ABBIAMO QUARANTA FUCILI, COMPAGNO COLONNELLO – SANDOR KOPACSI

 

Budapest 1956
Budapest 1956. La statua di Stalin abbattuta
Foto Arpad Hazafi

(Fonte)

Budapest, 23 ottobre 1956. In Piazza degli Eroi, gli studenti ungheresi legano cappi d’acciaio al collo della gigantesca statua di bronzo di Stalin, alta 12 metri e ancorata nel marmo, la legano a un camion e provano ad abbatterla, ma il cavo si spezza. Gli operai di una fabbrica di Pest arrivano con le bombole e i cannelli della fiamma ossidrica per tagliargli le gambe. La polizia, seguendo le indicazioni del Capo della Polizia di Budapest, non interviene e rimane a guardare.

Attaccato a tre gru il monumento crolla alle 9,37, la testa rovesciata a terra è alta da sola come una persona. Fissati al blocco di granito rimangono i giganteschi stivali del Padre di tutti i Popoli.

E’ l’inizio della rivoluzione di Budapest del 1956.

Budapest 1956
La bandiera ungherese con un buco al centro, al posto della falce e martello dello stemma sovietico

Abbiamo quaranta fucili, compagno colonnello è la cronaca autobiografica di quei giorni narrata da un testimone d’eccezione. Si tratta di Sándor Kopácsi, che in quei giorni drammatici e fatali era il Capo della Polizia di Budapest, colui che diede ai suoi uomini l’ordine di non intervenire e di non caricare gli studenti.

Una storia, quella di Kopácsi, che si legge d’un fiato non solo perchè gli avvenimenti della rivoluzione di Budapest e della sua tragica conclusione sono narrati da una persona che per la carica che ricopriva non si trovò ad essere solo un testimone oculare ma un protagonista attivo ma anche perchè tutta la biografia di quest’uomo aiuta a comprendere cosa dovette essere la vita nei paesi dell’Europa Orientale “liberati” dall’Armata Rossa dal terrore nazista e finiti sudditi di Stalin all’interno di quella che Churchill ebbe a chiamare “la cortina di ferro”.

Non a caso, Anne Applebaum nel suo saggio storico La Cortina di ferro. La disfatta dell’Europa dell’Est 1944-1956 di cui ho già parlato >>qui cita Kopácsi e le sue Memorie.

pallino

Sándor Kópacsi fu dunque una delle principali figure della rivoluzione ungherese del ’56. Ex operaio metalmeccanico, figlio e nipote di operai, giovanissimo seguì il padre e i suoi compagni di lavoro nei gruppi partigiani socialisti che combatterono contro i nazisti durante la seconda guerra mondiale, contribuendo a liberare l’Ungheria dall’esercito di Hitler. Dopo la guerra, come molti altri partigiani, fu integrato nella polizia ungherese dove entrò convinto di contribuire a costruire uno Stato socialista.

“Tutti i compagni partigiani del gruppo Mokán furono armati e introdotti automaticamente nelle nuove forze dell’ordine della giovane repubblica ungherese. È così che divenni poliziotto”

Sándor Kopácsi: dinastia operaia di tre generazioni, la guerra partigiana nel ’44.

Figlio del Partito, quando nel 1952, a soli ventotto anni, diventa Questore della Polizia di Budapest Kopácsi trova perfettamente normale avere due “consiglieri” sovietici che partecipano a tutte le riunioni, e riferiscono ogni sera in Ambasciata. Ma quando, da Deputato, entra in Parlamento e sente il discorso “eretico” di Imre Nagy appena nominato Capo del governo, quelle parole sono il seme del dubbio. Un dubbio tormentato, lento, senza nessuna elaborazione teorica, che si fa strada tra il terrore sovietico e le lotte intestine che detronizzano Nagy. Ma la conversione spontanea del colonnello bolscevico alla ribellione antisovietica è un’avventura individuale che accompagna passo passo la rivolta popolare di Budapest e la traduce in una testimonianza esemplare.

Nel libro, quei 13 giorni della rivolta di Budapest rappresentano il momento cruciale della vita di Kópacsi, il momento della “svolta” decisiva, quelli in cui da Questore comunista scelto personalmente dal dittatore staliniano Rákosi (“È alto? È operaio? È ariano?”) si ritrovò ad essere imputato di cospirazione antipatriottica, incarcerato e processato (e come avvenivano i processi nell’epoca di Stalin ormai lo si sa sin troppo bene) insieme con il principale martire della rivoluzione, l’ex Primo Ministro ungherese Imre Nagy.

Quando gli ungheresi cominciano a scendere per le strade di Budapest rispondendo all’appello degli studenti comunisti, il 23 ottobre 1956, Sándor Kopácsi, appena tornato dalle vacanze, è subito convocato dal Ministro dell’Interno ma, arrivato al Ministero, è dalla bocca del “nuovo compagno consigliere sovietico” che ascolta una analisi degli eventi che lo agghiaccia: “I fascisti e gli imperialisti fanno scendere per le strade di Budapest i loro provocatori, e ci sono ancora dei compagni delle forze armate del vostro paese che esitano ad impiegare le armi!”

Kopácsi è allibito perchè sa bene che i giovani che si ribellano non sono provocatori nè tanto meno agenti dell’Occidente capitalistico ma semplicemente studenti e “poveri ragazzi di campagna o di fabbrica, completamente devoti alla causa socialista”

Incaricato di reprimere la rivolta, Kopácsi si troverà invece ben presto al fianco degli insorti e nell’équipe governativa di Imre Nagy. Seguendo le vicende di Kopácsi seguiamo così, di fatto, tutti gli intricati ed incalzanti sviluppi della rivoluzione fino al momento in cui questo ex operaio che da partigiano ha combattuto i nazisti e che adesso, ventottenne capo della Polizia ungherese di Budapest partecipa assieme alla moglie Ibolya (anche lei ex combattente partigiana) alle feste da ballo dell’ambasciatore Andropov, il delfino di Breznev, si rende conto del cinismo con cui il Kremlino governa i suoi stati-satellite.

Perchè è proprio nel 1956, durante i 13 giorni della rivoluzione, che avviene la rottura.

Sandor Kopacsi
Sándor Kopácsi nel 1955

Il “consigliere” sovietico che ordina di sparare sui manifestanti non è altri — Kopácsi lo scoprirà più tardi — che il generale Ivan Serov, futuro capo del KGB. Nemico personale di Kopácsi, si riprometterà di “appenderlo all’albero più alto di Budapest” ed ha il cinismo di mettere subito in tavola le due carte che l’Unione Sovietica giocherà durante tutta la durata dell’insurrezione di Budapest: la menzogna e la repressione armata, più esattamente blindata.

Kopácsi però all’ingiunzione di mantenere l’ordine anche a costo di spargere sangue non obbedirà: si schiererà presto dalla parte degli insorti, patteggerà con loro a nome dei partigiani di Imre Nagy e del “socialismo dal volto umano” e diventerà, all’interno dell’ufficio politico del Partito, il portavoce del popolo ribelle.

I “consiglieri” sovietici parlano di gurra civile. Ma Kópacsi dice, furibondo: “´Grazdanskaja vojna’, la guerra civile? In realtà si trattava di una guerra tra russi e ungheresi.”

Quando i carri armati sovietici entreranno a Budapest il 4 novembre 1956 per reprimere definitivamente la rivoluzione, Kopácsi sarà arrestato dai Sovietici, imprigionato su espresso ordine dell’Ambasciatore sovietico in Ungheria: quello stesso Ambasciatore Andropov che alle feste cui invitava lui e la moglie faceva il galante con Ibolya. Andropov sarà anche lui, un giorno, a capo del KGB.

Kópacsi, arrestato dai russi, viene portato nei sotterranei dell’ambasciata sovietica. Danzando alle feste di Andropov non poteva immaginare che sotto la sala da ballo c’era il gulag che lo avrebbe rinchiuso. Vede arrivare camion carichi di ragazzi, li vede ripartire pieni di cadaveri; ogni dieci minuti sente una scarica di fucile nel cortile. Poi lo trasferiscono nella prigione dei servizi segreti dove porteranno Nagy con un volo militare notturno, gli occhiali da saldatore per renderlo irriconoscibile dopo il rapimento sovietico e il trasporto forzato in Romania. Nei continui interrogatori chiedono a Kópacsi di riconoscersi colpevole di spionaggio, cercano di assegnargli il ruolo del bravo operaio ingannato da Nagy, purché lo denunci. Se si riconoscerà colpevole — è l’ultima offerta — avrà salva la vita.

Testimone capitale del dramma del 1956 e processato assieme ad Imre Nagy, Kopácsi racconta che cosa fu quel processo e il comportamento dei russi prima, durante e dopo la rivoluzione.

Kopácsi dovrebbe dunque essere giustiziato con Imre Nagy… ma Janos Kadar, il nuovo Primo Ministro ungherese che ha appena tradito Nagy e che è stato nominato dai Sovietici ha una sorta di rimorso di coscienza: tre anni prima, infatti, era stato proprio Kopácsi a salvarlo dalle carceri di Stalin e ad averlo aiutato a sfuggire alle grinfie del sinistro Rakosi. Kadar interviene presso Kruscev e riesce a salvare la testa di Kopácsi.

Condannato al carcere a vita, Kopácsi verrà amnistiato dopo anni di prigione, ma non riesce ad ottenere la riabilitazione. Nel 1975 riesce finalmente a lasciare assieme alla moglie l’inferno in cui l’ideale della sua giovinezza, il socialismo, è stato beffato e va a vivere in Canada raggiungendo a Toronto la figlia che, con enormi difficoltà, era riuscito a fare espatriare anni prima.

pallino

Libro  importante, questo.  Rientra nella categoria delle testimonianze dirette che troppo spesso mancano agli storici. Per le funzioni che ricopriva, Kopácsi ha avuto per le mani tutti gli elementi ufficiali ungheresi e sovietici; per le sue scelte, è stato nel mezzo degli insorti. Si poteva sperare in un testimone migliore di questo attore “privilegiato” dell’evento?

Testimonia per il popolo ungherese e per i suoi dirigenti impiccati: Imre Nagy e Paul Maleter. Testimonia contro i metodi sanguinari di Rakosi, i tradimenti di Kadar e i crimini del Kremlino. Firma una accorata requisitoria contro un sistema in cui “in nome della classe operaia”, (ma certo, come no!) l’uomo è un lupo per un altro uomo.

Il titolo originale di questo libro delle memorie di Kopácsi è, in realtà, In nome della classe operaia ed è quello che venne usato anche per l’edizione italiana del 1980. Nel 2006 Edizioni e/o lo aveva rieditato con il titolo Abbiamo quaranta fucili compagno colonnello, titolo che è stato mantenuto anche per questa recente riedizione. Ancora una volta, come quasi sempre mi succede, avrei preferito fosse stato mantenuto il titolo originale; leggendo il racconto di Kopácsi ci si rende ben conto infatti di quanta amara ironia sia contenuta in quel “in nome della classe operaia” che allude alla disillusione dell’autore il quale, dopo una vita trascorsa da combattente partigiano antinazista prima e comunista da sempre, nei giorni della rivolta di Budapest viene posto brutalmente di fronte alla realtà e si ritrova costretto a rendersi conto di quale sia il vero volto del comunismo imposto dai sovietici ai Paesi satelliti.

Scritte con brio, verve, un pizzico di humor e molta emozione, le sue memorie (raccolte da Tybor) mettono in scena l’intimità quotidiana dei dirigenti dell’Est. Sovietici ed ufficiali d’alto grado della polizia segreta vengono presentati qui nella loro realtà quotidiana mescolati ad Imre Nagy, il suo segretario Yochka, Pal Maleter che vanno a morire condannati, come tutto un popolo, “in nome della classe operaia”. In questo libro la Grande Storia non è astrazione ma assume una dimensione umana.

Densissimo di avvenimenti, non provo neppure a riassumere il libro nel dettaglio, dico solo che non ci si annoia di certo, a leggerlo. Un libro importante, a mio parere, non tanto per la qualità letteraria ma per la varietà e soprattutto la problematicità dei contenuti, che fanno molto riflettere.

Nel libro non ci sono solo gli eventi della rivolta, del carcere, del processo. Kopácsi parla molto della bellissima e coraggiosa Ibolya, la compagna di tutta la sua vita; del suo eroismo, della sua intraprendenza, del suo umorismo.

Ibolya Kopacsi
Ibolya nel 1957
(Fonte)

Donna dalle mille risorse, combattente accanto a lui nella guerra contro i nazisti, sempre accanto a lui durante la rivolta, prende inizitive temerarie:

Bussarono alla porta. Aprii. Era il mio aiutante con una bandiera nazionale in mano.´Che vuole?’.
´La compagna ha detto che avrebbe avuto bisogno di questo’
´Sì, va bene’ disse Ibolya, ´grazie’.
Prese la bandiera. Mi accorsi che nel centro, là dove di solito è situato l’emblema della repubblica popolare, c’era un buco.
´Siete matti? Ma cos’è questa storia?’.
´La compagna ha detto che bisognava ritagliarla. Adesso tutti sventolano bandiere nazionali senza emblema’.
Prima che potessi aprir bocca, Ibolya aprì la portafinestra, incastrò l’asta con la bandiera all’esterno con una sedia e richiuse. Immediatamente ci giunsero le grida trionfanti dei nostri dirimpettai e il fuoco cessò.
Ibolya mi si avvicinò.
´Ecco fatto’.
Mi diede un bacio e uscì dalla stanza. Doveva tornare in ufficio in bicicletta. Dieci minuti dopo, decine di ragazzi e ragazze lasciarono i palazzi della piazza, correndo a testa bassa. Diedi ordine di non fare fuoco. Aspettammo la scomparsa dell’ultimo di loro per sparare gli ultimi colpi verso le finestre di fronte. Non ci fu risposta. La battaglia era finita.

Durante i lunghi anni di carcere del marito per sbarcare il lunario e mantenere la loro figlioletta Judit, Ibolya si mette a vendere bretzel allo zoo di Budapest: “Seppi che mia moglie si guadagnava da vivere vendendo bretzel allo zoo di Budapest. I combattimenti di novembre avevano turbato gli animali. Ma gli elefanti avevano ritrovato l’appetito. La vendita dei bretzel si svolgeva davanti al loro recinto e il ricavato bastava alle esigenze di una donna e di una bambina di nove anni.”

…Ibolya (“questo nome significa viola. Era giunta come un fiore, in bicicletta, con un fazzoletto in testa” mentre attorno a loro echeggiano i colpi di fucile) è persona che non si dimentica.

Ibolya Kopacsi nel 1958
Ibolya nel 1958 con il suo carrettino di bretzel
(Fonte)

C’è tutta la vita di Kopácsi, in questo libro. Dall’adolescenza contrassegnata dal fortissimo legame di affetto e di stima che lo legava al padre fino alla scelta di abbandonare definitivamente l’Ungheria per trasferirsi in Canada con la moglie.

La sera prima di partire da Budapest, alla cena d’addio con gli amici si presenta il procuratore Szalay, che aveva chiesto l’ergastolo per lui e la morte per Nagy, Maleter e Gimes. Mangiano, ascoltano i discorsi di saluto, bevono e soltanto mentre tornano a casa in tram Szalay riesce a parlare: “Sandor, potrai mai perdonarmi, in nome di Gesucristo?”. “Sì. Ma come fai con quelli che non possono più perdonarti?”. “Questo riguarda solo me”, dice il procuratore scendendo alla sua fermata.

Kópacsi e la moglie torneranno a vivere a Budapest solo dopo il crollo del regime comunista, ma Sándor morirà in Canada durante una visita alla figlia.

Sandor Kopacsi

Sándor Kopácsi, Abbiamo quaranta fucili, compagno colonnello . I ricordi di Sándor Kopácsi, questore di Budapest nel 1956. Testimonianza raccolta da Tybor (pseudonimo di Tibor Tardos). Traduz. Angela Trezza, Postfazione di Aldo Natoli, pp.432, ed. e/o

      • Sándor Kopácsi >>
      • La scheda del libro >>Gallerie di foto su un sito ungherese >>
      • Un video di RAI Storia sul processo e la condanna a morte di Imre Nagy >>.Tra i “collaboratori” di cui si parla nel filmato c’è (come oggi sappiamo) anche Sándor Kopácsi
      • Un bel Post di Andrea Rényi, una toccante testimonianza personale >>

seeLa rivolta di Budapest e l’Italia

Credo basti contestualizzare appena un poco e guardare la prima pagina e i titoli di questi tre quotidiani per rendersi conto di come, in Italia, vennero considerate e commentate le giornate della rivolta di Budapest.

Nel 1956 il Presidente del Consiglio era Antonio Segni (Democrazia Cristiana), a capo di un governo centrista formato da DC-PSDI- PLI.

Segretario Generale del PCI (Partito Comunista Italiano) era Palmiro Togliatti.

Direttore de L’Unità era Pietro Ingrao

Ungheria 1956 Corriere della Sera
Ungheria 1956
Ungheria 1956 Corriere della Sera

Inserisco un filmato dell’Archivio Storico LUCE, Settimana INCOM del 9 Novembre 1956.

Ho scelto questo sia perchè le immagini proposte sono effettivamente molto interessanti ma anche perchè il tono e le parole del commento che le accompagnano sono, mi sembra, molto indicative del clima politico italiano del tempo.

Direttore de l’Unità era nel 1956, come ho detto, Pietro Ingrao.
Trovo particolarment significativo questo  video del TG2 del 13 febbraio 1996 in cui Ingrao racconta di come, contrariamente alle sue aspettative, Togliatti brindò (brindò!)  all’intervento dei carri armati sovietici in Ungheria. Purtroppo l’audio è pessimo, ma con un po’ di buona volontà si riesce a capire quello che viene detto.

https://youtu.be/FBOdiLHLYck

Autore: Gabrilu

https://nonsoloproust.wordpress.com

19 pensieri riguardo “ABBIAMO QUARANTA FUCILI, COMPAGNO COLONNELLO – SANDOR KOPACSI”

  1. Che dire, post perfetto, ricchissimo, una degna commemorazione di uno dei più nobili eventi della Storia ungherese. Grazie, anche per la menzione.

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    1. Andrea Rényi come ho avuto occasione di dirti già su Facebook, il tuo apprezzamento mi rende particolarmente felice. Tra l’altro, tutte le volte che mi occupo di argomenti o persone ungheresi o polacche o russe ho sempre il terrore di commettere errori (sbagliare nomi, dimenticare accenti sai quelle cose lì)…Anzi ti prego, se e quando dovessi trovarne ti sarei molto grata se me li segnalassi. Grazie ancora 🙂

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  2. Importantissimo libro, e importantissimo il recupero di documenti con cui lo presenti, perché quella storia, che sembra, ma solo sembra, lontana, è una storia ancora importante per l’oggi – come Storia, appunto, da togliere alla cronaca e conoscere, che è essenziale ricordare nelle sue componenti,che agirono profondamente anche nella nostra Storia; nella vita di uomini che la nostra storia l’hanno costruita, e orientata.
    Nel ’56, la vita non era invasa dall’informazione, e questo portava a conservare nella memoria, credo, molto di più. Il prezioso giornale; la voce della radio ascoltata in sienzio dalla famiglia riunita; la Settimana INCOM che precedeva i film. Avevo nove anni, e ne ho un ricordo partecipe; emozioni, ovviamente, difficilmente fatti, in una famiglia collocata, appassionatamente, sui due fronti e mentre incongruamente andavo a scuola dalle suore salesiane.
    E se, nelle nostre scuole, dove la storia non si insegna, tanto meno quando è, ancora, a pochi passi dalla cronaca, si facesse un maggiore ricorso alla narrativa per la trasmissione della memoria? Non si guadagnerebbe?
    Ciao, e grazie

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    1. Ivana Daccò ti capisco perfettamente e mi sento molto in sintonia con quello che hai scritto. La memoria storica è qualcosa, mi sembra, che rischia di perdersi ogni giorno di più ed invece la ritengo qualcosa di fondamentale. E vado apprezzando sempre di più, tra l’altro, oltre i saggi di storia (e video, e fotografie) i memoriali, le biografie, le testimonianze, un certo tipo di narrativa che si basa però su fatti reali.
      Grazie di questo tuo commento, che mi incoraggia molto 🙂

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  3. Il tuo post, gabrilu, è come al solito ricchissimo, articolato e molto avvincente, direi un’ ottima occasione anche per un uso scolastico. Il testo che segnali, come tutti gli altri, invita ad una lettura immediata. E i documenti cartacei ( le pagine dell’ Unità) suscitano brividi lungo la schiena. Alcuni anni fa, Dacia Maraini scrisse un romanzo ” Il treno dell’ ultima notte”, ambientato nel 1956 in Ungheria. A me non piacque, ma una collega, ungherese, rilevò che era un testo ben documentato. Vorrei leggere presto queste memorie magari con un pensiero anche all’ Ungheria attuale… Grazie, come sempre.

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    1. Renza grazie come sempre. Dacia Maraini: la conosco, mi piace e la stimo molto come persona e per il suo impegn ma come romanziera ahimè non mi ha mai convinta del tutto, è per questo che non ho letto Il treno dell’ultima notte. Dacia Maraini è però molto seria, e quindi non ho dubbi che per scriverlo si sia ben documentata.
      Ciao!
      P.S. Sull’Ungheria attuale… eh, non siamo certo messi bene 😦

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    1. Elena Ferro non ho fatto altro che mettere nel post parte dei risultati delle ricerche che ho fatto per me, perchè di Kopacsi nulla sapevo prima di leggere il libro di Anne Applebaum, che di lui parla nei capitoli dedicati all’Ungheria e che cita le sue memorie nella bibliografia e nell’elenco delle fonti da lei utilizzate. E’ così che l’ho “scoperto”. Le vie dei libri sono davvero infinite…
      Ciao! 🙂

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  4. Gabriele,
    “In linea” con il tuo post, ecco un articolo del Corriere della Sera che potrebbe interessare i tuoi fedeli lettori.
    Un caro saluto
    Geneviève

    venerdì 21 ottobre 2016

    Togliatti e la rivoluzione ungherese. “Impiccate pure Nagy, ma solo dopo le elezioni in Italia”

    Impiccate pure Nagy, ma solo dopo le elezioni politiche in Italia. Così il PCI non perderà voti. E’ quello che si legge nel verbale di un incontro a Mosca tra Togliatti e Kadar. E infatti si votò il 25 maggio 1958 e Nagy fu ucciso il 16 giugno.

    Federico Argentieri

    E Togliatti lodò la «lotta eroica» contro gli insorti di Budapest

    Il sessantesimo della rivoluzione ungherese offre l’occasione per discutere lo stato delle nostre conoscenze sul 1956, specie sulle ripercussioni italiane. È però necessario premettere che alcuni fatti documentati vengono ignorati, il che ritarda il processo di acquisizione di una visione complessiva.

    Primo esempio: nel libro Un nocciolo di verità (La Pietra, 1978), poco diffuso e quasi mai citato, l’autrice Felicita Ferrero testimoniò la presenza a Budapest di Aldo Togliatti, figlio di Palmiro, durante l’estate del 1956. L’ottimo e recente studio di Massimo Cirri Un’altra parte del mondo (Feltrinelli, pp. 352, e 18) richiama la nostra attenzione: in effetti, «Aldino», che soffriva di gravi problemi psichici, era in cura presso i medici ungheresi. Non è dato sapere quando esattamente rientrasse in Italia: sembra essere un segreto ottimamente custodito. È però probabile che la vicenda abbia svolto un ruolo nella fredda e rabbiosa determinazione con cui suo padre reagì alla rivoluzione magiara, dapprima invocando e poi festeggiando la sua repressione da parte delle truppe sovietiche.

    Secondo esempio: in uno studio scrupolosamente documentato e mai citato, Oro da Mosca (Mondadori, 1999), Valerio Riva e Francesco Bigazzi pubblicarono un documento che dice molto, il cui originale si trova nell’archivio moscovita chiamato Rgani: una «nota spese» datata 4 dicembre 1956 di Boris Ponomariov, responsabile Pcus dei rapporti coi partiti fratelli, in cui si sottoponeva all’approvazione di Krusciov e compagni l’elargizione di due milioni e mezzo di dollari al Pci, la metà al Pcf e via calando. È evidente che, in presenza di tale documento, la retorica sui «capolavori» di Togliatti e sulla «via italiana al socialismo», consacrata qualche giorno dopo dall’VIII Congresso del Pci, acquisisce un significato diverso.

    Passando agli inediti, è da registrare che ne manca all’appello almeno ancora uno: il verbale della riunione tra Krusciov e i dirigenti dei Paesi satelliti svoltasi a fine giugno 1956, dopo il lungo viaggio effettuato da Tito in Urss, durante la quale furono comunicate le condizioni appena concordate per la riappacificazione tra Mosca e Belgrado.

    Tra queste vi era probabilmente la rimozione di Rákosi dai vertici ungheresi e forse anche la riabilitazione di László Rajk, la principale vittima dei processi-farsa contro il «titoismo», poi avvenuta il 6 ottobre e definita da Togliatti «una follia».

    In attesa (probabilmente lunga) che l’archivio presidenziale russo ridiventi disponibile, è da registrare il verbale del colloquio tra Togliatti e Kádár, il leader ungherese installato al potere dai sovietici, svoltosi nel novembre 1957 a Mosca.

    Oltre a chiedere l’ormai celebre rinvio dell’esecuzione di Nagy (il primo ministro portato al governo dalla rivolta di Budapest) a dopo le elezioni italiane del 1958, il capo del Pci disse di conoscere quest’ultimo «fin dal 1935 e di non considerarlo una persona seria». Al termine, Togliatti si congratulò con Kádár per la «lotta eroica» da lui guidata nel 1956: dal modo in cui è scritto il verbale e dall’assenza di una risposta, si deduce che questo commento creò comprensibile imbarazzo.

    Il Corriere della sera/La Lettura – 16 ottobre 2016

    Pubblicato da Vento largo a 12:43

    Etichette: Palmiro Togliatti, PCI, Ungheria

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  5. Che in Italia manchi quasi del tutto il concetto di memoria storica è dato purtroppo scontato. Da sempre. Non avremmo il paese che abbiamo , nè l’informazione e la cultura di essa che ci tocca sopportare continuamente. Trovo molto interessante l’intervento di Geneviève Lambert , del tuo post dovrei ripetere le lodi di sempre, preferisco ribloggarlo.

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      1. Sì, è quella la mala parola ma comunque la storia confronto difficile e serio è, la risciacquatura di piatti che ci viene ammannita da tempo non le somiglia neanche un po’.
        Prego.

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  6. Ottima recensione inerente un periodo buio della Storia ma, pur non essendo mai stato un seguace e/o un simpatizzante di Palmiro Togliatti, consiglierei la lettura critica che ne fece Giorgio Bocca in Suo testo importante: PALMIRO TOGLIATTI, io ne possiedo l’edizione in due volumi pubblicato dall’Unità tempo fa, un saluto di stima
    r.m.

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    1. r. m. su Togliatti e sui vertici del PCI di quel periodo e degli anni precedenti il discorso è troppo complesso per venire affrontato in uno spazio commenti, ma credo che prima o poi proverò a farlo con un post.
      Il libro di Bocca lo conosco di fama ma non l’ho letto. Devo confessare però che sono un tantino prevenuta perchè, con tutta la grande stima che avevo ed ho ancora per Bocca, temo possa essere un tantino… come dire… troppo di parte ed assolutorio. Magari mi sbaglio, chissà.
      Intanto ti ringrazio del commento e del suggerimento
      Ciao! 🙂

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