CHE COS’E’ LA MUSICA CLASSICA?

 

Leonard Bernstein
Leonard Bernstein

Che cos’è la musica classica?

…O anche che cosa NON è.
Eh.
Ché sulla questione c’è chi ancor oggi si accapiglia.

A me lo aveva spiegato molto bene tanti anni fa Leonard Bernstein (si, proprio lui, quello di quel famoso party immortalato in quel Radical Chic di Tom Wolfe di cui avevo parlato >>qui).

Ho ritrovato quel vecchissimo video su YouTube e non resisto alla tentazione di riproporlo qui ed ora.

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SCRITTORI RUSSI

 

Pasternak

Boris Pasternak con carta, penna e calamaio

“Dei nostri scrittori più d’ogni cosa io amo la russa semplicità di Puskin e di Cechov, il loro schivo distacco da cose altisonanti, come le mete finali dell’ umanità e la loro sorte particolare. Non che essi non si ponessero il problema, ma senza presumere di affrontare temi di quella portata. Non se ne sentivano all’ altezza, non abbastanza degni. Gogol’, Tolstoj, Dostoevskij si preparavano alla morte, si tormentavano, cercavano una spiegazione, tiravano le somme. Loro, fino all’ ultimo, furono distratti dalle particolarità dell’ operazione artistica, e nel susseguirsi di queste passarono senz’ accorgersene la vita, una particolarità anche questa privata, che non riguardava nessuno. Ed ecco che oggi, quelle loro particolarità assumono un valore universale e, come le mele colte non ancora mature, continuano a maturare nella posterità, arricchendosi di senso e dolcezza sempre maggiori.”

Questo scrive    Jurij Andrèevic Zivago      nel taccuino di appunti cui il Dottore  affida le sue riflessioni sulla vita, l’arte, la letteratura   nelle lunghe e gelide sere invernali  che   trascorre con la famiglia nell’isolamento di Varýkino, mentre    infuriano  guerra civile e  rivoluzione.

 

RADICAL CHIC – TOM WOLFE

 

Felicaie Leonard Bernstein
Felicia e Leonard Bernstein nella loro casa di New York con la Pantera Nera Field Marshall Donald Cox.
New York, 1970

E’ sempre bene sapere da dove provengono e quando furono adoperati ed eventualmente da chi furono coniati per la prima volta termini che sono entrati ormai così profondamente nell’uso comune da venire spesso utilizzati anche a sproposito.

L’espressione “radical chic”, ad esempio, viene in genere usata per indicare la presunta incoerenza di persone che si dicono politicamente di sinistra ma hanno redditi maggiori di quelli che un luogo comune attribuirebbe ai militanti di sinistra. Il termine è usato quasi sempre per polemica e con intenzioni più o meno aggressive.

pallino

Fu Tom Wolfe a coniare il termine Radical Chic. Nel giugno 1970 pubblicò sul New York Magazine un lunghissimo articolo intitolato Radical Chic, That Party at Lenny’s in cui faceva un resoconto al vetriolo del ricevimento che qualche mese prima Felicia Bernstein, moglie del compositore e direttore d’orchestra Leonard Bernstein, aveva organizzato per raccogliere fondi a sostegno del gruppo rivoluzionario delle «Pantere nere».

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LA LANTERNA MAGICA DI MOLOTOV – RACHEL POLONSKY

 

Yuri Pimenov
Jurij Pimenov, Attesa, 1959
Mosca, Galleria Tret’jakov

“Guardare a ritroso nel passato è come assistere allo spettacolo di una lanterna magica, ‘La memoria è strutturata a guisa di proiettore, illumina singoli momenti lasciando tutt’intorno un’oscurità invincibile’ disse l’Achmatova”

I libri e una lanterna magica trovati in un appartamento costituiscono il  prisma attraverso cui il lettore segue Rachel Polonsky in un  affascinante racconto, vero viaggio nel tempo e nello spazio della storia della Russia.

pallino

Recatasi a studiare a Mosca nel 1998, l’universitaria inglese Rachel Polonsky (oggi affiliated lecture al Dipartimento di Slavistica dell’Università di Cambridge), invece di una tesi sull’orientalismo finisce per scrivere un racconto di viaggio o, più esattamente, una relazione delle sue “avventure in quel groviglio di storie passate create da luoghi e libri”. L’ispirazione le viene da Viatcheslav Molotov, braccio destro di Stalin: abitava nel suo stesso immobile, lei scopre, e proprio nell’appartamento sopra il suo.

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QUEL CHE MÁRAI AVREBBE VOLUTO TACERE

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Sándor MÁRAI, Ce que j’ai voulu taire (tit. orig. Hallgatni Akartam)
traduz. dall’ungherese al francese di Catherine Fay
pp. 224, ed. Albin Michel, 2014

“Avrei voluto tacere. Ma il tempo mi ha interpellato ed ho capito che era impossibile. Più tardi, ho capito che tacere era di per se una risposta, come la parola e la scrittura. A volte tacere non è la risposta meno pericolosa. Niente irrita tanto l’autorità quanto il silenzio che la nega”

Con queste parole Sándor Márai inizia Ce que j’ai voulu taire. In effetti, dal giorno (18 marzo 1944) in cui le truppe naziste invadono l’Ungheria, loro “alleato”, Márai cessa di scrivere per i giornali e proibisce la riedizione delle sue opere. Qualche mese più tardi esprime sul suo diario il desiderio di aggiungere una terza parte alle due in cui era diviso il volume Le confessioni di un borghese pubblicato nel 1934 ed in questo modo completandolo.

Quello che possiamo leggere adesso nel volume Albin Michel è appunto questa terza parte, scritta da Márai tra il 1949-1950 e dunque appena un anno dopo aver fatto la dolorosa scelta dell’esilio volontario ed aver lasciato definitivamente l’Ungheria. Si tratta di un testo scritto ancora a caldo, la ferita è indubbiamente ancora troppo recente e dolorosa.

Il testo — incompleto e non definitivo, ma su questo tornerò — è stato ritrovato nel 2000 nel Fondo Márai del museo Petöfi di Budapest. E’ stato pubblicato in ungherese con il titolo Hallgatni akartam e nel novembre del 2014 tradotto e pubblicato in francese dalla casa editrice Albin Michel. Che io sappia si tratta della prima e sinora unica traduzione esistente di questo testo al di fuori dell’Ungheria.

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AGATHA A MOSUL

Agatha Christie e Max Mallowan
Agatha Christie e il marito Max Mallowan
durante una spedizione archeologica

Agatha Christie, tra i cui libri ci sono Morte in Mesopotamia (1936), Assassinio sull’Orient Express (1934) ed altri i cui eventi si svolgono nelle terre della Mesopotamia, Iraq, era sposata con l’archeologo Max Mallowan, conosciuto nel 1933 in uno dei villaggi di Mosul.

Agatha seguiva il marito nei suoi scavi archeologici e  girava come turista scoprendo la grande civiltà dell’Iraq.

Agatha Christie visitò l’Iraq molte volte, dal 1933 al 1960.

Mosul, che sarebbe rimasto per tanti anni il centro della mia vita,
[…]
Un giorno, mentre guidavo l’autocarro per le vie di Mosul, il vigile che dirigeva il traffico improvvisamente lo bloccò con un gesto del bastone e gridando: ´Mama! Mama!’ si avvicinò all’autocarro, mi prese la mano e la strinse con forza.´Che gioia rivederla, Mama! Sono Alì, il garzone! si ricorda di me? Adesso faccio il vigile! E così, ogni volta che andavamo a Mosul, c’era Alì che, quando ci riconosceva, fermava il traffico, per salutarci e poi ci faceva ripartire dandoci l’assoluta precedenza. Com’è bello avere amici così. Caldi, semplici, pieni di gioia di vivere, capaci di ridere di qualunque cosa. Gli arabi sono dotati di un’allegria e di un senso dell’ospitalità straordinari. In qualsiasi momento ci capitava di passare nei villaggi dove abitava uno dei nostri operai, questi, precipitandosi fuori di casa, insisteva perchè entrassimo a bere del latte acido. La maggior parte degli effendi dagli abiti purpurei che vivono in città sono noiosi, ma gli uomini delle campagne sono buoni compagni e splendidi amici.
Quanto ho amato quella parte del mondo. L’amo ancora e l’amerò sempre.

 

Mosul Museum

 

MÁRAI E PROUST

 

Tetti di Parigi© R.G. Photographe

Negli anni Venti del secolo scorso, l’ancor giovinotto Sándor Márai, che scarpinava e tirava la carretta guadagnandosi da vivere scrivendo articoli per giornali, ebbe il colpo di fortuna di venire inviato come corrispondente dalla Frankfurter Zeitung nientepopodimenoche a Parigi.

Le pagine in cui racconta come lui e Lola (la moglie che, allora molto giovane, lo accompagnò poi per tutta la vita fino alla definitiva e straziante tappa de L’ultimo dono ) trascorsero il loro periodo parigino  sono, per chi ama Parigi, tutte da leggere.

Io ne ho estratto solo un piccolo passaggio. Perchè è vero che questo blog si intitola NonSoloProust.

Ma è anche vero che quando qualcuno (e figuriamoci poi se quel qualcuno, come in questo caso, è un Márai) mi parla di Proust… beh… che vi devo dire… Ammè mi pare di sentire il corno di Ernani (ma al contrario) 🙂

Leggendo Proust mi accorsi sconcertato di non sapere nulla del mio mestiere. Fu in quell’epoca che egli si rivelò alla nuova generazione; in precedenza lo avevano considerato uno snob, un chiacchierone nevrotico e prolisso che si ostinava a mettere a nudo i fatti privati e le stravaganze di una società mondana. Fino a quel momento soltanto poche menti ardite e intraprendenti avevano riconosciuto le vere dimensioni del suo mondo; ora, invece, un’intera generazione dalla mentalità aperta e ricettiva cominciò a rendersi conto che la ´società mondana’ ritratta nell’opera di Proust era strettamente imparentata con l’umanità intera, con i suoi miti e i suoi ricordi; che al di là dei ´fatti privati’ e delle ´stravaganze’, delle relazioni umane analizzate nei minimi dettagli, delle atmosfere, delle azioni e degli incontri ´insignificanti’, affioravano gli strati più profondi e universali della natura umana. In quegli anni l’influenza di Proust crebbe in misura tale da proiettare la sua ombra su tutti i suoi successori; persino coloro che non lo avevano mai letto non potevano sottrarsi al suo influsso. La luce irradiata da una personalità così eccezionale penetra irresistibilmente attraverso il tessuto della letteratura, fino a raggiungere — sia pure per via indiretta, passando attraverso diversi filtri — anche i miscredenti e gli ignoranti.

 

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