
Sándor MÁRAI, Il sangue di san Gennaro (titolo orig. San Gennaro Vére), a cura di Antonio Donato Sciacovelli, p.346, Adelphi, Collana Biblioteca Adelphi, 2010, ISBN 9788845925238
«A Pasqualino, che aveva sei anni e ogni mattina portava giù l’immondizia
Al pescatore monco, perché metteva a tacere il mare
A Santo Strato, perché proteggeva il palazzo e i malati
Ai fiori
Agli animali
Al mare
Ai Poveri di Posillipo
All’Italia »
Sono le parole che Márai ha voluto porre in epigrafe di questo suo strano “romanzo napoletano” pubblicato per la prima volta a Baden Baden nel 1957.
A chi, come me, ha imparato a conoscere ed amare Sándor Márai attraverso tutti i suoi libri pubblicati sino ad ora in Italia da Adelphi, questo romanzo potrebbe apparire come un’incursione molto al di fuori del suo universo abituale, e cioè l’Europa centrale in cui nacque nel 1900, devastata prima dal nazismo e poi dal comunismo.
La storia narrata in questo libro si svolge in Italia, a Napoli, e precisamente a Posillipo.
Per spiegare questa apparente stranezza è utile forse fare un piccolo passo indietro e ricordare che quando nel 1948 Márai lasciò definitivamente l’Ungheria che si trovava sotto il regime comunista con cui egli non voleva avere niente a che fare scegliendo la dolorosa strada dell’esilio volontario andò prima in Svizzera e poi, da lì, si trasferì a Napoli dove rimase per quattro anni fino al 1952 per emigrare poi negli Stati Uniti.

Perchè proprio Napoli? Alla base della decisione c’erano motivazioni diverse: la prima era che a Napoli viveva Benedetto Croce, e per un liberale conservatore e aristocratico quale Márai, quella vicinanza significava al tempo stesso un conforto morale e una scelta politica.
A Napoli, dove arrivò con la moglie Lola, la sua compagna di tutta la vita, prese casa a Posillipo, sulla strada che scende a Marechiaro.
Anche la struttura del libro è molto particolare, molto diversa da quella degli altri romanzi di Márai.
Diviso in due parti, costruito su un doppio binario, Il sangue di San Gennaro ci mostra nella Prima Parte una folla di personaggi napoletani, di piccola gente, una carrellata di ritratti e personaggi minimi tratteggiati con grande simpatia, comprensione ed anche ironia; sfila una galleria di volti, di mestieri, di ragazzini e adulti esperti nell’arte di arrangiarsi e soprattutto veri e propri “professionisti dell’attesa”: attesa del “posto”, attesa di un miracolo — piccolo o grande — che possa risolvere i problemi dell’esistenza e della sopravvivenza e soprattutto attesa di quel “miracolo ufficiale” e programmato costituito dal prodigio della liquefazione del sangue di San Gennaro.
Con tenerezza ed affetto lo scrittore ungherese descrive il pranzo che in un basso napoletano viene allestito per festeggiare il ritorno di un nipote emigrato in America, un frate mendicante, il ragazzino guarito dal tifo con… le novene recitate da tutta la famiglia riunita al suo capezzale (!), il culto dei napoletani per i Santi, la loro ferma credenza nei miracoli….
In questa folla costituita dallo spazzino che arriva alle sei del mattino a raccogliere l’immondizia, e “riceve in cambio tre caramelle e una manciata di mozziconi di sigarette”, il venditore di uova che dice continuamente “eccellenza” e con i suoi modi fa capire che “tra i suoi avi ci furono di sicuro gli spagnoli”, il postino che arriva cantando e annuncia il suo prossimo matrimonio “ed è felice perché è italiano” non emerge alcun protagonista.
C’è invece la coralità di un racconto i cui protagonisti sono Napoli, il suo mare (al quale Márai dedica, nel cap. 17, pagine bellissime), la sua gente che per alcuni versi ci ricorda molto la Napoli di Eduardo, di Marotta, di un certo Totò e, perchè no, anche di Malaparte.
Nel bel mezzo di tutto questo ecco arrivare un giorno due stranieri, un uomo e una donna. Sono inglesi? o forse polacchi? ci si chiede nel quartiere di Posillipo dove vanno ad abitare. Sono, si capisce da lì a poco, delle “displaced persons” termine, questo, usato dalle Autorità per definire i profughi, gli esuli.
L’uomo e la donna (moglie? compagna? amante?) senza nome percorrono i vicoli, entrano nelle botteghe, figure educate, schive e discrete che al popolino del quartiere risultano allo stesso tempo estranee e familiari.
…E poi un giorno, durante una violentissima bufera, l’uomo senza nome precipita da un belvedere sfracellandosi sulla scogliera.
Suicidio? Omicidio? Banale incidente? Ne sentiremo parlare nella Seconda Parte del romanzo.
A questo punto stile e registro narrativo cambiano radicalmente, adesso sì che riconosciamo lo scrittore al quale eravamo abituati, perchè la complessa personalità dell’uomo morto in una notte di tempesta emerge da tre lunghi e affascinanti monologhi, dalle parole dell’agente di polizia che ha svolto le prime indagini, da quelle di un frate francescano con cui il morto aveva avuto lunghi ed intensi colloqui ed infine dal racconto della misteriosa donna con il quale aveva vissuto nella casa di Posillipo.
Qui Márai emerge con prepotenza, perché Il sangue di San Gennaro diventa il grido di dolore di chi, costretto ad andarsene dalla propria terra, sa benissimo da quel momento sarà sempre, dovuque e comunque, uno straniero.
C’è differenza tra stranieri, turisti e profughi, perchè questi ultimi non hanno più niente da perdere “se non la propria identità […] hanno già perso la patria, la famiglia, la casa e la lingua madre, e adesso, profughi in giro per il mondo, cominciano a perdere anche l’identità” e “un bel giorno capiscono che non hanno più neanche un nome […] perchè il nome non conta più. Contano solo le impronte digitali e il numero della cartella in cui sono stati registrati” (pagg. 193-194).
“Gli esiliati, displaced persons, sono i profeti tormentati di una civiltà in decadenza […] ormai non si aspettano più nulla […] quelli che si mettono in viaggio non credono più in cuor loro, di poter trovare una patria […] e se un giorno torneranno in patria, essa sarà per loro soltanto un luogo di soggiorno un po’ più familiare di altri…perchè una patria bisogna viverla, come si vive una sensazione, un amore, e se questo circuito di esperienze un giorno si interrompe, non lo si può più ristabilire” (p.252)
Le pagine (bellissime e toccanti) sulla spoliazione e perdita di identità, sulla madre lingua, sulla perenne sensazione di straniamento cui va incontro un esule non possono non ricordare quelle, altrettanto toccanti, contenute in “Terra…Terra!”, secondo volume dell’autobiografia dello scrittore ungherese così come quelle sul suicidio e la solitudine non possono non ricordare lo strazio di cui è intriso il diario degli ultimi anni di Márai, quel L’ultimo dono la cui ultima pagina fu scritta due giorni prima che lo scrittore si suicidasse.

Ne Il sangue di San Gennaro i temi dell’identità, dell’emigrazione e dell’esilio sono strettamente intrecciati ad una serie di sofferte considerazioni sul comunismo, sul ruolo degli intellettuali nelle dittature, troppo spesso “sciacalli dello spirito” (pagg.238, 239), “piromani terrorizzati dall’incendio che hanno contribuito ad appiccare e che ora si fanno assumere da una compagnia d’assicurazione in qualità d’esperti incaricati di stimare i danni” […] “compagni di strada che passano il loro tempo a lamentarsi ipocritamente sui metodi “erronei” del collettivismo”
Dalle pagine del romanzo emerge anche la delusione provata dall’uomo senza nome del romanzo (evidentissimo Alter Ego dello stesso Márai) nel constatare l’atteggiamento di tolleranza se non addirittura di speranza degli intellettuali italiani ed europei occidentali in genere nei confronti del comunismo (“la grande truffa, la truffa planetaria denominata bolscevismo” (p.233) ) e sedotti dalla “litania monotona del vespro comunista” (p.221)
Personalmente, non ho potuto fare a meno di notare profonde e sorprendenti analogie tra ciò che del comunismo scrive l’ungherese Márai (che comunista non è mai stato) ed il sovietico Vasilij Grossman (che comunista, ed entusiasta, anche, lo fu eccome, almeno per metà della sua vita) di Vita e Destino e di Tutto scorre.
Di questa analogia di pensiero avevo già parlato quando avevo scritto di Vita e Destino, perchè avevo trovato profonde assonanze con le pagine finali di Liberazione di Márai.
Questo passo di Il sangue di San Gennaro. per esempio, avrebbe potuto, ne sono certa, venir pienamente condiviso e sottoscritto anche da Grossman:
“Si sbagliano, quando credono che il bolscevismo possa realizzarsi in maniera diversa da quella messa in atto da Stalin… Si era convinto […] che Stalin e i suoi seguaci fossero dei bolscevichi di prim’ordine, capaci di realizzare il bolscevismo alla perfezione, perchè un’impresa che non è a misura d’uomo — e che promettendo nebulose utopie priva l’uomo della proprietà privata, poi del diritto alla libera impresa e alla libera professione, del diritto di scrivere, di professare una rligione e di esprimere le proprie idee politiche — non può che essere realizzato con mezzi disumani e violenti… E Stalin ebbe ragione a non voler affidare la realizzazione del bolscevismo ai comunisti romantici e idealisti, agli sciancati-simpatizzanti, ebbe ragione a distruggere la vecchia guardia, perchè per riscaldare l’inferno c’è bisogno di esperienza… Dunque non con i metodi delle agevolazioni liberali alla laissez-faire, ma con estrema professionalità, come fecero Stalin e i bolscevichi, quelli veri….” (p.240).

Per me, che sono una lettrice italiana che ama molto Márai questo romanzo ha avuto, evidentemente, un ulteriore motivo di interesse per l’immagine dell’Italia che viene fuori dalle sue pagine.
Marinella D’Alessandro, che di Márai ha tradotto per Adelphi parecchi romanzi ricorda che Márai amò moltissimo Napoli e che parecchie volte, nei diari (purtroppo ancora inediti in Italia) scrive che gli anni trascorsi a Napoli furono “i più felici della sua vita”.
Ne Il sangue di San Gennaro a me sembra che emergano due sentimenti, nei confronti dell’Italia e degli italiani, che sono quelli cui ho già accennato: da una parte la simpatia e l’affetto verso il popolino napoletano, dall’altra la delusione che in alcuni passaggi del libro sembra vera e propria nausea, verso tutti quegli intellettuali che prestano orecchio al comunismo.

A Benedetto Croce, che Márai apprezzava e stimava, sono dedicate alcune pagine molto significative.
Si inseriscono infatti nel ragionamento che lo scrittore ungherese ad un certo punto sviluppa a proposito di quegli intellettuali che, nei regimi totalitari, non vengono perseguitati ma lasciati più o meno indisturbati nell’ombra perchè “preferiscono uno scienziato o uno scrittore che respiri nell’ombra del potere” in qualche modo usandolo per poter dire“Vedete? Non siamo poi tanto barbari… Quest’uomo ha opinoni e sentimenti contrari ai nostri, eppure noi lo sopportiamo, lo nutriamo, non lo costringiamo a dichiararsi d’accordo con noi, a tradire le sue idee” (p.217).
Così Croce che “odiava e disprezzava sinceramente il fascismo […] per venticinque anni potè pubblicare […] e scrivere liberamente […] ebbene, questo Croce valeva per Mussolini molto più di un Croce martirizzato, ridotto al silenzio o addirittura esiliato…” (pagg.218-219).
Strano libro, Il sangue di San Gennaro.
Misterioso e accorato, autobiografico fino al punto di prefigurare il destino dell’autore, come ha scritto Raffaele La Capria in un articolo su “Il Corriere del Mezzogiorno” dell’ottobre 2010.
Scegliendo l’esilio, Márai aveva salvato la propria vita ma, proprio come il protagonista de Il sangue di San Gennaro, sentiva quel senso di colpa derivante “non dall’aver commesso qualcosa, ma, al contrario, per non avere agito” (p.255).
Quarant’anni dopo, si sarebbe sparato un colpo di pistola. Vecchio, malato, senza più affetti perchè tutte le persone a lui care erano morte, il pensiero stesso della letteratura gli procurava solo nausea e disgusto. Si uccise l’anno in cui crollò il Muro di Berlino e dall’Ungheria, mentre il regime sovietico si disfaceva, si moltiplicavano gli appelli intellettuali a tornare.
Ne L’ultimo dono Márai annota: “Vogliono trasformarmi in un monumento, me e i miei libri. Ripubblicano tutto, con rilegatura in pelle, me compreso. Il destino comune di ogni monumento è che i cani finiscono per pisciare sul piedistallo”.
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