
Judy BATALION, Figlie della resistenza. La storia dimenticata delle combattenti nei ghetti nazisti (tit. orig.le The Light of Days: The Untold Story of Women Resistance Fighters in Hitler’s Ghettos) traduz. Giuliana Lupi, pp. 576, Mondadori, 2023
“Nessun movimento rivoluzionario, men che mai giovanile, ha mai dovuto affrontare problemi simili ai nostri: il fatto puro e semplice dello sterminio, della morte. Noi lo affrontammo e trovammo una risposta. Trovammo una via … l’haganah [la difesa].” (Chajka Klinger, Dirigente di Hashomer Hatzair e dell’organizzazione combattente a Będzin)
Questo libro di Judy Batalion riporta alla luce le vicende dimenticate di un gruppo di donne fra i 16 e i 25 anni che, fra Vilna e Cracovia, si unirono alla Resistenza ebraica e che, provenendo e operando in oltre novanta ghetti dell’Europa orientale e nelle principali città polacche, combatterono senza esclusione di colpi. Una straordinaria pagina di Storia che è rimasta a lungo dimenticata e finora quasi sconosciuta.
E’ un bellissimo libro, emotivamente parecchio impegnativo, che recupera dall’oblio la memoria di tante giovani donne che si opposero in tutti i modi – anche con le armi – agli invasori nazisti ed allo sterminio; donne molte delle quali perirono in circostanze altamente drammatiche. Questo libro rende loro giustizia.
“Queste ‘ragazze del ghetto’ corruppero guardie della Gestapo, nascosero pistole in pagnotte di pane e aiutarono a costruire reti di ricoveri sotterranei. Flirtarono con i nazisti, comprandoli con vino, whisky e dolci, e poi li uccisero senza farsi scoprire. Svolsero missioni di spionaggio per Mosca, distribuirono documenti falsi e volantini, e rivelarono al mondo ciò che stava accadendo agli ebrei. Assistettero i malati e insegnarono ai bambini; compirono attentati alle linee ferroviarie tedesche e fecero saltare la rete elettrica di Vilna. Si vestivano da non ebree, lavoravano come domestiche nella parte ariana della città e aiutavano gli ebrei a fuggire dai ghetti attraverso le fogne e le canne fumarie, scavando passaggi nei muri e strisciando sui tetti. Corruppero aguzzini, scrissero bollettini per le radio clandestine, tennero alto il morale degli altri membri della resistenza, negoziarono con i proprietari terrieri polacchi, ingannarono agenti della Gestapo inducendoli a trasportare valigie piene di armi, crearono un gruppo di nazisti antinazisti e, ovviamente, si occuparono di gran parte dell’amministrazione della resistenza.”
Erano giovani donne dai 17 ai 25 anni. Molte provenivano dai circoli giovanili sionisti socialisti come Dror (Libertà), un gruppo di sionisti laici e Hashomer Hatzair (Il giovane guardiano). Batalion circoscrive il suo campo di indagine, centra la sua attenzione sull’area del ghetto di Varsavia e sceglie di seguire per quanto possibile passo passo le sorti di un gruppo di una decina di ragazze. Alcune di loro, quando nell’agosto del 1939 i nazisti invasero la Polonia erano già all’estero ed avrebbero potuto salvarsi ma… decisero di tornare in patria. A Zivia Lubetkin, nata a Byten’, leader del Dror nell’Organizzazione combattente ebraica (ZOB) e più tardi nella rivolta del ghetto di Varsavia, che in quel momento si trovava in Svizzera, fu rilasciato un certificato speciale che le permetteva di recarsi immediatamente in Palestina, evitando così la guerra che stava per scoppiare. Ma Zivia non se ne servì. Tornò in Polonia e giunse a Varsavia il 30 agosto “appena in tempo per il primo giorno della guerra di Hitler”.
Batalion si centra in particolare su una staffetta che si firmava “Renia K.”, “non perchè fosse la combattente più famosa e una leader carismatica, ma proprio per il motivo opposto. Renia non era nè un’idealista nè una rivoluzionaria, bensì un’assennata ragazza borghese che all’improvviso si era ritrovata in un incubo senza fine. Ed era stata all’altezza della situazione, motivata da un senso interiore di giustizia e dalla rabbia”. Una giovane donna ebrea che, diventata attiva nella resistenza ad appena diciassette anni compì atti di stupefacente coraggio.
La questione era: rimanere e combattere o fuggire? Queste ragazze scelsero di combattere. Il motto di Tosia Altman, Dirigente di Hashomer Hatzair e una delle sue staffette più attive operante a Varsavia era quello che sarebbe diventato il motto di tutta la resistenza:“Non ci lasceremo condurre come pecore al macello!”.


Fonte
La genesi del libro si deve al caso ed è strettamente intrecciata con la storia personale dell’autrice. E’ un intreccio importante dal quale non si può prescindere.
Nel 2017 Batalion si trova a Londra.
Nata a Montreal in una famiglia di sopravvissuti, fin da piccola ascolta le loro storie di morte e sofferenza. “I miei geni” scrive “erano marcati, perfino alterati, come oggi suggeriscono i neuroscienziati, dal trauma. Sono cresciuta in un’atmosfera di vittimizzazione e paura”. I suoi nonni si sono salvati dalla Shoah scappando dalla Polonia e dunque in famiglia “fuga” significa “vita”.
A Londra Judy Batalion scopre – con sua grande amara sorpresa – che in quanto ebrea viene sottilmente ma inequivocabilmente discriminata, emarginata. E’ un’esperienza – quella di dover fare i conti con la propria identità ebraica – che nel suo paese di origine, il Canada, non le era mai capitato di dover affrontare.
“Quando avevo vent’anni, nei primi anni Duemila, vivevo a Londra […] la mia identità ebraica si rivelò un problema. Battute scorrette a proposito del mio aspetto e dei miei vezzi da ebrea erano comuni da parte di accademici, galleristi, persone del pubblico, colleghi attori e produttori. A poco a poco cominciai a capire che ai britannici dava fastidio che ostentassi la mia ebraicità con tanta disinvoltura. Sono cresciuta in Canada in una comunità ebraica coesa e poi ho frequentato l’università nel Nordest degli Stati Uniti. In nessuno dei due luoghi le mie origini erano insolite; non avevo un personaggio pubblico e uno privato separati. Ma in Inghilterra, che manifestassi così apertamente la mia diversità, be’, pareva sfacciato e metteva a disagio. Rendermene conto fu uno shock, ero paralizzata dall’insicurezza. Non sapevo bene come comportarmi: far finta di niente? Scherzarci su a mia volta? Essere cauta? Reagire? E con quanta forza? Entrare in clandestinità e assumere una doppia identità? Fuggire?”
Batalion decide di scrivere di donne ebree che sono state un esempio di forza.
Alla British Library, cerca materiale sull’ebrea ungherese Hannah Sznenes ma su di lei trova pochi libri. Uno cattura però la sua attenzione. La copertina, di un consunto tessuto blu, recita in lettere dorate Froyen in di getos, Le donne del ghetto. Sono 180 pagine in caratteri minuscoli, tutte in yiddish, una lingua che conosce. Si tratta di una raccolta di ricordi, lettere e poesie di e su partigiane ebree, soprattutto del movimento sionista socialista polacco curata da Leib Spizman, fuggito dalla Polonia occupata che divenne storico del sionismo socialista.“Con mia sorpresa, […] riferiva le storie di decine di […] giovani donne ebree che avevano sfidato i nazisti, molte avevano l’occasione di lasciare la Polonia occupata nazista ma non l’hanno fatto; alcune hanno addirittura fatto ritorno di propria volontà”. Quelle pagine, dove spicca la testimonianza di Renia, sono una rivelazione.
“Dove mi aspettavo buio e dolore, ho trovato pistole, granate e spionaggio. Era un thriller yiddish, che raccontava le storie delle ragazze del ghetto ebree polacche che pagavano le guardie della Gestapo, nascondevano revolver negli orsetti di pezza, flirtavano con i nazisti e poi li uccidevano. Distribuivano bollettini clandestini, lanciavano Molotov, bombardavano le linee del treno, organizzavano mense e raccontavano cosa stava succedendo agli ebrei”

(Courtesy of Yad Vashem Photo Archive)
Dopo la guerra, dice Batalion, le loro storie sono state presto messe da parte. Quando hanno raccontato, molte non sono state credute, altre sono state accusate di aver abbandonato la famiglia o di aver dormito con il nemico. Tante hanno infine taciuto per non riaprire vecchie ferite.

Il loro protagonismo, sostiene Batalion, incrina però il mito della passività ebraica davanti allo sterminio e illumina di un’altra luce la portata della rivolta, le insurrezioni nei ghetti e nei campi di sterminio, i 30 mila ebrei unitisi ai partigiani, le reti clandestine che solo a Varsavia hanno aiutato quasi 12 mila ebrei a nascondersi. Sono gocce nel mare immane della tragedia, ma il loro valore simbolico è altissimo.

Durante la guerra divenne nota come “la piccola Wanda con le trecce”
(Courtesy of Ghetto Fighters’ House Museum, Photo Archive)
“Era in tutte le liste dei più ricercati dalla Gestapo”.
Figlie della resistenza è ampiamente documentato. Il libro di più di 500 pagine è basato su diari, memoriali, testimoni dello Yad Vashem, articoli contemporanei ed anche su interviste dell’autrice con figli, parenti, conoscenti di quelle donne combattenti.
Eppure, ancora fino ad oggi le donne di cui parla Batalion non hanno goduto dell’attenzione che meritano.

Perchè queste eroine non sono conosciute, non sono famose?
Come mai la stessa Batalion – ebrea frequentatrice di scuole ebraiche, che parla fluentemente l’yiddish e l’ebraico (tanto quanto l’inglese ed il francese) ed è la nipote di ben due polacchi sopravvissuti alla Shoah in Polonia ignorava queste storie, che ha scoperto per caso in un polveroso smilzo libretto scritto in yiddish trovato in un angolo di una libreria pubblica?
“Perché, continuavo a chiedermi, non ne avevo mai saputo niente? Perché non avevo mai sentito parlare delle centinaia o addirittura migliaia di donne ebree coinvolte in ogni aspetto di queste ribellioni e spesso in ruoli di comando? Perché Froyen in di getos era un titolo sconosciuto, anziché un classico nell’elenco dei libri sull’Olocausto?”
Le ragioni sono tante, spiega Batalion.
Innanzitutto, la maggior parte delle donne combattenti morì durante la guerra ed inevitabilmente gran parte delle conoscenze circa le loro imprese morì, si perse assieme a loro. Ma anche quando sono sopravvissute, i racconti delle donne sono stati messi a tacere per ragioni sia politiche sia personali che differiscono da un paese all’altro e da una comunità all’altra.
“i primi politici israeliani cercarono di creare una dicotomia tra ebrei europei ed ebrei israeliani. Gli europei, dicevano gli israeliani, erano fisicamente deboli, ingenui e passivi. Alcuni sabra, o nativi d’Israele, chiamavano i nuovi arrivati “saponette”, dalla voce che i nazisti facessero il sapone con i corpi degli ebrei assassinati. Gli ebrei israeliani, viceversa, si consideravano la forte ondata successiva. Israele era il futuro; l’Europa, che per più di un millennio era stata una culla della civiltà ebraica, era il passato. Il ricordo dei combattenti della resistenza – gli ebrei d’Europa che erano tutt’altro che deboli- fu cancellato per rafforzare lo stereotipo negativo.”
Fare luce sul coraggio e sulle imprese di quelle giovani donne combattenti della resistenza avrebbe intaccato quell’immagine costruita su “il vecchio”, “il passato” rappresentato dagli ebrei dell’Europa centrale ed orientale ed “il nuovo”, “il futuro” rappresentato dai giovani e forti sabra.
Poi c’è, ovviamente, il genere. Come spesso avviene, anche in questo caso il silenzio è calato soprattutto sulle storie di donne.
I motivi dell’oblìo sono tanti, alcuni anche molto sofisticati. Purtroppo non posso approfondirli e nemmeno elencarli tutti.
Ed inoltre, semplicemente molte delle combattenti sopravvissute non hanno voluto scrivere o parlare delle loro esperienze. La staffetta Chasia Bielicka, per esempio, era riluttante a condividere la propria storia perchè pensava che, in confronto ai sopravvissuti dai campi di concentramento e di sterminio, quello che aveva fatto lei in fondo era stato… facile! “le storie principali furono scritte da uomini, i quali si concentrarono sugli uomini e non sulle staffette, che per prime minimizzarono la propria attività.”

Frutto di una lunga ricerca su diari, memoir, interviste e archivi in yiddish, polacco ed ebraico, The Light of Days non è il classico saggio storico. Le protagoniste “bucano la pagina” con un’immediatezza che conquista e il ritmo è quello di un romanzo d’azione. Ci sono come si può immaginare, molte pagine davvero angoscianti anche perchè non c’è traccia del pomposo, gelido e troppo spesso inutilmente involuto linguaggio accademico che non invoglia certo a proseguire la lettura. E’ avvincente, i capitoli si susseguono con naturale scioltezza entrando nel dettaglio della vita nei ghetti, il ruolo ed il comportamento degli Judenrät e della polizia ebraica (“la Gestapo del ghetto”, veniva chiamata); emerge tutta l’importanza che veniva data comunque all’istruzione ed alla cultura, la differenza tra i vecchi e i giovani: viene detto come agli anziani mancasse lo spirito combattivo, come anni di umiliazioni e tormenti avessero fiaccato le loro “anime ferite e disperate”. I giovani, viceversa, avevano una tale voglia di vivere che, paradossalmente, s’impegnavano nella resistenza certi di andare incontro alla morte. Un rabbino elogiò il loro operato. “Se ci restate voi,” disse “giovani ebrei che combattono e ci vendicano, d’ora in poi per noi sarà più facile morire.”
Furono le staffette le prime a sapere, dopo la prima Aktion, del piano dei nazisti sulla soluzione finale, l’obiettivo di sterminare tutti gli ebrei. Fecero di tutto per comunicare le notizie ed avvertire gli abitanti dei ghetti, i gruppi dirigenti dei movimenti sionisti e gli Judenrät ma…non vennero credute. “I dirigenti dello Judenrat di Varsavia […] o non credettero alle voci o non vollero reagire, preoccupati che qualsiasi azione potesse provocare una violenza ancora più grande da parte dei nazisti. Speravano che tenere un basso profilo e seguire le regole potessero servire a risparmiare la comunità ebraica e forse loro stessi.” (e qui tornano in mente le pagine di Zygmunt Baumann in Modernità e Olocausto….) I movimenti giovanili vennero accusati di essere allarmisti, ingenui e precipitosi. I giovani sionisti cercarono di contattare da soli la resistenza polacca ma non vennero accolti, e così poi entrarono nel blocco antifascista formato dai comunisti ebrei.
Judy Batalion ha impiegato ben dodici anni per scrivere questo libro. Le difficoltà non erano solo tecniche, non riguardavano solo le ricerche che comportavano muoversi in uno scenario di più continenti, il cui materiale comportava la conoscenza di ebraico, yiddish, inglese, polacco, russo e tedesco; c’era anche il problema del profondo coivolgimento emotivo dell’autrice legato alla storia della propria famiglia.
Alla fine, dopo aver occupato per settimane le pagine dei principali media americani, il libro ha scalato la lista dei bestseller del New York Times e Steven Spielberg si prepara a trarne un film.
“Ricercando queste donne” scrive Batalion nelle conclusioni “ho imparato che la narrativa della mia famiglia non è l’unica opzione per confrontarsi con i grandi e piccoli pericoli del mondo. […] Renia e le sue compagne sono state coraggiose e potenti e hanno aperto la strada alle generazioni successive; non solo le Ruth Bader Ginsburg ma donne come me e come le mie figlie. I miei bambini devono sapere che il loro retaggio non include solo la fuga ma anche l’atto di restare e perfino correre verso il pericolo”.

Foto Sheenan Beowulf
Judy Batalion è una ebrea canadese nata a Montreal, nel Quebec. E’ una storica i cui nonni, polacchi, sono sopravvissuti alla Shoah polacca perchè riusciti a fuggire dalla Polonia ed a rifugiarsi in Canada. E’ diplomata in storia delle scienze ad Harvard ed ha conseguito un dottorato di storia dell’arte all’Università di Londra. Pubblica articoli e saggi sul New York Times, Washington Post ed altre testate.
Batalion vive oggi a New York con suo marito e tre bambine.
- La scheda del libro >>
- Il sito di Judy Batalion >>
- La sua pagina Facebook >>
- Chi volesse approfondire può partire da un interessante video su YouTube in cui Mirella Serri parla in modo molto più dettagliato di quanto abbia potuto fare io non solo dei molti temi presenti nel libro di Batalion accennando anche ad alcune analogie e differenze tra la resistenza portata avanti dalle donne ebree dei ghetti e quella delle partigiane italiane nella nostra Resistenza ma soprattutto approfondendo alcuni particolari aspetti nella condizione delle donne ebree in Polonia che hanno permesso loro comportamenti ed azioni che gli uomini ebrei erano impossibilitati a mettere in atto. Il link lo trovate >> QUI
Ci hai abituato, cara Gabrilu, a testi che aprono squarci nuovi su avvenimenti della storia. Angolazioni diverse per avere una visione non statica, uno stimolo alla ricerca per non ripetere moduli scontati. Un’ impostazione, la tua, molto interessante e stimolante per noi che ti seguiamo. La vicenda di cui parli e che definisci” emotavamente impegnativa” era sconosciuta ai più, chi ha trovato l’ opuscolo conosce l’ yiddish. Se così non fosse stato, forse non sarebbe mai venuta alla luce; un testo accurato, documentato- come sono sempre i testi che recensisci- che ribalta in parte’ l’ idea dell’ ebreo passivo ( idea che anche Hannah Arendt aveva espresso ne La banalità del male).
Di tutta la vicenda mi hanno colpito sicuramento il coraggio e la determinazione di queste ragazze, ma soprattutto il loro atteggiamento etico, non pensare alla propria salvezza ma fare ciò che si doveva, per non essere pecore. Esempi che anche la nostra Resistenza ha conosciuto e di cui sentiamo la mancanza
Grazie, come sempre, cara Gabrilu.