PARLA, RICORDO – VLADIMIR NABOKOV

Vladimir NABOKOV PARLA  RICORDO
Vladimir NABOKOV, Parla, ricordo, Traduz. di Guido Ragni, Biblioteca Adelphi, pp.364, 2010, isbn: 9788845925412

Con il vergognoso ritardo di più di un anno segnalo che nel 2010 Adelphi ha finalmente pubblicato questo scritto autobiografico di Nabokov.

Di questo libro avevo già parlato nel 2008, quando l’avevo letto nell’edizione francese — che a quell’epoca era già arrivata alla edizione economica — dal titolo (deciso peraltro dallo stesso Nabokov) Autres rivages.

C’è poco da fare, i francesi possono starci pure, ogni tanto, un po’ antipatici, ma dobbiamo fare i conti con il fatto che, spesso, in molte cose arrivano prima di noi italiani…

Non essendo certo il caso che io ricopi adesso qui tutto quello che avevo scritto allora, mi limito a mettere il link a quel mio vecchio post

In ogni caso, adesso non ci sono più alibi di barriere linguistiche che possano impedire ad un lettore o ad una lettrice italiana di leggere questo bellissimo libro…

N ota
Bella come sempre, l’immagine scelta da Adelphi per la copertina.

Anche se a me sarebbe piaciuta di più questa, in cui Vladimir e Véra (Mrs. Vladimir Nabokov) giocano all’amatissimo gioco degli scacchi sulla terrazza dell’Hotel di Montreux in cui trascorsero gli ultimi anni della loro vita.

Vladimir e Vera Nabokov

 

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IL BENE SIA CON VOI ! – VASILIJ GROSSMAN

Dejneka Operaie tessili

Il secolo delle tenebre non è buio da un capo all’altro. Alcuni degli individui che vi hanno camminato potranno servirci da guida in questa traversata del male.
[…]
Grossman è l’esempio, se non unico, il più significativo

 

Adelphi ha recentemente raccolto in un volume otto testi (racconti, saggi, appunti di viaggio) scritti da Vasilij Grossman tra il 1943 e il 1963.

Alcuni di essi erano già stati pubblicati sia presso la stessa Adelphi che presso altre case editrici, altri compaiono in italiano oggi per la prima volta.

Sono testi non solo di grande e struggente bellezza, ma anche molto importanti per comprendere il percorso di vita di Grossman e le sue opere principali: Per una giusta causa e — soprattutto, ovviamente Vita e Destino.

Tra i testi della raccolta, il più lungo ed il più importante è quello che dà il titolo al volume, e cioè Il bene sia con voi!.

Grossman lo scrisse nel 1961, quando, ormai avanti con gli anni, malato e molto provato a causa di tutte le peripezie subite a causa di Vita e Destino il cui manoscritto gli era stato sequestrato l’anno prima dagli agenti del KGB, si recò nella repubblica socialista di Armenia.

Lo scrittore aveva pensato, in un primo momento, ad un titolo come Note di viaggio di un uomo in età avanzata ma poi preferì l’espressione armena Barev dzes, che tradotta in russo diventa Dobro vam! (Pace a voi!). Mi sono dilungata su questo punto, riprendendo quando scrivono John e Carol Garrard nella loro eccellente ed imprescindibile biografia di Grossman Le ossa di Berdicev perchè ho notato che le traduzioni italiane di questo scritto privilegiano a volte la traduzione dall’armeno e altre volte quella dal russo.

Si tratta di uno scritto molto denso e sofferto in cui il reportage di viaggio fornisce in realtà a Grossman lo spunto per riprendere ancora una volta molti dei temi a lui cari come la religione, il bene ed il male nel mondo, l’intolleranza e l’antisemitismo, la “bontà illogica” dell’uomo.

Su Il bene sia con voi! ho trovato in rete un eccellente post sul blog dispersioni, e siccome non ho motivo di scrivere su cose sulle quali altri si sono già espressi molto meglio di quanto potrei fare io, è a quel post — appassionato e competente — che rimando chi volesse approfondire.

Da parte mia mi limiterò solo ad accennare ad alcuni altri scritti contenuti nel volume Adelphi che mi hanno particolarmente colpita anche perchè riprendono, in contesti e da punti di vista diversi, il messaggio di Grossman sulla irriducibile sostanziale bontà dell’essere umano e la sua incrollabile fiducia in quella “bontà illogica”, la “bontà insensata” che costituisce uno dei fondamenti su cui si regge tutto Vita e Destino.

Il vecchio maestro, scritto nel 1943, quando Grossman al seguito dell’Armata Rossa non era ancora arrivato a Berdicev — il luogo in cui la madre era stata massacrata assieme ad altre centinaia di ebrei e gettata in una fossa comune — ci riporta ai tempi dell’invasione nazista, quando molti russi per paura, per opportunismo diventano collaborazionisti e denunciano gli ebrei ed è un racconto degli avvenimenti che avevano condotto alla fucilazione di centinaia di ebrei in una piccola cittadina dell’Ucraina.

Nel racconto Grossman accenna per la prima volta a quello che allora rappresentava uno sorta di tabu ma che oggi è cosa definitivamente accertata, e cioè che il  massacro di un numero impressionante di cittadini ebrei ucraini fu reso possibile ai nazisti grazie alla diffusa collaborazione della popolazione locale di ucraini non ebrei.

Il novantenne maestro ebreo, ben consapevole della sorte che lo aspetta, da una parte analizza la situazione con sorprendente e fredda lucidità e d’altra parte, e contemporaneamente, nemmeno per un attimo perde la sua fiducia nel “miracolo della bontà umana” (p.12) e la sua convinzione che “Hanno tolto le briglie all’odio, e ne è nata la compassione” (p.29).

Chi ha letto Vita e Destino e si è commosso alle pagine in cui il medico militare Sof’ja Osipovna Levinton muore nella camera a gas cercando fino all’ultimo di proteggere (o meglio, “accompagnare alla morte” il piccolo David) non potrà non riconoscere ne Il vecchio maestro l’anticipazione di questa scena, che si svolge però con un capovolgimento dei ruoli.

Nel racconto del 1943 infatti, avviandosi alle fosse comuni per essere massacrati dai nazisti il maestro porta in braccio la piccola Katja chiedendosi “come posso tranquillizzarla?”. A quel punto però

“nel silenzio improvviso che era sceso il vecchio sentì la sua voce:
‘Maestro’ disse ‘non guardare da quella parte, se no ti spaventi’ e come una madre gli coprì gli occhi con le sue manine”.

Nel volume, che comprende anche La Madonna Sistina, di cui avevo già parlato >> qui, troviamo testi che si riferiscono alla vita quotidiana ai tempi di Stalin, al periodo del Grande Terrore.

Mamma si svolge nella casa di Ezov — il capo dell’NKDV ed uno dei massimi artefici del Grande Terrore del 1937 caduto in disgrazia nel 1939 all’avvento di Berja — ed è uno squarcio sul tragico destino dei bambini che, figli di cosiddetti “nemici del popolo” ed in quanto tali considerati nemici  essi stessi venivano sballottati da un orfanotrofio di Stato ad un altro o venivano letteralmente presi e  portati  (non si fa la stessa cosa con  un cane o  con un gatto?)  come figli in casa di potenti del momento che magari sarebbero   a loro volta caduti in disgrazia e fatti scomparire nelle cantine della Lubjanka o nei gulag della Kolyma.

Nel racconto ci sono un paio di righe che costituiscono un piccolo prezioso cammeo: in casa di Ezov compare infatti, ad un certo punto, anche “un tipo pelato con gli occhiali e un sorriso che metteva voglia di sorridere”.

Si tratta di Babel’, che finirà da lì a poco travolto anche lui dallla macchina del Grande Terrore.

L’inquilina è brevissimo ma fulminante: racconta di Anna Borisovna, amica di Majakoskij, riabilitata dopo aver passato diciannove anni tra lager e prigioni, cui assegnano una bella casa a Mosca, mentre Periferia descrive la vita di privilegio di funzionari del partito e intellettuali di regime in un quartiere residenziale; oltre il bosco delle loro amene passeggiate, le baracche fatiscenti del popolo, che “li guarda come oppressori”.

Ne La strada, l’atrocità della guerra è raccontata attraverso le sofferenze di Giu, un mulo italiano che segue gli alpini nella campagna di Russia e i cui occhi buoni e mansueti registrano ogni sorta di eventi terribili e dolorosi, mentre in Fosforo Grossman parla dei suoi amici di gioventù e dei suoi sensi di colpa per non avere apprezzato quanto invece avrebbe meritato quello fra loro che benchè avesse meno “fosforo” in testa, e cioè “sale in zucca” si era sempre però dimostrato il più umano ed il più disponibile di tutti nei confronti di tutti.

Ho lasciato per ultimo Riposo eterno, scritto tra il 1957 e il 1960 in cui Grossman parla di un cimitero, il cimitero Vagan’kovskoe.

Insisto molto con le date perchè anche qui, la contestualizzazione e la conoscenza della biografia di Grossman consente di leggere questo testo con una consapevolezza ed una commozione particolari.

Avevo già scritto nel post dedicato a Le ossa di Berdicev della surreale diatriba che alla morte di Grossman, avvenuta nel 1964 era seguita a proposito del luogo in cui avrebbe dovuto venir sepolto.

Grossman infatti aveva lasciato scritto, nel suo testamento, che avrebbe voluto essere sepolto a Vostrjakovo, il cimitero ebraico di Mosca. Lo voleva perchè era ebreo, e perchè l’idea che avrebbe riposato in un cimitero ebraico lo faceva sentire più vicino a sua madre, che per tomba aveva avuto solo l’anonimato di una fossa comune.

La vedova Ol’ga Michailjlovna però, che ebrea non era e che voleva per il marito un luogo più prestigioso si affrettò a fare cremare il corpo — rendendo così impossibile la sepoltura a Vostrjakovo essendo la cremazione contraria alla legge ebraica — ebbe varie discussioni con i parenti e gli amici più intimi di Grossman (la figlia Katja, i membri della famiglia materna e paterna) che a questo punto avrebbero voluto seppellirlo nel cimitero Vagan’kovskoe.

Essendo ormai impossibile una sepoltura ebraica, Vagan’kovskoe avrebbe potuto andar bene, considerando che appena qualche anno prima Grossman, nelle belle e malinconiche pagine di Riposo eterno tutte dedicate a riflessioni sulla vita e sulla morte, aveva descritto le enormi folle che visitavano Vagan’kovskoe, soprattutto di domenica, sottolineando  come questo ne faceva paradossalmente un luogo non di mestizia ma di serenità e aveva anche annotato come a Vagan’kovskoe fossero sepolte molte figure conosciute.

Eppure, e nonostante tutto, alla fine Ol’ga l’ebbe vinta e Grossman fu sepolto nel cimitero di Troekuroskoe.

Ancora una volta, la volontà di Grossman non venne rispettata. Nemmeno in occasione della sua morte.

Vasilij Grossman
Vasilij Grossman Il bene sia con voi
Vasilij GROSSMAN, Il bene sia con voi!
Traduzione di Claudia Zonghetti
Biblioteca Adelphi, 2011, pp. 253, isbn: 9788845925757
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Nota: L’immagine in alto è quella che compare nella copertina del volume Adelphi.
Aleksandr Aleksandrovic Dejneka, Operaie tessili, (1927), Museo di Stato Russo, San Pietroburgo.

IL GABBIANO – SÁNDOR MÁRAI

Sandor Marai Il gabbiano
Sándor MÁRAI, Il gabbiano (tit. orig. Sirály), traduz. di Laura Sgarioto, pp. 163, Adelphi, 2011, isbn: 9788845925955

Budapest, anni Quaranta, seconda guerra mondiale.

Il Consigliere di Stato ha appena controfirmato il documento che stabilisce che anche l’Ungheria sarà una delle Nazioni travolte dai devastanti venti di guerra. Per il momento però il documento è assolutamente segreto, Budapest e la Nazione vivono, inconsapevolmente, le ultime ore di pace e di relativa tranquillità.

Ma ecco che, appena qualche minuto dopo, entra nella stanza e nella vita del quaranticinquenne Consigliere una giovane donna che gli ha chiesto udienza.

Lui la guarda sbigottito, esterrefatto: “No, questo è davvero troppo, pensa”. E gli viene da ridere. Perchè la donna che gli sta davanti è il doppio perfetto di Ili, la donna che ha amato anni prima e che si è suicidata. Ma per amore di un altro.

” se non mi controllo […] attaccherò a ridere… ridere? No, a sghignazzare, a sbellicarmi dalle risa, a picchiare i pugni sul tavolo…” (p.20). Perchè “Non capita mica a tutti, pensa, di seppellire qualcuno che dopo un pò risorge dalla tomba […] e di punto in bianco se ne sta lì sulla soglia, in pieno giorno all’una e venti” (p.22).

Che vuol dire tutto questo? Che vuole da lui la sua Ili? E’ davvero tornata? E da dove? E perchè?

Ma la splendida, giovane donna dice di venire dalla Finlandia da dove se ne è andata quando i bombardamenti le hanno distrutto la casa ed è venuta da lui solo per chiedergli un permesso di soggiorno che le consenta di insegnare a Budapest: il Consigliere di Stato sarà così cortese da concederglielo?

Inizia così, dall’incontro del Consigliere con Aino Laine (questo è il nome della ragazza, che in finlandese significa Unica Onda) Il gabbiano, breve ma densissimo romanzo che si sviluppa interamente nell’arco di una notte, chiudendosi all’alba con molti più interrogativi e dubbi di quante siano state le risposte ottenute alle incalzanti domande poste sia dai personaggi della storia sia da noi lettori che ne seguiamo i serrati e spesso convulsi dialoghi in un crescendo sempre più incalzante.

Un romanzo in cui la tensione è estrema e tutta intellettuale, un romanzo raffinatissimo in cui Márai attraverso le parole che si scambiano i due protagonisti fa emergere da una parte il dramma tutto privato che ben presto si configura come “un circuito elettrico che collega tre persone e una defunta in una trama comune” ma anche uno scenario molto più  vasto, quello dell’immenso scacchiere della guerra che ha già travolto centinaia di migliaia di persone in molti Paesi e che sta per travolgerne altrettante, uno scenario in cui gli esseri umani rischiano di finire per perdere il loro statuto di individui per diventare pedine di un gioco più grande di loro.

Con Il gabbiano (pubblicato per la prima volta nel 1943) siamo di fronte al più classico e grande Márai, quello dei romanzi in cui “l’evento” cruciale è concentrato nel tempo (una notte, come ne Le braci, come ne La recita di Bolzano ) e nello spazio di una stanza (che sia di una casa di Buda, di un castello nei Carpazi, di una locanda di Bolzano poco importa…) , in cui due persone si confrontano attraverso densissimi monologhi; un romanzo in cui non solo sono presenti molti dei temi più sentiti dallo scrittore ungherese ma anche — come accadrà molti anni dopo con Il sangue di San Gennaro, scritto quando Márai aveva già lasciato definitivamente la sua patria, l’Ungheria — sorprendenti anticipazioni del tema della solitudine dell’esule, dell’apolide, del senza patria.

Il gabbiano ci presenta uno dei più  classici temi máraiani: un vero e proprio incontro-appuntamento col destino (così era stato anche, ad esempio, per il Casanova de La recita di Bolzano del 1940) tutto concentrato in poche ore, in cui i personaggi sono protagonisti di una sorta di duello in cui ciascuno è chiamato a fare i conti con se stesso e il proprio passato, a scoprire ragioni ed emozioni dell'”altro”.

Il nome della ragazza, le dice il Consigliere, “racchiude in sé due concetti commoventi e preziosi […] l’ ‘unico’, che è pathos e ossessione ]…] e l’ ‘onda’ […] che offre e toglie eternamente i suoi doni, fa incontrare caso e possibilità, crea un legame fra ciò che è unico e ciò che è casuale. Hai un nome bellissimo, Aino Laine. Non a caso è il tuo nome” (p.99)

Quella che ci viene raccontata in poco più di un centinaio di pagine è una notte di segreti, una notte in cui arrivano l’amore e la morte, una notte in cui arriva il momento che gli esseri umani temono di più, quello in cui ” la vita toglie loro la maschera” (p.96).

La maschera: un altro leit motiv tipico di Márai, qui rappresentato non solo dal fatto che nella prima parte della lunga notte i due protagonisti hanno assistito, all’Opera di Budapest, a Un ballo in maschera di Verdi ma anche perchè questo tema torna poi spesso, nel loro dialogo notturno: “Ci sono notti in cui si partecipa ad un ballo in maschera… La notte ti ha chiamato e tu rispondi turbato. Svegliati, amico mio” dice Aino Laine al Consigliere (p.97) e lui, da parte sua, guardando la ragazza, pensa che “è come se indossasse dei travestimenti per poi spogliarsene, travestimenti e maschere diversi per ogni istante” (p.106)

Il romanzo è anche un grande gioco di doppi e di specchi (due donne, due notti “fatali” — quella di Budapest e quella vissuta da Aino Laine a Parigi, notti entrambe che precedono i giorni della guerra e della morte, due serate all’Opera…

Aino Laine, la senza patria, colei che non ha più una casa, la fanciulla-gabbiano è anche, in qualche modo, una sorta di “doppio” dello stesso Márai non solo perchè lui stesso uomo dalle molte patrie (l’Ungheria, la Germania e la Vienna dell’adolescenza) ma anche di ciò che sarà da esule perchè, come dice Aino Laine

“quando non si ha più una casa, all’improvviso il mondo diventa molto piccolo… ci si può mettere in viaggio come i gabbiani. Ma volare come loro non è facile, perchè gli esseri umani si portano dietro anche i ricordi. E i ricordi ci tirano giù” (p.101)

L'Opera di Budapest nel 1947
L’Opera di Budapest nel 1947
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LA VITA OGGI – ANTHONY TROLLOPE

Davis Suchet Augustus Melmotte
Augustus Melmotte interpretato da David Suchet
nella miniserie TV del 2001 della BBC

La vita oggi, scritto nel 1875 è, dalla critica, considerato il capolavoro di Anthony Trollope.

In questo sterminato romanzo vittoriano (più di mille pagine, ma di scorrevolissima e molto piacevole lettura) dalle multiple ramificazioni il centro è occupato da Augustus Melmotte, un finanziere senza scrupoli che lancia una vasta operazione speculativa in Inghilterra e in America per prendere in trappola investitori ingenui e sprovveduti.

Augustus Melmotte è descritto da Trollope come un uomo “di fisico piuttosto robusto, con folti favoriti, capelli fitti e disordinati, e sopracciglia marcate, […] la bocca e il mento che lasciavano trasparire un desiderio di potere così evidente da riscattare il volto da ogni volgarità; ma i lineamenti e l’aspetto erano, nell’insieme, sgradevoli e, potremmo dire, falsi. Dava a tutti l’impressione di essere prepotentemente orgoglioso del suo denaro”

Andato via da Parigi e da Vienna dove si dice abbia compiuto imprese grandiose ma molto poco chiare («si dava per certo che avesse costruito una ferrovia attraverso la Russia, rifornito l’esercito del Sud nella guerra civile americana, venduto armi all’Austria e che avesse, in un sol colpo, comperato tutto il ferro esistente in Inghilterra») ha trovato rifugio a Londra in cui sfrutta la confusione di idee di un’opinione pubblica che non sempre riesce ad individuare confini e differenze tra rischi del commercio e truffa pianificata.

Delle acrobazie speculative di Melmotte noi assistiamo all’ultima, quella della South Central Pacific and Mexican Railway, e cioè la costruzione di una ferrovia che deve partire da Salt Lake City e, diramandosi sulla linea San Francisco-Chicago, attraversare le terre del New Mexico e dell’Arizona ed infine sbucare nel Golfo al porto di Vera Cruz.

Il grandioso progetto non è altro, in realtà, che una vera macchina allestita per attirare e truffare piccoli azionisti, una colossale truffa che attira e travolge capitali, talenti, fortune ed entusiasmi provenienti da ogni parte dell’aristocrazia.

Davis Suchet Augustus Melmotte

Melmotte — violento, laido, volgare — è al suo secondo matrimonio, ma quel che sappiamo della attuale moglie è solo che si tratta di un’ebrea che viene dalla Boemia. Melmotte è anche padre di Marie, nata dal primo matrimonio.

Attorno gravita tutta una serie di personaggi dell’alta borghesia e dell’aristocrazia, la maggior parte dei quali privi di denaro e che, complessivamente, non sono — eticamente parlando — molto meglio di Melmotte. La loro unica superiorità deriva dal fatto che sono nobili ed inglesi. Benchè Melmotte presti loro del denaro (non perdendo mai di vista, ben inteso, il proprio tornaconto), lo guardano dall’alto in basso, lo tollerano con difficoltà e lo disprezzano.

Di questi personaggi — ciascuno dei quali protagonista a sua volta di sotto-trame che si intrecciano tra loro—, Trollope ci fornisce ritratti al vetriolo.

Tra i giovani Lord e Baronetti nullafacenti che ammazzano la noia con le carte e l’alcool in un club chiamato Beargarden, il più detestabile fra loro è senza dubbio Felix Carbury. Trollope non gli risparmia nulla. Felix ha tutti i difetti: senza un quattrino gioca d’azzardo, si ubriaca, mente, è carico di debiti che non può pagare, è pigro e, soprattutto, è adorato e letteralmente covato in modo insensato dalla madre, Lady Mathilde Carbury, che ne tollera tutti i vizi.

Lady Carbury è una vedova che si è messa in testa di fare la scrittrice per fini — come si suol dire — “alimentari”, e cioè per procurarsi i soldi per arrivare alla fine del mese e soprattutto per potere assecondare il figlio, al quale dedica tutte le sue attenzioni e tutto il suo amore a scapito di Hetta (Henrietta), la figlia femmina, che vorrebbe a tutti i costi far sposare con il cugino Roger Carbury, uomo agiato, intelligente ed onestissimo, che ama sinceramente Hetta la quale però, pur stimandolo molto, è innamorata di Paul Montague, il migliore amico di Carbury.

Facciamo anche la conoscenza della famiglia Longestaffe, il cui figlio Dolly (anche lui uno sfaccendato senza un quattrino) finirà comunque per avere un ruolo nella caduta di Melmotte e di suo padre Lord Alfred, completamente rovinato e debitore di Melmotte.

David Suchet as Melmotte

Melmotte, nel romanzo, non è certo l’unico, ad imbrogliare.

Giovanotti di ottima famiglia ma privi di denaro non esitano a pagare i loro debiti di gioco con “pagherò” di carta ed a fare la corte a ricche ereditiere con il solo scopo di accaparrarsene la dote

Nel mondo letterario, Lady Carbury, romanziera priva di talento fa di tutto per assicurarsi critiche favorevoli per far vendere i propri libri. Nel mondo del giornalismo non si intriga e si imbroglia di meno.

La frase magica, la frase assolutoria che nel corso di tutto il romanzo viene ripetuta di volta in volta più o meno da tutti i personaggi è: “La vita, oggi, è cambiata!”

Trollope colloca il suo romanzo (scritto nel 1875) a Londra, più o meno nel 1873 ispirandosi, per la trama, a una serie di scandali finanziari avvenuti negli anni Settanta.

La vita oggi è un grande romanzo-affresco che non solo non risparmia alcun settore della società, ma che si rivela di una modernità assolutamente sconcertante perchè prefigura curiosamente, certe speculazioni del ventunesimo secolo (e non solo).

Un aspetto del romanzo mi ha particolarmente colpita, e vorrei sottolinearlo.

In questa Inghilterra vittoriana descritta da Trollope, infarcita di rigidi principi e di rigidissime norme sociali, in cui tutti imbrogliano e sono a loro volta in qualche modo imbrogliati, le figure femminili del romanzo, Lady Mathilda Carbury, sua figlia Hetta, Marie Melmotte, Georgiana Longestaffe, Mrs. Winifred Hurtle (un’americana innamorata di Paul Montague la quale, per certi aspetti, ritroveremo in alcune celebri eroine di Henry James) e la giovane popolana Ruby Ruggles cercano di gestire la propria vita sentimentale in modo indipendente e secondo le proprie inclinazioni.

Cosa certo non facile, in una società in cui le donne hanno ben pochi diritti e sono troppo spesso costrette a matrimoni di convenienza.

Con le loro differenze, i loro pregi e i loro difetti, sono le donne, i personaggi più positivi del libro.

Questa particolare attenzione e sensibilità dimostrata da Trollope nei confronti del difficile ruolo della donna nella società vittoriana mi aveva già colpita in tutti i romanzi che fin qui ho letto: da L’Amministratore a Le torri di Barchester, da Il cugino Henry a Orley Farm a Lady Anna… A questo punto del mio “percorso trollopiano”, mi sento proprio di dire che questa è una delle caratteristiche della sua intera opera, e personalmente ne sono molto lieta.

La cifra stilistica di Trollope è lo sguardo cinico e distaccato con cui si volge ai fatti della vita ed a chi la popola, ma Trollope, oltre a divertire ed a far sorridere con la sua sempre presente eccezionale ironia riesce, nel mettere in scena la disonestà del suo tempo ad essere attuale in modo a volte addirittura inquietante.

La vera protagonista che il vittoriano Trollope mette in scena nel suo fluviale romanzo è infatti la disonestà politica, morale, intellettuale, perfino giornalistica, oltre che economica. Un quadro desolante di generale corruzione di un ieri che appare di sorprendente attualità alla luce dei fatti e delle caratteristiche della società civile e politica dei nostri anni

see Difficile, a me sembra, che il personaggio di Melmotte — il quale, grazie ai suoi maneggi ed alle sue speculazioni finanziarie e nonostante non possegga reti televisive e non disponga a suo piacimento di catene di giornali riesce persino a farsi eleggere alla Camera dei Comuni — non faccia venire in mente a qualsiasi italiano di oggi che non viva all’interno di una bolla un ben noto tycoon nostrano…

Ma per rimanere in ambito letterario: quante straordinarie coincidenze/congruenze ci sono tra l’Augustus Melmotte di La vita oggi (1875) di Trollope e l’Aristide Saccard di   La curée  (1872) e soprattutto de  L’argent  (1875) di Emile Zola!  Quante analogie con un certo mondo parigino descritto da Balzac!

Trollope è un ottocentesco signore vittoriano, ma per me costituisce ormai un classico perchè ciascuno dei suoi libri mi risultano essere — per citare il Calvino de “Perchè leggere i classici”“libri che quanto più si crede di conoscerli per sentito dire, tanto più quando si leggono davvero si trovano nuovi, inaspettati, indediti”

Trollope La vita oggi

Anthony TROLLOPE, La vita oggi (tit. orig. The way we live now)
traduz. Romano Carlo Cerrone, Piero Pignata, Nota Piero Pignata
due voll., 604, 604 pagine, Sellerio editore, Collana La Memoria
EAN 9788838925139

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Un episodio della miniserie TV della BBC. Su YouTube la si trova tutta per intero (almeno, sino ad oggi…)

TOUT MAIGRET, Tome I° – GEORGES SIMENON

La casa editrice francese Omnibus ha pubblicato tutti i “Maigret” di Simenon raccolti in dieci volumi.

Ho deciso di “assaggiare” uno di questi tomi, ed ho cominciato ovviamente dal primo.

Questo “Tout Maigret” dell’Omnibus è talmente bello !

Gradevolissimo al tatto (il tatto: ecco un motivo per cui gli e-book temo non mi avranno mai), gradevolissimo e davvero molto curato per grafica, impaginazione, corredo di fotografie (già, ci sono anche quelle: 16 pagine di fotografie che, poste a metà del volume illustrano l’universo di Maigret: luoghi in cui sono stati scritti i singoli romanzi, riferimenti biografici a Simenon…).

L’immagine di copertina è dell’Atelier Dominique Toutain, con illustrazioni originali di Nicolas Poupon.

Il volume è talmente bello, dicevo, che, nonostante abbia, nel corso degli anni, letto già tanti Maigret (come tutti, credo e soprattutto spero) ma in ordine sparso, senza concentrarmi troppo considerandoli — a torto! — soprattutto libri di mero intrattenimento, ho deciso di leggermeli adesso tutti di fila e sistematicamente.

L’idea sarebbe la seguente: tra una “lettura” e l’altra, ci infilo un Maigret. Voilà!

Questa volta però in ordine strettamente logico e cronologico di stesura e di pubblicazione e dedicando l’attenzione che personaggio e autore meritano. Questo dunque è un post in progress, perchè scriverò qualcosa man mano che andrò avanti. Niente di particolare, solo appunti volanti.

Tranquilli, mi guardo bene dallo spoilerare o rivelare alcunchè di significativo delle trame

Pietr le Letton
(ed. italiana Pietr il Lettone , Adelphi >>

Che emozione, assistere alla nascita “ufficiale” del commissario Maigret… E’ qui infatti che vengono delineati i tratti fondamentali, le caratteristiche della sua fisicità; è qui che compaiono i piccoli tic, le manie, le abitudini, i punti forti e le umane debolezze di un personaggio letterario che diventerà, per tutti coloro che avranno letto almeno un paio di libri in cui compare, così familiare, così… paradossalmente, meravigliosamente privo di sorprese. Nascita “ufficiale”, ho scritto. Perchè Simenon aveva, prima di questo, già scritto cinque romanzi con Maigret, ma li aveva firmati con uno pseudonimo. Forse non si sentiva ancora sicuro, forse non si sentiva ancora davvero in confidenza con il suo commissario. E’ con Pietr le Letton che Simenon si assume coram populo la responsabilità della paternità di Maigret e comincia a firmare con il proprio vero nome e cognome, ed è da questo libro che inizia — con pifferi e tamburi — il mito.

Le charretier de La Providence

Per apprezzarlo appieno bisogna conoscere qualcosa (o almeno documentarsi un po’) sull’ “universo” della vita dei canali, delle chiatte, delle chiuse, della routine quotidiana della gente che popola questo mondo. Perchè il romanzo è ambientato nel canale della Marna, a Dizy, vicino Epernay. Anche qui, come già in Pietr le Letton, un Maigret immerso in tanta pioggia, tanto fango, tanta umanità

Monsieur Gallet, décédè
(Ed. italiana: Il defunto signor Gallet, Adelphi >>

“All’inizio, era sembrato un caso insignificante. Un uomo che aveva tutta l’apparenza di un piccolo borghese era stato ucciso da uno sconosciuto in una camera d’albergo. Adesso, ogni informazione che arrivava complicava il problema. invece di renderlo più semplice” (p.273)

La traduzione (molto ruspante) è mia. Un Maigret immerso, questa volta, in un caldo canicolare che lo rende consapevole della sua stazza e del suo sudore. Un Maigret che deve darsi da fare in una serie di piccole cittadine della sonnolenta provincia francese, quella provincia francese che riesce, quando vuole, ad esprimere i crimini magari non efferati più di altri, ma sicuramente più intriganti. …Più leggo Maigret e più mi rendo conto di quanto importante sia —- per Maigret ed il suo papà — la meteorologia

Le pendu de Saint Pholien
(ed. italiana: L’impiccato di Saint-Pholien, Adelphi  >>
Un vagabondo che si suicida in Germania, in uno squallido alberghetto di Brema,  un episodio triste ma apparentemente banale attorno al quale “des mystères multiples venaient s’agglutiner” , ombre cominciano ad agitarsi “comme sur la plaque photographique qu’on plonge dans le révélateur”

Da Bruxelles a Brema a Parigi, questo romanzo ha però il suo centro di gravità a Liegi, città natale di Simenon ed un finale che, ancora una volta, mostra la grandissima umanità del commissario Maigret.

La tête d’un homme
Ed. italiana Una testa in gioco, Adelphi >>

Questa volta Maigret rischia davvero grosso. Si gioca la carriera.
L’assassino che lui ha preso e consegnato alla giustizia è stato processato e condannato.
…Epperò Maigret sente che c’è qualcosa che non quadra e pur di essere sicuro di arrivare alla verità arriva al punto da favorire ed organizzare l’evasione del condannato.Al superiore che gli dice: “Commissario, lei capisce che così facendo lei si gioca tutto?” Maigret risponde: “Chiedo soltanto dieci giorni di tempo. Se fallisco, dò le dimissioni, me ne vado”.

Le chien jaune
(ed. italiana Il cane giallo, Adelphi >>

Una serie di delitti, accompagnati sempre dall’apparizione di uno strano cane giallo, scuote la piccola cittadina portuale di Concarneau, in Bretagna. Che ruolo ha Emma, la giovane cameriera del Caffè dell’Ammiraglio, attorno quale ruota tutta l’intricata vicenda?

La nuit du carrefour
(ed. italiana Il crocevia delle Tre Vedove, Adelphi >>
Più che un giallo, un vero e proprio noir ambientato in un solitario crocevia della provincia parigina e in cui gli eventi più decisivi e drammatici si svolgono di notte. Un noir con tanto di donna fatale e misteriosa che vive in completo isolamento con il fratello il cui monocolo nasconde un occhio di vetro in una villa chiamata “delle Tre Vedove” perchè proprio lì, quarant’anni prima, vennero scoperti i cadaveri di tre donne avvelenate…
Nel 1931 Jean Renoir ne fece un film, in cui Maigret era interpretato da Pierre Renoir, il fratello del regista.

Un crime in Hollande
Maigret deve scoprire chi è l’assassino in un paese (l’Olanda) di cui non conosce la lingua, in cui la maggior parte delle persone implicate non parlano il francese…
Ah. Una curiosità: la famiglia protagonista di questo “Maigret” che si svolge in Olanda si chiama Popinga.
Popinga, yes.
Come il Kees Popinga (olandese anche lui) de “L’uomo che guardava passare i treni”, pubblicato nel 1938.

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