
Czesław Miłosz, La mente prigioniera,
(tit. orig. Zniewolony umysł)
traduz. Gino Origlia, pp.290,
Adelphi, 1981
Come si comporta l’essere umano quando è messo di fronte a circostanze insolite come una guerra, l’occupazione della propria patria da parte di un regime non solo straniero, ma totalitario?
Che cosa ne è del libero pensiero? Cosa fanno, come reagiscono gli intellettuali (scrittori, pittori, musicisti, insegnanti, scienziati…)?
La mente prigioniera, scritto a Parigi nel 1951 (la data è importante, e ci tornerò più avanti) è un’analisi dei meccanismi attraverso i quali un regime totalitario (Miłosz si riferisce, in particolare, a quello sovietico) giunge pian piano a sopprimere il libero pensare dei suoi cittadini e, prima di tutto, dei suoi intellettuali per ridurre l’uomo, cui si nega non solo il diritto, ma anche il piacere e la volontà di pensare con la propria testa, a “materiale umano” per la costruzione del collettivistico “uomo futuro”.
“Quello che cerco di mostrare è come operi il pensiero umano nelle democrazie popolari. E poichè l’ambiente che ho avuto modo di osservare più da vicino è quello degli artisti e degli scrittori, questo libro è soprattutto uno studio su tale ambiente, che a Varsavia come a Budapest, a Praga come a Bucarest ha un ruolo importante.”