LA VERITA’ DEL MALE. EICHMANN PRIMA DI GERUSALEMME – BETTINA STANGNETH

Bettina Stangneth, La verità del male. Eichmann prima di Gerusalemme (tit. orig.le tedesco Eichmann vor Jerusalem) traduz. dall’ edizione inglese Eichmamm before Jerusalem di Antonella Salzano, pp. 604, Luiss University Press, 2017

“Nessuna persona potrà mai più parlare del fenomeno Eichmann e delle sue implicazioni politiche senza fare riferimento a quest’opera”, ha scritto il The New York Times Book Review.

Il libro, pubblicato originariamente in Germania nel 2011 e negli Stati Uniti nel 2014, ha avuto un successo enorme.

Uscito in Italia con la bella traduzione di Antonella Salzano grazie al Goethe Institut e al Ministero degli Affari Esteri della Repubblica Federale Tedesca, il libro della Stangneth è, dal mio punto di vista, un’opera fondamentale; è infatti il risultato di una ricerca molto complessa ed impegnativa che non potrà che condizionare studi e ricerche che in futuro dovessero essere intraprese o proseguite su questo tema, un’opera in cui la storica e filosofa tedesca Bettina Stangneth esperta in teorie dell’inganno e psicologia della manipolazione si confronta con Hannah Arendt e la sua celeberrima teoria della “banalità del male”.
Ma andiamo con ordine e facciamo qualche passo indietro.

Nel 1961 Hannah Arendt era stata inviata dal New Yorker in Israele per seguire le 120 sedute del processo al criminale nazista Adolf Eichmann, responsabile dell’organizzazione degli spostamenti degli ebrei verso i campi di sterminio. Ne venne fuori un libro che fece molto scalpore e che ancora oggi è uno dei più popolari di Hannah Arendt.

Nell’edizione inglese originale del libro di Arendt che raccontava del processo (1961) e dell’impiccagione (1962) dell’organizzatore del genocidio la frase “A report on the banality of evil” compariva come sottotitolo di Eichmann in Jerusalem. Report on the Banality of Evil. L’editore italiano Feltrinelli, che pubblicò il libro nel 1964 ritenne poi opportuno invertire l’ordine, che divenne La banalità del male. Eichmann a Gerusalemme.

Al processo di Gerusalemme Adolf Eichmann si presentava come un semplice burocrate che non avrebbe fatto che obbedire agli ordini. Arendt ebbe l’impressione – così scriveva nel 1963 in La banalità del male. Eichmann a Gerusalemme – che “le azioni erano mostruose ma chi le fece era pressoché normale, né demoniaco né mostruoso” e scrisse che certo Eichmann era un noto criminale antisemita ma che in lui non c’era alcun fanatismo perchè più preoccupato della sua carriera che di altro. Eichmann, ritiene la Arendt, è incapace di distinguere il bene dal male.

Questa tesi, chiamata “la banalità del male” scatenò un putiferio.

Hannah Arendt La banalità del male

Eichmann appariva dunque ad Arendt come un mediocre funzionario, un “assassino da ufficio”, un burocrate che si sarebbe limitato ad obbedire agli ordini genocidi dei dirigenti nazisti.

Adesso però con Eichmann vor Jerusalem (Eichmann prima di Gerusalemme) basato su solide fonti d’archivio che al tempo del processo non erano disponibili e della maggior parte delle quali Arendt ignorava anche l’esistenza, Bettina Stangneth ribalta totalmente l’ interpretazione di Hannah Arendt.

Va subito precisato che nel lavoro di Stangneth non c’è alcuna polemica nei confronti di Arendt ed è molto rispettosa della grande specialista dei totalitarismi:

“Nel 1960 la ricerca sull’olocausto muoveva i primi passi, i documenti scarseggiavano e la volontà di venire in possesso di nuove informazioni dagli accusati era più grande della prudenza. Hannah Arendt scelse di capire, ricorrendo al metodo che aveva appreso: leggere e rileggere dando completa fiducia a chi scrive e parla, sulla base del presupposto che chi lo fa sia mosso dall’intenzione di essere capito. Lesse con più meticolosità di chiunque altro i verbali del processo e degli interrogatori. Ma fu proprio per quel motivo che cadde nella trappola, perchè Eichmann a Gerusalemme fu poco più di una maschera. Lei non se ne accorse, nonostante le fosse chiarissimo di non essere riuscita a comprendere il fenomeno come avrebbe voluto.”

La filosofa e storica tedesca Stangneth dimostra nel suo libro che – a seguito dell’analisi della documentazione di recente resa disponibile e consultabile – la tesi di Arendt di un Eichmann grigio burocrate dell’omicidio di massa non si può applicare a colui che – lungi dall’essere stato un mero esecutore di ordini – fu in realtà uno dei grandi protagonisti ed artefici della “Soluzione finale”.

Non solo: Stangneth afferma – dopo anni di ricerche e montagne di materiali consultati di cui fornisce puntigliosamente tutte le fonti – che colui che si assicurò che gli ebrei venissero sterminati nei campi della morte nazisti e che fuggì in Argentina con la complicità e la protezione del Vaticano nel 1950 è ancora oggi un personaggio sul quale non è stata fatta piena luce. Nonostante l’enorme lavoro fatto, è consapevole che ancora molte zone grigie esistono, molti particolari sono da chiarire.

La studiosa tedesca ha cercato e consultato l’insieme dei testi scritti e delle interviste rilasciate da Adolf Eichmann tra la fine della seconda guerra mondiale negli anni ’50 ed il suo rapimento ad opera del Mossad nel 1960 in Argentina, in particolare le misteriose “Carte Argentine” in possesso del volontario olandese nelle Waffen-SS, anche lui fuggito in Argentina, Willem Sassen. Da queste carte e dai nastri registrati emerge un Eichmann perfettamente convinto e fiero dei suoi crimini, completamente diverso dall’uomo presente nell’aula del Tribunale a Gerusalemme. Stralci dei testi scritti erano stati parzialmente editi dalla rivista Life e vennero in effetti utilizzati nel processo di Gerusalemme, ma erano solo una piccolissima parte.

Quello che viene fuori dall’insieme del materiale (testi scritti ed interviste registrate) è un Eichmann che secondo quanto testimoniato al processo di Norimberga dal suo vice Dieter Wisliceny “Disse che sarebbe saltato nella tomba ridendo, perchè per lui la sensazione di avere cinque milioni di persone sulla coscienza era estremamente gratificante.”

Ne La verità del male. Eichmann prima di Gerusalemme Stangneth dipinge così l’Obersturmbannführer (tenente colonnello) delle SS Otto Adolf Eichmann:

“Il nazista redento e l’amante della natura ormai completamente apolitico non arrivarono mai in Argentina. L’idillio non faceva per Eichmann. Per lui la guerra, la sua guerra, non era mai finita. (…) Poteva aver svestito la divisa, ma il nazionalsocialista fanatico era ancora in servizio”.

Il titolo originale tedesco del libro è, non a caso, Eichmann vor Jerusalem (Eichmann prima di Gerusalemme, che nell’edizione italiana è diventato il sottotitolo) proprio in riferimento al libro della Arendt che, come abbiamo visto, parlava di Eichmann a Gerusalemme (Eichmann in Jerusalem).

Il libro di Stangneth non è, come ho detto, in polemica con quello di Arendt. E’ piuttosto una sorta di integrazione, un “dialogo con” (così la definisce l’autrice a p. 19) l’interpretazione proposta da Arendt.
A lei non interessa tanto smentire le tesi di Arendt quanto piuttosto completare il profilo di Eichmann, scoprire cosa si nasconde dietro quella che sempre di più le appare una maschera – quella del grigio burocrate – che Eichmann ha tenuto ad “indossare” in occasione del processo di Gerusalemme.

Per ricostruire la complessa personalità di Eichmann Bettina Stangneth scandaglia dunque ben 1300 pagine di manoscritti e documenti, ascolta ed analizza le ben 25 ore di registrazioni, tutto il materiale insomma che va sotto il titolo di Carte Argentine. Documenti e nastri che dimostrano come Eichmann fosse stato sempre più che convinto di quello che stava facendo…

In uno di questi nastri raccolti dal giornalista Willem Sassen, nel 1957 Eichmann dice (e La verità del male riporta):

“(…) Non mi pento di nulla! Non mi cospargo il capo di cenere! (…) Le dico, camerata Sassen che non ce la faccio (…). Devo dirle in tutta sincerità che se dei 10,3 milioni di ebrei stimati da Korrherr, come sappiamo oggi, ne avessimo uccisi 10,3 milioni, allora sarei soddisfatto e direi ‘bene, abbiamo sterminato un nemico’ “

Siamo messi di fronte ad un Eichmann ancora convinto antisemita, che rivendica con fierezza il progetto genocida della “soluzione finale”. Nei circoli sudamericani filonazisti, mentre vive sotto una nuova identità ma notissimo tra gli altri nazisti come ad esempio l’aiutante capo di Himmler, Ludolf von Alvensleben) Eichmann rievoca con nostalgia le imprese del Terzo Reich e quanto fatto per realizzare l’obiettivo della “soluzione finale”.

Eppure, questa immagine di Eichmann in Argentina può convivere con quella dell’Eichmann al processo di Gerusalemme. L’una non esclude l’altra. La verità è che il gerarca nazista sembra aver mostrato facce diverse a seconda degli uditori cui si rivolgeva e delle situazioni in cui si trovava, presentando “evidentemente con fini strumentali” aspetti diversi della propria personalità ed esperienza. “Lo Zar degli ebrei” (così veniva chiamato ai tempi delle deportazioni per il terrore che incuteva ed il potere assoluto di vita e di morte di cui godeva), “il perfetto ebraicista” (si diceva che parlasse fluentemente ebraico ed yiddish e che conoscesse a menadito la Torah) era quello che riusciva a convincere i rabbini a spingere gli ebrei sui treni della morte. In realtà, “Nel 1960 in Israele sarebbe emerso che non capiva una parola di ebraico e che non era nemmeno in grado di leggerlo. Evidentemente quelle poche briciole e la capacità di aprire un libro ebraico per il verso giusto gli bastarono per recitare con successo il ruolo di un insider”. Era insomma un eccezionale, pericoloso manipolatore.

In Argentina, […] Eichmann era solito presentarsi con il grado al quale era legata la sua perversa fama: lì era il famigerato Obersturmbannführer della Sezione Ebraica delle SS e con quella qualifica firmava anche le dediche a vecchi e nuovi camerati. Attenersi al rango che per quattro anni ne aveva fatto il simbolo del terrore non fu, perlomeno in Argentina, un tentativo di sminuirsi, ma l’esatto opposto. […] Eichmann lo ostentò come una sorta di marchio di fabbrica.

Stagneth decostruisce un mito: quello dell’ex nazista isolato, che cerca di nascondersi nel tentativo di dimenticare ed essere dimenticato. Nulla di tutto ciò. Negli anni in Sud America Eichmann non conduce una vita riservata, come invece per esempio Mengele, che infatti morirà anziano nel 1979, ma anzi pecca di imprudenza. La sua vita sociale in Argentina mostra che il grande esperto della “questione ebraica”, l’amico del Gran Mufti, il boia che considerava la Shoah il suo “capolavoro”, non solo non aveva mai rivisto le sue convinzioni politiche, ma si preparava semmai a realizzarle sotto nuovi cieli e in altre terre. Non era l’unico, tra i criminali di guerra nazisti rifugiatisi in Argentina sotto le ali protettive del Presidente Peron con l’aiuto del Vaticano e della Croce Rossa a pensare ad un possibile Quarto Reich…

Bettina Stangneth è non solo storica e filosofa ma anche – come ho detto prima – particolarmente esperta di teoria dell’inganno e di psicologia della manipolazione, e quando scrive che Eichmann fu molto attento alla sua immagine pubblica fin dall’inizio e cercò sempre di influenzarla credo possiamo avere tutte le ragioni per crederle e possiamo, io credo, pensare che Hannah Arendt fu presa nella trappola.

“Eichmann si reinventava in ogni fase della sua vita, in base al pubblico a cui si rivolgeva e agli obiettivi che perseguiva. Si presentava di volta in volta come subalterno, comandante, colpevole, profugo, richiedente asilo o imputato – Eichmann osservava maniacalmente il proprio impatto e cercava di volgere le circostanze a suo favore.”

Il volume è imponente perchè frutto di un enorme lavoro di documentazione e certo potrebbe intimorire per la sua mole. Eppure lo si legge con facilità – anche perché a tratti ha l’andamento di un giallo: Stangneth infatti, come un segugio, segue passo dopo passo i movimenti di Adolf Eichmann prima negli anni della guerra e dopo durante i quindici anni che vanno dalla disfatta della Germania alla cattura in Argentina e poi al processo a Gerusalemme.
Dagli appunti di Eichmann in esilio, dai dialoghi e dalle interviste protocollati, viene fuori, tra l’altro, l’impressionante rete di rapporti che Eichmann intratteneva un po’ ovunque nel mondo.

“Eichmann in Argentina”, dunque, non è la rappresentazione di una figura solitaria, ma la cronaca di una sorprendente seconda carriera dell’Obersturmbannführer fuori servizio – come esperto di storia e, ancora una volta, della “questione ebraica”. Per quanto più tardi si sia dato molto da fare per convincere tutti che la fine della guerra lo aveva redento e cambiato, lo studio del suo pensiero e della sua vita sociale in Argentina dimostra il contrario. Se mai Eichmann ha desiderato essere il pacifico e innocuo Ricardo Klement, è stato solo quando si è trovato nella cella della prigione israeliana. In Argentina era solito firmare con orgoglio le sue foto per i camerati: “Adolf Eichmann – SS-Obersturmbannführer fuori servizio.”[…] In realtà aveva mirato a essere tutt’altro che quell'”uomo nell’ombra” che durante il processo voleva far credere di essere stato.

Bettina Stangneth, nata e cresciuta nella Repubblica federale tedesca, riflette anche criticamente sul ruolo giocato in quegli anni dalla Germania.
Eichmann era talmente sicuro di sé che si era persino spinto a scrivere una lettera aperta al cancelliere Konrad Adenauer. Quasi a voler suggellare quella continuità, che molti congetturavano, tra il vecchio regime e la nuova repubblica. E Stangneth denuncia il rifiuto delle autorità tedesche che ancor oggi custodiscono gli atti su Eichmann, preclusi al pubblico con la scusa che potrebbero provocare turbamento.

Voglio chiudere con ancora alcuni passaggi del libro che si riferiscono alle capacità manipolatorie di Eichmann. Tra le citazioni che ho scelto, la terza mi sembra particolarmente agghiacciante (e mi aiutano a dare un senso alla frase che ho letto e sentito più volte in altri libri ed anche in molti film: “è stato capace di convincere i rabbini a spingere con le loro mani gli ebrei sui treni della morte”):

“lo specialista delle “questioni ebraiche”, il coordinatore interministeriale del progetto di annientamento, che festeggiava i progressi della campagna di sterminio sorseggiando cognac davanti al camino in compagnia dei suoi superiori, si reinventò, dipingendosi come un innocuo addetto ai registri privo di qualsiasi potere decisionale, che persino alla Conferenza di Wannsee non aveva fatto altro che “temperare le matite a un tavolo in disparte”

“il prudente burocrate non era un fanatico nazionalsocialista, ma un uomo normale, amante della natura, con un debole per la scienza e una vera e propria sete di illuminismo e cosmopolitismo, che negli ultimi quindici anni era finalmente riuscito a lasciarsi alle spalle gli ordini onerosi e un regime criminale ed era tornato alle sue radici – questa era l’immagine che l’imputato aveva scelto di dare di sé a Gerusalemme, negli ultimi anni della sua vita.”

“Persino in Israele, circondato da persone che sapevano con esattezza chi avevano davanti, Eichmann riuscì in ciò che gli era già riuscito così spesso in qualità di funzionario delle SS: suscitò simpatia pur essendo un nemico. Tutti quelli che ebbero a che fare con Eichmann raccontarono poi di essere certi di aver rappresentato un importante punto di riferimento per lui. L’ufficiale che lo aveva interrogato, il direttore del carcere, il medico, lo psicologo, il teologo, fino al vice procuratore generale – tutti lodavano il suo atteggiamento collaborativo, sottolineavano la sua disponibilità a parlare e credevano che Eichmann nutrisse una particolare gratitudine nei loro confronti per le loro conversazioni.”

Bettina Stangneth
Bettina Stangneth
  • Scheda del libro >>
  • “Adolf Eichmann, de l’Argentine à Jérusalem”, Intervista a Bettina Stangneth su “Revue d’histoire de la Shoah” 2015/2 >>

Da questa intervista a largo raggio condotta da Fabien Théofilakis voglio riportare ciò che in particolare riguarda Hannah Arendt e il suo Eichmann in Jerusalem:

Dans l’introduction de votre ouvrage, vous écrivez : « Eichmann avant Jérusalem est aussi un dialogue avec Hannah Arendt ». Le titre fait lui-même allusion à l’œuvre célèbre et controversée de la philosophe. Comment vous situez-vous par rapport à la théorie d’Hannah Arendt et à son analyse de la personnalité d’Eichmann ? En quoi Eichmann à Jérusalem est-il pour vous toujours pertinent et d’actualité?

J’ai appris la philosophie avec Hannah Arendt. De même, c’est d’abord par sa vision que j’ai appréhendé Adolf Eichmann. Je dois beaucoup à Hannah Arendt, ne serait-ce que pour cette raison. On oublie souvent qu’Eichmann à Jérusalem, justement, est aussi un livre philosophique. Il n’interpelle donc pas le lecteur sur le même mode que les autres livres scientifiques. Les documents dont nous disposons aujourd’hui nous révèlent sans doute un tout autre Eichmann. En 1961, il était impossible de le voir sous cet angle, car l’accusé jouait habilement la comédie. À présent, nous savons ainsi que la « banalité du mal » est une catégorie inadaptée à son cas. Le livre de Hannah Arendt n’en est pas pour autant un livre dépassé. On doit à la philosophe une conception du mal sans laquelle nous ne pourrions comprendre ni les nazis, ni la destruction des Juifs.

En effet, la notion classique du mal ne parvient pas à elle seule à rendre compte des crimes nazis. Eichmann, comme ses collaborateurs, n’avaient rien de commun avec les figures du mal qui parcourent les drames de Shakespeare. Ils n’étaient pas non plus des immoralistes déclarés. Ils ne tuaient pas par plaisir ou pour d’autres mobiles abjects. Eichmann n’était pas un génie maléfique. Il n’avait pas de « grandeur négative » et ne fascinait pas comme un personnage de cinéma tel que le Joker de Batman.

Hannah Arendt a raison également lorsqu’elle affirme que le mal peut résulter de l’indifférence et de l’absence de pensée, et qu’il est dénué de profondeur. Nous avons tous éprouvé la banalité du mal. En effet, chacun d’entre nous s’est déjà surpris à agir de manière irréfléchie. Appliquer les directives, suivre les règles sans se demander quelles en seront les conséquences pour autrui : Eichmann n’aurait pu être aussi convaincant dans son rôle de technocrate qui ne réfléchit pas, si ce registre ne nous avait pas été si familier. L’efficacité du projet meurtrier nazi, justement, repose aussi sur la participation de l’administration et de la bureaucratie aux crimes. Le fait qu’Eichmann ne soit pas un bon exemple ne nous dispense pas de mener une réflexion sur le concept d’Hannah Arendt. Ce dernier constitue un apport irréversible. Mais Hannah Arendt nous apprend aussi que pour comprendre les choses, il faut aller plus loin.

Autore: Gabrilu

https://nonsoloproust.wordpress.com

19 pensieri riguardo “LA VERITA’ DEL MALE. EICHMANN PRIMA DI GERUSALEMME – BETTINA STANGNETH”

  1. La banalità del male era infatti una corrispondenza giornalistica, come lo fu poi A sangue freddo. I filosofi vivono nel loro tempo e ciò che scrivono è fallibile e sottoponibile a controllo. L’illusione di astoricità, anzi, produce i miti del senso comune.

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    1. Giorgio ma infatti, nessuno punta il dito su Arendt dicendo “ha sbagliato” (non qui, almeno, e non la Stangneth). E poi è vero: “Eichmann in Jerusalem” doveva e fu un reportage, “Eichmann vor Jerusalem” è un saggio, una vera e propria ricerca storica e filosofica. Entrambi i libri però a me pare abbiano un elemento molto in comune: sia Arendt che Stangneth vogliono “capire”, “conoscere” Eichmann. Entrare nella testa di questo tizio che ha portato al massacro milioni di ebrei e non solo. Chiunque abbia letto Arendt si rende conto che si, lei tracciò un profilo di Eichmann ma lei stessa si rendeva conto che le sfuggiva qualcosa… Ecco, a me il lavoro di Stangneth sembra interessante anche proprio perchè andando oltre, utilizzando nuove fonti (nuove perchè adesso disponibili) contribuisce a riempire, se non tutti, sicuramente molti vuoti

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  2. Un libro che appare come necessario, ancora di più se prosegue e completa le valutazioni arendtiane alla luce di “nuovi” incartamenti emersi, contribuendo a ridefinire alcuni punti cruciali della questione Eichmann. Necessario soprattutto a chi ha letto La banalità del male, visto che offre la possibilità di un confronto volto più a integrare che non a confutare, ma forse altrettanto utile a chi si accosta per la prima volta all’argomento. In attesa di leggere anche questo saggio, curiosa come sono di raffrontarlo più a fondo e nel dettaglio con quello della filosofa di Hannover, da me a suo tempo già apprezzato, ti ringrazio per la bella e accurata introduzione, che come sempre eccelle in chiarezza espositiva

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    1. Alessandra grazie a te, a voi per l’interesse e la pazienza nel leggere questi lunghissimi post su temi che a me interessano molto ma che esito sempre a proporre. Poi mi dico che in fondo non è obbligatorio leggerli e… mi lancio 🙂

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  3. un post ponderoso ma necessario per capire il libro e il suo contenuto. Per comprendere come a distanza di oltre mezzo secolo la figura di Eichmann appare agli occhi della gente controversa. Di sicuro il testo, per chi ama questa tipologia di libri, molto interessante e meritevole di essere letto.
    tra le righe intuisco che l’autrice mette sotto accusa la Germania colpevole di nascondere sotto il tappetto le verità scomode.

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    1. newwhitebar come è facile immaginare, il libro è veramente densissimo anche perchè pieno zeppo di note, indispensabili a noi per capire molti passaggi ed all’autrice perchè ovviamente – considerando l’argomento e la nuova prospettiva da cui osserva e descrive Eichmann e facendo riferimento al testo di Arendt – sente il bisogno di documentare, citare con esattezza tutte le fonti dalle quali ha ricavato le sue osservazioni.
      Ho fatto una fatica micidiale a cercare di sintetizzare al massimo, ma è stato proprio difficile.
      Per quanto riguarda la Germania: le sue critiche sono rivolte soprattutto agli anni dell’immediato dopoguerra, ci sono critiche anche all’oggi ma è innegabile che i tedeschi abbiano comunque compiuto negli anni – sia a livello istituzionale (e questo a mio parere è molto importante) che a livello di ricerche di studiosi ed anche a livello di gente comune – un grande lavoro di elaborazione sul loro passato e su quegli anni terribili.
      Sforzo che francamente non mi sento di dire abbiamo fatto con uguale determinazione anche noi italiani con il fascismo. E oggi le differenze tra noi e loro di fronte ai rigurgiti neonazisti e neofascisti si vedono tutte, a me pare.

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      1. Concordo sulla parte finale. Sul testo mi appunto le tue parole e capisco che un libro del genere sia alquanto difficile da seguire.
        Anch’io ho letto qualcosa del genere, ovviamente su altri temi, e comprendo le tue difficoltà a sintetizzare il suo contenuto.

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  4. I tuoi post, molto fraZionati nel tempo, sono ponderosi dice qualcuno: per fortuna aggiungo io. Hai fatto una gran fatica ma è diventato raro nell’ambito dei blog trovare materiale simile per misura, lingua e argomenti. Chi ti segue lo fa esattamente per questo.

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  5. Comprerò il libro certamente ma adesso che ho riletto con attenzione il tuo post mi sento di dissentire non dalle opinioni della Stangheth bensì da alcune affermazioni che ho colto in certe risposte ai commenti. Non sono per nulla sicuro dell’opera di revisione etica profonda del popolo tedesco nei confronti della sua storia recente, credo che in Germania invece si stia portando avanti con perizia una cancellazione progressiva di colpe eclatanti verso il genere umano: intendo dire che i tedeschi in gran parte continuano a ritenere di essere una razza a parte, una razza in qualche modo superiore ad altre. La Germania fa storia a sè e dà lezioni al resto d’Europa e questo mi pare incredibile. Se l’Italia non è mai stata veramente in grado di sentirsi qualcuno o qualcosa, se ancora oggi viene considerata una figura eticamente, socialmente e storicamente di secondo o terzo piano … beh meglio così. Forse non abbiamo ancora fatto debitamente i conti col fascismo ma non abbiamo nessuno del livello di Eichman.

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    1. Sulla Germania attuale concordo totalmente: sembrerebbe che un atteggiamento parecchio diffuso sia quello del “e basta con questa storia, e poi noi che cosa c’entriamo, e poi non saranno mica solo loro le uniche vittime, e come se con la guerra non avessimo sofferto anche tutti noi, e…” In modo particolare la Germania est, che essendosi investita della qualifica di antifascista ha deciso che coi crimini di quell’altra Germania loro non hanno niente a che vedere: nessun processo ai criminali nazisti, nessuna estradizione concessa, nessuna epurazione, nessun risarcimento, zero. E, cosa probabilmente ancora meno nota della prima, un intenso antisemitismo, non solo come sentimento generale ma anche come politica dello stato. A chi fosse interessato mi permetto di suggerire Il rifiuto di un’eredità difficile di Sara Lorenzini, Giuntina.

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  6. …. eppure io credo che il tema della “banalità” del male abbia un suo valore aldilà del caso specifico, perché quello che spaventa, stupisce, riempie di perplessità e orrore – e in cui consiste poi tutta la potenza del fenomeno – è il fatto che qualunque persona, anche non dotata di caratteri demoniaci, si potè trasformare in carnefice, nel contesto terrificante del reich nazista.

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    1. Astrea
      Certo che il il tema della “banalità del male” ha una sua validità, sono d’accordo. Qui non era in discussione il concetto in se, a me pare, ma il fatto che la non conoscenza di materiali resi disponibili solo dopo lo svolgimento e la morte di Eichmann e il mancato approfondimento di come E. avesse vissuto, cosa avesse detto e scritto negli anni trascorsi in Argentina abbia determinato una grossa staratura o un grosso abbaglio (secondo Stangneth) nel delineare un profilo di E. e nell’interpretazione del suo atteggiamento nei confronti del suo passato nazista al processo di Gerusalemme.
      Si può concordare o no con Stangneth (a me è sembrata molto convincente, altrimenti del libro non avrei nemmeno parlato) ma altri possono pensarla diversamente o fare dei distinguo.

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  7. Alla buon’ ora, gabrilù 😂😉. Aspettavo da un po’ che tu ci parlassi di questo libro- recensito sui giornali quando era ancora in versione originale- e della sua nuova interpretazione sulla banalità del male. Lo hai fatto secondo il tuo stile, con un poderoso post, chiaro, consequenziale, illuminante per chi legge. Nessun peso, dunque, ma la solita riconoscenza da parte mia.
    La cosa più evidente, e di cui far tesoro in questi tempi, è che la verità è sempre ricerca.
    Nulla può essere mai pensato in una forma assoluta, perchè la vita deve essere continua ricerca: emergono documenti, fatti nuovi ed è necessario modificare interpretazioni consolidate. Mai stancarsi di cercare conferme o disconferme. Non entro nel merito, non avendo letto il testo della Stangneth, e non commento. Certamente, l’ argomento è di quelli che bruciano l’ anima e il pensiero: come è potuto succedere? Ho appena finito di leggere ” Il suddito” di Heinrich Mann, anche qui con la guida del tuo commento. A parte il valore letterario del testo, ci si chiede quanto e come quel protagonista, grottesco e determinato, stupido e cinico, possa essere confluito nell’ humus che accetterà il nazismo…
    Chiediamoci, diamoci delle risposte ma continuiamo a cercare… Grazie ancora e sempre!

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    1. Renza
      Si, questa volta il mio silenzio è durato molto più del solito, ma ti assicuro che ho avuto un’estate da incubo da parecchi punti di vista. Ora sto cercando di rimettermi in pista. Mi viene un po’ difficile, sono fuori allenamento 🙂
      Questo libro me l’ero procurato immediatamente, quando è comparso in italiano, ma per un motivo o per l’altro l’ho letto soltanto adesso. E meno male, perchè è una lettura che richiede attenzione ed impegno.

      Le considerazioni che fai quando dici che ”la verità è sempre ricerca” e soprattutto che ”Nulla può essere mai pensato in una forma assoluta, perchè la vita deve essere continua ricerca: emergono documenti, fatti nuovi ed è necessario modificare interpretazioni consolidate. Mai stancarsi di cercare conferme o disconferme. “ mi trovano non solo profondamente d’accordo ma mi hanno accompagnata durante tutta la mia lettura e sono cose che penso da molto tempo, a proposito della ricerca della “verità storica”.
      Io distinguo molto nettamente tra “negazionismo” e “revisionismo”, parole che spesso vengono utilizzate entrambe con un’accezione negativa. No, sono cose profondamente diverse. Nella ricerca, nell’approfondimento storico la revisione di conoscenze già date per acquisite non è affatto, in sè, qualcosa di negativo. A me pare un concetto persino banale…
      Certo io non sono un’esperta, ma di questo sono profondamente convinta.

      Il suddito di Heinrich Mann: hai visto che libro formidabile che è? Altro che L’angelo azzurro (che per carità, è eccellente, Heinrich era un ottimo scrittore)! Sono davvero contenta del tuo apprezzamento. Purtroppo temo sia un libro pochissimo conosciuto, in Italia.
      E’ impressionante soprattutto considerando gli anni in cui il romanzo comparve, un libro di una lucidità e di una preveggenza impressionante.
      Thomas per me era l’immenso scrittore che era, ma quanto a capacità di analisi politica, il fratello Heinrich ed i figli Klaus ed Erika sono sempre stati di molto davanti a lui.
      Thomas poi ci arrivava, ma in politica non è arrivato mai per primo. (Lo so, su questo tema mi ripeto come un disco rotto…)

      Ciao, ed a presto, spero 🙂

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      1. Cara gabrilu, mi dispiace molto della situazione della tua estate. So come misuri le parole ( “le parole sono pietre”) e quindi se parli di incubo, tale deve essere stato. Comunque, dai primi giri, mi pare che in pista tu ci sia tornata alla grande😉. Ti auguro di continuare così e riprendere l’ allenamento☺.
        Su tutto il resto, hai ragione alla grande. il pensiero laico è per sua natura ” revisionista”, altrimente sarebbe religioso, legato ai dogmi. Eppure, oggi, assistiamo increduli, ad un pensiero che non pensa, urla e impreca e tenta di minare una tradizione logico-scientifica lunga millenni. Sul ” nostro” suddito, passerò poi nell’ altra stanza😄. Auguri, gabrilu!

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