
Osip Mandel’stam nel 1914
Il rumore del tempo, magnifico testo in prosa di quello che sarà uno dei più grandi poeti del Novecento ed in cui Mandel’stam, rievocando i suoi ricordi di infanzia in una Pietroburgo a cavallo dei due secoli scrive:
“Non è di me che voglio parlare: voglio piuttosto seguire l’ epoca, il rumore e il germogliare del tempo. La mia memoria è nemica di tutto ciò che è personale. Se fosse per me, mi limiterei a storcere il naso pensando al passato. Non li ho mai capiti i Tolstoj, gli Aksakov, i nipoti di Bagrov, innamorati degli archivi di famiglia con le loro epiche memorie domestiche. Lo ripeto, la mia memoria è spinta dall’ ostilità, non dall’ amore, e il suo lavorio rimuove il passato, non lo riproduce. Un raznocinec non ha bisogno della memoria, gli è sufficiente parlare dei libri che ha letto e la sua biografia è bell’ e pronta. Ci sono generazioni fortunate in cui l’ epos si esprime in forma di esametri e di cronache. Al posto di questo, nel caso mio, c’ è un segno di discontinuità, e tra me e la mia epoca si apre un abisso, un baratro riempito dal tempo che rumoreggia, il posto destinato alla famiglia e al suo archivio”
Un Mandel’stam che questa volta fa poesia in prosa catapultandoci, nel testo principale posto come titolo alla raccolta Il rumore del tempo ed altri scritti pubblicata recentemente da Adelphi, nella San Pietroburgo della sua infanzia e facendoci davvero ascoltare, attraverso la sua memoria, “il rumore del tempo”.

Le prose di Mandel’stam sono state riproposte in italiano nella nuova traduzione di Daniela Rizzi che ha corredato il volume Adelphi anche di un eccellente apparato di note utilissimo se non addirittura indispensabile per aiutare il lettore a districarsi nella ridda di nomi di persone e di allusioni lasciate dall’autore volutamente nel vago.
Il volume contiene quattro testi.
I primi tre sono Il rumore del tempo, Teodosia (frammento di un viaggio in Crimea), e Il francobollo egiziano (una storia sullo sfondo della Rivoluzione d’Ottobre) che erano stati già publicati da Einaudi nel 1980 nella traduzione di Giuliana Raspi e riproposti qualche anno fa da Passigli. In questi testi Mandel’stam evoca la Russia di fine Ottocento, la Russia prima della rivoluzione bolscevica, prima del secolo da lui definito il “secolo dei lupi”.
A questi tre testi già precedentemente pubblicati Adelphi ha scelto di aggiungere anche La quarta prosa, uno scritto pieno di invettive che si scaglia violentemente contro il potere sovietico. Scorrendo le pagine de La quarta prosa, composto nel 1930, il lettore di oggi non può che prefigurarsi il destino che avrebbe portato il poeta a morire otto anni dopo nel campo di transito di Vladivostok per avere scritto quell’Epigramma a Stalin di cui avevo parlato >>qui e che gli costò carissimo.
La quarta prosa inizierà a circolare come samidzat solo quarant’anni dopo.
E’ però soprattutto su Il rumore del tempo (redatto da Mandel’stam nel 1923 e pubblicato nel 1925) che voglio adesso soffermarmi.

Non solo perchè è scritto splendidamente, vera poesia in prosa, ma anche perchè è il suo scritto più autobiografico e costituisce probabilmente la migliore introduzione alla sua opera poetica.
Il mio rapporto con il linguaggio della poesia è molto particolare. Temo di non essere molto permeabile al linguaggio poetico in versi. Sono invece estremamente permeabile alla poesia quando si presenta come prosa, ed è forse per questo che gli scritti contenuti in questa raccolta mi hanno catturata. (Perdonate la piccola digressione assolutamente personale).
Ordunque: ne Il rumore del tempo Mandel’stam torna con la memoria agli anni dell’infanzia.
Osip Mandel’stam, ebreo, nato a Varsavia nel 1891 era giunto piccolissimo in Russia con la famiglia dalla Polonia in cui era nato. I Mandel’stam si fermano per un poco a Pavlovsk, un villaggio a una trentina di chilometri da Pietroburgo, per poi, dopo poco tempo, trasferirsi a Pietroburgo. Come fa notare Daniela Rizzi, le memorie in prosa si concludono nel momento in cui l’autore inizia a scrivere versi, e cioè verso la metà degli anni ’20. Manca perciò qualsiasi accenno alla successiva attività poetica, “mentre l’attenzione si concentra sulle circostanze che le fanno da preludio”.
Se il giudizio di Mandel’stam sul XX secolo, da lui definito il “secolo dei lupi” è senza appello (e a questo proposito, mai mi stancherò di raccomandare la lettura dello splendido libro di Nadezda Mandel’stam L’epoca e i lupi stupendamente tradotto dalla grande Serena Vitale) lo sguardo che rivolge a quello che lo ha preceduto non è certo più benevolo. Lo si vede subito sin dall’incipit:
“Gli anni Novanta, gli anni bui della Russia: ne ricordo bene il lento strisciare, la quiete malsana, il profondo provincialismo. Un’ansa tranquilla, rifugio estremo di un secolo prossimo alla fine. Al mattino, con il tè, i discorsi su Dreyfus, i nomi dei colonnelli Esterhazy e Picquart, le dispute fumose su una certa Sonata a Kreutzer, e l’avvicendarsi dei direttori d’orchestra sull’alto podio della stazione di Pavlovsk dalle grandi vetrate, che a me pareva un susseguirsi di dinastie. Venditori di giornali fermi agli angoli delle strade, senza un grido nè un gesto, goffamente abbarbicati ai marciapiedi, strette carrozzelle con il sedile ribaltabile per il terzo passeggero, e gli anni Novanta, uno uguale all’altro, mi si parano davanti in scene isolate, connesse però nel profondo da un inerte squallore e dal malsano, irreparabile provincialismo di una vita prossima alla fine”
[…]
“Sentivo sempre più spesso l’espressione fin de siècle, ripetuta con orgoglio incosciente e malinconica civetteria. Quello strano secolo, si sarebbe detto, aveva riabilitato Dreyfus, regolato i conti con l’Isola del Diavolo, e smarrito il senso di sé.”
Poco tempo dopo, la famiglia si trasferisce a Pietroburgo.
Mandel’stam ne è affascinato.
“Pietroburgo, quell’elegante miraggio, era solo un sogno, un manto luccicante gettato sopra l’abisso, mentre intorno si stendeva il caos giudaico, né patria né casa né focolare, ma proprio un caos, un mondo uterino per me oscuro: io provenivo da quel luogo, lo temevo, ne avevo un’idea vaga e confusa, e ne rifuggivo senza tregua”
Pietroburgo gli appare di una bellezza disciplinata, magnificamente solenne, ne coglie gli aspetti razionalisti, gli procura uno strano sentimento che definirà di un “imperialismo infantile”; anche la scuola cui è iscritto è all’avanguardia; ha infatti la fortuna di frequentare l’Istituto Tenisev, celebre per i suoi metodi educativi e per un corpo insegnante di eccezionale qualità. Alcuni di questi insegnanti diventano, per Mandel’stam, veri e propri mentori.
E così Mandel’stam rievoca la Pietroburgo di prima della rivoluzione, la propria formazione non solo artistica-letteraria: i suoi interessi comprendono sia la cultura artistica che la politica; ascolta musica, frequenta sale di concerti. Parla a lungo della ricca biblioteca dei genitori, perchè
“La libreria della prima infanzia ti accompagna per tutta la vita. La disposizione dei ripiani, la scelta dei libri, il colore delle rilegature, li percepisci come colore, altezza e disposizione della letteratura universale. I libri assenti nella prima libreria non riusciranno mai a introdursi nella letteratura mondiale, e nemmeno nell’universo. Lo si voglia o no, nella prima libreria ogni volume è un classico e non c’è un solo dorso che si possa eliminare.Non per nulla questa strana bibliotechina si era sedimentata nell’arco di decenni, come una stratificazione geologica. In essa la componente paterna e quella materna non si mescolavano, ma avevano esistenze autonome: lo spaccato di quella libreria era la storia della tensione spirituale di un’intera stirpe, in cui era stato inoculato sangue altrui.”
I libri ebraici e tedeschi del padre, i libri russi della madre.
Molte pagine sono dedicate al suo professore di lettere V. V. Hippius, che gli ha insegnato e trasmesso la “rabbia letteraria”:
“Se non ci fossi tu, rabbia della letteratura, con quale cibo potrei mangiare il sale della terra? Tu dai sapore a quel pane insipido che è il comprendere, tu allegra coscienza del torto, tu sale dei congiurati, tramandato con un perfido inchino un decennio dopo l’altro nella saliera sfaccettata, con tanto di salvietta! È per questo che mi dà tanto piacere smorzare l’ardore della letteratura con il gelo e con le stelle acuminate. Manda un crepitio come fosse neve? La gelida strada nekrasoviana le mette allegria? Se è autentica letteratura sì.”
Stupefacente è il linguaggio, la prosa poetica, una prosa in cui il mondo dei suoni (quello dei concerti, ma anche quello delle voci degli attori di teatro, i suoni della lingua russa) diventano elementi costitutivi della prosa, che risulta di una straordinaria intensità. Certo, io leggo in traduzione, ma certe cose si percepiscono anche se lette in traduzione, se la traduzione è buona.
Mandel’stam rievoca i riti quotidiani della vita pubblica pietroburghese, gli esterni fastosi e teatrali, le uscite in carrozza della famiglia imperiale, il cambio della guardia intorno alla statua equestre di Nicola I, i giochi tra bambini al Giardino d’Estate, la processione delle governanti francesi, le proteste degli studenti…
Una bellezza disciplinata anche se avvertita come asfittica, ma che comunque rappresenta per Mandel’stam una sorta di argine a difesa da quello che lui chiama “il caos giudaico” che avverte nella sua famiglia – negli stessi arredi della casa, nel loro “sapore dolciastro”, nell’invadente odore della pelle conciata che dava da vivere al padre, nella stessa composizione sfrangiata della libreria domestica, “nell’artiglieria di scatoloni e ingombranti salmerie domestiche”.
Su questo “caos giudaico” Mandel’stam insiste molto: lo fugge, lo descrive come cloaca e caos, abitudini sinistre e volgarità; non manifesta alcuna indulgenza, parla di “vischioso miele giudaico”, anche se poi, descrivendo un amico di famiglia, un certo Semën Akimyc Anskij scrive che “era un incrocio tra un conoscitore del folclore ebraico, Gleb Uspenskij e Cechov. Sembrava racchiudere in sè mille rabbini di provincia, tanti erano i consigli e le parole di conforto che elargiva in forma di parabole, aneddoti e così via. Un giaciglio per la notte e del tè molto carico erano tutto quello di cui aveva bisogno per vivere. Si faceva a gara per ascoltarlo. Il folclore russo-ebraico di Semën Akimyc fluiva come un rivolo di miele denso nei suoi lenti, meravigliosi racconti”.
Sentimenti, sensazioni, reazioni fortemente ambivalenti. Ma d’altra parte (mi si permetta un altro inciso), leggendo i fratelli Singer e la Irène Némirovsky de I cani e i lupi non ci siamo forse abituati a queste forti ambivalenze? Ma ok, ok… sto divagando, come troppo spesso mi succede.
E poi, per il giovane Osip, c’è la questione della lingua. Come districarsi? Il padre parla ebraico e tedesco, la madre il russo. E l’yiddish? Che bella, questa cosa che scrive a proposito dell’yiddish!
“Durante l’infanzia non ho mai sentito parlare yiddish, solo più tardi ho ascoltato a sazietà questa lingua melodiosa, interrogativa, sempre stupefatta e delusa, con accenti marcati sui semitoni”
Allo stesso tempo, la società pietroburghese, il suo snobismo finlandese e lettone (il padre di Mandel’stam veniva dalla Lituania — ah, queste anime baltiche!) ), le istituzioni politiche e letterarie vengono descritte con una verve deliziosa. Mandel’stam ci restituisce le immagini della sua infanzia passando dal grandangolo allo zoom: grandi panoramiche sulla città, acuto senso del dettaglio nei ritratti di singole persone.
L’intento non è di resuscitare il passato ma di accantonarlo definitivamente. Evocare il “rumore del tempo” vuol dire riuscire ad andare oltre, a vincere quel senso di inferiorità che gli deriva dalle sue origini ebraiche, dalla consapevolezza di non appartenere a Pietroburgo ma a quel coacervo oscuro che lui chiama “caos giudaico” fatto di odori di cucina e di pelle conciata, scandito da colloqui di affari, «feste senza gioia» e preghiere incomprensibili.
L’ironia si mescola spesso alla tenerezza ed ad un sottofondo, nonostante tutto, di tenace rispetto. Che si tratti del “caos giudaico” che regnava nella famiglia dei nonni paterni, delle abitudini bizzarre e della lingua sconosciuta o della vita culturale pietroburghese, dei suoi giornali, dei suoi libri e delle sessioni del Fondo Letterario votate alla commemorazione delle date di nascita o dei decessi dei grandi — non sempre tanto grandi, d’altronde — scrittori del passato. Un’istituzione… necrologica?
In fin dei conti è un mondo sorpassato, sclerotizzato, quello che evoca Mandel’stam, e l’insieme lascia un’impressione un po’ amara, ben lontana dalla nostalgia per un Paradiso Perduto. Ed era proprio questo, probabilmente, l’effetto che Mandel’stam voleva suscitare.
“Quella schiuma rivoluzionaria del tempo della mia giovinezza, quell’innocente «periferia», era tutta un brulicare di storie d’amore. I ragazzi del 1905 si univano alla rivoluzione con gli stessi sentimenti di Nikolen’ka Rostov che si arruola negli ussari: era una questione d’amore e d’onore. Ciascuno di loro riteneva impossibile vivere senza il fuoco della gloria del tempo a cui apparteneva e respirare senza eroismo. Era il seguito di Guerra e pace, solo che la gloria risiedeva altrove. Non più nel reggimento Semënovskij del colonnello Min e nemmeno nella scorta imperiale di generali con i rigidi stivali di vernice, ma nei comitati centrali stava la gloria, nelle organizzazioni combattenti, e la prodezza cominciava cimentandosi con la propaganda”
Rievocare, resuscitare il passato per liberarsene definitamente, per andare oltre.

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Nessuno certamente di voi, onorati scrittori, che o liberi nascevate, o tali con più vostra
gloria facendovi, liberamente scrivevate; nessuno di voi, certamente, crederebbe che in questi nostri
tempi non solamente sorgesse la politica questione; Se le lettere possano per se stesse sussistere e
perfezionarsi; ma che definitivamente dai più venisse creduto e sentenziato pel no. E, per somma
disgrazia nostra, col tristo e continuo esempio degli odierni scrittori, pur troppo si va finora
confermando ogni giorno nel pensiero dei più questa falsa e funestissima impossibilità.
Io perciò a voi indirizzo questo mio terzo libro, come cosa vostra del tutto; poichè da voi
soli, dalla energia dell’animo e dell’opere vostre, dalla forza primitiva dei lumi con che rischiaraste
i contemporanei vostri ed i posteri, io spero trarre argomenti invincibili, che mi vagliano a
combattere e distruggere questo universale servile assurdo: «Che le lettere, non possono, nè
perfezionarsi, nè sussistere, senza protezion principesca.»
Voi dunque o Socrati, Platoni, Omeri, Demosteni, Ciceroni, Sofocli, Euripidi, Pindari, Alcéi,
e tanti altri incontaminati e liberi scrittori, inspiratemi or voi, non meno che salde ragioni, virile e
memorando ardimento. Quanto, necessarj mi siano, sì l’uno che l’altro, per convincere una così
acciecata gente, ve lo potete argomentar da voi stessi, paragonando la presente questione a quella
che ai tempi vostri si sarebbe più giustamente potuta innalzare, opposta in tutto alla nostra; e stata
sarebbe: «Se le lettere, o nessuna virtuosa cosa, nascere, sussistere, e prosperare potesse nel
principato.»
Instrutti voi ora da me pienamente quale sia la total differenza dei tempi, piacciavi non solo
di compatire a questa mia forse non meritata infelicità, del nascere servo; ma piacciavi ancora di
porgermi ajuto, affinchè io uscire possa di servitù, e trarne i miei contemporanei scrittori, od i
posteri. Se io ardisco pur supplicarvi di rimirarmi con benigno occhio, e di scevrarmi dalla moderna
turba dei letterati, una tale audacia in me nasce soltanto dalla mia propria coscienza; che se il
destino mi volle pur nato in queste moderne età, per quanto in mio potere è stato, io sono tuttavia
sempre vissuto col desiderio e con la mente nelle età vostre, e fra voi.
Vittorio Alfieri, introduzione a Del principe e delle lettere , libro terzo.
L’avversione per la propria epoca, il primato della formazione intellettuale nei ricordi autobiografici e , non ultimo, il mestiere di poeta mi hanno suggerito questo accostamento, mutatis tutti i mutandis del caso, a cominciare dal fatto che, per Osip Mandel’stam, l’opposizione al potere ha avuto una concretezza ben più seria e drammatica.
Eppure, forse, dato il suo amore per la nostra letteratura, oso sperare che il poeta russo non si sarebbe offeso troppo.
@dragoval
grazie.
Kundera ha proprio ragione quando scrive (se non ricordo male ne “Il sipario”) che i libri si tendono la mano l’uno con l’altro al di là del tempo e dello spazio.
grazie a te, e mi scuso per la formattazione infelice, di cui mi sono resa conto solo dopo la pubblicazione Il testo era ripreso da un pdf, del meritorio sito Liberliber, di cui riporto il link qui:
Fai clic per accedere a del_pr_p.pdf
Può darsi che di Mandel’stam torneremo a parlare, prima o poi.
Può darsi 😛