
“A Istanbul un ingegnere, giovane e sveglio, ci avverte: ´Due donne che viaggiano sole senza parlare nemmeno una parola di turco e vogliono andare in Iran da Trebisonda passando per l’interno dell’Anatolia? Magari non avrete problemi, ma forse ne avrete quanto basta per farvi passare la voglia di viaggiare per tutto il resto della vita…”
In Tutte le strade sono aperte Annemarie Schwarzenbach racconta del viaggio in Oriente che nel 1939 — anno nefasto per l’Europa — compì a bordo di una Ford Roadster 18 CV guidata quasi sempre da lei (Annemarie era un’eccellente guidatrice e guidare le piaceva molto) in compagnia dell’amica Ella Maillart.
Due donne sole che, partite da Ginevra e passando attraverso Italia, Jugoslavia, Armenia, Turchia e Persia giungono agli altopiani ed alle steppe dell’Afghanistan, un paese ai confini del mondo.
Un libro affascinante, interessante da parecchi punti di vista, diverso dai soliti libri di viaggio perchè è soprattutto la narrazione di un viaggio interiore.
Ma prima di entrare nel merito e parlare di ciò che scrive Annemarie, penso sia bene fare un passo indietro.

Un passo indietro per farsi un’idea del contesto in cui quel viaggio si realizzò, delle caratteristiche delle due viaggiatrici, dei preparativi per la partenza, di ciò che le due donne cercano di lasciarsi alle spalle, di ciò che Ella ed Annemarie cercano di raggiungere con questo viaggio, quale per ciascuna di loro l’obiettivo personale ed individuale. La vita di Annemarie Schwarzenbach è stata talmente particolare che non è possibile parlare dei suoi libri senza parlare di lei.
Laureata in storia, scrittrice, giornalista, fotografa e archeologa dilettante, ottima pianista, appartenente ad una ricchissima famiglia di industriali di Zurigo, nel corso della sua breve vita Annemarie Schwarzenbach ha viaggiato ai quattro angoli della terra fuggendo un contesto europeo in completa contraddizione con le sue idee e le sue aspirazioni. Dalla Russia alla Persia, dalla Turchia all’Afghanistan e all’India, dagli Stati Uniti al Congo, la sua vita fu certo pesantemente segnata dalla morfina e dai tanti internamenti in cliniche specializzate ma anche da una decisa opposizione al nazismo che sin dal 1933 esplicitò attraverso i suoi scritti e segnata anche dalla sua tumultuosa amicizia con Klaus e dal suo amore — non corrisposto — per Erika Mann.
Di tutto questo ho detto >>QUI scrivendo del libro di Dominique Laure Miermont Una terribile libertà. Ritratto di Annemarie Schwarzenbach.

Annemarie ha conosciuto Ella Maillart alla fine del 1938 e ne è rimasta molto colpita: a soli trentacinque anni Ella ha già viaggiato in Russia, Turkestan, Manciuria, Cina, Tibet, Kashmir, Iran, Afghanistan. Ha attraversato la Cina da est a ovest in compagnia di Peter Fleming, corrispondente del Times. E’ sciatrice esperta ed esperta velista. Le due donne non potrebbero essere più diverse. Ella è calma, in ottima salute, pacata e determinata. Annemarie è fragile, malata, instabile. E’ stata appena dimessa da uno degli innumerevoli ricoveri in una clinica per tossicomani. Una è in cerca del benessere e della gioia, l’altra crede nella sofferenza come fonte di grandezza.
Su una cosa però si ritrovano subito d’accordo: sull’esigenza di allontanarsi dal caos europeo.
Gli eventi della fine degli anni ’30 in Europa hanno terribilmente colpito la Schwarzenbach che è sprofondata in una serie di tremende depressioni. Viene sottoposta a cure di disintossicazione dalla morfina pagate dalla famiglia in lussuose cliniche elvetiche. Il conflitto e i litigi tra madre e figlia sono sempre più violenti. . Ella pensa di aiutare Annemarie a venir fuori da tutto questo proponendole un lungo e pericoloso viaggio nel Kafiristan, una regione dell’Afghanistan, da farsi nel 1939. Annemarie è entusiasta della proposta, ed accetta per fuggire la guerra, la dipendenza dalla droga ed i conflitti familiari.
E’ comunque non senza apprensione che Ella decide di fare di Annemarie la sua compagna di viaggio. Sarà in grado, nello stato di debolezza fisica nella quale si trova, di sopportare un viaggio così faticoso? Ma Annemarie tiene troppo a questo viaggio: promette di fumare di meno, mangiare di più, fare sport e soprattutto (la cosa più importante) rinunciare definitivamente alla droga.
Renée, la madre di Annemarie, una volta tanto approvando l’iniziativa della figlia e pur molto contenta del progetto del viaggio, telefonando a Ella per augurarle buona fortuna, aggiungerà tuttavia: “La sollevo da ogni responsabilità se non riuscirà a portare Annemarie fino al suo luogo di lavoro agli scavi archeologici in Afghanistan. La lasci dove vuole, sie ist leider hoffnungslos [il suo purtroppo è un caso senza speranza]”.
Annemarie si occupa con molta efficienza di tutta la parte pratica (documenti, autorizzazioni necessarie, cartine); il passaporto diplomatico di Annemarie (è sempre moglie di un diplomatico francese) si rivelerà prezioso, specialmente in questi tempi di guerra. Si occupa della preparazione ed equipaggiamento della Ford che le è stata appena regalata dal padre perchè possa affrontare montagne e deserti rinforzando sospensioni e pneumatici, sostituendo il radiatore originale con uno in grado di resistere a temperature estreme, procurandosi una seconda ruota di scorta ed un serbatoio supplementare, procurandosi vari pezzi di ricambio, catene etc. In un’autofficina dell’Engadina si fa insegnare i segreti della meccanica per essere in grado, in caso di guasti, di eseguire personalmente almeno le operazioni più semplici.
Per informarsi in maniera più dettagliata sui paesi che intendono attraversare Ella e Annemarie si recano anche a Londra e a Parigi dove visitano musei, prendono contatto con società geografiche e consultano orientalisti.
Alla vigilia della partenza, le due viaggiatrici si fanno fotografare con la Ford Deluxe nuova di zecca.


Finalmente il 6 giugno 1939, a bordo della Ford immatricolata nel cantone dei Grigioni (GR 2111) Annemarie ed Ella lasciano Ginevra in direzione del Sempione. Al volante c’è Annemarie, e sarà quasi sempre lei a guidare durante tutto il viaggio.
Italia. Jugoslavia. Turchia, Iran, Afghanistan… due donne sole in terre sconosciute.

” […] e così il viaggio mi sembra, più che un’avventura e un’escursione in luoghi insoliti, un’immagine concentrata della nostra esistenza: residenti in una città, cittadini di un paese, vincolati a una posizione o a una classe sociale, appartenenti a una famiglia e a una stirpe, e legati agli obblighi di una professione, alle abitudini di una ´vita quotidiana’ intessuta di tutte queste circostanze, ci sentiamo spesso fin troppo sicuri, crediamo di aver costruito la nostra dimora una volta per tutte, siamo facilmente portati a credere a una stabilità che agli uni rende problematico invecchiare, agli altri fa apparire catastrofico ogni cambiamento del mondo esterno. Dimentichiamo che si tratta del corso della vita, che la terra è in perpetuo movimento e che l’alta e la bassa marea, i terremoti e gli eventi lontani dalla nostra realtà visibile e tangibile toccano tutti: mendicanti, re, figure dello stesso grande gioco. Lo dimentichiamo, apparentemente per amore della pace della nostra anima, la quale però è costruita su granelli di sabbia. Lo dimentichiamo per non sentire la paura. E la paura ci rende ostinati; chiamiamo realtà solo ciò che possiamo toccare con mano e ci riguarda direttamente e neghiamo la violenza del fuoco quando è in fiamme la casa del vicino, ma non la nostra. C’è la guerra in altri paesi? A dodici ore o a dodici settimane appena dalle nostre frontiere? Dio ce ne guardi, l’orrore che talvolta ci assale lo percepiamo anche leggendo i libri di storia, e resta mmutato, qualsiasi cosa ce ne separi, nel tempo o nello spazio.”
Il libro di Annemarie Schwarzenbach racconta di un viaggio in cui l’amicizia ha un posto importante e particolare, in cui le due donne cercano ciascuna la propria strada. Spirituale per Ella, crudele per Annemarie (“Ma lasciatemi dunque soffrire!”... era la sua maniera di pensare alla propria libertà… “Attraverso la sofferenza arrivava a superare la sofferenza”, scriverà più tardi Ella Maillart).
Il viaggio tuttavia separa forse le due donne tanto quanto le avvicina. Scrive Dominique Miermont in Una terribile libertà:
“Quando, dopo una settimana, arrivano a Sofia, una fiala di morfina rotta sul pavimento del bagno rivela a Ella Maillart quanto abbia sottovalutato le difficoltà della missione che si è prefissa. La sua fiducia è scossa, ma non vinta: tenta di far ragionare Annemarie, di farle capire che spreca la sua intelligenza e le sue doti. Pur sapendo che i medici, più competenti di lei in materia, hanno fallito nel tentativo di salvare l’amica tossicomane, pensa che sia sufficiente una volontà ferrea per rinunciare alla droga. Le maniere forti le sembrano quelle più indicate, così decide di non lasciarsi intenerire dalla sorte di Annemarie, né di assumere un ruolo materno, come hanno fatto molte altre donne entrate in relazione con lei in precedenza. Da parte sua, Annemarie ha una tale ammirazione per Kini che questo trattamento inabituale la impressiona. Anche i suoi timidi tentativi di dare del tu a Ella falliscono, e Annemarie vi rinuncerà per sempre.”
I capitoli delle varie tappe del viaggio sono un susseguirsi di stupende descrizioni dei luoghi che Miro e Kiki (Annemarie ed Ella) attraversano, descrizioni spesso struggentemente elegiache ed il cui lirismo talvolta toglie il fiato, come quando Annemarie parla della steppa dei turkmeni, “patria di nomadi, tende nere, iurte”
“Alla mia sinistra vidi, contro un orizzonte ormai spento e plumbeo, alcune misere tende in feltro di pelo di capra e i profili austeri di alcuni magri cammelli. Un cane abbaiava. E dal Mar Caspio, da occidente, arrivavano, con lenti battiti d’ala, bianchi avvoltoi. Questo era tutto. La steppa si allargava nella desolazione e nel silenzio, il calore era mortale, la notte e questo ´inizio d’Asia’ si fondevano in una fosca visione. Fu allora che dritto davanti a me emerse — era dunque la fine del mio percorso — il Gunbad-i-Kabus. La torre dei mongoli, monumento funebre di un khan, gigantesca e semplice, e mi chiesi se sotto la volta del suo tetto a punta fosse ancora appeso il sarcofago di vetro, come racconta la leggenda della steppa. Mi bastò l’emblema straordinario dell’uomo che non aveva temuto la povertà e la grandezza della steppa che sfida ogni misura umana. Trassi un respiro profondo e cercai, nonostante tutto, di dare il benvenuto alla vita…”
Lo splendido capitolo in cui parla del Turkestan e dell’Hindu Kush
“[…]raggiunsi l’Hindu Kush e superai i suoi grandiosi passi storici, mi venne la tentazione di scrivere un inno e nient’altro. Un inno al suo nome, perchè i nomi sono molto più che indicazioni geografiche, i nomi sono suono e colore, sogno e ricordo, mistero, magia; e non è disincanto quello che si prova, ma piuttosto l’inizio di un processo meraviglioso, quando un giorno li ritroveremo, carichi di splendore e ombra, di fuoco e della fredda cenere della realtà. Pamir, Hindu Kush, Karakorum”.
Gli straordinari paesaggi dell’Hindu Kush e della steppa afghana le evocano l’Inferno di Dante:
“L’aria divenne sottile e secca. Si era levato un vento caldo. Adesso non c’erano più alberi, erba, campi, villaggi, capanne, steccati, acqua. La terra era diventata gialla. Il pallido cielo era calato all’improvviso come un pesante baldacchino sotto il quale ogni forma di vita soffocava, e nella sera che scendeva velocemente si colorò di viola, giallo zolfo, bruno ruggine, rosso fuoco, un bello spettacolo, ma opprimente come una visione della Divina Commedia.”
Tante altre bellissime pagine potrei citare: quelle dedicate alla moschea blu di Tabriz, il cono spruzzato di neve del Damavand, o alla Gunbad-Kabus, la tomba reale costruita nel 999 o alla moschea blu di Gohar Shad…il vento bruciante proveniente dalle steppe del Turkestan, il vento dei centoventi giorni… e tante altre.
E infine l’Afghanistan. Un paese dove la percezione del tempo è rarefatta, brevi tragitti richiedono intere giornate, dove il viaggio diventa una vera e propria dura scuola di vita, dove Annemarie ed Ella incontrano pochi altri europei che, come le due donne, inseguono loro chimere.

Ella ed Annemarie, che viaggiano da sole a bordo di una Ford suscitano una enorme curiosità. Annemarie è molto colpita dalla grandissima, generosa ospitalità riservata loro dagli afghani. In qualunque luogo passino vengono offerti loro vitto e alloggio. Sono accolte da tutti, dalle persone più in vista (come il sindaco, il governatore o qualche ricco afghano che le invita a prendere il tè e a condividere il pilaf o gli spiedini di montone) al contadino che offre loro la sua unica ricchezza: meloni, uva o pesche. Nelle tende dei nomadi per loro c’è sempre una galletta accompagnata da una scodella di mast, una specie di latte cagliato, o di kaimak, albume d’uovo sbattuto con lo zucchero. Non accettano mai di essere pagati, le due donne non hanno mai la sensazione di correre un qualsiasi pericolo. Si sentono, sono sicure.
“Due donne sole in viaggio! ´In che modo avete viaggiato? Come vi siete procurate il cibo, dove avete dormito? Non avete mai avuto problemi? Da quando abbiamo superato il famoso passo Khyber e raggiunto le ben protette colonie inglesi in India, ci rivolgono sempre le stesse domande. E se rispondiamo, secondo verità, che presso i nostri amici afghani ci sentivamo sicure come in grembo ad Abramo, incontriamo il sorriso scettico di un inglese o l’ammirazione mista a indulgenza di coloro che non hanno mai viaggiato senza portare con sè un pasto freddo preparato con cura in una tiffin box, una dozzina di bottiglie di birra gelate e un boy, oltre all’autista, che la sera prepara il bagno e stira la camicia dello smoking.”


Tutta la parte relativa all’Afghanistan, per noi che leggiamo oggi e che sappiamo quanto travagliata sia quella terra, quante tragedie vi si sono consumate e quante se ne continuano a consumare, che polveriera, che serbatoio di violenza sia, non può io credo che risultare doppiamente interessante.
L’Afghanistan che Annemarie Schwarzenbach ed Ella Maillart hanno percorso ed amato, nel quale sono state accolte ed ospitate, nel quale si sono sentite sicure “come in gembo ad Abramo” sembra un mondo irreale, e leggendo le pagine di Annemarie noi, ormai purtroppo assuefatti alle immagini ed alle notizie che da anni ci arrivano da telegiornali, giornali, Internet non possiamo non avvertire pesantemente la sensazione di un mondo che non c’è più. Questa, almeno, è stata la sensazione che ho provato io.
Le due donne viaggiavano senza portare il velo, e non passavano certo inosservate in un paese rigidamente islamico nel quale, fatta eccezione per le nomadi, le donne non possono mostrarsi in pubblico con il volto scoperto.
A un certo punto Annemarie scrive:
“Fino a quel momento, Ella e io avevamo potuto fare solo discorsi teorici sulle donne afghane. Nel corso di molte settimane trascorse in questo paese, rigidamente maomettano, avevamo fatto amicizia con contadini e funzionari, cittadini, soldati, commercianti dei bazar e governatori di provincia. Ovunque eravamo state accolte con ospitalità e avevamo cominciato ad affezionarci a questo popolo di uomini coraggiosi, allegri e integri. Nella magnifica antica città di Herat, avevamo assistito alle gare di scherma e alla preghiera comune dei giovani che, la sera, si riunivano su un prato davanti alla porta della città. In viaggio, durante i lunghi percorsi senz’ombra, quando facevamo una sosta, si univano a noi semplici contadini che dividevano con noi i loro meloni. Non avevamo mai dovuto piantare la tenda e cucinarci la zuppa da sole. Nei paesi venivamo salutate dai sindaci e accolte con tè e uva. La sera ci accompagnavano in bei giardini, dove attenti servitori portavano il pilaf, la pietanza locale a base di riso, e mentre mangiavamo arrivava l’ospite con il suo seguito per farci visita, fermandosi spesso a parlare a lungo con noi.Ma sembrava di vivere in un paese senza donne! Conoscevamo il chador […] vedevano il mondo esterno solo attraverso la piccola grata traforata che nascondeva il loro volto agli occhi curiosi degli uomini. Per noi una vita del genere è inimmaginabile. Ma queste donne erano davvero infelici? Si può desiderare solo ciò che si conosce. Ed era giusto, necessario, istruirle, informarle e far nascere in loro il pungolo dell’insoddisfazione? Imparammo ben presto che una domanda del genere non si pone nemmeno.”
Ella e Annemarie arrivano a Kabul dopo dodici settimane di viaggio proprio nel momento in cui von Ribbentrop firma a Mosca il Patto tra la Germania e l’Unione sovietica. il 1° settembre 1939 l’esercito di Hitler invade la Polonia: in Europa è la guerra.
Il 21 ottobre le due viaggiatrici si separano. Annemarie lascia Kabul per il Turkestan afghano “senza siringa, senza nessuna fiala. E’ il mio ultimo tentativo…”

Tutte le strade sono aperte ha inizio con la partenza dalla Svizzera, e si conclude con il racconto del ritorno di Annemarie in Europa, decisione che ha preso alla notizia dello scoppio della guerra. Torna da sola, mentre Ella continua il suo viaggio verso l’India, dove rimarrà per tutto il periodo del conflitto. Il libro si chiude con le pagine che descrivono il ritorno in Europa a bordo del piroscafo italiano Conte Biancamano.

foto scattata da Annemarie Schwarzenbach
Ma il viaggio ha ormai perso, per Miro, ogni interesse. Bombay, Aden, Mokha, Massaua, Mar Rosso, Canale di Suez, Porto Said…sono “solo tappe lungo il percorso, solo nomi, senza alcun significato, che si volatilizzano. Per il nostro viaggio di ritorno poco importa che il mare appaia smisurato, leggermente increspato dalla luce del sole o da una leggera brezza, che si vedano le coste e vi si specchino deserti, o che le rocce si ammassino sulle rive dall’Arabia felice […] Il piroscafo adorno di lampade bianche esce in aperto Mediterraneo. Stiamo per affrontare il ritorno a casa. Porto Said è dietro di me, la notte è superata e mi lascio alle spalle oceani, fiumi, montagne, gli immensi spazi dell’India. Dimentico i margini del deserto, il passo Khyber, il troppo-pieno di estraneità. Dimentico, dimentico! Nella prima ora del nuovo giorno, nel vento freddo e forte che sta già raggiungendo le coste della nostra patria, sì, in questo istante unico del rimorso che eternamente ritorna capisco che ciò che tanto ci sconvolge è sempre lo splendore mattutino nel giorno della partenza!”.
Molti capitoli prima aveva scritto ( i grassetti sono miei):
“Una volta in viaggio si dimentica il desiderio di sapere, non si conosce più né l’addio né il rimpianto, non ci si chiede più né da dove né verso dove si va. Al massimo sono le lancette dell’orologio a dirci che è passata qualche ora e che si è andati ancora più verso est. Con il passare dei giorni diventa sempre più impossibile ritornare e, in fondo, non lo si vuole nemmeno. Strapparsi gli abiti, ammettere che si è andati troppo lontano, che in queste regioni straniere si è come un mendicante, un bambino senza culla, un prete senza chiesa, un cantante senza voce — ammettere che si cerca la sicurezza e si teme di vivere inutilmente– Che si vorrebbe riparare qualcosa, recuperare quanto si è perso?
Non sappiamo di cosa viviamo, come possiamo allora perdere qualcosa e rimpiangerlo?
[…]
Certo, tutte le strade sono aperte, ma non portano da nessuna parte, da nessuna parte.“
Annemarie Schwarzenbach, Tutte le strade sono aperte. Viaggio in Afghanistan 1939-1940, tit. orig. Alle Wege sind offen, a cura di Roger Perret, traduz. dal tedesco Tina D’Agostini, pp. 168, Il Saggiatore
La scheda del libro >>
NOTE E RISORSE IN RETE
*** Negli Archivi Letterari della Bibliothèque nationale suisse (BN), una serie di foto scattate da Annemarie Schwarzenbach durante il viaggio in Afghanistan. Le didascalie sono della stessa Schwarzenbach. >>
*** Ancora sul sito della BN, molto belle e utili Mappe interattive dei viaggi di Annemarie Schwarzenbach attraverso Stati Uniti (1937), Africa (1941-1942), Asia (1939-1940). >>.Cliccando sui punti segnati in rosso si ottengono le fotografie scattate da Schwarzenbach.
*** Nel bel documentario Annemarie Schwarzenbach. Une Suisse rebelle realizzato nel 2000 da Carole Bonstein e che avevo già precedentemente segnalato si possono vedere, a partire dal frame 37:25 anche alcuni filmati originali del viaggio in Afghanistan. Durante il viaggio infatti Annemarie si occupava delle fotografie, mentre Ella Mainart delle riprese.
*** Il sito ufficiale di Ella Maillart >>
*** Nel 1943-1945, anche Ella Maillart scrive un libro sul viaggio in Asia con Annemarie, e lo intitola La via crudele. Nel libro della Maillart però Annemarie compare con il nome di Christine, e questo per espressa volontà della madre di lei Renée. Nel novembre del 1945 infatti, scrive Dominique Laure Miermont “Essendo venuta a sapere che Ella Maillart sta scrivendo un libro sul suo viaggio in Afghanistan con Annemarie, Renèe Schwarzenbach le chiede di sottoporre il testo ai suoi figli e a lei prima della pubblicazione. Ella Maillart dovrà fare qualche ´rettifica’, ovvero sopprimere un passaggio in cui Renèe appariva in una luce poco favorevole, e utilizzare lo pseudonimo Christina per indicare Annemarie.” (Dominique Laure Miermont, Una terribile libertà). La scheda del libro di Ella Maillart >> qui
*** Nel 2001, gli svizzeri Donatello e Fosco Dubini hanno firmato quello che ad oggi è l’unico film di impostazione narrativa classica dedicato alla scrittrice, ovvero Die Reise nach Kafiristan (Viaggio in Kafiristan). Il lungometraggio ripercorre le tappe del viaggio verso l’India, compiuto nel 1939 da Schwarzenbach con Ella Maillart.
Su Youtube ho trovato il trailer che però, a dire il vero, non mi invoglia molto a cercare e visionare l’intero film, ma questa è solo una sensazione personale.
Stavo giusto visionando il filmato precedente in francese quando ho visto il nuovo post su Annamarie Schwarzenbach. Non conoscevo questa donna da cui mi sono subito allontanata. Qualcosa di lei inquieta. E non volevo interessarmene. Ma bello il video, che come il viaggio delle due amiche…racconta di un mondo che non c’è più
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Francesca
Ti capisco perfettamente, e come ho già detto nel mio post precedente, io stessa ho un rapporto molto, molto ambivalente nei confronti di A.S.
Questo però non mi spinge a tenermene lontana, ma al contrario (sarò perversa io?) a cercare di capir meglio.
Capir meglio non ciò che probabilmente è materia per psicoanalisti e psichiatri (a un certo punto ci fu anche chi classificò e liquidò Annemarie come “schizofrenica”, e ci sono testimonianze agghiaccianti di persone che l’amarono molto ma che alla fine la mollarono, stremate) ma a capir meglio la sua scrittura, il suo pensiero, la sua “parte di luce”.
Perchè nei suoi scritti, ed in particolare nei suoi reportages giornalistici, Schwarzenbach era molto lucida e per certi versi fu anche anticipatrice di idee e interrogativi che solo molto tempo dopo altri hanno avanzato.
Vorrei tanto leggere i suoi articoli sul Congo e quelli sugli Stati Uniti del Sud.
Ciao e grazie!
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Un personaggio con dei lati sicuramente inquietanti, ma dai frammenti di alcune sue riflessioni che hai estrapolato dal libro si coglie un’intensità e profondità di pensiero che è quasi da brivido… Una scrittura che oltretutto è molto suggestiva nella descrizione degli ambienti e dei paesaggi. Turbata e affascinata, ti ringrazio per averci fatto conoscere questa enigmatica donna attraverso due post che a dir poco sono meravigliosi, oltre che approfonditi e dettagliati.
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Alessandra, gentile come sempre… 🙂
Ciao e grazie!
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Questa seconda parte della tua ricerca su Annemarie Schwarzenbach mi ha colpito più della prima, anzi mi ha addirittura affascinato. Credo dipenda da un “cupio dissolvi” che è tanto palese quanto terribile. Ma le foto, il viaggio, quel viaggio in quel periodo, in quelle regioni… mi sembra veramente incredibile. Allontanarsi, creare un diaframma tra sè il mondo che non vuoi, tra la tua esistenza e tutto ciò che le impedisce di volare a modo suo. Trovo molte pericolose assonanze tra un intellettuale di oggi e questa donna di 70 anni fa; le sento e credo che i questo si trovi il fascino sottile ma innegabile della Schwarzenbach, Una fiala di morfina rotta sul pavimento, un mondo e un modo di negarsi e ritrovarsi…forse e poi questa sospensione, questa lucida analisi del mondo e delle emozioni. la storia a fianco e lontana allo stesso tempo… il tempo ( sai che non riesco a fermarla nel suo tempo? Non riesco a dirlo meglio). Tu al di là del post cosa senti?
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ER
qualunque tipo di reazioni susciti Annemarie Schwarzenbach, una cosa è certa: non lascia indifferenti. Turba e perturba.
Quello che sento io? Ma l’ho già detto molto chiaramente nei due post: leggendo la sua biografia (sia quella romanzata della Mazzucco che — ripeto — è molto bella, appassionata ed appassionante) sia quella della Miermont provo forti sentimenti di ambivalenza in cui spesso sento prevalere la rabbia, l’ho già detto. Per quel feroce e per me assurdo senso di colpa che l’ha devastata per tutta la vita, per… appunto, quel feroce “cupio dissolvi”.
Ma davanti a tanta determinazione autodistruttiva credo che alla fine non rimanga che prendere atto ed arrendersi, come di fatto fecero prima o poi tutte le persone che si sono trovate ad esserle vicine, ad amarla anche molto, ma che alla fine si sono viste costrette a gettare la spugna.
Non c’è niente che non abbia cercato di esprimere già nei post anche se in maniera piuttosto sintetica, chè già con due post e per giunta piuttosto lunghi mi sembrava di avere esagerato 🙂
Per quanto riguarda i suoi scritti… per quello che di scritto da lei ho avuto modo di leggere mi sono fatta l’idea che il meglio l’abbia dato non tanto nelle sue opere squisitamente narrative (romanzi e racconti) ma nei suoi racconti di viaggio e nei suoi reportages. Sono interessata soprattutto agli articoli sul Congo e ai reportages scritti dagli USA. Sono certa che anche l’epistolario deve essere molto interessante, a giudicare almeno da quelle poche lettere che finora ho potuto leggere. Leggerò sicuramente altro, di Miro, ma non adesso.Proprio per le sue caratteristiche, è una che è bene prendere “a piccole dosi” 🙂
Sono molto contenta comunque se nel mio piccolo sono riuscita in qualche modo a dare un contributo nel far conoscere questa figura che è ingiusto possa continuare ad essere considerata, come prevalentemente è accaduto sino agli ultimi anni, solo una tipa ricchissima, drogata, fuori di testa e meglio che vada solo una figura “di contorno” alla famiglia Mann…
Ciao e grazie
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Personaggi inquietanti, ma alla fine proprio da essi vengono sopratutto le più belle pagine di letteratura
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Carmelo
Questo non saprei dire; certo, qualche cm di “corda pazza” (per dirla alla Pirandello) devono avercela un po’ tutti gli artisti, secondo me…
E il tema arte-malattia (malattia in senso lato) è, tra l’altro, uno dei principali, ad esempio, in tutta l’opera di Thomas Mann, che adesso mi viene in mente proprio perché recentemente ho riletto “La montagna magica”.
Ciao e grazie!
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