THE MASTER – COLM TÓIBÍN

Colm Toibin

Colm TÓIBÍN, The Master (tit. orig. The Master), traduz. Maurizio Bartocci, p.350, Fazi Editori, Collana Le Strade, 2004, ISBN 88-8112-580-3

Quinto romanzo dell’irlandese Colm Tóibín, The Master è ispirato alla vita del grande scrittore Henry James, ormai considerato il fondatore e Maestro riconosciuto del moderno romanzo psicologico.

Tóibín concentra la narrazione sui quattro anni della vita di James che vanno dal 1895 al 1899, gli anni che nella famosa e monumentale biografia di Henry James scritta da Leon Edel vengono definiti treacherous years (“anni traditori”), anni di delusione e di profondo malessere spirituale.

Nel 1895  James ha già ha scritto alcuni dei suoi capolavori come Ritratto di signora, Washington Square, Le bostoniane e II carteggio Aspern. É molto ricercato in società, frequenta volentieri i salotti dell’alta società londinese; i suoi libri pur non avendo un grande successo popolare sono però molto apprezzati da un pubblico di lettori colti e raffinati.

Adesso ha deciso di darsi al teatro, e le prime pagine di The Master ci fanno vedere James che va nel teatro dove si recita la “prima” del suo dramma Guy Domville al quale ha affidato le speranze di dare una svolta alla sua carriera.

Ma quando finalmente cala il sipario  James, che si presenta alla ribalta in quanto autore del dramma viene sommerso dai fischi e dalle proteste dei loggionisti che lo seppelliscono di insulti mentre i suoi imbarazzatissimi amici aristocratici in platea cercano invano di mitigare la sua umiliazione applaudendolo.

Tutto questo, mentre nella stessa sera, nelle stesse ore, la commedia Un marito ideale di Oscar Wilde — che James trova fiacca e volgare così come trova “grosso, volgare e irlandese” il suo autore Oscar Wilde nei cui confronti prova un misto di invidia e disprezzo — sta ottenendo un enorme successo e raccoglie applausi a scena aperta.

La polarità James- Wilde ricorre spesso nel libro di Tóibín che nel confronto tra questi due grandi autori fa emergere la diversità di due intelligenze, di due talenti artistici e soprattutto di due stili di vita in completa, totale opposizione.

Dopo questo fiasco clamoroso James decide di tornare alla narrativa, ma prima di rimettersi al lavoro accetta l’invito di alcuni amici dell’aristocrazia inglese che abitano in Irlanda, sperando così di sfuggire agli echi della sua débâcle teatrale.

Gli anni che seguono vengono da James interamente dedicati all’arte e sono gli anni in cui scrive i suoi ultimi grandi capolavori, tra i quali Cosa sapeva Masie, Il giro di vite, Gli Ambasciatori.

Ma a che prezzo? Il processo di Oscar Wilde, la morte della sorella Alice e della cugina Minnie, il suicidio della sua amica Constance Fenimore Cooper lo rendono consapevole dell’aridità (che arriva alla crudeltà) della sua vita privata e della sua sostanziale incapacità di amare qualcuno che non sia un personaggio dei suoi libri.

Henry JamesOgni capitolo in cui il romanzo è suddiviso mescola sapientemente la narrazione lineare degli avvenimenti del periodo di volta in volta preso in esame (ogni capitolo infatti ha per titolo una data: aprile 1895, giugno 1898 e così via) e lunghe parentesi dedicate a ricordi di James che fanno riemergere le persone, gli incontri, i momenti più significativi e decisivi della sua infanzia e della sua giovinezza.

Da questa rete di relazioni familiari (con i genitori, i fratelli, la sorella Alice), con amici ed amiche e persino con i domestici ci viene restituita l’immagine di un uomo continuamente impegnato a nascondere e reprimere i propri sentimenti e le proprie pulsioni e l’omosessualità.

Il titolo che Tóibín (peraltro omosessuale dichiarato, e che alla vita ed ai problemi di artisti omosessuali ha dedicato parecchi scritti, tra i quali Amore in un tempo oscuro. Vite gay da Wilde ad Almodóvar) ha dato al suo libro  assume ad un certo punto una doppia valenza.

Perchè se James è certamente un Maestro della letteratura occidentale, è stato sicuramente, dolorosamente, anche un “maestro nell’arte della riservatezza”.

“Non gli dispiaceva affatto mantenersi invisibile […] era pronto ad ascoltare, ma non a svelare il lavorio della propria mente, l’immaginazione o la profondità dei suoi sentimenti” (p.233).

Il paradosso di James sta in questo: da una parte, tutta la sua opera, come ben sanno tutti coloro che, come me, non si stancano di leggere e di rileggere i suoi libri, da Ritratto di signora a La coppa d’ oro a Le ali della colomba è un monumento alla capacità di comprendere le infinite sfumature dell’ umano sentire.

Dall’altra parte, quali fossero le reali emozioni di Henry James, quali siano  state le sue reazioni emotive di fronte alle morti, i suicidi, le malattie di persone a lui vicinissime per legami familiari e/o affettivi si può forse, solo intuirla e sembra che nemmeno la monumentale biografia in cinque volumi — che io non ho letto perchè mai tradotta in italiano — scritta da Edel sia riuscita a intaccare la ferrea barriera di riservatezza che James ha innalzato davanti a se, nonostante l’immensa mole di libri e le 10.000 lettere che ha lasciato.

Proprio lui, che tanto a fondo riusciva a scrutare le più complesse sfumature dell’animo umano, pare non essere mai stato coinvolto in un legame amoroso o dall’erotismo.

Nel romanzo The Master sembra proprio che Tóibín, utilizzando la tecnica del guardare le cose solo ed esclusivamente dalla prospettiva interiore di Henry James (adottando dunque quella particolarissima tecnica del “punto di vista circoscritto” teorizzata e portata all’eccellenza proprio da James) sia riuscito a varcare quella soglia davanti alla quale saggisti, biografi, critici letterari prima di lui avevano fallito.

Il tema dell’omosessualità repressa è centrale, nel libro, ma è trattato con grande discrezione ed emerge prepotentemente da una scrittura che mi piace definire ” puro James- style”, e cioè attraverso allusioni, non-detto, ricordi e fantasie di James la più toccante delle quali è, a mio parere, quella della notte trascorsa, da ragazzo, con l’amico di gioventù William Dean Howells.

Molto evocative sono anche le pagine in cui Tóibín ci mostra un James non più giovanissimo che prende coscienza del fascino su di lui esercitato dal giovane scultore svedese Hendrick Andersen, conosciuto a Roma, suo ospite poi nella casa di Rye nel Sussex. La frequentazione con Andersen proseguirà poi per molti anni.

Henry James e Andersen
Henry James con Henrik Andersen a Roma nel 1907
Copyright 2007 The New York Times Company

 

Eppure, le pagine in assoluto più belle e toccanti del romanzo di Tóibín a me sono sembrate quelle quelle dedicate alle donne importanti nella vita dello scrittore.

Alice James Minnie Temple Constance Fenimore
Alice James, Minnie Temple, Constance Fenimore

La sorella Alice, morta nel 1892 durante un soggiorno a Londra.

Permettetemi una parentesi: sulla vita di Alice James, sulla sua malattia, sul suo Diario (ne ho scritto tempo fa >> qui) perchè questa ragazza, dotata di una intelligenza che nulla aveva da invidiare a quella dei fratelli William ed Henry fu vittima delle convenzioni sociali del tempo che per la donna vedevano solo un futuro di moglie e di madre e che per questo si lasciò letteralmente morire. Sto divagando solo apparentemente, perchè la vita di Alice James ci dice tante cose anche sull’egoismo di Henry.

La cugina Minny (o Minnie)  Temple, morta di tubercolosi a 24 anni e le cui caratteristiche ritroviamo in molte delle belle, intelligenti ragazze americane che popolano i romanzi di James (Daisy Miller ed Isabel Archer le più note). Henry adorava la cugina Minnie, e forse proprio per questo la considerava più o meno consapevolmente “pericolosa”, tanto che — scrive Tóibín — “lui l’aveva preferita morta anzichè viva […] aveva saputo trattarla una volta che le era stata rubata la vita, ma […] le aveva negato il suo aiuto quando glielo aveva gentilmente chiesto” (p.129)

La scrittrice Constance Fenimore Cooper, che si suicidò gettandosi dal balcone della sua casa di Venezia, grandissima amica di James ma che James abbandonò proprio nel momento in cui lei, sprofondata in una terribile crisi depressiva, aveva invocato invano la sua compagnia e l’aveva pregato di raggiungerla a Venezia.

A Constance ed alla sua morte sono dedicati alcuni dei più bei capitoli del libro (magnifica la scena in cui James ed il gondoliere veneziano, di notte, gettano nelle acque della laguna i vestiti, la biancheria, le scarpe della suicida Constance).

Sono, queste tre donne, figure che hanno lasciato segni indelebili nella vita emotiva di James e nei confronti delle quali egli non riesce a esorcizzare la colpevole sensazione di essere stato causa di grandi sofferenze. Donne alle quali pensa con affetto e rimpianto ma anche con la fredda consapevolezza del proprio enorme egoismo.

Superfluo dire che tutte e tre le donne si ritrovano in molti personaggi femminili dei racconti e dei romanzi dl grande scrittore…

Con una serie di flash-back intensi, Tóibín ci riporta dunque anche alla genesi dell’opera letteraria di James. Gli episodi della sua vita raccontati qui con un continuo avanti e indietro temporale ci mostrano il delicato confine che separa la realtà dalla finzione. Suo padre, la sorella, la cugina, i suoi problemi di salute, i suoi studi, le chiacchiere londinesi… tutto diventa materiale per la sua immaginazione. Si va a poco a poco delineando — attraverso i ricordi d’infanzia, le sue aspirazioni, la sua vita sociale, Henry James come persona.

Un uomo che sembra sempre fluttuare sopra gli avvenimenti e le altre persone guardando, ascoltando, osservando, sempre alla ricerca di materiale per le sue narrazioni.

Quello che viene fuori dalla scrittura sobria, calma, riposante di Tóibín è — potremmo dire parafrasando il titolo di uno dei capolavori dello stesso James — il “ritratto di un signore” che trasforma la vita in letteratura, un uomo per il quale tutto non è che materiale che serve ad alimentare l’ispirazione letteraria.

Tecnicamente il libro è certamente da definirsi “romanzo” o “biografia romanzata” ma — basato com’è su una mole impressionante di fonti e di documenti e soprattutto su un’attenta lettura delle opere di James e del suo epistolario — a me è sembrato che Tóibín abbia delineato con grandissima sensibilità ed empatia un magnifico ritratto psicologico del grande scrittore.

Audace biografia letteraria, commovente omaggio al Maestro, The Master è anche un bellissimo romanzo che si interroga sui conflitti tra creazione letteraria e vita quotidiana.

Colm Toibin
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DAL BARBIERE

La morte a Venezia Dirk Bogarde
Dirk Bogarde in Morte a Venezia di Luchino Visconti (1971)

Leggendo il romanzo Le premier amour di Sándor Márai di cui ho già parlato qui sono rimasta colpita dalle tante analogie che mi è sembrato di cogliere con il racconto lungo La morte a Venezia di Thomas Mann.

Rimango sempre affascinata quando mi succede di individuare connessioni, analogie, temi conduttori e soprattutto modi di rappresentarli in testi di autori diversi, e la cosa tanto più mi interessa quanto più gli autori in questione appaiono — per appartenenze, collocazione geografica, distanze spazio temporali — distanti fra loro.

In questo caso, sia La morte a Venezia (pubblicato dallo scrittore tedesco nel 1912 ed ambientato tra Monaco di Baviera e Venezia) e il romanzo dell’ungherese Márai (pubblicato nel 1928 ed ambientato in una piccola cittadina della provincia ungherese) raccontano la storia di un un uomo più o meno cinquantenne, schivo e solitario, che suo malgrado si innamora follemente.

In entrambi i casi quest’amore il cui oscuro oggetto del desiderio è una figura adolescenziale che ha da pochissimo varcato la soglia della pubertà conduce inesorabilmente i protagonisti delle due storie alla follia o alla morte.

Gustav Aschenbach (“ovvero Von Aschenbach, questo era diventato il suo nome ufficiale dal giorno del cinquantesimo compleanno”, scrive Mann) è uno scrittore affermato e celebre a livello anche internazionale ed è abituato a viaggiare.

Il professore di Márai — di lui non ci viene rivelato nè il nome nè il cognome — è un metodico insegnante di latino e greco nel liceo locale il quale, pur avendo di tanto in tanto fantasticato su esotici viaggi transoceanici che lui per primo sa non realizzerà mai, non si è, di fatto, mai spostato dalla sua cittadina.

L’oggetto del desiderio di Aschenbach è Tadzio, un ragazzino polacco quattordicenne dalla straordinaria ed ambigua bellezza; l’adolescente di cui quasi inconsapevolemente si innamora il Professore ungherese è una ragazzina appena diciassettenne, sua allieva, non particolarmente bella nè attraente.

Entrambi gli uomini prendono dolorosamente e faticosamente coscienza della loro passione (Aschenbach dopo appena qualche giorno, il Professore solo dopo parecchi mesi) ed il loro sprofondare in essa è accompagnato e punteggiato da tutta una serie di piccoli gesti che sarebbero di per loro privi di importanza se non fossero carichi di significati simbolici che Aschenbach e il Professore non sono capaci di cogliere ma che, al contrario, risultano chiarissimi agli estranei che li circondano.

Un vestito nuovo, una maggior cura nell’abbigliamento, il cambiamento di orari e della piccola routine quotidiana… il mutamento del percorso delle loro passeggiate…

Ma ci sono un paio di pagine in entrambi i testi che mi sono sembrate particolarmente interessanti e riguardano quella che — non a caso — mi piace chiamare “la sequenza del barbiere”.

Sia il tedesco Aschenbach che il Professore ungherese infatti, all’incirca a metà della narrazione, vanno dal barbiere per una normale rasatura e taglio dei capelli.

Avendo malinconicamente constatato ad alta voce quanto il loro volto sia invecchiato, i capelli siano ormai grigi e quante rughe siano comparse negli ultimi tempi si lasciano convincere dal barbiere (in entrambi i testi descritto come una figura dagli atteggiamenti untuosi e servili) a sottoporsi ad una serie di trattamenti (massaggi, tinture, trucchi) che potrà restituire loro un aspetto giovane e seducente.

“La chenille s’est transformée en papillon […] ce que j’entends par là a-t-il continué toujours avec la même politesse, c’est que je ne donnerais pas trente-cinq ans à monsieur le professeur. Non, même pas trente-cinq: trente-trois”, dice il barbiere al Professore. Il bruco sarebbe stato dunque trasformato in farfalla, ed il Professore dimostrerebbe adesso non più di trentatre anni…

Il barbiere veneziano della novella di Mann, dal canto suo, dopo aver tinto i capelli del tedesco Aschenbach, averglieli “aggiustat[i] in morbide onde” ed aver “rinfrescata un poco la pelle del viso” dice all’attempato cliente: ““adesso, signore, può innamorarsi tranquillamente”.

Tutta la pateticità e la malinconia di questa che io chiamo “scena del barbiere” la trovo rappresentata splendidamente in una sequenza — sottolineata dalle note sublimi e strazianti di Gustav Mahler — tratta dal film La morte a Venezia di Luchino Visconti in cui Gustav Von Aschenbach è interpretato magistralmente da uno straordinario Dirk Bogarde

PROPAGANDA MONUMENTALE – VLADIMIR VOJNOVIC

Propaganda monumentale
Vladimir VOJNOVIC, Propaganda monumentale (tit. orig. Monumental’naja Propaganda), traduz. Maria Candida Ghidini, Garzanti Libri, Collana Narratori Moderni, p. 479, 2004, ISBN: 8811665205 ISBN-13: 9788811665205

Il romanzo si svolge a Dolgov, una immaginaria cittadina russa di media grandezza nella sterminata carta geografica sovietica, durante un arco temporale che va dal 1956 ai giorni nostri.

La protagonista è Revkina Aglaja Stepanovna, membro del PCUS dal 1933, veterana della seconda guerra mondiale durante la quale è stata al comando di due divisioni di partigiani e che per questo ha ottenuto due onorificenze al valor militare. Aglaja è stata poi segretario provinciale del PCUS, attivista sociale, direttrice di un orfanotrofio.

Nel Prologo, l’ io narrante, un russo originario di Dolgov ma da tempo emigrato all’estero apprende da un ritaglio di giornale la morte di Aglaja — da lui conosciuta molti annni prima — e decide di tornare nella cittadina di origine per intervistare gli abitanti e ricostruire la vita di questa donna.

Il racconto vero e proprio inizia nel 1956 quando   — a seguito del nuovo corso politico derivante dalle rivelazioni di  Chruscev al XX Congresso del PCUS sui crimini di Stalin — nella cittadina di Dolgov arriva l’ordine di eliminare la gigantesca statua in ghisa di Stalin che domina la cittadina e che era stata eretta nel 1949 proprio per iniziativa di Aglaja in occasione del settantesimo compleanno del “Piccolo Padre”.

Questa svolta, e tutte le conseguenze che ne derivano, costituiscono per Aglaja una vera e propria catastrofe perchè lei è sempre stata, e continuerà ad essere fino alla fine e nonostante tutto, una stalinista fanatica: “Stalin per lei era il partito, ed il partito era Stalin” (p.32).

Cosa fare davanti alla orribile prospettiva di vedere abbattuta la statua del suo idolo?

Presto detto: Aglaja decide di portarsela a casa sua, la statua e corrompendo trasportatori, ispettori addetti alla sicurezza dei solai (l’enorme statua di ghisa rischia di fare sprofondare il pavimento provocando enormi danni al palazzetto condominiale), superando indomita un sacco di difficoltà… la piazza nel centro del salotto di casa.

Da quel momento ha inizio la convivenza di Aglaja (vedova e con un figlio che vive lontano da lei) con il suo adorato compagno Stalin.

Con lui parla, si confida, ha persino fantasie erotiche.

L'”inquilino di ferro”, dal canto suo, sembra reagire e rispondere, se pure con “movimenti non autorizzati”.

Propaganda monumentale, del 2002, è uno dei libri più divertenti ed amari che mi sia capitato di leggere da parecchio tempo a questa parte, un libro che alterna pagine davvero esilaranti con altre venate di profonda malinconia. Un libro che ho letto lentamente, perchè non volevo finisse presto.

Dal risvolto di copertina e da qualche ricerca che ho svolto in rete ho appreso che il suo autore Vladimir Vojnovic — la cui esistenza, ammetto, mi era del tutto ignota — viene considerato uno dei massimi scrittori russi contemporanei.
Affermatosi all’epoca del disgelo di Chruscev, nel 1974 venne espulso dall’Unione degli Scrittori Sovietici e nel 1980 costretto all’esilio per le sue prese di posizione a favore dei dissidenti. Attualmente vive tra la Russia e Monaco di Baviera.

Il tema dominante, il filo conduttore del suo romanzo è, certo, la storia della fanatica Revkina alle prese con la destalinizzazione del paese ma nel romanzo non c’è solo questo.

Propaganda monumentale è un romanzo corale e la protagonista Aglaja sin dalle prime pagine si rivela anche una cartina di tornasole, un collante, un medium tra decine di altri personaggi ciascuno dei quali svolge, nel romanzo, una specifica funzione nel rappresentare le innumerevoli sfaccettature di una realtà storica complessa ed in movimento e di tutti i cambiamenti che si verificano negli anni che vanno dal periodo del cosiddetto disgelo e della destalinizzazione fino all’implosione dell’ impero sovietico ed alla Russia di Putin, mai nominato esplicitamente ma del cui governo emergono, negli ultimi capitoli, gli effetti non proprio edificanti.

Il registro utilizzato da Vojnovic è decisamente quello della satira ed il suo stile di scrittura è meravigliosamente inserito e radicato in quel filone surrealista della letteratura russa — come giustamente viene detto nel risvolto di copertina — di Gogol e di Majakovskij (ai quali io, per la vertià, mi permetterei di aggiungere il Bulgakov de Il Maestro e Margherita).

L’insieme dei personaggi del romanzo è un vero e proprio tourbillon costituito da funzionari politici e dissidenti, mafiosi e nuovi ricchi, terroristi e delatori, ex Eroi dell’Unione Sovietica e ex partigiani, ex torturatori dell’NKDV e reduci dall’Afghanistan…

Le vicende di ciascuno di questi personaggi si intrecciano a considerazioni al vetriolo e battute spesso fulminanti dell’Autore-Io narrante non solo sullo stalinismo ma anche sul neo-stalinismo di Breznev, sulla Glasnost e su tutti i regimi succedutisi nel corso di cinquant’anni di storia russa.

Qualche spigolatura qua e là:

  • “Il cervello di una persona tendenzialmente ideologica è costruito in modo che sapendo una cosa ne crede un’altra” (p.47)
  • “Ma tu [chiede Aglaja ad un funzionario di partito] ce l’hai un’opinione?
    Ce l’ho, le assicurò Necitajlov. Ma come per ogni comunista che si rispetti, la mia opinione non si distingue da quella della dirigenza”

(p.59).

  • “I marxisti-leninisti erano bravi marxisti e buoni. Volevano creare sulla terra le condizioni per una vita buona per buoni e cattiva per i cattivi, ma per forza secondo i dettami della Dottrina. E perciò i cattivi li uccidevano, e i buoni, per quanto possibile, li risparmiavano. Gli stalinisti, invece, erano essenzialmente dei democratici: uccidevano tutti senza distinzione” (p.78)
  • “Il cinico è un romantico deluso. All’inizio crede negli ideali, poi vede che essi non corrispondono alla realtà della vita e comincia a credere solo ai propri occhi” (p.236).

A proposito del Terrore:

“Aleksej Michailovic Makarov, detto l’Ammiraglio, suddivide la nostra storia postrivoluzionaria nell’epoca del Terrore delle cantine (quando sotto Lenin si fucilava la gente negli scantinati della Ceka), in quella del grande Terrore (sotto Stalin), del Terrore nei limiti delle norme leniniste (sotto Chruscev), del Terrore selettivo (sotto Breznev), del Terrore di passaggio (sotto Andropov, Cernenko e Gorbacev) e del Terrore senza confini (momento attuale). Uno qualsiasi condanna a morte un altro qualsiasi, per un motivo qualcsiasi. La gente si fa fuori a vicenda con ogni mezzo possibile. Il massimo della resa e impunità totale” (p.361)

E la Russia di oggi?

“Oggi vivamo in tempi che offrono molte possibilità, dice Krysa. I banditi sono diventati della polizia segreta, la polizia segreta lavora per i banditi, i militanti del Komsomol diventano banchieri, i segretari del partito regionale fanno i governatori” (p.407).

Ma nel libro ci sono anche pagine commoventi perchè tutti i personaggi (a cominciare da Aglaja) non sono rappresentati solo come parabole, simboli o stereotipi ma a tutto tondo nella loro complessità di esseri umani.

Non trovo, per chiudere questo post, parole migliori di queste tratte dal bell’ articolo che Fabrizia Ramondino ha dedicato al romanzo di Vojnovic e che condivido totalmente:

“Si ride molto leggendo queste pagine, ma quanto amaramente. Perché la grande pietas dello scrittore si estende a ogni singola esistenza e irrompe di continuo nella narrazione, scompaginando le figure del grottesco.” (Fabrizia Ramondino, L’Espresso)

  • Vladimir Vojnovic >>
  • Il libro >>
  • Fabrizia Ramondino su L’Espresso >>
  • Una recensione del libro di Vojnovic su eSamiszdat, in cui tra l’altro viene spiegata l’origine storica dell’espressione “propaganda monumenale” >>
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