UN GOMITOLO DI CONCAUSE. LETTERE A PIETRO CITATI (1957 – 1969) – CARLO EMILIO GADDA

Un gomitolo di concause

Carlo Emilio GADDA, Un gomitolo di concause. Lettere a Pietro Citati (1957-1969), a cura di Giorgio Pinotti, Piccola Biblioteca Adelphi, pp.239, 2013

Sono molto contenta di poter ospitare su NonSoloProust alcune considerazioni di Dragoval (>> qui la sua libreria su aNobii) su questo  libro che riguarda due personaggi della letteratura italiana da me molto apprezzati.

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di Dragoval

Cui dono lepidum novum libellum

Con feroce ironia, il verso catulliano potrebbe alludere all’intricatissima vicenda editoriale delle opere di Gadda, stressato, ricattato, vessato (a sentir lui) dagli editori Garzanti, Einaudi e Mondadori che si contendono aspramente le sue opere, e di cui molto veniamo a sapere grazie alla corrispondenza del Gaddus con Pietro Citati, collaboratore di Garzanti nonché, come detto in quarta di copertina, mediatore tra Gadda e il mondo.

Il Gadda di queste lettere appare nevrastenico, malato e costretto a regimi iposodici e ipocalorici malgré soi, che peraltro non sembra abbiano effetti rilevanti sulla sua salute.

Gli spostamenti lo terrorizzano e lo stancano; l’umore è tetro, amareggiato dalle polemiche dovute a sue opere risalenti anche a vent’anni prima e oltre (allusioni a noti e a meno noti in Giornale di guerra e di prigionia, Eros e Priapo e La Cognizione del dolore, che lo costringono a ritardatarie e frenetiche ritrattazioni); il lavoro creativo è compromesso dalla necessità di scrivere, riscrivere e correggere scritti promessi a questo e a quell’editore; i ritardi e l’inabilità a districarsi lo relegano in una posizione di colpevole quanto rancoroso disagio.

Da qui, filtrano,tuttavia, anche l’affetto per l’olimpico Citati (che imperturbabile sembra assorbire e rintuzzare con garbo e pazienza le ubbie del suo interlocutore), l’interesse per il suo (di Citati) lavoro critico – nello specifico su Goethe- ed alcuni insospettabili e gustosi retroscena, come le serate romane in compagnia di Moravia-Morante-Pasolini, l’amicizia con Parise, il reverente affetto per don Benedetto (Croce), consulente d’eccezione per la parte napoletana della lingua del Pasticciaccio .

Doviziosissimo l’apparato critico, esegetico e testuale, del curatore Giorgio Pinotti, indispensabile per dipanare il fittissimo gnommero di rimandi, allusioni e sottintesi, intra ed extratestuali, di cui sono inestricabilmente intessute queste lettere.

Citati Contini Gadda (1957)Pietro Citati, Alfredo Schiaffini e Carlo Emilio Gadda nel 1957
N.B: Ho preso la foto dal  sito di Radio3 della Rai, puntata del 10/02/2014 di “Qui comincia…” nel quale la  persona al centro viene indicata, erroneamente, come Gianfranco Contini.(gabrilu)

La scheda del libro >>

UN PASTICCIACCIO BRUTTO

Parlamento italiano

[…] le inopinate catastrofi non sono mai la conseguenza o l’effetto che dir si voglia d’un unico motivo, d’una causa al singolare: ma sono come un vortice, un punto di depressione ciclonica nella coscienza del mondo, verso cui hanno cospirato tutta una molteplicità di causali convergenti. Diceva anche nodo o groviglio, o garbuglio, o gnommero, che alla romana vuol dire gomitolo.

Carlo Emilio Gadda, Quer pasticciaccio brutto de via Merulana

GADDA, CONTINI, PROUST

Carteggio Contini Gadda
Stralcio dall’articolo di Pietro Citati “GADDA & CONTINI Affettuose o tragiche le lettere ritrovate tra due grandi maestri”
Repubblica, 15 gennaio 2010, pagina 46 sezione Cultura.

“Nell’ Introduzione [a La cognizione del dolore n.d.r.] Contini ricordò un episodio, secondo lui simile, raccontato nella Recherche.

A Montjouvain, mademoiselle Vinteuil, figlia di un oscuro musicista, bacia ed abbraccia un’ amica, distesa sopra di lei in un canapè: lì accanto sta un piccolo ritratto fotografico del padre; e l’ amica sputa su di esso, con la complicità di mademoiselle Vinteuil.

Nascosto all’ ombra tra i cespugli, Marcel osserva la scena senz’ essere visto: l’ episodio di Montjouvain è il suo Peccato Originale; contemplando la scena lesbica e sadica, egli mangia il frutto dell’ albero del bene e del male. Guarda; e nel mondo della Recherche, guardare il male è una colpa simile a quella di commetterlo.

Quando lesse l’ Introduzione di Contini, Gadda diventò furibondo di dolore, disperazione, vergogna, angoscia.

Contini non aveva compreso né La Cognizione del dolore né la Recherche” 

IL RESIDUO FECALE DELLA STORIA

The Game
Fotogramma dal film The game, 1997, David Fincher

“Il dirmi che una scarica di mitra è realtà mi va bene, certo; ma io chiedo al romanzo che dietro questi due ettogrammi di piombo ci sia una tensione tragica, una consecuzione operante, un mistero, forse le ragioni o le irragioni del fatto… Il fatto in sé, l’oggetto in sé, non è che il corpo morto della realtà, il residuo fecale della storia…”

(Carlo Emilio Gadda, Un’opinione sul neorealismo, 1950, in   I viaggi e la morte)

AH LE NOTE, LE NOTE!

Carlo Emilio Gadda
Carlo Emilio Gadda

Troppo spesso, quando leggiamo un libro, davanti ad un apparato di note molto ricco ci facciamo prendere dalla pigrizia e, soprattutto se in quel momento stiamo leggendo per piacere e non per dovere, tendiamo a tralasciare le note (alzi la mano chi non ha mai tralasciato una nota). A volte, tralasciamo solo per non far la fatica di tener due segnalibri, per la voglia di non interrompere il ritmo del racconto principale e non andare in fondo al volume per poi tornare indietro. A volte imbrogliamo persino noi stessi dicendoci: “alla prima lettura la va così, ma alla seconda le leggerò tutte, le note, giuro”. Mentendo sapendo di mentire.

Però dobbiamo sapere che, facendo in questo modo corriamo il rischio, per esempio  nel caso di Carlo Emilio Gadda, non solo di tralasciare testi che non solo non sono inferiori al testo principale, ma che spesso sono già di per loro veri gioielli.

Le note di Gadda sono spesso molto tecniche, ma spessissimo sono, di fatto, il luogo in cui egli riversa tutto ciò che ha ritenuto non poter inserire nel testo principale ma che del testo principale potrebbero — non fosse per un senso di equilibrio letterario — a pieno titolo far parte integrante.

Di esempi se ne potrebbero fare a bizzeffe. Ne propongo qui solo uno: la nota n.6 posta in calce al racconto Al parco, in una sera di maggio della celeberrima raccolta L’Adalgisa (disegni milanesi)

In questo racconto, descrivendo (meravigliosamente, se mi è permesso di dirlo) la passeggiata nel parco di donna Eleonora Vigoni (“dama molto ben messa in cocchio, e infronzolata in certi toni di quaresima, tra il nero il viola”) seduta in un “attacco padronale” condotto dal cocchiere Leopoldo (“in realtà Baldovino Garbagnati”) Gadda scrive — i grassetti sono miei:

“Nel piroettante cosmo della Viscosa e delle moto Guzzi, col pericolo di vedersi ribaltato a ogni giro lui e il cocchio e il cocchiere e la padrona, e dama, oh! non più non più! Il Gioacchino a piumeggiare sul suo fastoso galoppo, non più, non più Gérard, non più Gros, a pitturar lui che rampicava nel vento, mostrando il bianco degli occhi, le froge dilatate: da un bel nulla.”

Ora, proprio in questo paragrafo, Gadda inserisce una nota. Quella che riporto qui.

Murat by Gerard
François Gérard
Ritratto di Gioacchino Murat, 1801
Parigi, Chateau de Versailles

Gérard (Francesco Paolo Simone, 1770-1837) ci presenta d’un polputo Murat Re, a piedi e a capo scoperto, ma in procinto di coprirselo, la lussuriante e cresputa e però non pettinata capellatura, l’occhio inutilmente vivace in un volto pieno, puerile e imberbe: e giù giù poi tutto l’armamentario e l’impaccio fastoso delle pellicce, dei codini, dei codoni, dei cordoni, dei cordoncini, delle olivette d’osso, degli alamari, dei guanti, della fusciacca, del colbacco, con un fiaccolone d’oro da una parte, che ciondola, e col piumacchio nivale; un moretto, di cui si intravede metà il naso, gli porge quell’indescrivibile copricapo. Glorifica poi massimamente, il Gérard, in un valido scorcio, le ben tornite cosce, e chiappe, del cavalcatore quarantunenne ed eroe Re deglutitore di bistecche. Lo strascico di uno sciabolone turchesco, poggiato al suolo, ma attaccato al padrone, e’ ti fa l’effetto di una coda metallica o d’una sorta di animalesca appendice: di quella così esibita e magnifica persona.

Murat by Gros
Jean Antoine Gros
Ritratto equestre di Gioacchino Murat, 1812.
Paris, Louvre

Nel dipinto di Gros (Antonio Giovanni, barone di: 1771-1835), la faccia del Re a cavallo è altrettanto piena e puerile: e tra capelli, fiocchi, peli, piumacchi, ne vien fuori, con perianzio pistillone e stami, quasi un maestoso e fantasioso fiore dei tropici, che ha per orchi il volto, con le gote un po’ cascanti, e bamboccio. Il piumacchio centrale del colbacco, di fili candidi e pari, ed eretto e pur docilmente inflesso nell’aere, sgorga da una specie di vagina di altre inimmaginabili penne, a ricciolo, ma tenere e lanose da non dire, tra di struzzo e di paper, e di oca del Madagscar. Il fioccolone del colbacco è doventato addirittura una carrucola, un paranco doppio di nave, che governa due sottofiocchi. Una pelle di tigre s’è arrovesciata sul cavallo, con la coda che la nasce dal collo, e la testa morta a sbatacchiare sul didietro: ed è un meraviglioso leardo, il cavallo, o anzi un roano pomellato, e balzano da tre. Che batte quasi il Cosmè per l’acutezza cornificata dè due orecchi in istato di perpetua erezione, e per l’elettrico disprigionato da’ crini, che li travolge, rabbuffandoli, il vento: e per quel zoccolacchiare inane ed aereo della impennata, come l’avesse veduto il serpente. Bianco degli occhi: vene turgide, al muso: froge soffianti: spuma. Bella, poi, la coscia, e anzi tutta la gamba del re!: una nota unita, un fuso inguainato, inguantato, dentro la tempesta tigrina della chincaglieria. Sullo sfondo, il pennacchio del Vèsevo.

Ora ditemi voi se non sarebbe un vero peccato perdersi questa notarella…

P.S. In quanto al povero Murat, Tolstoj in Guerra e Pace lo tratta pure peggio di quanto faccia Gadda. Ma lasciamo perdere e non mettiamo troppa carne al fuoco.

IL RISOTTO DELL’INGEGNER GADDA

Buon appetito!

Carlo Emilio Gadda era un buongustaio e la sua opera letteraria brulica  di brani che riguardano cibi e bevande e i piaceri della tavola.
In questo articolo fornisce la sua ricetta per ottenere “un buon risotto alla milanese”.
La si legge con gusto, perchè l’Ingegner Gadda riusciva a render letterariamente ricca e saporita anche una normalissima ricetta di cucina…

“L’approntamento di un buon risotto alla milanese domanda  riso di qualità, come il tipo Vialone, dal chicco grosso e relativamente più tozzo del chicco tipo Caterina, che ha forma allungata, quasi di fuso. Un riso non interamente « sbramato », cioè non interamente spogliato del pericarpo, incontra il favore degli intendenti piemontesi e lombardi, dei coltivatori diretti, per la loro privata cucina. Il chicco, a guardarlo bene, si palesa qua e là coperto dai residui sbrani d’una pellicola, il pericarpo, come da una lacera veste color noce o color cuoio, ma esilissima: cucinato a regola, dà luogo a risotti eccellenti, nutrienti, ricchi di quelle vitamine che rendono insigni i frumenti teneri, i semi, e le loro bucce velari. Il risotto alla paesana riesce da detti risi particolarmente squisito, ma anche il risotto alla milanese: un po’ più scuro, è vero, dopo l’aurato battesimo dello zafferano.

Recipiente classico per la cottura del risotto alla milanese è la casseruola rotonda, ma anche ovale, di rame stagnato, con manico di ferro: la vecchia e pesante casseruola di cui da un certo momento in poi non si sono più avute notizie: prezioso arredo della vecchia, della vasta cucina: faceva parte come numero essenziale del « rame » o dei «rami» di cucina, se un vecchio poeta, il Bussano, non ha trascurato di noverarla nei suoi poetici « interni », ove i lucidi rami più d’una volta figurano sull’ammattonato, a captare e a rimandare un raggio del sole che, digerito il pranzo, decade. Rapitoci il vecchio rame, non rimane che aver fede nel sostituto: l’alluminio.

La casseruola, tenuta al fuoco pel manico o per una presa di feltro con la sinistra mano, riceva degli spicchi o dei minimi pezzi di cipolla tenera, e un quarto di ramaiolo di brodo, preferibilmente di manzo: e burro lodigiano di classe.

Burro, quantum prodest, udito il numero de’ commensali. Al primo soffriggere di codesto modico apporto, butirroso-cipollino, per piccoli reiterati versamenti, sarà buttato il riso: a poco a poco, fino a raggiungere un totale di due tre pugni a persona, secondo l’appetito prevedibile degli attavolati: né il poco brodo vorrà dare inizio per sé solo a un processo di bollitura del riso: il mestolo (di legno, ora) ci avrà che fare tuttavia: gira e rigira. I chicchi dovranno pertanto rosolarsi e a momenti indurarsi contro il fondo stagnato, ardente, in codesta fase del rituale, mantenendo ognuno la propria « personalità »: non impastarsi e neppure aggrumarsi.

Burro, quantum sufficit, non più, ve ne prego; non deve far bagna, o intingolo sozzo: deve untare ogni chicco, non annegarlo. Il riso ha da indurarsi, ho detto, sul fondo stagnato. Poi a poco a poco si rigonfia, e cuoce, per l’aggiungervi a mano a mano del brodo, in che vorrete esser cauti, e solerti: aggiungete un po’ per volta del brodo, a principiare da due mezze ramaiolate di quello attinto da una scodella « marginale », che avrete in pronto. In essa sarà stato disciolto lo zafferano in polvere, vivace, incomparabile stimolante del gastrico, venutoci dai pistilli disseccati e poi debitamente macinati del fiore. Per otto persone due cucchiaini da caffè.

Il brodo zafferanato dovrà aver attinto un color giallo mandarino: talché il risotto, a cottura perfetta, venti-ventidue minuti, abbia a risultare giallo-arancio: per gli stomaci timorati basterà un po’ meno, due cucchiaini rasi, e non colmi: e ne verrà fuori un giallo chiaro canarino. Quel che più importa è adibire al rito un animo timorato degli dei è reverente del reverendo Esculapio o per dir meglio Asclepio, e immettere nel sacro « risotto alla milanese » ingredienti di prima (qualità): il suddetto Vialone con la suddetta veste lacera, il suddetto Lodi (Laus Pompeia), le suddette cipolline; per il brodo, un lesso di manzo con carote-sedani, venuti tutti e tre dalla pianura padana, non un toro pensionato, di animo e di corna balcaniche: per lo zafferano consiglio Carlo Erba Milano in boccette sigillate: si tratterà di dieci dodici, al massimo quindici, lire a persona: mezza sigaretta. Non ingannare gli dei, non obliare Asclepio, non tradire i familiari, né gli ospiti che Giove Xenio protegge, per contendere alla Carlo Erba il suo ragionevole guadagno. No! Per il burro, in mancanza di Lodi potranno sovvenire Melegnano, Casalbuttano, Soresina, Melzo, Casalpusterlengo, tutta la bassa milanese al disotto della zona delle risorgive, dal Ticino all’Adda e insino a Crema e Cremona. Alla margarina dico no! E al burro che ha il sapore delle saponette: no!

Tra le aggiunte pensabili, anzi consigliate o richieste dagli iperintendenti e ipertecnici, figurano le midolle di osso (di bue) previamente accantonate e delicatamente serbate a tanto impiego in altra marginale scodella. Si sogliono deporre sul riso dopo metà cottura all’incirca: una almeno per ogni commensale: e verranno rimestate e travolte dal mestolo (di legno, ora) con cui si adempia all’ultimo ufficio risottiero. Le midolle conferiscono al risotto, non più che il misuratissimo burro, una sobria untuosità: e assecondano, pare, la funzione ematopoietica delle nostre proprie midolle. Due o più cucchiai di vin rosso e corposo (Piemonte) non discendono da prescrizione obbligativa, ma, chi gli piace, conferiranno alla vivanda quel gusto aromatico che ne accelera e ne favorisce la digestione.

Il risotto alla milanese non deve essere scotto, ohibò, no! solo un po’ più che al dente sul piatto: il chicco intriso ed enfiato de’ suddetti succhi, ma chicco individuo, non appiccicato ai compagni, non ammollato in una melma, in una bagna che riuscirebbe schifenza. Del parmigiano grattuggiato è appena ammesso, dai buoni risottai; è una banalizzazione della sobrietà e dell’eleganza milanesi. Alle prime acquate di settembre, funghi freschi nella casseruola; o, dopo S. Martino, scaglie asciutte di tartufo dallo speciale arnese affetto-trifole potranno decedere sul piatto, cioè sul risotto servito, a opera di premuroso tavolante, debitamente remunerato a cose fatte, a festa consunta. Né la soluzione funghi, né la soluzione tartufo, arrivano a pervertire il profondo, il vitale, nobile significato del risotto alla milanese”.

Carlo Emilio Gadda, articolo tratto dal n.10 della rivista aziendale dell’ENI Il gatto selvatico (agosto 1955). Negli anni Cinquanta la rivista era diretta da Attilio Bertolucci.

Dall’Archivio storico dell’ ENI >>

ADDII

I promessi sposi
Francesco Gonin (1808-1889)
Illustrazione per l’Addio ai monti (capitolo 8) dell’edizione del 1840 de I Promessi Sposi di Alessandro Manzoni


Carlo Emilio Gadda
amava immensamente I Promessi Sposi di Manzoni.

Nel 1927 gli aveva dedicato un bellissimo saggio intitolato Apologia manzoniana in cui scriveva, tra l’altro:

“Volle poi che il suo dire fosse quello che veramente ognun dice, ogni nato della sua molteplice terra, e non la roca trombazza di un idioma impossibile, che nessuno parla, (sarebbe il male minore), che nessuno pensa, nè rivolgendosi a sé, né alla sua ragazza, né a Dio […]. Egli volle parlare da uomo agli uomini, come, a lor modo, parlarono tutti quelli che ebbero qualche cosa di non cretino da raccontare. Ebbe compagno nell’impresa della spazzatura un altro conte suo contemporaneo, disgraziatissimo e macilento della persona. La parola di quest’ultimo ha una nitezza lunare: “Dolce e chiara è la notte”.

In La malattia dell’infinito, Pietro Citati delinea un ritratto molto umano e toccante di Carlo Emilio Gadda, da lui conosciuto alla fine del 1955. Citati aveva allora ventisei anni ed era ancora solo un giovane e sconosciuto aspirante critico letterario. La loro frequentazione durò fino alla morte di Gadda.

Tra tante altre cose racconta, Citati, che l’ultimo desiderio di Gadda moribondo fu che qualcuno gli leggesse ad alta voce uno dei libri da lui più amati: I Promessi Sposi.

“Grazie ai Promessi Sposi la morte fu più lieta. Aveva sempre provato un “sentimento di venerazione privata” verso la persona di Manzoni. Da ragazzo, tra i nove e i sedici anni, aveva letto dieci volte I Promessi Sposi, abbandonandosi alla lettura, mi scrisse “con la semplice profonda gioia di chi si disseta in montagna ad una fonte di acqua chiara”.
Ora, giunto alla fine, voleva ripetere l’esperienza di adolescente, e chiese a Ludovica Ripa di Meana, a Giancarlo Roscioni e a me di leggergli I Promessi Sposi. Ci alternammo al capezzale. Mi ricordo che qualche giorno prima (o il giorno prima) della morte, gli lessi il meraviglioso ottavo capitolo […]. Disteso sul letto, con la testa rialzata dai cuscini, Gadda rideva sussultando nel suo grande corpo moribondo — il riso, che tante volte lo aveva salvato.
Allora pensai che la letteratura è davvero una cosa bellissima, se conserva la vita come la vita non riesce a conservarsi, e fa ridere di gioia in punto di morte”

(Pietro Citati, Carlo Emilio Gadda, in Ricordo di amici, contenuto in La malattia dell’infinito, pagg. 484-485)

L’INGEGNERE IN BLU – ALBERTO ARBASINO

Alberto Arbasino, L’Ingegnere in blu, p. 185, Adelphi, 2008.

Mi sono fiondata a comperare questo librino appena è arrivato in libreria: Arbasino e Gadda, come avrei potuto resistere a questa accoppiata? Due autori che per motivi diversi (ma che pure hanno molto in comune) sono tra i miei preferiti. Non è vero che non leggo mai italiani contemporanei: loro due li leggo, eccome, se li leggo!

Dunque l’autore de L’anonimo lombardo, di Fratelli d’Italia e di tanti altri libri che negli anni mi hanno accompagnata ha scritto sull’Ingegnere in blu. Già. Perchè il Gaddus era sempre

“Immancabilmente in abito completo blu ben stirato, camicia bianca e cravatte deplorevoli acquistate (forse da lui solo) in un sonnolento magazzino giù per via della Mercede, e un fazzoletto candido ad angolo retto nel taschino. Scarpe ovviamente nere e lucidissime” (pagg. 76-77)

L’ammirazione per Gadda è esplicitata continuamente. Come quando Arbasino parla della “derisoria violenza della sua scrittura [che] esplodeva esasperata ed esplicita” (p.14) oppure della “vertiginosa complessità dei macchinosi interessi culturali dell’Ingegnere” (p.15). Arbasino lo chiama affettuosamente “ingegner manqué e trionfale stilista” (p.18) e dichiara senza mezzi termini che Gadda è “il nostro scrittore più straordinario” (p.27)

Non tutto i capitoli del libro sono inediti, alcune parti erano state già pubblicate. Ma  Genius Loci, La formazione dell’Ingegnere, L’Ingegnere e i poeti, I nipotini dell’Ingegnere mi hanno  deliziata.

Quando ho visto Arbasino il 16 febbraio   intervistato a Che tempo che fa da Fabio Fazio sono rimasta un po’ perplessa. Sembrava impacciato, almeno all’inizio privo del ritmo giusto per una intervista televisiva, insomma l’opposto dell’Arbasino scrittore brillante, straripante e incontenibile. Solo all’inizio però. Poi mi sono molto divertita quando ha tirato fuori la sua copia personale dell’ adelphino azzurro e praticamente ha condotto lui il gioco raccontando tutta una serie di ricordi personali e gustosissimi aneddoti su Gadda.

Ho parlato di “librino”. Solo per il numero delle pagine, però. Chi conosce la scrittura di Arbasino sa perfettamente che è brillantissima ma molto densa, ogni parola un rimando ad altri testi, altri autori. E’ una scrittura che obbliga la mente ad una energica ma molto sana ginnastica intellettuale. La lettura di questo libro è piacevole ed interessante non solo per ciò che vi si dice di Gadda, della sua opera e del contesto culturale in cui si trovò a vivere e a scrivere. Può risultar piacevole, io credo, anche per coloro i quali il Gaddus lo frequentano poco. E’ un libro che mi sono gustata in ogni sua parte, pagina dopo pagina e nel consigliarne la lettura voglio rinviare, per una recensione a tutto campo a quella — eccellente — che ho trovato sul sito della Biblioteca di Garlasco.

Io mi limito a proporre un piccolo ma gustosissimo “assaggio” de L’Ingegnere in blu che spero serva a stimolare l’appetito e la voglia di leggere il libro per intero.

“La vera grandezza dell’Ingegnere consiste nell’aver risolto i suoi possibili “Buddenbrook” milanesi rifiutando ogni naturalismo crepuscolare, ogni elegia autunnale, ogni “Come le foglie”, ricorrendo invece con gusto esplosivo e disperato all’uso parossistico della madornale figura retorica dell’Enumerazione. (Altro che variantistica degli ossimori, o metafore di microcosmi esistenziali)… Smaccatamente distrugge tutto ciò che nomina nei ripostigli-sacrari: « seggiole, cuscini, tavolini, lettini: la chincaglieria del salotto e il bazàr del salone, e la pelle d’orso bianco con il muso disteso e gli unghioni rotondi (che solevano gracchiare sul lucido appena pestarli), e i comò e i canapè e il cavallo a dóndolo del Luciano, e il busto in gesso del bisnonno Cavenaghi eternamente pericolante sul suo colonnino a torciglione: e bomboniere, Lari, leonesse, orologi a pendolo, vasi di ciliege sotto spirito, orinali pieni di castagne secche, il tombolo di Cantù della nonna Bertagnoni, rotoli di tappeti e batterie di pantofole snidate da sotto i letti, e tutti insomma gli ingredienti e gli aggeggi della prudenza e della demenza domestica…» […]
… Così Carlo Emilio Gadda, milanese, ribalta e “scaravolta” un intero ingombro (un patrimonio!) di valori domestici stratificati; o addirittura brucia su un rogo fulmineo e cannibalesco un catalogo totale di emblemi deficienti, sotto miserabili sembianze antropomorfiche, in due grandiose e rabbiose metafore (la lucidatura del parquet in casa Cavenaghi, l’incendio di via Keplero) impressionanti come i più maestosi elenchi di Bouvard-Don Chisciotte e Pécuchet-Don Ferrante… “e cicìc e cicìac…sofèghi!”
(pp.23-25)

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