SWANN, SVANN, SUANN

Van Dongen

Kees Van Dongen
Acquerello per l’edizione illustrata di À la recherche du temps perdu, 1947

Come si pronuncia correttamente il nome  Swann? Suann (all’inglese) oppure Svann (alla tedesca)? Ve lo siete mai domandato?

Nell’articolo “Perché Swann (la vittima) è uno di noi” che Alessandro Piperno ha dedicato sul Corriere della Sera al personaggio di Swann in occasione del centenario della pubblicazione del primo volume di Alla ricerca del tempo perduto di Proust, egli dice, a proposito di Charles Swann che “Non a caso è uno dei pochi nomi di cui Proust ci fornisce la dizione esatta: «Suann», non «Svann». Un nome di origine inglese, quindi, non tedesca. Togli una delle due «n» finali e in inglese hai «cigno», il candido pennuto caro a Baudelaire, a Laforgue, a Mallarmé”.

Sono partita da quanto scrive Piperno e, andando a riscartabellare la RTP ho cercato di dare un’occhiata — se pure superficiale e sommaria — a cosa può esserci dietro questa faccenda della pronuncia di Swann.

Van Dongen

Kees Van Dongen
Acquerello per l’edizione illustrata di À la recherche du temps perdu, 1947

In À l’ombre des jeunes filles en fleur, il marchese di Norpois — diplomatico amico dei genitori del Narratore dai quali è stato invitato a cena — nel corso della conversazione dice, a proposito del salotto di Madame Swann (Odette de Crécy ha sposato Swann):

« – Je dois ajouter, pour être tout à fait juste, qu’il y va cependant des femmes, mais… appartenant plutôt…, comment dirais-je, au monde républicain qu’à la société de Swann (il prononçait Svann) ».

(À la recherche du temps perdu,  À l’Ombre des Jeunes Filles en Fleurs I : Autour de Mme Swann )

´Mio Dio… È una casa dove mi sembra che vadano soprattutto… degli uomini. Ce n’era qualcuno sposato, ma le mogli erano indisposte, quella sera, e non erano venute, rispose l’ambasciatore con una finezza velata di bonomia e gettando intorno sguardi la cui dolcezza e discrezione facevan mostra di temperare la malizia, esagerandola invece abilmente.´Devo direª, aggiunse, ´per esser giusto fino in fondo, che ci vanno anche delle donne, ma… appartenenti piuttosto… come dire, al mondo repubblicano che alla società di Swann. (pronunciava Svann).

Molte centinaia di pagine dopo, in Albertine disparue, la figlia di Swann Gilberte, il cui cognome è adesso de Forcheville avendo la madre Odette sposato in seconde nozze, dopo la morte di Charles, il marchese di Forcheville:

« C’est que Gilberte était devenue très snob. C’est ainsi qu’une jeune fille ayant un jour, soit méchamment, soit maladroitement, demandé quel était le nom de son père, non pas adoptif mais véritable, dans son trouble et pour dénaturer un peu ce qu’elle avait à dire, elle avait prononcé au lieu de Souann, Svann, changement qu’elle s’aperçut un peu après être péjoratif, puisque cela faisait de ce nom d’origine anglaise un nom allemand ».

(À la recherche du temps perdu, Albertine disparue)

Il fatto è che Gilberte era diventata molto snob. Così, siccome un giorno, sia per cattiveria, sia per sbadataggine, una ragazza le aveva chiesto quale fosse il nome di suo padre, non quello adottivo, ma il vero, nel suo turbamento e per snaturare un po’ quel che doveva dire, invece di Suann, aveva pronunciato Svann, mutamento che poco dopo si accorse, essere peggiorativo, in quanto faceva di quel nome, di origine inglese, un nome tedesco. E aveva perfino aggiunto, avvilendosi per elevarsi: ´Si sono raccontate tante storie diverse sulla mia nascita, ma io devo ignorare tutto”.

Norpois — ci fa intendere Proust — pronunciando “Svann” alla tedesca sbaglia la pronuncia (quella corretta è dunque “Svuann” all’inglese). Anche Gilberte sbaglia la pronuncia del cognome del padre. Ma mentre Norpois commette l’errore non sappiamo quanto volontariamente, Gilberte lo fa apposta, pensando (a torto) di “nobilitare” così, in qualche modo, la figura del padre e soprattutto nascondere la sua origine israelita. Di cui Gilberte si vergogna.

Swann infatti è un ebreo. Norpois, da parte sua, è antisemita ed accanito antidreyfusardo (da qui il tono di velata condiscendenza tutte le volte che lo nomina). Gilberte che, (come d’altra parte lo stesso Proust), è figlia di un matrimonio misto si vergogna dell’ebraismo del padre e, dopo la sua morte, deformando la pronuncia del nome di fatto tradisce e rinnega il padre.

Come d’altra parte ha scritto molto bene lo stesso Piperno nel suo libro “Proust antiebreo” quando ha giustamente definito l’atto di Gilberte un vero e proprio “parricidio del nome” perchè “Gilberte, storcendo volontariamente il nome del padre ne cancella anche l’essenza.” ricordando anche come tutto questo abbia un precedente in una famosa novella giovanile di Proust Sentiments filiaux d’un parricide (Alessandro Piperno, Proust antiebreo, Franco Angeli, 2000, pag. 109)

In Proust un nome proprio non è mai scelto a caso, ed anche dietro la questione apparentemente molto banale del corretto modo di pronunciare un nome si nascondono veri e propri sistemi di relazioni da decifrare, decodificare.

Come ha scritto Roland Barthes nel suo bellissimo saggio del 1967, “il Nome proustiano è […] l’equivalente di una intera voce di dizionario […], un fenomeno di ipersemanticità” (Roland Barthes, Proust et les noms)

  • Alessandro Piperno – Perchè Swann (la vittima) è uno di noi (testo integrale) >>
  • Swann compie cento anni (su NSP) >>
  • Dalla parte di Charles (su NSP)  >>
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16 risposte a SWANN, SVANN, SUANN

  1. Dragoval ha detto:

    Meraviglioso post e illuminante.
    Comunque, a proposito di parricidio, sembra che questo sia proprio uno dei temi dominanti della Recherche , a giudicare, almeno, dall’episodio della figlia di Vinteuil. Non so se davvero Proust fosse così antigiudaico come sostiene Piperno o se semplicemente ritraesse una generazionedi figli che rispedissero al mittente la colpa incofessabile dei padri; in ogni caso, l’argomento è da approfondire- e la sezione sui nomi da rileggere con estrema attenzione.

    • gabrilu ha detto:

      @Dragoval
      più che di parricidi, l’opera di Proust è costellata di matricidi. Di “madri profanate”.
      Illuminante, su tutte, questa frase che il Narratore getta lì — a proposto di Charlus — con apparente noncuranza in “Sodoma e Gomorra”, Parte II, capitolo II, “Il signor di Charlus pranza dai Verdurin”
      ” i figli […] consumano nel proprio volto la profanazione della madre? Ma lasciamo stare questo aspetto che meriterebbe un capitolo a parte: le madri profanate.”

      Oppure, a proposito di Vinteuil, padre che alla figlia aveva riservato “cure quasi di madre e di governante”:

      “Era in lutto stretto, perché suo padre era morto da poco. Noi non eravamo andati a trovarla: mia madre non lo aveva voluto, in ragione di una virtù che sola in lei limitava le manifestazioni di bontà, il pudore; ma la commiserava profondamente. Mia madre ricordava la triste fine dell’esistenza di Vinteuil, tutta assorbita, prima, dalle cure quasi di madre e di governante che prodigava alla figlia, poi dalle sofferenze che questa gli aveva inflitto; rivedeva il volto tormentato che, sempre, il vecchio aveva avuto negli ultimi tempi” (La strada di Swann, Parte Prima, Combray, Capitolo II)

      Come sempre, mi è impossibile rispondere sinteticamente a questioni che riguardano l’opera di Proust. Questo del matricidio spesso camuffato da parricidio, ad esempio, è un tema che ha costituito l’oggetto principale di decine di saggi.
      Mi limito qui ed ora solo a consigliare la lettura dell’articolo che Proust scrisse prendendo le mosse da un agghiacciante fatto di cronaca e che venne pubblicato su “Le Figaro” nel 1907 con il titolo “Sentimenti filiali di un parricida”.
      (Peccato però che nel fatto di cronaca il figlio avesse massacrato la madre, e non il padre – come starebbe ad indicare il titolo).

      Nell’articolo Proust parla molto di tragedia greca e cita Edipo e Giocasta (una storia di incesto…) ed a un certo punto scrive:

      “Se ci pensiamo bene, non c’è una sola madre davvero amorevole che non potrebbe, il suo ultimo giorno, spesso molto prima, rivolgere questo rimprovero a suo figlio. In fondo, noi invecchiamo, uccidiamo tutti quelli che ci amano con le preoccupazioni che suscitiamo in loro, con la stessa inquieta tenerezza che ispiriamo e che mettiamo di continuo in allarme. Se sapessimo vedere in un corpo che ci è caro il lento lavoro di distruzione compiuto dalla dolorosa tenerezza che lo anima, vedere gli occhi offuscati, i capelli a lungo rimasti indomabilmente neri e infine vinti come il resto e incanutiti, le arterie indurite, le reni occluse, il cuore sforzato, vinto il coraggio di fronte alla vita, il passo rallentato, appesantito, lo spirito che sa di non avere più niente da sperare, quando un tempo si sollevava instancabilmente a invincibili speranze, la gaiezza stessa, la gaiezza innata e che sembrava immortale, che faceva così bella coppia con la tristezza, per sempre prosciugata, forse colui che sapesse vedere tutto questo, in uno di quei tardivi momenti di lucidità che perfino le vite più stregate da chimere possono conoscere, se anche quella di Don Chisciotte ebbe il suo, forse quell’uomo, come Henri van Blarenberghe quando ebbe finito sua madre a colpi di pugnale, arretrerebbe di fronte all’orrore della sua vita e si getterebbe su un fucile, per morire subito.”

      Il testo integrale dello scritto di Proust pubblicato su “Le Figaro” lo si può trovare in formato .pdf, tradotto in italiano e con una lunga introduzione di Stefano Ballerio sul sito dell’Università di Milano a questo indirizzo

      http://riviste.unimi.it/index.php/enthymema/article/view/1183/1392

  2. vania ha detto:

    A proposito di “Proust antiebreo” hai già scritto qualcosa in merito? Mi piacerebbe conoscere il tuo pensiero sia in relazione al libro di Piperno (che non ho letto) e sia in merito al supposto antisemitismo di Proust. Ci sono dei passi della Ricerca che sicuramente mi hanno lasciata con un punto di domanda ma considerando l’opera nel suo insieme, da questo punto di vista, non credo, a parer mio, vi siano propositi palesemente e volontariamente antisemiti; piuttosto credo che in alcuni passaggi sia evidente il condizionamento sociale dell’epoca pervasa dall’antiebraismo. Un caro saluto,
    Vania

    • gabrilu ha detto:

      @Vania
      si, su “Proust antiebreo” (ormai purtroppo fuori catalogo) avevo scritto qui

      http://www.marcelproust.it/note/piperno.htm

      Personalmente condivido molto l’approccio generale che Piperno ha con la lettura e l’interpretazione dell’opera di Proust e sul suo rapporto con l’ebraismo, anche se ovviamente poi, andando nel dettaglio, su alcuni particolari ho qualche perplessità. Ma si tratta di sfumature, non di aspetti essenziali.

  3. Versus ha detto:

    Magnifique billet, merci!

  4. Rendl ha detto:

    Gabrilù, confermo: sei una “miniera senza fondo” (come dicono gli spagnoli) di spunti interessanti. C’è un aspetto che (un po’ anche per deformazione professionale) mi colpisce dell’ultima frase dell’articolo di Proust sul “parricidio” che, in realtà, è un “matricidio”: il riferimento a Don Chisciotte e ai suoi “attimi di lucidità”.

    Mi colpisce che Proust si ricordi (e citi) un personaggio come Don Chisciotte in relazione a un “folle” che ammazza la madre. In realtà, come si capisce bene leggendo il romanzo cervantino, Don Chisciotte ha svariati “attimi di lucidità”, anzi, certe volte sembra proprio che sia lucidissimo e che faccia il “pazzo” solamente quando si parla di “cavalleria” e di “eroi cavallereschi”. E, inoltre, non fa mai del male a nessuno, anzi, sono gli altri che lo riempiono di botte, calci, percosse varie.

    Il vero momento di “lucidità” ufficiale è quello della morte: cioè, solo quando sta per morire sembra che Don Chisciotte abbia l’illuminazione e rinneghi tutto quello che ha fatto e che è stato fino a quel momento. Ovvero: solo quando sta per morire, DQ abbandona la maschera della finzione letteraria e torna ad essere Alonso Quijano, una persona “normale” e “qualunque”. Peccato che sia proprio questo ritorno alla “normalità” e alla “saggezza” a determinare anche la fine del romanzo. In soldoni: finisce la pazzia, finisce pure il diverimento (la finzione) e il romanzo, cosa che, se ci pensi bene (se ci si riflette con attenzione), accade anche alla RTP: è quando Marcel capisce il senso dell’operazione che sta portando a termine che “recupera il tempo passato” e, quindi, finisce il romanzo che sta scrivendo…con un movimento circolare che chiude (e riapre) il romanzo stesso…

    Tutto questo per dire (in modo caotico, lo ammetto) che forse Proust lesse Cervantes e ne trasse beneficio e godimento. E mi pare di ricordare che anche Marcel citi Don Chisciotte, all’interno della RTP, anche se ora non ricordo dove né quando…

    Grazie per il bellissimo post, e scusami la logorrea (che sorge spontanea quando si parla del Nostro).

    Rendl

  5. gabrilu ha detto:

    @Rendl
    Quando, qualche tempo fa (e sempre cmq troppo tardi) mi sono finalmente decisa a leggere il DQ, la cosa che mi colpì di più e soprattutto fu, appunto, la circolarità del romanzo, la sua straordinaria attualità. (Che i cosiddetti post-moderni se ne facciano una ragione, ma sulla circolarità qualcuno, prima di loro ed un par di centinaia d’anni prima, aveva avuto già qualcosa da dire. Ma sto divagando).
    Andiamo a noi.
    Gli “scrittori -mondo” (e per quanto mi riguarda considero Proust uno “scrittore-mondo”) attirano e sono inevitabilmente attirati da altri “scrittori-mondo” (e per quel che mi riguarda, Cervantes è uno “scrittore-mondo”).
    Anche i loro appassionati inevitabilmente prima o poi si incrociano si confrontano, a volte si scontrano.
    Ma veniamo al sodo.

    Non saprei esprimere meglio di come hai fatto tu l’idea della circolarità dei due romanzi-mondo, della vita che inizia con la morte del loro protagonista-autore. Perciò non mi ci soffermo.

    Ti chiedi se Proust avesse letto Cervantes? Eccome, se lo aveva letto!
    Certo che Proust conosceva Cervantes e il suo DQ.
    Di Cervantes e del DQ Proust parla molto soprattutto nell’epistolario. Non posso certo citare tutti i riferimenti qui ed ora, ma accenni al DQ sono presenti in lettere a Montesquiou, ad Anatole France, ad Emile Male etc.

    Nella RTP Il DQ compare (in chiaro) solo una volta direttamente, a proposito di Charlus paragonato, appunto ad una sorta di Don Chisciotte.
    La scena si svolge nel corso di un ricevimento in casa del Principe di Guermantes. Il Narratore teme di avere equivocato a proposito dell’invito e di essersi, senza volere, infiltrato tra gli ospiti. Cerca allora ansiosamente qualcuno che possa presentarlo al principe, che non conosce ancora. Si decide a chiederlo al barone di Charlus,

    “questo Don Chisciotte si era battuto contro tanti mulini a vento” (Sodoma e Gomorra, Parte Seconda, Cap. I°),

    Un altro accenno a DQ lo troviamo quando Mme Verdurin si rivolge a Brichot per persuaderlo a tendere una trappola a Charlus: «Quell’uomo è immondo, ribatté. Proponetegli di venire a fumare una sigaretta con voi, perché mio marito possa prendere a parte la sua Dulcinea senza che lo Charlus se ne avveda, e illuminarla sull’abisso nel quale sta precipitando.»

    E chi è la Dulcinea di Charlus cui Mme Verdurin fa malignamente riferimento? Morel…

    L’accostamento non mi sembra banale: la Dulcinea di Cervantes — così come se la rappresenta DQ) è una creazione della mente di DQ. Il Morel della RTP (il Morel tenero amante, innamorato etc. etc.) non è che una creazione della mente di Charlus.

    P.S. Grazie per questo tipo di interventi-commenti che mi costringe a far funzionare le celluline grige, a scartabellare, verificare, rileggere e controllare.
    Io sono molto pigra. Meno male che ci siete voi a stimolarmi…

  6. Dario ha detto:

    Buonasera, qual è secondo voi la migliore traduzione della “Ricerca” in italiano? Io possiedo l’edizione Meridiani Mondadori, tradotta da Raboni: secondo molti è la versione definitiva. Però non so perché, ma, secondo Aldo Busi (scrittore che ammiro tanto), quella di Raboni è una traduzione “mediocre”, perché le due belle sono quella vecchia di Einaudi e quella di Rizzoli? Potreste darmi delucidazioni su queste ultime? Sono ancora in commercio? Grazie.

  7. Dario ha detto:

    Secondo Busi volevo dire, le traduzioni belle sono quelle di Rizzoli e Einaudi.

    • gabrilu ha detto:

      @Dario
      Provo a dire come la penso io.
      Detto brutalmente: a me la traduzione di Raboni **non** piace. In particolare, per quanto riguarda il primo volume e cioè “Du cote de chez Swann” trovo orrenda e fuorviante la traduzione dell’incipit, e continuo a preferire (e di molto, e molto convintamente), la traduzione di Natalia Ginzburg.

      La prima pubblicazione Einaudi nella ormai mitica NUE (che è stata la prima in cui ho letto la RTP, che ancora possiedo e che mi tengo carissima) aveva una traduzione a più voci. E che traduttori!

      – Strada di Swann   – Natalia Ginzburg  (1946)
      – Fanciulle in fiore – G. Calamandrei  (1949)
      – Guermantes – Bonfantini  (1949)
      – Sodoma e Gomorra – E. Giolitti (1949)
      – La prigioniera – Paolo Serini (1950)
      – La fuggitiva – Franco Fortini (1951)
      – Il tempo ritrovato – Giorgio Caproni (1951)

      Certo, ci sarebbero da fare parecchie considerazioni su pregi e difetti tra questa edizione e  quella dei Meridiani  (meglio più traduttori o un  traduttore unico? ad es., tanto per dirne una). 

      Per quanto mi riguarda, la cosa veramente notevole dell’edizione Meridiani (che anche possiedo) è il fantastico, colossale  apparato di note di Daria Galateria e Alberto  Beretta Anguissola (ci hanno lavorato ben dieci anni…). L’Einaudi degli anni ’50 non poteva ancora disporre di  tutta una serie di manoscritti, di bozze, appunti, notizie  etc. che furono trovati, studiati, decodificati soltanto negli anni seguenti e con pazienza davvero certosina da Jean Ives Tadié, Pierre Clarac e un’intera equipe che per anni si occupò solo di Proust. Quindi certamente i volumi dell’edizione Meridiani sono, oggi come oggi,  più filologicamente corretti della vecchia versione Einaudi.

      Non conosco la versione Rizzoli, dunque su questa non posso esprimermi. Cerco di leggere la RTP nell’originale francese (Pleiade) o, in italiano, la vecchia NUE e mi va bene così.

      Recentemente ho però acquistato l’eBook di tutta la RTP in italiano della Newton Compton. Non mi sembra affatto male, e soprattutto ha buone introduzioni e apparato di note.

      Ho detto la mia, ma mi interesserebbe anche se si esprimesse qualche altro, sulla questione.

      Ciao! 🙂
      P.S. Raboni lo ammiro tanto, e certamente la sua traduzione è di alto livello. Però, però… secondo me con Proust non ci ha azzeccato. Con tutto il rispetto, eh, sia chiaro! 🙂

    • Stefano ha detto:

      Ho letto Proust anche in francese e la traduzione di Raboni, secondo me, resta la più fedele.

  8. Dario ha detto:

    Grazie mille.

  9. Luca Carloni ha detto:

    Mi puoi chiarire meglio perché pronunciare Swann alla tedesca celerebbe le origini ebraiche del nome? Forse la pronuncia inglese e il significato che con questa pronuncia acquista il cognome (cigno) lo colloca fra i cognomi ebrei inglesi, mentre ciò non avviene con la pronuncia tedesca, che tra l’altro mi pare non dia (almeno per le mie orecchie e per la mia conoscenza del lessico tedesco) alcun significato particolare al cognome?

  10. gabrilu ha detto:

    Luca Carloni
    Credo che sostanzialmente abbia ragione tu. Quello di Gilberte è solo un (maldestro) tentativo di depistaggio.
    Maldestro ed anche, secondo me, per certi versi anche comicamente paradossale tentativo perché utilizzando la pronuncia alla tedesca Gilberte si rende conto di essere caduta in un certo senso dalla padella nella brace. Trasformando infatti il nome del padre in un nome tedesco, si rende subito conto di non aver fatto un grande favore a sè stessa, considerata l’aria che in quel periodo tirava in Francia a proposito della Germania… Un padre ebreo non era (secondo lei) da esibire. Ma anche un padre tedesco non è che fosse un gran biglietto da visita, per un gran matrimonio d’alta società…
    Sono solo ipotesi, le mie.

    Mi dilungo un po’ riportando due passi che comunque mi sembrano interessanti:

    In “Sodoma e Gomorra”, parte I (si è nel pieno dell’Affare Dreyfus)

    “Swann rifiutò di dare la sua adesione. Trovava il suo nome troppo ebraico per non fare una cattiva impressione.”

    Ne “La fuggitiva” (i grassetti sono miei):

    “I politici non avevano avuto torto nel pensare che la scoperta dell’errore giudiziario avrebbe inferto un grave colpo all’ antisemitismo. Ma, provvisoriamente almeno, risultava, invece, accresciuto ed esasperato, un antisemitismo mondano. Forcheville, che da piccolo nobile qual era, aveva attinto dalle conversazioni di famiglia la certezza che il suo nome era più antico di quello de La Rochefoucauld, riteneva di aver compiuto, sposando la vedova di un Ebreo, lo stesso atto di carità che compie un milionario nel raccogliere dalla strada una prostituta e nel tirarla fuori dalla miseria e dal fango. Era pronto ad estendere la sua bontà fino alla persona di Gilberte, il cui matrimonio sarebbe stato favorito da tanti milioni, ma ostacolato da quell’assurdo nome di Swann”

  11. Luca Carloni ha detto:

    Sto pensando che, forse, appariva “assurdo” anche e proprio perché non si sapeva come pronunciarlo, era estaneo alla Francia e non collocabile con precisione in un’altra nazione riconosciuta, costitutivamente diverso, proprio come gli ebrei, un’ “assurda” nazione senza terra.

    P.S. Io lo pronunciavo alla tedesca.

    • gabrilu ha detto:

      Luca Carloni mi piace molto questa tua interpretazione.
      E… si, anch’io sono ancora oggi sempre tentata di pronunciarlo alla tedesca, mi sono sempre chiesta perchè.

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