Nel primo post dedicato alle lunghe frasi di Proust avevo scritto dell’irritazione di Madeleine — lettore per la casa editrice Fasquelle che doveva decidere se pubblicare o meno Du côté de chez Swann — per una lunghissima frase contenuta nelle prime pagine dell’opera.
Qual’è questa frase?
Ed è la più lunga?

Quella che tanto irritò Madeleine è la famosa frase (comunemente chiamata oggi, dai proustiani, “la frase delle sette stanze”), in cui il Narratore, nel dormiveglia, rievoca le stanze da letto dei luoghi in cui si è trovato a trascorrere i momenti più importanti della sua vita.
Ma avevo riveduto ora l’una ora l’altra le stanze che avevo abitate nella mia vita, e finivo col ricordarle tutte nelle lunghe fantasticherie che seguivano al mio risveglio: camere invernali dove, quando siamo a letto, rannicchiamo il capo in un nido intessuto delle cose più disparate, un angolo del guanciale, l’orlo delle coperte, una cocca di scialle, la sponda del letto e un numero dei “Débats roses”, nido che poi alla fine si cementa secondo la tecnica degli uccelli, standovi appoggiati indefinitivamente; dove, quando il tempo è gelido, il piacere che si prova è di sentirsi divisi dal mondo di fuori (come la rondine marina ha il suo nido nel fondo d’un sotterraneo, nel calore della terra), e dove, mantenendosi acceso il fuoco del camino tutta la notte, si dorme in un gran mantello d’aria calda e fumosa, percorsa dai bagliori dei tizzoni che si riaccendono, una specie di impalpabile alcova, di calda caverna scavata in seno alla camera stessa, zona ardente e mobile nei suoi contorni termici , aerata da aliti che ci rinfrescano il viso, e vengono dagli angoli, dalle parti più vicine alla finestra o lontane dal focolare e diventate fredde; camere estive dove piace unirsi alla notte tepida, dove il chiaro di luna venuto a posarsi sulle imposte socchiuse getta fino al piede del letto la sua scala incantata, dove si dorme quasi all’aperto, come la cingallegra cullata dalla brezza in cima a un raggio; a volte la camera Luigi XVI, così allegra che neppure la prima sera non mi ci ero sentito molto triste, dove le colonnine che sostenevano leggere la vòlta con tanta grazia si scostavano per mostrare e serbare il luogo del letto; a volte invece quella, piccola e col soffitto molto elevato, scavata a forma di piramide all’altezza di due piani e in parte rivestita di mogano, dove fin dal primo momento ero stato moralmente intossicato dall’odore sconosciuto di gramigna indiana, convinto dell’ostilità delle tende viola e dell’indifferenza insolente della pendola che cicalava forte come se io non ci fossi stato; – dove uno strano e spietato specchio quadrangolare a bilico, sbandando di sbieco uno degli angoli della stanza, si apriva a forza nella dolce pienezza del mio ordinario campo visuale un posto che non vi era preveduto; – dove il mio pensiero, sforzandosi per ore e ore di estendersi, di innalzarsi per prendere l’esatta forma della stanza e giungere a riempire fino all’alto il suo imbuto gigantesco, aveva sofferto molte altre notti penose, mentre me ne stavo disteso nel letto, con gli occhi alzati, l’orecchio ansioso, la narice restia, il cuore che batteva: fino a quando l’abitudine non avesse mutato il colore delle tende, fatto tacere la pendola, insegnato la pietà allo specchio obliquo e crudele, dissimulato, se non messo in fuga interamente, l’odore della gramigna indiana, e diminuito in modo notevole l’apparente altezza del soffitto.
Marcel Proust, Alla ricerca del tempo perduto, La strada di Swann, traduzione di Natalia Ginzburg, Einaudi, 1963, pag. 9



Cosa avrebbe pensato Madeleine se qualcuno gli avesse preannunciato che “la frase delle sette stanze” non sarebbe stata nemmeno la più lunga!
La frase più lunga contenuta in tutta la Recherche è la seguente, si trova ne La Prigioniera e si riferisce al salotto di casa Verdurin.
Divanetto emerso dal sogno fra le poltrone nuove e ben reali, seggioline rivestite di seta rosa, tappeto da gioco di broccato assurto alla dignità di persona dacché, come una persona, aveva un passato, una memoria, serbando nell’ombra fredda del salotto del Quai Conti la tinta del sole preso attraverso le finestre di rue Montalivet (di cui conosceva l’ora non meno della stessa Madame Verdurin) e le porte a vetri di Douville dove l’avevano portato e da dove guardava per tutto il giorno, al di là del giardino fiorito, la profonda vallata della *** in attesa dell’ora in cui Cottard e il violinista si sarebbero accinti alla loro partita; mazzo di violette e di viole del pensiero a pastello, regalo di un grande artista amico, poi defunto, unico frammento sopravvissuto d’una vita scomparsa senza lasciare tracce, riassunto d’un grande talento e d’una lunga amicizia, ricordo del suo sguardo attento e dolce, della sua bella mano grassa e triste mentre dipingeva; ingombro, gradevole disordine dei regali dei fedeli, che ha seguito ovunque la padrona di casa e ha finito col prendere l’impronta e la fissità d’un tratto di carattere, d’una linea del destino; profusione dei mazzi di fiori, delle scatole di cioccolatini, dilatatasi sistematicamente, qui come laggiù, seguendo un’identica linea di fioritura: interpolazione curiosa degli oggetti singolari e superflui che sembrano appena usciti dalla scatola in cui sono stati offerti e continuano per tutta la vita ad essere ciò che erano all’inizio, regali di capodanno; tutti quegli oggetti, insomma, che è impossibile isolare gli uni dagli altri, ma che per Brichot, assiduo frequentatore, da sempre, delle feste dei Verdurin, avevano la patina, la morbidezza delle cose cui s’aggiunge, dotandole di una sorta di profondità, il loro “doppio” spirituale: tutto questo, sparpagliato, risuonava davanti a lui come una serie di tasti che risvegliavano nel suo cuore somiglianze amate, reminiscenze confuse, e – come, in una giornata di bel tempo, una cornice di sole sezionante l’atmosfera – ritagliavano, delimitavano, per entro il salotto attuale che punteggiavano qua e là, i mobili e i tappeti, si rincorrevano da un cuscino a un portafiori, da uno sgabello al respiro d’un profumo, da un tipo d’illuminazione a una predominanza di colori, scolpivano, evocavano, spiritualizzavano, facevano vivere una forma ch’era come la figura ideale, immanente alle loro successive dimore, del salotto dei Verdurin.
Marcel Proust, Alla ricerca del tempo perduto, La Prigioniera, tr. it. di Giovanni Raboni, Meridiani Mondadori, vol.III, pagg.697-98
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Le immagini sono disegni di Stéphane Heuet, che ha trasposto A la recherche du temps perdu in un bellissimo e intelligente fumetto (o graphic novel, se preferite)
Reblogged this on i cittadini prima di tutto.
sembra proprio bella questa graphic novel, che non conoscevo: grazie della segnalazione. comunque la quantità di libri su proust è sterminata, e io ho vogila di comprarli tutti, anche se temo sia praticamente impossibile: dovessi morire povero sappi che la colpa è anche un po’ tua 🙂
@tfrab
si, la folle impresa (perchè un po’ folle lo è 😉 di Heuet è proprio riuscita bene ed il successo internazionale che ha ottenuto è davvero ben meritato. Heuet riesce a cogliere il senso di alcuni passaggi fondamentali della RTP, e non era certo cosa facilissima.
In quanto alla bibliografia su Proust,ormai è talmente sterminata che sono sicura che nemmeno Jean Yves Tadiè riesce più a starle dietro.
Io mi sono arresa da un pezzo, ho smesso di cercare di inseguire tutto quello che viene pubblicato, mi limito ad alcuni testi che ritengo fondamentali e per il resto…pazienza 😦
grazie, Gabrilù, per l’ ennesima ghiotta segnalazione! non le nascondo, però, che una domanda mi arrovella: come ha fatto a scoprire la frase rekord? un caro saluto, nanni
Un divanetto “assurto a dignità di persona”: l’ennesimo esempio di come la scrittura di Proust possa vivificare l’inanimato, personificare gli oggetti e (meraviglia delle meraviglie) farli parlare o pensare o ricordare come fossero esseri umani senzienti… Ecco, se esistesse, leggerei ben volentieri un saggio su “Proust e gli oggetti nella “Recherche””…
Un abbraccio, Gabrilù
Rendl
“Trovo molto ragionevole la credenza celtica secondo cui le anime di coloro che abbiamo perduto sono imprigionate in qualche essere inferiore, un animale, un vegetale, una cosa inanimata, di fatto perdute per noi fino al giorno, che per molti non arriva mai, nel quale ci troviamo a passare accanto all’albero, a entrare in possesso dell’oggetto che è la loro prigione. Allora esse sussultano, ci chiamano, e non appena le abbiamo riconosciute, l’incantesimo è rotto. Liberate da noi, hanno vinto la morte, e ritornano a vivere con noi.
Così è del nostro passato. È fatica inutile cercare di evocarlo, tutti gli sforzi della nostra intelligenza sono vani. Esso si nasconde, fuori del suo dominio e della sua portata, in qualche oggetto materiale (nella sensazione che quell’oggetto materiale ci darebbe), che noi non supponiamo. Questo oggetto, dipende dal caso che noi lo incontriamo prima di morire, o che non lo incontriamo.”
(Marcel Proust, La strada di Swann)
E infatti i momenti più significativi del passato tornano attraverso un oggetto: gli stivaletti della nonna morta, una fotografia, le tre “intermittenze” che si succedono una dopo l’altra a palazzo Guermantes: la dalle del cortile del palazzo, il tintinnio del cucchiaini e la ruvidezza del tovagliolo inamidato accostato alla bocca durante la cena a palazzo Guermantes.
Ed ancora: il chimono di Albertine ne “La prigioniera” (“lei che non mi diceva nulla, mentre vedevo sul bracciolo della poltrona quel chimono che forse mi avrebbe detto molte cose”), gli oggetti della stanza in cui Albertine è vissuta come una prigioniera e che ancora ignorano la sua fuga:
“La sofferenza, prolungamento di un colpo morale imposto, aspira a mutar forma; speriamo di volatilizzarla facendo progetti, chiedendo informazioni; vogliamo che passi attraverso le sue innumerevoli metamorfosi: questo richiede meno coraggio che serbare intatta la propria sofferenza; così stretto, così duro, così freddo sembra il letto in cui ci si corica col proprio dolore. Mi rimisi dunque in piedi, mi muovevo nella stanza con infinita precauzione, mi situavo in modo da non vedere la sedia di Albertine, i pedali della pianola sui quali appoggiava le sue pantofoline d’oro, uno solo di quegli oggetti che aveva usato, ciascuno dei quali, nel linguaggio particolare che avevano loro insegnato i miei ricordi, sembrava darmi una traduzione, una versione diversa, annunciarmi una seconda volta la notizia della sua partenza. Ma senza guardarli, li vedevo lo stesso; le forze mi abbandonarono, caddi seduto in una di quelle poltrone di raso blu i cui riverberi, un’ora prima, nella penombra della stanza, mi avevano ispirato sogni appassionatamente accarezzati allora, e adesso da me tanto lontani. Oh! non mi ci ero mai seduto, prima di allora, se non quando c’era ancora Albertine. Perciò non riuscii a resistere, mi alzai; e così, ad ogni istante, degli innumerevoli e umili «io» che ci compongono, ce n’era qualcuno che ancora ignorava la partenza di Albertine e cui bisognava comunicare la notizia; bisognava ? ed era ancora più crudele che se fossero stati degli estranei e non avessero preso in prestito, per soffrire, la mia sensibilità ? annunciare la sventura appena capitata a tutti quegli esseri, a tutti quegli «io» che ancora non lo sapevano; bisognava che ognuno di essi sentisse per la prima volta quelle parole, «Albertine ha chiesto i bauli» ? quei bauli a forma di bara che avevo visto caricare a Balbec accanto a quelli di mia madre ? «Albertine se n’è andata». Ad ognuno dovevo comunicare la mia pena,”
(Marcel Proust “La fuggitiva”)
Beh, cosa altro posso dire se non: GRAZIE?! Grazie mille per la conferma e per grazie mille per le due citazioni; a queste aggiungerei quella davvero geniale (e quasi comica) dalla terza parte de “La parte di Guermantes” (pp. 95-103 dell’ed. Meridiani Mondadori), quando Marcel va a trovare l’amico Robert de Saint-Loup a Doncièrs e va a dormire presso l’ “Hotel de Flandre” e descrive la stanza in cui teme di non trovarsi a proprio agio (e invece gli oggetti, le pareti, i mobili della stanza gli rispondono con gentilezza e cortesia umanissime):
“Prima di coricarmi, volli uscire dalla camera per esplorare tutto il mio fiabesco dominio. Seguii una lunga galleria che mi fece via via omaggio di tutto ciò che poteva offrirmi nel caso che non avessi sonno: una poltrona sistemata in un angolo, una spinetta, su una mensola un vaso di maiolica azzurra pieno di cinerarie e, in una vecchia cornice, il fantasma d’una dama d’altri tempi, con i capelli incipriati cosparsi di fiori azzurri e, in mano, un mazzo di garofani. Arrivato in fondo, un muro pieno nel quale non s’apriva alcuna porta mi disse con candore: “Adesso devi tornare indietro, ma, lo vedi, qui sei a casa tua”, mentre il soffice tappeto, per non essere da meno, aggiungeva che se, quella notte, non fossi riuscito a dormire, avrei potuto benissimo tornarmene lì a piedi nudi, che le finestre senza scuri affacciate sulla campagna avrebbero passato – ne stessi pur certo – la notte in bianco, e che, a qualsiasi ora fossi venuto, non c’era pericolo di svegliare nessuno. E dietro una tenda sorpresi un piccolo gabinetto che, fermato dal muro e non potendo scappare, s’era nascosto in quell’angolo mogio mogio, e mi guardava spaventato col suo occhio di bue inazzurrato dal chiaro di luna”. (id. pp. 96-97).
Come scrivevo nel vecchio post in cui parlo di questo brano (“Proust e gli oggetti parlanti”): “Come dimenticare, d’ora in avanti, quel muro “parlante” che invita il Narratore a sentirsi come a casa sua? Come potrò più scordarmi del tappeto che invita a passarci sopra, a piedi nudi, la notte d’insonnia? O la finestra, pronta ad accoglierci per lo stesso motivo? E che dire di quel gabinetto che, mogio mogio, ci “guarda con occhio spaventato”?
Un abbraccio affettuoso,
Rendl
@ Rendl
e siccome da cosa nasce cosa e da associazione (di idee) nasce associazione (di idee)… 🙂 hai mai notato come anche in Dickens (in ***tutti*** i romanzi) le cose, gli edifici, gli oggetti, gli alberi parlino, si spostino, corrano (come in Proust i campanili di Martinville), assumano comportamenti antropomorfici?
In Dickens tutto questo ha ovviamente un senso completamente diverso che in Proust, un senso a mio parere grottesco e molto impressionistico, ma è una delle caratteristiche della scrittura di Dickens che mi ha sempre affascinata.
@Rendl
Per rimanere su Proust: ci stavamo dimenticando del “comportamento” degli oggetti di arredamento della camera del Narratore al Grand Hotel di Balbec (che poi non è altro — come la stanza da letto di Doncieres di cui parli tu — che una delle famose “sette stanze”), e soprattutto la differenza tra il primo soggiorno e il secondo: la prima volta vengono percepiti dal Narratore come ostili, nemici del suo sonno (lo specchio, l’armadio, i tendaggi…), la seconda volta come oggetti benevoli ed accoglienti. Perchè? Perchè nel frattempo è intervenuta l’Abitudine, altro fondamentale tema della RTP…
La frase più lunga di Proust (di quasi mille parole e oltre due pagine) è all’inizio di Sodoma e Gomorra (pagine 21-23 edizione Einaudi 1966) : Senza onore, se non precario; senza libertà, se non provvisoria….