BALZAC ET SON MONDE – FÉLICIEN MARCEAU

Balzac et son monde
Félicien MARCEAU, Balzac et son monde, p.700, Gallimard, 1986, ISBN 2070706974

Non si tratta di un libro recente e purtroppo non mi risulta che esista in traduzione italiana, ma voglio segnalarlo egualmente perchè lo considero un testo fondamentale non solo per tutti coloro che, come me, amano Balzac, lo considerano uno dei più grandi autori non solo dell’Ottocento e non smettono di leggere e di rileggere i capolavori della sua Comédie humaine ma perchè lo ritengo un validissimo compagno di viaggio per tutti coloro che magari stanno appena addentrandosi in questa complessa e fascinosa opera.

Questo Balzac et son monde costituisce infatti un approccio molto particolare all’opera di Balzac.

Si tratta di un libro leggibile ed utilizzabile veramente a molti livelli.

Lo si può leggere come una guida in cui, per ogni personaggio di Balzac (ai personaggi, analizzati uno per uno ed enucleati anche in gruppi a seconda delle loro caratteristiche sono dedicate più di duecento fittissime pagine), il lettore troverà di che chiarire ed arricchire la propria lettura.

Ci viene dunque offerto non solo un inventario di qualcosa come duemila e cinquecento personaggi che si rincorrono (e si completano) da un romanzo all’altro, ma anche un inventario delle passioni che li animano o dei motivi ricorrenti che li uniscono ed un vero e proprio inventario delle strabilianti ricchezze dell’opera di Balzac ed un saggio che fa anche luce sulla stesura stessa dell’immensa Comédie humaine.

Ma se qualcuno, da quello che ho scritto, può aver tratto l’impressione che il libro sia un arido testo per specialisti ed accademici e/o monomaniacali vari&assortiti… beh.

Sappia che non è affatto così.

Al contrario, è un libro che si legge con gran piacere, perchè scritto con grande vivacità e passione.

Prova,  questa,  che è possibile realizzare un enorme e serio lavoro di ricerca e di approfondimento e di porgerlo  poi  (se veramente si ha cura di chi legge)  con uno stile ed un linguaggio per nulla noioso e inutilmente infarcito di paroloni.

Ed ecco allora che scorrendo le pagine di questo saggio-guida (in rigoroso ordine o — perchè no? — saltellando qua e la —) ecco che il mondo di Balzac diventa o ridiventa quello che lo stesso Balzac voleva che fosse: un mondo reale, un mondo in divenire, un mondo sempre attuale.

La Comédie humaine è composta da novantacinque romanzi terminati, una cinquantina di romanzi fermi allo stato progettuale ed è popolata da duemilacinquecento (!) personaggi.

Eppure essa non costituirebbe un universo a se stante, compatto, se non ci fosse stata, come ben illustra Félicien Marceau, l’Idea.

E cioè l’Idea di fare passare centinaia di personaggi (573, per l’esattezza, secondo Marceau) da un libro all’altro, come nella vita reale.

Come un vero e proprio cartografo, l’autore registra le loro ambizioni ed i loro vizi. Ogni tipo umano, ogni tema dominante è l’oggetto di un capitolo specifico.

Ma nel libro di Marceau non c’è solo un indice completo di tutti i personaggi di Balzac, anche se già questo sarebbe già moltissimo.

Felicien MarceauMarceau   esplora anche tutto il continente dell’opera balzacchiana, la sua geografia, le sue caratteristiche, gli usi ed i costumi dei suoi abitanti.

Un  capitolo infatti è dedicato, ad esempio, alla “Vita letteraria, artistica e galante”, così come capitoli specifici sono dedicati ai più importanti temi ricorrenti in quest’opera sterminata: l’Amore, la Volontà di Potenza;  il tema dell’Assoluto, l’importanza delle descrizioni dei luoghi e degli ambienti;    Politica e Religione etc.

E’ per tutto questo che il libro, frutto di un lavoro magistrale, pur essendo del 1970 rimane ancora non solo attuale ma molto importante.

E’  per questo che  tutti i lettori di Balzac   sono e continuano ad esser  da decenni  grati  a Félicien Marceau.

Un libro da leggere avidamente come un romanzo, ma anche da tenere a portata di mano quando, come per esempio sto facendo io in questi giorni, ci si  ri-immerge nelle vicende di Antoinette de Langlais, di Coralie, di Lucien de Rubempre, di Rastignac, della cugina Bette o di Vautrin…

  • Félicien Marceau sul sito dell’Académie française >>
  • Il libro >>
  • Un estratto dal libro >>

LA MIA VITA – MARCEL REICH-RANICKI

Marcel Reich-Ranicki

Marcel REICH-RANICKI, La mia vita (tit. orig. Mein Leben), traduz. Simona Bellini, p.484, Sellerio, Collana La nuova diagonale, 2003, ISBN: 88-389-1813-9

Marcel Reich Ranicki
Ad un giovane Günter Grass che nel 1958, ad un incontro del “Gruppo 47” gli chiede “Ma insomma, lei cos’è? Polacco, tedesco o cosa?”, Reich-Ranicki risponde: “Sono per metà polacco, per metà tedesco e per intero ebreo”.

Reich-Ranicki pensa però che, a dire il vero, questa risposta — che Grass ha apprezzato molto — è bugiarda perchè in realtà “Non ero mai stato mezzo polacco, mai mezzo tedesco — e non avevo dubbi che non sarei mai diventato nè l’uno nè altro. In vita mia non ero neppure mai stato per intero ebreo e […] non avevo e non ho un mio paese, una mia terra natale, una mia patria. D’altra parte non sono nemmeno mai stato un vero e proprio apolide, un senza patria — non lo sono neppure oggi. Come spiegare tutto ciò?”

La mia vita, pubblicato nel 1999, subito diventato in Germania un best seller, tradotto in 19 lingue racconta l’incredibile destino di Marcel Reich-Ranicki, ebreo polacco che, anche dentro l’inferno del ghetto di Varsavia ha conservato dentro di sè, immutabile, la passione per la lingua e la letteratura tedesca e che, tornato dopo la guerra a vivere in Germania, è diventato il più prolifico, amato ma anche odiato critico letterario tedesco, al punto tale da essere soprannominato “il Papa della letteratura”.

Strutturato in cinque parti e suddiviso in capitoli brevi scritti con uno stile conciso e dal ritmo sostenuto, il libro va dalla nascita di Marcel Reich-Ranicki nel 1920 a Wlocklavek in Polonia da genitori ebrei e si conclude nel 1999 a Francoforte, dove il critico abita con la moglie Tosia.

Tra Wlocklavek e Francoforte, Reich-Ranicki racconta una educazione tedesca a casa dello zio a Berlino, ci parla del suo rapporto con le opere letterarie, teatrali, musicali che hanno accompagnato vari momenti di questa vita così travagliata e densa di avvenimenti, le sue passioni, le sue idiosincrasie.

Karl May ed Erich Kästner durante l’infanzia, il teatro di Schiller, Goethe e Shakespeare nei sontuosi teatri berlinesi durante gli anni Venti e Trenta, già in pieno nazismo, teatri in cui Reich-Ranicki trova “appoggio e rifugio” (“…in pieno Terzo Reich la letteratura tedesca e il teatro berlinese offrirono una torre d’avorio all’adolescente ebreo” (p.97)

Espulso dalla Germania nel 1938 e deportato in Polonia, sul treno che da Berlino lo conduce a Varsavia Reich-Ranicki riflette sul fatto che pur essendo nato in Polonia ne parla la lingua solo stentatamente, sa di non avere una professione, che non avrà la possibilità di impararne una, e nella valigetta ha solo un fazzoletto ed un romanzo di Balzac.

Pensa però che “avevo portato anche altro, con me […]. Dal paese dal quale adesso venivo cacciato avevo infatti portato con me la lingua tedesca, la letteratura tedesca” (p.141)

Il ventenne Marcel vive l’arrivo dei nazisti a Varsavia, la costituzione di quella che viene dapprima chiamata eufemisticamente “l’area residenziale degli ebrei di Varsavia”, la caccia agli ebrei, la vita nell’inferno del ghetto.

Un inferno in cui la letteratura, con la scoperta della lirica polacca ma soprattutto la musica (tedesca) di Beethoven, Mozart e Brahms suonata da musicisti ebrei —- che finiranno poi tutti nelle camere a gas di Treblinka — sono sostegno e conforto. Le pagine in cui vengono descritte le mille difficoltà con cui sono allestiti questi concerti, la passione e l’entusiasmo con cui vengono ascoltati dai disperati del ghetto sono davvero toccanti e, ricorda Reich-Ranicki, “in quella fase della mia vita la musica, dunque, tedesca soppiantò la letteratura tedesca” (p.200).

Riusciti a fuggire al treno per Treblinka e dal ghetto, lui e Tosia si guadagnano la sopravvivenza raccontando le storie di Werther, Amleto e Guglielmo Tell all’ariano polacco Bolek che ha accettato — a rischio della vita — di nascondere per lunghi, drammatici mesi questi due ebrei nella cantina della sua casa alla periferia di Varsavia.

“I libri ci salvarono la vita” (p.233)

Quando la Polonia viene liberata dai Russi nel giugno del 1944 Reich-Ranicki aderisce al partito comunista e occupa parecchi posti all’interno dell’amministrazione polacca: agente dei servizi segreti, console polacco a Londra, censore e poi editore al Ministero della Difesa.

Licenziato per “ragioni ideologiche” (che nascondono in realtà motivazioni razziali ed antisemite) riesce a diventare critico letterario per diversi giornali. Incontra molti autori tedeschi invitati in Polonia tra cui Böll, Grass (ancora agli esordi e praticamente sconosciuto), Anna Seghers, Brecht.

Nel 1958, finalmente, il tanto desiderato rientro definitivo in Germania. Ancora una volta una fuga (dalla Germania Est alla Germania Ovest), ancora una volta un treno, ancora una volta un “bagaglio invisibile”. Senza valige, per non far capire alle guardie di frontiera della DDR che la sua è una partenza definitiva, una vera e propria fuga, ancora una volta Reich-Ranicki pensa “Ancora una volta non avevo niente, assolutamente niente — soltanto quel bagaglio invisibile, la letteratura, in particolare quella tedesca” (p.336)

Il tanto desiderato rientro in Germania gli permetterà di lavorare come critico letterario a tempo pieno per conto di diversi prestigiosi giornali ed alla radio tedesca.

Nel 1959 viene accolto come critico letterario al Die Zeit: si tratta di una vera e propria consacrazione per questo grande appassionato di letteratura che le tragedie della vita hanno costretto a rimanere autodidatta
“cominciai […] da autodidatta e autodidatta sono rimasto. Dopo la maturità nessuno si è mai più preso la briga di insegnarmi qualcosa. Quello che so, l’ho imparato da solo. Non ne sono orgoglioso e non consiglio a nessuno di seguire il mio esempio” (p.178)

A Die Zeit gli viene concessa piena e completa libertà riguardo la scelta dei testi da recensire.

Recensioni, saggi, lavoro di redazione si succedono da allora con un ritmo frenetico. L’obiettivo che si pone Reich-Ranicki consiste nel permettere a tutti di scoprire, comprendere ed apprezzare in modo consapevole e critico la letteratura.

Marcel Reich-Ranicki
Literaturkritiker Marcel Reich-Ranicki gestikuliert in der Frankfurter Paulskirche.
Foto: Thomas Lohnes/ddp, 02.06.05

Lasciato Die Zeit nel 1973, diventerà redattore capo della sezione letteraria del Frankfurter Allgemeine e poi, a partire dal 1988 e per circa tredici anni sarà l’animatore, il conduttore del “Quartetto Letterario”, una trasmissione televisiva che ben presto ottiene un’audience di circa 900.000 telespettatori la settimana.

Niente male, per una trasmissione televisiva che si occupa esclusivamente di letteratura e che si basa esclusivamente sulle discussioni tra quattro persone, senza alcun ricorso ad altre immagini, servizi, filmati!

Insomma, Reich-Ranicki diventa in questa Germania ancora divisa la figura principale della letteratura tedesca. Molto amato (ogni suo articolo, ogni suo libro è atteso, comprato, avidamente letto) ma anche molto, molto detestato se non addirittura odiato (Peter Handke, ad esempio, si augura la morte di quel “cane ringhioso che è abitato solo dalla brama di uccidere”) e le cose non sono cambiate a seguito della riunificazione delle due Germanie.

Reich-Ranicki è perfettamente consapevole di tutto questo e si consola pensando a quello che sosteneva Heine, e cioè che spesso l’odio dei nemici prova la qualità del lavoro compiuto.

Non si fa grandi illusioni nemmeno sul rapporto tra scrittore e critico.

Il libro è una sterminata ed interessantissima galleria di ritratti di autori, alcuni dei quali ormai famosi a livello mondiale, altri notissimi in Germania ma purtroppo qui in Italia semisconosciuti (per molti dei nomi citati io ho dovuto far ricorso a Google e a Wikipedia…).

Impossibile riprodurre qui l’elenco. Basti dire che si va da Siegfried Lenz a Günter Grass, da Heinrich Böll ad Elias Canetti; da Max Frisch, Joachim Fest, Martin Walser a Ingeborg Bachman e Thomas Bernhardt, da Theodor W. Adorno ad Hans Magnus Enzensberger a tanti, tanti altri nomi della letteratura e della vita culturale tedesca.

Malinconiche ma molto realistiche le considerazioni che “il Papa” sviluppa circa il legame di simpatia o di rigetto che di volta in volta si è venuto a creare con questo o quell’altro scrittore.

Reich-Ranicki torna più volte a sottolineare che il tratto di personalità più marcatamente evidente in tutti questi grandi scrittori sta nell’egocentrismo spesso esacerbato: “non mi è mai accaduto di incontrare uno scrittore che non fosse vanitoso ed egocentrico — ad eccezione di qualche autore particolarmente scadente” (p.262)

L’esperienza di più di mezzo secolo gli ha poi insegnato che la qualità dell’incontro, la cortesia, la benevolenza con cui egli — il critico — viene accolto dipende soprattutto dalla critica positiva o negativa che egli ha riservato al loro ultimo libro.

“Tra un autore e un critico ci può essere pace, per non parlare di amicizia, soltanto se il critico non scrive una sola parola sui libri di quell’autore, e se questi accetta la cosa una volta per tutte” (p.317) e ancora “I rapporti di un autore con un critico dipendono da come quel critico si è espresso sull’ultimo libro di quello crittore” (p.443)

C’è poi quella certa sensazione di essere sempre e comunque — anche giunto all’apice della carriera e della notorietà a livello internazionale — considerato un “marginale”, di essere in qualche modo e sottilmente “tenuto a debita distanza” a causa del suo essere ebreo e che percepisce costante anche nella nuova Germania, nella Germania de-nazificata e democratica.

E’ stato lui a coniare la celebre frase “la fine della tregua” quando nel 1985 esplose in Germania la questione del “revisionismo storico tedesco” (Historikerstreit) che prendendo le mosse da una pièce teatrale dichiaratamente antisemita di Fassbinder vide la scesa in campo su posizioni più o meno riassumibili con l’atteggiamento da “colpo di spugna” nomi come Joachim Fest, Martin Walser e soprattutto quello dello storico negazionista Ernst Nolte, da Reich-Ranicki considerato addirittura come non sano di mente.

Reich-Ranicki si chiede sempre, di fronte a gesti, comportamenti che in qualche modo avverte come un invito a mantenere le distanze o addirittura di aperta ostilità, se tali comportamenti siano la normale ed umana conseguenza derivante dalle critiche letterarie non sempre benevole (molte le sue stroncature e giudizi spesso severi anche di libri scritti da autori illustri, magari anche insigniti del Nobel) oppure da un antisemitismo non manifesto ma pur sempre presente anche se in modo strisciante. Reich-Ranicki stesso, non è sempre sicuro di quale possa essere la risposta corretta.

La letteratura ha, in questo libro, un ruolo assolutamente centrale. E’ la letteratura la vera protagonista.

Eppure, nella passione e nell’amore che Reich-Ranicki ad ogni pagina manifesta per essa, si intravede, molto forte, quello che probabilmente è il vero e profondo motivo di questa dedizione assoluta, e cioè il problema dell’appartenenza e della “cittadinanza”, problema così efficacemente espresso dalla domanda di Günter Grass e dalla risposta di Reich-Ranicki che ho riportate in apertura di questo post.

La vera risposta a quella domanda — che non a caso si trova nella prima pagina del libro il cui Capitolo I è intitolato proprio “Ma insomma Lei cos’è?” — arriva dopo circa trecento pagine quando, riflettendo su un brano di Heine, il grande critico capisce che la letteratura costituisce la sua vera patria, il suo vero rifugio:

Forse solo allora capii fino in fondo che anch’io avevo una “patria portatile”: la letteratura, la letteratura tedesca” (p.320)

Marcel e Tosia  Reich-Ranicki
Marcel e Tosia Reich-Ranicki

Reich-Ranicki Mein Leben
Dal libro La mia vita nella primavera del 2009 la ARD, ammiraglia della televisione pubblica tedesca, ha trasmesso una fiction di grande successo sulla sua vita, già più volte replicata e particolarmente incentrata sul periodo della sua sopravvivenza nel ghetto di Varsavia.

La fiction è stata trasmessa anche dalla televisione francese dal canale ARTE.

La bibliografia di Reich-Ranicki è nutritissima, ha pubblicato molti libri ed alcune sue antologie sono, in Germania, veri e propri best seller.

In Italia per quel che ne so, oltre questa autobiografia pubblicata da Sellerio sono stati tradotti solo “Scrittori delle due Germanie” ( Traduzione di Anna Maria Carpi, introduzione di Ladislao Mittner. Mursia, Milano 1968) e “Il caso Heine” (Traduzione di Enrico Paventi. Giuntina, Firenze 2007).

Qualche link di approfondimento

  • Marcel Reich-Ranicki su Wikipedia >>
  • Il libro >>
  • Sito web di Marcel Reich-Ranicki (in tedesco) >>
  • Su YouTube il trailer del film tratto dalla sua autobiografia – in francese >>
  • Su YouTube chi comprende il tedesco si può godere parecchi video delle trasmissioni del “Quartetto letterario”
  • Nel 2008 Reich-Ranicki venne invitato al Gran Premio della TV tedesca per il conferimento dell’Oscar alla carriera (ha lavorato a lungo anche in radio).
    Salito sul podio, davanti alle telecamere e alla platea, tenne un discorso molto duro sull’attuale degrado televisivo e rifiutò il premio tra l’imbarazzatissimo sconcerto dei presentiIl video (ovviamente in tedesco) di quello che ormai è diventato famoso come “il video del Gran Rifiuto” si può vedere >> QUI

LA REPUBBLICA DELL’IMMAGINAZIONE

Giacomo Alfredi, appassionato di letteratura ed autore del blog http://giacomoalfredi.tumblr.com/ prendendo spunto da alcune cose che anni fa avevo scritto sul libro di Azar Nafisi "Leggere Lolita a Teheran" e che si trovano sul sito MeDea mi ha scritto rivolgendomi un paio di domande, alle quali ho cercato di rispondere.

Mi ha quindi dedicato un bel post dal titolo "La Repubblica dell’immaginazione".

Ringrazio molto Giacomo Alfredi, soprattutto perchè in questo modo  riporta  all’attenzione di tutti un libro che continuo a trovare molto bello e  di fatto invita a  non cessare di riflettere su una tematica che nulla ha perduto di attualità ed importanza.

GIÙ LA PIAZZA NON C’È NESSUNO – DOLORES PRATO

Dolores Prato
Dolores PRATO, Giù la piazza non c’è nessuno, a cura di Giorgio Zampa, Notizia sull’autrice e sul testo di Elena Frontaloni, pagg. 702, ed Quodlibet, 2009

“Staccia minaccia, buttiamola giù la piazza… […] Non l’ho imparata la filastrocca; quando tentavo di ricostruirla, arrivata a “giù la piazza”, attimi di inutile attesa, poi il pensiero, come se parlasse, diceva “Giù la piazza non c’è nessuno” (p.57)

La piazza è quella di Treia, una cittadina in provincia di Macerata.

Colei che, sconsolata, chiosa la filastrocca dicendosi che “Giù la piazza non c’è nessuno” è una bambina, la piccola Dolores, “nata sotto un tavolino” perchè quello è il suo primo ricordo d’infanzia e “noi cominciamo ad essere col nostro primo ricordo” (p.4).

Dolores Prato, classe 1892, abbandonata dal padre ebreo che non la volle riconoscere e dalla madre che apparteneva ad una famiglia aristocratica romana venne prima messa in un brefotrofio, poi affidata ad una famiglia di contadini in Ciociaria e poi, a cinque anni, a lontani zii materni — un vecchio zio prete e sua sorella — che abitavano a Treia.

A Treia Dolores rimase fino a diciott’anni quando dagli zii venne messa nell’educandato delle suore Salesiane della Visitazione, da dove poi passò a Roma per laurearsi nel 1919 alla facoltà di Magistero.

Trascorse i successivi vent’anni dedicandosi all’insegnamento nei licei della Toscana e delle Marche, infine a Roma, fino a quando le leggi razziali le tolsero la cattedra. Lasciò così definitivamente l’insegnamento al quale non si dedicò più, nemmeno dopo la caduta del fascismo.

Visse invece collaborando per le pagine culturali di alcune testate, principalmente Paese Sera, e di diversi periodici. Se ebbe amori, non ne parlò mai. Passò la vita a stendere e scrivere romanzi che mai videro la luce ed a ripercorrere incessantemente i ricordi di una infanzia irrimediabilmente marchiata dalla solitudine e dal sentimento di abbandono.

Se mi sono soffermata sulla biografia dell’autrice più di quanto uso fare di solito a proposito dei libri di cui parlo è perchè in questo caso la biografia dell’autrice è davvero fondamentale.

Il libro infatti, scritto in prima persona singolare, racconta la vita di una bambina che è proprio lei, Dolores e si svolge interamente a Treia.

Dolores parla di Treia, della casa, dei mobili, delle strade, dei nomi della gente. Dei fiori, degli animali, dei proverbi; dei riti religiosi e dei rituali domestici. Del susseguirsi delle stagioni, degli utensili di cucina, dei vari tipi di pasta fatta a mano. Di dolci e di verdure.

Parla degli zii, di cui la bambina sa poco o nulla; lui è un prete un po’ alchimista e lei una donna dal passato a proposito del quale nessuno osa porre domande.
Entrambi — se pure a modo loro — vogliono molto bene a Dolores ma sono troppo vecchi per saper trattare con una bambina e la zia, poi, anche se fa per Dolores tutto quello che c’è da fare, è priva di quell’istinto materno che potrebbe manifestarsi con quelle coccole e carezze di cui la bambina sente ferocemente la mancanza.

… Ma è perfettamente inutile che io cerchi di riassumere la trama del libro, difficilissimo da raccontare forse proprio perchè una trama non esiste. Posso solo semplicemente dire che si tratta di un racconto d’infanzia che si snoda mediante un lunghissimo soliloquio nell’arco temporale di dieci anni, a cavallo tra Ottocento e Novecento.

E’ infatti il racconto dei primi dieci anni di vita della bambina e il libro si chiude con l’entrata di Dolores nel collegio-educandato delle Salesiane. La permanenza in collegio costituirà poi l’oggetto della seconda parte dell’opera che verrà pubblicata — incompiuta — con il titolo Le Ore.

Riassumere le circa 700 pagine della narrazione è complicato anche dal fatto che il racconto non è temporalmente cronologicamente lineare ma è strutturato con un continuo andare avanti ed indietro nel tempo attraverso una serie di “quadri” risorgenti dalla memoria.

Una ulteriore difficoltà nasce anche e soprattutto dall’enorme quantità di materiale che dal ricordo sorge e che viene a formare un magma disordinato e incandescente che obbedisce esclusivamente alla logica di una sorta di una vera e propria “resurrezione epifanica”.

Più che guardare alla trama, allora, forse conviene concentrarsi su altro.

Per esempio, su qualcuno dei temi più insistiti e ricorrenti e i principali fili conduttori.

  • La solitudine e il sentimento di abbandono
    di una bambina per la quale la “la casa degli zii […] era una nebulosa, con in mezzo io come asteroide” (p.120) perchè “Mia madre mi aveva buttata via” “…Nessuno mi accarezzava, nessuno mi vezzeggiava…”) , “Io ero sola e diversa; stavo in disparte” (p.232), “ammiravo tutto quello che era degli altri, mi vergognavo di tutto ciò che era mio” (p.442)
  • Le Parole e le Cose
    Se le persone non le sono di alcun aiuto, Dolores trova rifugio nel mondo delle cose, perchè “Le persone non mi parlavano, ma le cose si” (p.84), “Forse perchè vivevo sola nel silenzio, tutto mi parlava, anche l’impagliatura di certe sedie antiche di noce” (p.138) e “Non separavo le cose e gli animali dalle persone […] si sviluppò questa mia immedesimazione con le cose…”(p.103)Ecco allora gli sterminati elenchi di oggetti, di fiori, di animali, di utensili; descrizioni che si sviluppano per un numero incredibile di pagine e che diventano esse stesse narrazione facendo di questo libro un “unicum” difficilmente classificabile come “romanzo” nel senso più tradizionale di questo termine.
  • Il linguaggio
    Dolores Prato usa una lingua che, più che quella del “libro di scuola” è quella del lessico dell’infanzia, di Treia (o Treja, come la Prato tiene a continuare a scrivere), una lingua che identifica le Parole con le Cose e che fa di lei, come scrive Giorgio Zampa nell’introduzione “Un autore ascrivibile […] ad una categoria di irregolari […] istintivi, alimentati non tanto da una lingua letteraria quanto dalla freschezza della nativa…l’orecchio esercitato sulla lingua parlata, quindi sul dialetto più che su pagine di classici, elaborazioni, presupposti teorici” (p.X) ” e del suo libro una vera e propria “elegia senza fine”
  • La Memoria e le resurrezioni epifaniche
    Una memoria che per Dolores, più che “ricordo” è “tatuaggio, incisione, cicatrice. Io leggo i segni” (p.115) e dalla quale Treja e l’infanzia (ri)sorgono —- come in Proust la Combray dell’infanzia risorge dal fondo di una tazza di tè o il selciato di Piazza San Marco a Venezia da un ciottolo del cortile di palazzo Guermantes — da una serie di vere e proprie epifanie:il selciato dell’Appia Antica, le crocette rose alla Stazione Termini di Roma, il selciato di una piazzetta romana che riporta Dolores a Piazza dell’Olmo a Treja…Le epifanie sono talmente numerose e ricorrenti, in tutto il libro, che se è vero che, come scrive Zampa, è impossibile accomunare Dolores Prato ad altre pure eccellenti scrittrici italiane della sua epoca come ad esempio Anna Banti, Gianna Manzini, Maria Bellonci e la stessa — anche se più giovane — Natalia Ginzburg, sono tante le pagine che, al lettore di oggi, possono suscitare connessioni non solo con Proust ma anche con Joyce.E poi… personalmente ho provato davvero una grande emozione quando ho letto la pagina in cui Dolores parla dei tanti modi in cui il suo nome veniva declinato, in casa, e che dunque Dolores diventava di volta in volta Lolò, Lola e… Lolita.

Giù la piazza non c’è nessuno ebbe una gestazione durata più di un decennio ed una pubblicazione molto travagliata.

Dolores Prato ne cominciò la stesura intorno al 1973 quando aveva già ottantadue anni e nel 1975 avviò la vera e propria collazione degli appunti – una miriade. Dopo aver letto il suo libro non stupisce apprendere che fu Stefano D’Arrigo, l’autore di Horcynus Orca a spronarla ed incoraggiarla. La Prato terminò la stesura del libro nel 1980 e Giù la piazza non c’è nessuno venne pubblicato da Einaudi.

Natalia Ginzburg l’aveva però ridotto drasticamente — senza il consenso dell’autrice — a circa 300 pagine, tagliato cioè di circa due terzi.

Eppure la Prato, in una lettera scritta ad Enzo Golino allora Direttore dell’Espresso tenne a precisare che, pur molto addolorata per questi tagli, era “gratissima” alla Ginzburg che “ha sempre amato questo libro, con quelle manomissioni voleva renderlo più accessibile. Io salto i verbi come se qualcuno mi corresse dietro; i miei passaggi sono ponti levatoi mai abbassati; lei riduceva più intelleggibile il mio modo di scrivere; ma io preferivo tenermi i miei difetti. Avevamo ragione tutte e due. […]”

Questa edizione della Quodlibet è l’originale autorizzato dalla Prato a distanza di 17 anni dall’edizione parziale ed è corredata da una eccellente introduzione del curatore Giorgo Zampa e da una lunga ed utilissima nota sull’autrice e sul testo a cura di Elena Frontaloni.

Giù la piazza non c’è nessuno è il libro bellissimo e struggente di una “esordiente di novant’anni”, un libro in cui la ricerca che una Dolores ormai anziana fa del perchè e del come “si stabilizzò uno squilibrio in me” (p.678), si dispiega rievocando, scandagliando, descrivendo, analizzando la propria infanzia per più di 700 pagine.

Questa ricerca è resa splendidamente per mezzo di un uso formidabile di un linguaggio che ai miei occhi costituisce l’aspetto forse più notevole e importante del libro.

Eppure… penso che in questo lunghissimo monologo ci sia, a volte, davvero troppo, troppo, troppo, e questo troppo debordante, tracimante, dilagante rischia di ubriacare e stordire il lettore e di farlo arrivare alle ultime bellissime pagine del libro ormai privo di forze e stremato. Il che sarebbe davvero un peccato.

Non conosco la prima versione Einaudi, quella curata da Natalia Ginzburg e non sono quindi in grado di far confronti e soprattutto di valutare i criteri operati nei tagli.

Sono però convinta, avendo completato la lettura di questa edizione integrale, che alcune robuste sforbiciate non avrebbero potuto che essere di giovamento, per la fruibilità e il pieno godimento di questo che in ogni caso è e rimane, a mio parere, uno dei libri più notevoli della letteratura italiana del Novecento.

Piazza di Treia. La fontana
La fontana della piazza di Treia
  • Dolores Prato su Wikipedia >>
  • La scheda del libro >>
  • Breve storia di Giù la piazza non c’è nessuno di Elena Frontaloni (documento .pdf) sul sito www.italianisti.it Per trovarlo attivare la funzione di ricerca interna al sito

KUNDERA, PROUST E IL SENSO DEL ROMANZO

Milan Kundera

Ne “Il sipario”, una raccolta di brevi note sul senso del romanzo, Milan Kundera riporta questo brano di Proust tratto da “Il Tempo ritrovato” :

… ogni lettore, quando legge, è soltanto il lettore di se stesso. L’opera dello scrittore non è che una specie di strumento ottico che egli offre al lettore per permettergli di scorgere ciò che forse, senza il libro, non avrebbe visto in se stesso. Il riconoscersi del lettore in ciò che il libro dice è la prova della verità di questo….

E Kundera chiosa il pensiero di Proust in questo modo


Tali affermazioni non definiscono solo il senso del romanzo proustiano, definiscono il senso del romanzo tout court

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