto presente, scene presenti fino a farci soffrire, che si succedono l’una all’altra nella nostra mente.

Abbiamo l’impressione che sempre ci procura la vera arte: penetriamo in un altro mondo, dove i minimi elementi — le virgole, i punti, i punti e virgola — rivelano la compattezza di una visione unica.

Thomas Bernhard
Thomas Bernhard

Questa immaginazione cupa e allucinata, furibonda e puntigliosa, follemente estrosa e di una minuzia quasi pedantesca, apocalittica e quotidiana, è uno dei pochi doni che ci abbia riservato la letteratura degli ultimi anni.

  • De La malattia dell’infinito ho già parlato >> qui 

FILO A PIOMBO E SQUADRA DELL’ANIMA

 

Antinoo
Roma, Arco di Costantino. Antinoo
Fonte


Quasi tutte le civiltà basate sullo studio dei classici si limitano ad un numero molto ristretto di autori, e pare che i meriti intrinseci di questi siano meno importanti della familiarità che si ha con essi. La loro lettura promuove l’uomo medio a membro di un gruppo e quasi di un club. Essa gli fornisce un modicum di citazioni, di argomenti e di esempi che l’aiutano a comunicare con i suoi contemporanei in possesso dello stesso bagaglio, il che non è poco. A un livello raggiunto più di rado, i classici sono, certo, molto di più: il supporto e il modulo, il filo a piombo e la squadra dell’anima, un’arte di pensare e talvolta di esistere. Nel migliore dei casi, essi liberano e spingono alla rivolta, sia pure contro di loro

DI COME E QUALMENTE DONNA GABRILU DA PANORMO VENNE CONQUISTATA E RAPITA DAL CAVALIERO MANCEGO E DAL SUO FAMOSO SCUDIERO

Don Chisciotte - Gustavo Dore

Inoperoso lettore […] Io non voglio magnificarti il servigio che ti rendo nel farti conoscere così nobile e onorato cavaliere, ma che tu mi sia grato della conoscenza che farai del famoso Sancio Panza, suo scudiero […] E con ciò, Dio conceda salute a te e non dimentichi me. Vale

>>> Miguel de Cervantes, Don Chisciotte della Mancia, il Prologo <<<

 

Sono già in condizione di assicurare Messer de Cervantes che la conoscenza da ieri avviata con il suo cavaliero mancego ed il di lui famoso scudiero sta risultando già di enorme giovamento alla mia salute (soprattutto mentale) e confido che nel prosieguo di quella che prevedo frequentazione molto  intensa e serrata il mio umore vieppiù migliorerà.

Miguel de Cervantes Saavedra

…Ebbene si, ho cominciato ieri sera la lettura del Don Chisciotte, che a seguito dell’ “arrivano i nostri!” su questo blog del 7° Cavalleggeri (ma forse più appropriato sarebbe parlar di  Cavalieri Erranti) costituito da suoi sostenitori, appassionati e fans  avevo promesso avrei preso in mano in autunno.

7° cavalleggeri

Avevo già detto di possedere la splendida edizione Millenni Einaudi, che però trovo molto poco maneggevole, e che mi sarebbe piaciuto trovare un’edizione italiana suddivisa in — magari diciamo due? — agili volumetti.

Ci sarebbe, in effetti, quella della Mondadori Oscar Classici, ma per fortuna prima dell’acquisto l’ho sfogliata e… mi sono imbufalita.

Ma come?! Sono tutta lieta di aver trovato l’operona in due volumi e poi scopro che tutte — dico — tutte le note sono relegate in fondo al 2° volume?! Cioè, secondo loro io avrei dovuto stare non con un solo volume, ma con due volumi aperti contemporaneamente per poter leggere testo e note?

Ah, si, non c’è che dire: ottima soluzione per una comoda lettura a letto, sul divano, sull’autobus etc…

Mah.

Alla fine mi sono decisa ed ho poi acquistato il volumone della BUR che nonostante la mole è però tutto sommato morbido e abbastanza maneggevole. E poi ci sono le illustrazioni di Gustave Dorè e l’introduzione di Borges (che però come sempre faccio con tutte le introduzioni, leggerò solo alla fine).

Insomma, ormai ci sono dentro fino al collo e questo, assieme al fatto che mi sto dedicando alla sistemazione delle foto e dei filmini del viaggio in Germania credo che rallenterà un pochettino il ritmo abituale dei miei post.

Ma tutto non si può avere nè fare, ed   io farò quel che potrò…

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