Che significa essere tedesca (e una tedesca non-ebrea) nel XXI secolo?
Come si vive il modo in cui si viene visti dagli “altri”? Non solo dagli ebrei (tedeschi o no), ma anche da tutti quelli che tedeschi ed ebrei non sono?
Che cosa significa per le nuove generazioni di tedeschi sentirsi addosso la colpa di uno sterminio al quale non si è partecipato e del quale si è totalmente innocenti?
Anne Weber, nata in Germania nel 1964, vive in Francia dal 1983. E’ perfettamente bilingue e scrive i suoi libri sia in francese che in tedesco. Ha trascorso la maggior parte della sua vita in Francia, ma non per questo si sente meno tedesca. Una tedesca nata sotto una cappa di silenzio. La questione della sua “germanitudine” non ha mai smesso di ossessionarla.
Studiando la storia della propria famiglia a partire dal suo bisnonno, tedesco amico di Martin Buber, Walter Benjamin, Hoffmannsthal e morto prima dell’avvento del nazismo Anne Weber si scontra ben presto con una domanda che pagina dopo pagina si rivela sempre più fondamentale: “cosa significa essere tedeschi oggi, nel XXI secolo?”.
“Come un gatto egli sembrava vedere nell’oscurità, mentre avanzava infallibilmente verso il cibo che voleva, quasi sapesse dove trovarlo o fosse guidato da un agente che lo sapesse. Mangiò qualcosa in un invisibile piatto con invisibili dita: invisibile cibo, senza curarsi di quello che potesse essere. Non seppe nemmeno di esserselo chiesto nè di averlo assaporato, sino a quando la sua mascella si fermò d’improvviso a metà boccone e il suo pensiero volò di venticinque anni addietro per la lunga strada, di là da tutti gli angoli impercettibili di amare disfatte e di più amare vittorie, cinque miglia più in là di un angolo dove usava aspettare nella prima terribile epoca dell’amore. Lì il pensiero si fermò. “Ora lo saprò. Tra un minuto. Io ho già mangiato questa roba in qualche posto. Ora lo saprò.” La memoria cominciò a vibrare di quello che già sapeva. “Vedo, vedo, è più che vedere, è udire, odo, vedo la mia testa china sul piatto, odo la monotona voce dogmatica che mi sembra non debba mai fermarsi, va avanti e va avanti e io con la coda dell’occhio son là che vedo quella sua testa a palla, indomita testa con la pulita barba spuntata, chine entrambe la testa e la barba e io penso come può, come può non aver fame mentre io ho dentro l’odore della mia bocca e della mia lingua e piango il sale caldo dell’attesa assaporando con gli occhi il caldo vapore del piatto.” Sono piselli disse ad alta voce, quasi in un grido. Gran Dio! Piselli di campo, cotti nella melassa! Non solo il pensiero e assai più del pensiero doveva essersi assentato da lui, tutto quel tempo
William Faulkner, Luce d’agosto, traduzione Elio Vittorini, Introduzione Fernanda Pivano
I piselli, ha scritto Fernanda Pivano, erano il piatto preferito da Faulkner sin dall’infanzia.
Non so a voi, ma a me questo stralcio ricorda qualcuno e qualcosa…
Nota a margine: Ho letto il romanzo nella vecchia traduzione di Vittorini (1939) per Mondadori; traduzione a proposito della quale c’è chi ha parlato addirittura di scempio. Insomma, di quella traduzione ormai si dicono peste e corna.
Ora. Non è che io ami alla follia Vittorini (anzi). Per quanto mi riguarda, anche io all’inizio trovavo l’italiano di Vittorini troppo datato e mi infastidiva parecchio. Proseguendo nella lettura del romanzo ho però pian piano cambiato idea, l’ho trovata addirittura lirica e adesso penso che quelle locuzioni spesso desuete che Vittorini utilizza, tutti quegli “ella disse”, “egli andò” etc. ripetuti quasi ossessivamente ed alcuni termini che suonano oggi piuttosto obsoleti in fondo ben si addicono al ritmo solenne ed all’atmosfera per molti versi arcaica ed all’incedere ieratico del romanzo di Faulkner.
Certo, la vecchia (e prima) traduzione ed edizione italiana del romanzo era anche censurata, tagliata. Ma perchè, mi chiedo, non si fa mai uno sforzo di storicizzare e contestualizzare? S’era nel ’39, cribbio…Ed anzi, cara grazia che nel ’39 un Mondadori e un Vittorini fecero in modo che quel romanzo di Faulkner potesse esser letto anche in Italia.
Hugo e I Miserabili nell’ agosto 2013, la Trilogia dei Moschettieri di Dumas nell’agosto 2014.
Quest’anno il mio agosto parigino 2015 è stato (quasi) interamente dedicato ad una sana, robusta, attenta nonchè goduriosissima rilettura di Balzac e Zola. Due autori per me sempre una certezza.
Ignoravo però che dopo aver passato tanto tempo con questi due miei vecchi ed imperituri amori (“Balzac, naturellement”, fa dire Proust al Duca di Guermantes, ma non fatemi divagare) mi sarei imbattuta, verso la fine del mio soggiorno, in un altro, nuovo amore. Che è stato un vero e proprio coup de foudre. Assolutamente imprevisto ed inaspettato, come appunto si addice a un coup de foudre che si rispetti 🙂
Mentre rileggevo Le illusioni perdute, Splendori e miserie delle cortigiane, La falsa amante, Casa di scapolo, Nana e Pot Bouille me ne andavo a spasso per Parigi cercando di seguire le orme di Lucien Chardon de Rubempré, del Vautrin dai tanti nomi e dai tanti volti, di Hesther e di Rastignac; di Nanà e dei suoi spasimanti, di Octave Mouret e degli inquilini del palazzo di Rue de Choiseul.
Ed ecco un piccolissimo assaggio di quello che ho ricavato da questa flânerie