A posthumous portrait of Dickens and his characters; Dickens’s Dream, 1875 (oil on canvas), Robert William Buss (1804-75) Charles Dickens Museum, London, UK
“La sfida è questa: far sì che una biografia diventi uno strumento di vera conoscenza. Trovare in un giorno, in un attimo, in un’immagine o in un gesto fuggente la vera fonte e origine della creatività dell’autore, e scorgere in simili dettagli i segni del passaggio di un’epoca.” (Peter Ackroyd)
Tra maggio e giugno e sempre in questo clima da Covid il blog è rimasto praticamente fermo (un solo post a maggio) e non perchè non abbia letto, anzi. Ho visto anche molti film, serie TV, ascoltato moltissima musica. Ho fatto l’abbonamento annuale a medici.TV ed al fantastico Digital Concert Hall dei Berliner Philarmoniker, ai loro meravigliosi concerti “live” del sabato trasmessi in streaming in cui i musicisti suonano ancora nell’atmosfera surreale della loro Concert Hall priva di pubblico. L’abbonamento dà anche diritto di accesso allo sterminato archivio storico dei Berliner, e già questo da solo vale davvero il prezzo richiesto. Effetti collaterali positivi, per me, del cosiddetto lockdown durante il quale no, non mi sono mai annoiata.
Ma limitandoci alle letture, oggi accenno una veloce carrellata su quello che ho letto ultimamente mentre NonSoloProust sonnecchiava pigramente. Come sempre, le mie scelte hanno seguito percorsi molto personali in parte ancorati ad una specifica aerea tematica oppure ad un singolo autore ma scelte anche determinate a volte (perchè no?) dal capriccio e dall’estro del momento. Continua a leggere “LETTURE. DICKENS, SOLŽENICYN, THIRKELL, REMARQUE, SINGER”
Edward Carey, Lombra (tit. orig. le Lombra. Iremonger), traduz. Sergio Claudio Perroni, illustrazioni dell’autore, pp. 485, Bompiani, 2016
“Lasciate che vi descriva Londra in tre parole, giusto per farvela conoscere,” ha detto con una vocetta stridula quello con la faccia deturpata, Georgie Clark: “Enorme. Pesante. Nera.” “Fantastica,” ho detto. °°°
E’ stata Lombra” hanno risposto. E’ stata Lombra a farlo? “Intendete dire Londra” ho chiesto.
“No, no, noi Iremonger la chiamiamo Lombra. Perchè col nostro influsso la faremo passare da Londra a Lombra. Se la vedrà con gli Iremonger!”
Un’oscurità perpetua invade Londra. La strana famiglia degli Iremonger si è installata nella capitale. Dal momento in cui sono arrivati, la tredicenne Eleanor e i londinesi tutti osservano strani fenomeni: sparizioni, oggetti che compaiono, altri che si trasformano. E questa oscurità… questo buio che avvolge tutto…Strane cose cominciano ad accadere in tutta la città: persone care che spariscono nel nulla, oggetti bizzarri mai visti prima compaiono all’improvviso e un’inquietante oscurità sembra voler ingoiare la luce del giorno. La storia della dinastia Iremonger, edificata sui rifiuti, sta per concludersi. Continua a leggere “TRILOGIA IREMONGER #3- LOMBRA – EDWARD CAREY”
George Elgar Hicks An Infant Orphan Election at the London Tavern (1865)
“il sistema della pubblicazione a puntate […] non si può pretendere che molti lettori, costretti a seguire un racconto a puntate per diciannove lunghi mesi, ne scorgano le relazioni sottili e il piano completo che l’autore ha sempre davanti agli occhi come un tessitore il telaio. Tuttavia, che io giudichi i vantaggi di questo sistema superiori agli svantaggi non vi è dubbio, dal momento che l’ho rimesso in uso con Pickwick, dopo che da tempo era caduto in disuso, e da allora l’ho sempre seguito”
Charles Dickens, Poscritto in luogo della prefazione a Il nostro comune amico (2 settembre 1865)
Dickens, come si sa, pubblicava i suoi romanzi a puntate. Era uno scrittore “da feuilleton“.
Il termine feuilleton è sinonimo di Romanzo d’appendice, ovvero un romanzo che usciva su un quotidiano o una rivista, a episodi pubblicati in genere la domenica. Feuilleton è un diminutivo di feuillet (foglio, pagina di un libro). Il feuilleton era rivolto ad un pubblico di massa ed aveva uno scopo prevalentemente commerciale (sostenere la vendita del giornale per più settimane). All’inizio il termine feuilleton indicava in Francia la parte bassa della pagina di un giornale.
Per questi motivi, il termine “romanzo d’appendice” viene spessissimo utilizzato in termini spregiativi, perchè considerato sinonimo di scarsa qualità, di robetta adatta ad un pubblico di gusti molto facili e di basso livello intellettuale.
Ovviamente, molti romanzi d’appendice avevano queste caratteristiche e sono giustamente sprofondati nell’oblio.
A mio modo di vedere però anche nell’ambito dei romanzi a puntate (d’ora in poi li chiamerò semplicemente così) non esistono automatismi. Troppo spesso ci si dimentica che moltissimi romanzi che oggi sono considerati capolavori della letteratura o comunque romanzi di ottima qualità furono pubblicati a puntate.
La lista sarebbe molto lunga, ricordo solo qualche nome e qualche titolo.
A memoria, alla rinfusa e senza approfondire troppo:
Eugène Sue (I misteri di Parigi), Dumas padre (Tre moschettieri), parecchi testi di Balzac, Collodi (Pinocchio), Flaubert (Madame Bovary), Dostoevskij (I Karamazov e Delitto e Castigo), Tolstoj (Guerra e Pace), molti romanzi di Thomas Hardy, Wilkie Collins; il grande scrittore tedesco Theodor Fontane pubblicò a puntate, tra gli altri, il bellissimo Il signore di Stechlin considerato, assieme ad Effi Briest, tra le sue opere migliori ed uno dei capolavori della letteratura tedesca…
Alcuni autori pubblicarono a puntate per scelta obbligata (oggi diremmo: “per motivazioni alimentari”, e cioè per guadagnarsi letteralmente di che vivere), altri, come Dickens, (anche) per scelta consapevole.
Ancora una volta, ed anche in ambito letterario, generalizzare è sempre rischioso.
Possono esserci eccellenti opere letterarie pubblicate con queste forme e con i vincoli che questa modalità impone (l'”happy end” è forse uno dei più pesanti) e ci possono essere tonnellate di robaccia pubblicate in un unico volume, con rilegatura e carta raffinatissima i cui contenuti valgono un decimo del loro contenitore…
Se però all’inizio del post ho riportato proprio quella frase di Dickens è perchè coglie molto bene uno dei più grossi problemi che un autore di romanzi a puntate deve fronteggiare, problema del quale Dickens era perfettamente consapevole e che, come noi sappiamo, sapeva gestire magnificamente.
Noi oggi abbiamo la fortuna di poter leggere i suoi libri (e Guerra e Pace, e tutti quelli che ho citato e tutti quelli che mancano nel mio elenco) con il nostro ritmo di lettura e non con quello imposto ai primi lettori di quelle opere.
Questo privilegio implica non solo una modalità di fruizione e di comprensione dell’opera completamente diversa da quella dei primi lettori, ma anche il dovere da parte nostra di tener presenti, durante la lettura, il tipo di vincoli cui l’autore, durante la stesura della sua opera, era — volontariamente o meno — sottoposto.
Nel 1844 Charles Dickens arriva in Italia con tutta la famiglia per uno di quei viaggi che, secondo la tradizione sette-ottocentesca del “grand tour” duravano parecchi mesi.
Dickens ha trentadue anni ed è uno scrittore già molto popolare: al suo attivo può contare Oliver Twist, Il Circolo Pickwick, Nicholas Nickleby, La bottega dell’antiquario, Barnaby Roudge, le tanto discusse note del viaggio compiuto in America (le American Notes).
Sta scrivendo e pubblicando a puntate il Martin Chuzzlewit che però non sta ottenendo il successo di pubblico che si aspettava e che risulta notevolmente inferiore a quello ottenuto dalle sue precedenti opere.
Giovane e famoso, Dickens ha anche raggiunto una condizione economica più che agiata ma è continuamente assillato da richieste di denaro da parte del padre, si trova in periodo di impasse creativo, è stressato.
Spera, con questo viaggio, di recuperare tranquillità ed ispirazione.
Ha un’idea molto chiara su come impostare le sue impressioni del viaggio. Scarta esplicitamente l’idea di dilungarsi sulle bellezze ed i tesori artistici dell’Italia: “Io […] sebbene ardente ammiratore della scultura e della pittura, non mi diffonderò a scrivere di quadri e di statue celebri”.
Vuole privilegiare i luoghi dell’immaginario popolare, vuole che le sue note siano una sorta di “ombre sull’acqua”.
Scrive infatti: “Questo libro è una serie di vaghe immagini — mere ombre sull’acqua — di posti per i quali l’immaginazione della maggior parte delle persone è attratta in maggiore o minor misura, nei quali la mia ha dimorato per anni e che presentano qualche interesse per tutti”.
Le prime note ci mostrano una carrozza inglese da viaggio che, a Parigi, esce da Rue de Rivoli diretta a Genova. Dickens non è solo: con lui c’è tutta la numerosa famiglia che si porta appresso anche tre cameriere. E’ lo scrittore stesso che ci fornisce la composizione di quella che lui chiama la “Lista della Carovana”:
1. L’inimitabile Boz [cioè lui stesso N.d.R.] 2. L’altra metà dello stesso.
3. La sorella di costei.
4. Quattro rampolli, dai due anni e mezzo ai sette e mezzo (e questi sono i “porcelli”).
5. Tre cameriere
La prima città italiana in cui arriva la Carovana è Genova, che colpisce Dickens per “l’inesplicabile sudiciume” “lo sporco scoraggiante”, i vicoli strettissimi, il disordine dappertutto, le puzze (eppure Genova è considerata la città più pulita d’Italia!).
Affitta poi una casa ad Abaro in cui soggiorna parecchi mesi ed anche qui le note parlano di rovina e trascuratezza.
In viaggio per Bologna passa per la “scura, decadente, vecchia Piacenza“, piena di erbacce sporcizia e pigrizia e da Parma.
A Roma Dickens arriva nel pieno del Carnevale, che descrive minuziosamente così come descrive minuziosamente la visita dei Musei Vaticani, il Colosseo (“una rovina, Dio sia ringraziato!”) la messa del Papa in San Pietro e… la decapitazione di un malvivente operata dalle autorità vaticane alla quale va ad assistere e dove nota un pubblico composto da “Romani dall’aspetto truce, del più basso ceto, in mantello blu, mantello ruggine o stracci senza mantello, andavano e venivano o parlavano tra loro. Donne e bambini starnazzavano ai margini della scarsa folla. Un largo spiazzo pieno di pozzanghere era stato lasciato completamente vuoto, come un punto di calvizie sulla testa di un uomo. Un mercante di sigari, con un recipiente di coccio pieno di cenere di carbonella in mano, andava su e giù gridando le sue mercanzie. Un pasticciere ambulante divideva la sua attenzione tra il patibolo e i suoi avventori. Dei ragazzi tentavano di arrampicarsi sui muri e ricadevano giù. Preti e monaci si facevano largo con i gomiti tra la folla e si alzavano sulla punta dei piedi, per dare un’occhiata alla lama; poi se ne andavano.”
Napoli delude profondamente Dickens, che in una lettera all’amico e biografo Foster scrive: “La vita per le strade non è pittoresca e insolita neanche la metà di quanto i nostri sapientoni giramondo amino farci credere […] Che cosa non darei perché solo tu potessi vedere i lazzaroni come sono in realtà: meri animali, squallidi, abietti, miserabili, per l’ingrasso dei pidocchi: goffi, viscidi, brutti, cenciosi, avanzi di spaventapasseri” .
La Napoli descritta da Dickens è tutta miseria, sporcizia, mendicità; pullula di storpi, cani randagi, la maggior parte delle porte e delle finestre dei palazzi sono fradice e cadenti, le vie miserabili e attraversate da luridi rigagnoli…
Una Napoli di mendicanti e borsaioli, in cui il popolino si droga e si rovina giocando al Lotto.
Prima di tornare in Inghilterra Dickens visita anche Firenze e dopo aver reso un rapido tributo alla bellezza di palazzi e di alcune prospettive, non trova di meglio da fare che raccontarci, di Firenze, l’omicidio di una ragazzina uccisa da un ottantenne.
Non è mia intenzione ripetere e descrivere qui i particolari di tutto l’itinerario e le tappe del tour dickensiano.
Mi interessa solo dire che Impressioni italiane, questa raccolta di “ombre sull’acqua” è un libro che sono molto contenta di aver letto ma che mi ha lasciata molto perplessa per la pervicace monocularità della visione che Dickens fornisce delle città italiane che vede solo di passaggio o nelle quali soggiorna anche per periodi piuttosto lunghi.
Dickens infatti vede dell’Italia solo ed esclusivamente gli aspetti negativi e ripugnanti.
E per quanto riguarda lo stile di scrittura? Non all’altezza del Dickens dei romanzi.
Intendiamoci: la “mano” del Maestro si coglie sempre, ed in particolare nelle pagine in cui descrive la scena della decapitazione o in cui si lascia andare al sarcasmo ed all’ironia (efficacissima la descrizione della Messa celebrata dal Papa in San Pietro e dell’entourage vaticano e della gente comune che assiste alla funzione).
Ma la sua penna sembra perdere ogni capacità descrittiva quando vorrebbe (raramente, per la verità) parlare di persone o cose che lo colpiscono positivamente.
Dickens sembra, in queste note di viaggio, essere assolutamente incapace di descrivere la bellezza.
Eppure, in una delle ultime note scritte alla fine, quando riparte per tornare in Inghilterra e sta già percorrendo le Alpi Svizzere Dickens scrive:
“Separiamoci dall’Italia, con tutte le sue miserie e i suoi errori, affettuosamente: nella nostra ammirazione delle bellezze naturali e artificiali di cui è piena fino a traboccarne e nella nostra tenerezza verso un popolo per la sua indole ben disposto, e paziente e mite. Anni d’incuria, d’oppressione e di malgoverno hanno esercitato la loro opera per cambiare la natura e piegarne lo spirito; meschine gelosie – fomentate da principi insignificanti per i quali l’unione significava la scomparsa – e la divisione delle forze, sono state il cancro alla radice della loro nazionalità e hanno imbarbarito il loro linguaggio; ma il buono che è sempre stato in loro è ancora in loro, e un grande popolo può, un giorno, sorgere da queste ceneri […] L’Italia ci aiuta ad imprimerci in mente la lezione che la ruota del Tempo gira per uno scopo, e che il mondo è, nei suoi caratteri essenziali, migliore, più gentile, più tollerante e più pieno di speranza a mano a mano che gira”
Charles DICKENS, Impressioni italiane (Tit. orig. Pictures from Italy 1844-45), traduz., introduzione e note Carlo Maria Messina, p.353, ed. Robin, Collana La biblioteca del tempo, 2005, ISBN: 8873711782 ISBN-13: 9788873711780 >>
Charles DICKENS, Martin Chuzzlewit, (tit. orig. The Life and Adventures of Martin Chuzzlewit), traduz. Bruno Oddera, Nota introduttiva di Piero Bertolucci, p.1289, Adelphi, Collana Gli Adelphi n.317, 2007, ISBN 9788845922145
Da quando, pochi anni fa, ho cominciato a leggere Dickens nelle edizioni italiane (finalmente!) integrali, i suoi libri hanno conquistato un posto privilegiato negli scaffali della mia libreria e la lettura di opere di cui sinora sconoscevo persino l’esistenza costituisce una ricchissima fonte di piacere e gran divertimento.
Questo Martin Chuzzlewit, pubblicato — credo per la prima volta in Italia — da Adelphi in un tomone di circa milleduecento pagine, è decisamente uno dei suoi libri meno conosciuti dai lettori italiani.
Ma chi decide di prendere in mano questo volumone senza lasciarsi spaventare dalla sua lunghezza e comincia a leggerlo comodamente seduto in poltrona o su un divano (non permettendo la sua mole di affrontarlo standosene sdraiati come ad esempio in genere a me piace fare con i romanzi) ha davanti a se ore ed ore di divertimento assicurato e ringrazierà ancora una volta le Divinità della Letteratura per averci regalato uno scrittore come Charles Dickens.
Martin Chuzzlewit, come quasi tutte le opere di Dickens, uscì per la prima volta a puntate. Per l’esattezza, le puntate furono in tutto 19 con cadenza mensile negli anni 1843 e 1844; ciascuna di esse costava uno scellino ed era composta di 32 pagine di testo e illustrazioni di Phiz.
Iniziare questo Dickens è come imbarcarsi per una lunga e bella navigazione. Ci si installa nelle sue mille e passa pagine, si attraversa un oceano, si salta da un continente ad un altro, si passa alternativamente dall’Inghilterra all’America, ci si inoltra in una strepitosa galleria di personaggi dipinti in maniera così viva che molti di loro ci appaiono spesso più reali di persone reali.
Nella famiglia Chuzzlewit, ci viene spiegato nel primo capitolo, sono sempre stati presenti due tratti distintivi: i suoi membri sono egoisti ed ostinati.
Dickens aveva intenzione di scrivere sul frontespizio dell’edizione: “Scena: la vostra casa. Personaggi: voi stessi.” ma se ne astenne perché riteneva che sarebbe stata una cosa “troppo vera” perché i lettori la sopportassero.
Nel romanzo non si può individuare un unico protagonista ma in compenso i Martin Chuzzlewit del titolo sono ben due… e tutti e due egoisti e ostinati. Il vocabolo che entrambi pronunciano più spesso (almeno fino a tre quarti del libro) è “Io”.
Abbiamo infatti il vecchio Martin Chuzzlewit, il nonno, il quale ricco, ostinato ed egoista ama molto suo nipote Martin Chuzzlewit ma lo caccia di casa perchè il ragazzo — anche lui ostinato ed egoista —si è innamorato di Mary, l’ orfana diciassettenne che si prende cura del vecchio.
Ci sono poi Anthony Chuzzlewit e suo figlio Jonas, che per mettere le mani sull’eredità non arretra davanti a nessuna nefandezza; il buono, onesto Tom Pinch “spirito semplice e cuor puro” e la sua dolce e graziosa sorellina Ruth, Mark Tapley, l’uomo più felice della terra che cerca sempre di cacciarsi in situazioni orribili per mettere alla prova la sua capacità di rimanere allegro sempre e nonostante tutto; John Westlock, il leale amico di Tom…
Sarebbe davvero troppo lungo fare l’elenco dettagliato di tutti i personaggi del romanzo. Dico solo che più si va avanti nella lettura più ci si inoltra in un mondo letteralmente brulicante di caratteri spettrali, grotteschi, rappresentati con una forza descrittiva tale che a volte sembrano balzare letteralmente fuori dalle pagine del libro.
I personaggi più formidabili del romanzo però sono decisamente, a mio parere, Mr. Pecksniff e Mrs. Gamp.
Il mellifluo, viscido Mr. Pecksniff è una superba figura di ipocrita e di melensa canaglia.
Mr. Pecksniff è corredato di due figlie: Cherry dal mento lungo e Mercy dal naso rosso, antipatiche e detestabili quanto il padre.
I Chuzzlewit riuniti attorno Mr. Pecksniff e le sue figlie Mercy e Charity
Mrs. Gamp invece è una donna che di mestiere assiste gli anziani malati (oggi la chiameremmo badante), fa la levatrice, l’infermiera e si occupa di sistemare i cadaveri per metterli nella bara ma che — sporca, avida, pigra, semi alcoolizzata e brutale — è odiosamente indifferente sia ai misteri della nascita che a quelli della morte.
A casa di Mrs. Gamp
Due personaggi, Mr. Pecksniff e Mrs. Gamp, che da soli valgono tutto il romanzo. Straordinarie creazioni del genio di Dickens, per i quali egli “inventa” un linguaggio cui il traduttore Bruno Oddera è riuscito a restituire, in italiano, tutta l’eccentricità e la potenza esilarante.
Le scene del romanzo in cui compaiono Mr. Pecksniff e Mrs. Gamp sono pagine di grande vaudeville nel senso più alto del termine e il comportamento di questi personaggi, i loro discorsi suscitano un formidabile miscuglio di ilarità e di indignazione.
I luoghi del romanzo sono la Londra dickensiana che ormai ci è familiare ma anche un villaggio a una giornata di diligenza dalla capitale e… gli Stati Uniti d’America. Si, perchè il giovane Martin — diseredato dal nonno — e Mark Tapley ad un certo punto vi si recano per cercare fortuna.
E’ l’occasione questa, per Dickens, di descrivere il “Nuovo Mondo” ed i suoi abitanti.
Dickens stesso era stato in America parecchi mesi appena l’anno prima e ne aveva ricavato una pessima impressione. Attacca quindi l’America con una ironia crudele, con una satira feroce della quale poi si scusa in un postscriptum alla fine del romanzo.
In questo turbinio di personaggi e di luoghi tutto va a gran velocità, la tensione (e l’attenzione del lettore) non cede mai, i colpi di scena si moltiplicano, la sapientissima scansione dei capitoli ci lascia sempre con la voglia irrefrenabile di voltar pagina per vedere ciò che succede in quella seguente, coppie di innamorati si formano ed altre coppie rompono il loro legame, ci sono assassini ed arresti…
Insomma e per farla breve: come dicevo all’inizio, il divertimento è assicurato, perchè non dobbiamo dimenticare lo stile di Dickens e la disinvoltura con cui maneggia umorismo (e qui di humor ne troviamo a palate), lirismo, poesia, abilità nella costruzione dei dialoghi.
Tom Pinch lascia la casa di Mr. Pecksniff
Al suo amico e biografo John Forster Dickens aveva scritto: « Voi sapete con una certezza pari alla mia che io ritengo “Martin Chuzzlewit” la mia opera senza confronti migliore, sotto innumerevoli aspetti. Che io sono cosciente delle mie forze come mai prima d’ora. Che io ho la certezza che, se la salute mi assisterà, conserverò un posto nel cuore dei miei lettori anche se cinquanta scrittori iniziassero a scrivere domani stesso. »
Chesterton, da parte sua, dette di Martin Chuzzlewit questo giudizio: « In tutta la sua vita Dickens non è mai stato folgorante come in queste pagine »
Se penso a tutti i romanzi di Dickens che ho letto sin’ora (e cominciano ad essere quasi tutti, me ne mancano solo tre) mi accorgo che è davvero difficile per me stabilire una graduatoria, e tutto sommato non mi interessa nemmeno molto, provarci. Ciascuno di essi presenta infatti delle specificità che me lo fanno amare.
Dickens è sempre immenso, le sue gallerie di personaggi sempre strepitose, quando prendi in mano un suo libro ti ripeti per l’ennesima volta che saper scrivere non è roba da qualunque pennivendolo o pennivendola di locali ed attuali premi letterari.
Dickens sta sempre lì a ricordarti che si può anche scrivere a cottimo e a puntate in feuilleton, ma che per fare questo e rimanere un long seller non solo nei decenni ma nei secoli occorre non solo mestiere, professionalità, abilità di manovalanza ma anche… genio.
Il romanzo contiene anche, come ho accennato, una feroce satira contro gli Stati Uniti, perchè il viaggio che Dickens vi aveva fatto mesi prima lo aveva deluso profondamente.
Nel Martin Chuzzlewit gli Americani sono visti come truffatori, ipocriti, venali e superbi. La stampa è vista come bugiarda e piena di “errori”. La Repubblica è descritta come “mutilata e zoppa, piena di piaghe e ulcere, falsa illusione per ciò che riguarda gli occhi e quasi senza speranza per il senso, al punto che i suoi migliori “amici” girano la testa da questa ripugnante creatura con disgusto”.
L’istituzione della schiavitù ripugna profondamente a Dickens, che l’attacca in parecchie pagine e scrive tra l’altro: “così le stelle ammiccano alle sanguinose strisce e la Libertà si cala il suo berretto sugli occhi.”
Anni dopo però, nel 1868, Dickens scrisse un Postscriptum in cui specifica che in occasione del pranzo offerto in suo onore il giorno sabato 18 aprile del 1868, avvenuto a New York e organizzato da duecento rappresentanti di tale Stato egli ritirò le accuse mosse agli Americani.
Egli sostiene poi di aver notato dei grandi cambiamenti morali, materiali, urbani, di sensibilità nei confronti delle città antiche, di distribuzione delle terre e della stampa, si scusa per eventuali gravi inesattezze che ha riscontrato; inoltre, afferma di non stare scrivendo un altro libro polemico verso gli Americani, come alcuni sostenevano, e garantisce di stare riferendo in Inghilterra questi suoi pensieri.
Importante la precisazione che troviamo verso la fine del Postscriptum. Dickens scrive infatti:
“Questa testimonianza, finchè vivrò, e finchè i miei discendenti avranno diritti legali sulle mie opere, dovrà essere ristampata come appendice ai miei due libri nei quali ho parlato dell’America. E in questo senso darò disposizioni e le farò rispettare, non soltanto per affetto e per gratitudine, ma in quanto lo ritengo doveroso per un ovvio senso della giustizia e dell’onore”.
Nell’edizione italiana Adelphi sono presenti 38 illustrazioni dell’edizione originale di “Chapman e Hall”, di Londra, realizzate da Phiz, uno dei più importanti disegnatori delle opere di Dickens.
Phiz (Hablot K. Browne) Il frontespizio di Martin Chuzzlewit di Charles Dickens 1844
Queste immagini che ho inserito nel post le ho prese dal ricchissimo sito www.victorianweb.org
Charles DICKENS, Barnaby Rudge, Traduz. Fernanda Pivano, Einaudi Tascabili, p. 798, EAN13 9788806166748
Barnaby Rudge non è certamente uno dei romanzi più noti di Dickens ma chi, come la sottoscritta, ama ormai appassionatamente quest’autore lo leggerà con grande interesse e divertimento in questa recente pubblicazione nella quale Einaudi ripropone la bella traduzione che una giovanissima Fernanda Pivano realizzò nel 1945 per Frassinelli.
Procedendo nelle mie letture e riletture dickensiane, mi accorgo di ritrovarmi sempre più d’accordo con quanto di lui dice Nabokov nelle sue Lezioni di letteratura: “Nel caso di Dickens i valori sono nuovi. Gli autori moderni si ubriacano ancora del suo vino. Con lui [..] non occorre corteggiamento, non c’è esitazione. Ci arrendiamo alla voce di Dickens: tutto qui. Se fosse possibile, mi piacerebbe dedicare cinquanta minuti di ogni lezione a meditare, concentrandoci in silenziosa ammirazione, su Dickens”
Dickens scrisse soltanto due romanzi storici, questo Barnaby Rudge del 1841 e, molti anni dopo, La storia tra due città (del 1859) che, ambientato tra Londra e Parigi, si svolge durante la Rivoluzione Francese ed in particolare durante il famigerato periodo del Terrore. Le vicende di Barnaby Rudge si svolgono invece in Inghilterra durante l’insurrezione protestante e anticattolica nota con il nome di Gordon Riots avvenuta a Londra nel 1780 ed i tumulti sanguinosi che per quattro giorni terrorizzarono e misero la città a ferro e fuoco.
Quando scrive Barnaby Rudge Dickens è un uomo arrivato. Il libro, che si colloca dopo Nicholas Nickleby (1838-1839) e La bottega dell’antiquario (1839) viene pubblicato a puntate settimanali sulla rivista da lui diretta e questo modo di pubblicazione influenza, evidentemente, la struttura e i contenuti del romanzo. Ogni capitolo (che corrisponde ad una puntata del feuilleton) infatti è completo di tutti quegli elementi/ingredienti che il lettore si aspettava ad ogni puntata: dramma, comicità, satira, mistero, commozione.
Possiamo dividere il romanzo in due sezioni. Nei primi trentadue capitoli tutto ruota attorno alla locanda La Cuccagna, a poche miglia da Londra ed assistiamo alle vicende private di una piccola comunità di personaggi sulla quale aleggia l’ombra di un assassinio avvenuto ventidue anni prima dell’inizio della storia. Nella seconda parte, dopo uno stacco temporale di cinque anni, fa irruzione nel romanzo la Grande Storia e le vicende private dei personaggi si intrecciano alle imprese delle folle deliranti dei sanguinosi tumulti antipapisti.
La scena si sposta dunque a Londra, una Londra che, come ha scritto qualcuno, somiglia più ad un incubo metropolitano fatto di strade buie battute dal vento e dalla pioggia, dove la paura dell’aggressione e degli incendi la fanno da padroni mentre la furia della folla — inarrestabile, gratuita, paurosa si scatena contro case private di inermi cittadini e contro i simboli del potere: la presa e l’incendio della prigione di Newgate sono tra i momenti più forti del romanzo. Ma anche contro le banche e lo stesso Parlamento.
I motivi tematici sono più di uno, alcuni dei quali ricorrenti, in Dickens: la satira delle associazioni segrete o pseudo tali, la violentissima presa di posizione contro la pena di morte (le scene del romanzo che si riferiscono alle impiccaggioni e quella, lunghissima, della costruzione del palco patibolare sono tra le più vivide, efficaci ed impressionanti del libro e quelle in cui Dickens dà il meglio della sua straordinaria potenza descrittiva), la critica a rappresentanti istituzionali (parlamentari, esercito, uomini di legge) paurosi, corrotti, o che comunque non sono all’altezza del loro mandato.
Come sempre in Dickens, il libro brulica di personaggi appartenenti alle più diverse classi sociali e tutti fortemente caratterizzati. Tra i personaggi immaginari ci sono anche quelli che fanno riferimento a figure storiche realmente esistite (Lord Gordon, ad esempio). Impossibile elencarli tutti: dai componenti la famiglia di Gabriel Varden all’oste John Willet, da Lord Gordon a Sir John Chester e Haredale, Denis il boia, Hugh “il centauro”; le figure femminili di Emma, Dolly, Miggs, la signora Varden, e tanti altri. Dickens, lo sappiamo, non è scrittore cui chiedere nuances psicologiche. La sua forza sta altrove: nella capacità di fare si che i suoi personaggi appaiano vivi e concreti agli occhi della nostra immaginazione, di renderceli uno più gustoso dell’altro. Tutti — siano essi cattivoni e trucidi, acide matrone, virginali donzelle o giovinotti senza macchia e senza paura — sono sempre salvati dallo scadere nel mero macchiettismo dal micidiale humor del loro creatore.
Si è detto spesso come in Barnaby Rudge il vero protagonista sia la folla, questo “impersonale personaggio” che con le sue migliaia di uomini senza volto occupa prepotentemente la scena in tutta la seconda parte del romanzo ed i cui movimenti e frenesia nell’odio, nella vendetta, nella vigliaccheria anticipano in maniera stupefacente ciò che, nel ‘900, analizzeranno Freud e Canetti.
“Una folla ha abitualmente un’esistenza molto misteriosa, in particolare in una grande città. Da dove venga e dove vada, pochi possono dirlo. Riunendosi e sciogliendosi con eguale rapidità, è così difficile da seguire nelle sue varie sorgenti come il mare stesso; ed il parallelo non si ferma qui, perchè dell’oceano non è meno capriciosa e incerta, meno terribile quando infuria, meno irragionevole o meno crudele “, scrive Dickens all’inizio del cinquantaduesimo capitolo (p.492).
La letteratura (e qui, da lettrice italiana, non posso non pensare anche alle folle del Manzoni) ancora una volta anticipa le analisi e le sistematizzazioni della saggistica.
Naturalmente tra i personaggi c’è lui, Barnaby, che dà il nome al romanzo. Barnaby appartiene a quella folta schiera di bambini rifiutati, o nati in famiglie dalle condizioni sociali difficilissime, o trasportati in tali condizioni da una sorte avversa che popolano gran parte dell’opera di Dickens: da Oliver Twist alla piccola Dorrit; da David Copperfield a Nicholas Nickleby. Un’ abbondanza tale da produrre, tra parentesi, infinite riduzioni per l’infanzia di tanti di questi libri: ma come non mi stancherò mai di ripetere fino alla noia… Dickens non è uno scrittore per bambini.
Barnaby non è solo un ragazzo dall’infanzia segnata da tragici avvenimenti: è anche idiota, ma con la sua semplicità e il suo amore per la vita potrebbe insegnare a molti ed è dunque il portatore di un altro grande leit motiv del libro e cioè che anche gli uomini savi hanno da imparare da certi idioti.
E’ un concetto che Dickens esprime più volte nel corso del romanzo e lo fa sia in modo implicito descrivendo le azioni di Barnaby ma anche in modo decisamente esplicito quando ad un certo punto fa dire al suo personaggio:
“Ah, ah! Be’, quanto è meglio essere imbecilli, che savi come voi! Voi non vedete il mondo delle ombre, come quello che vive nel sonno, no, no. E nemmeno occhi nelle lastre di vetro nodose, nè veloci fantasmi quando soffia il vento, nè udite voci nell’aria, nè vedete uomini camminare nel cielo… No! Io conduco una vita più felice della vostra, malgrado tutta la vostra intelligenza. Voi siete degli stupidi; noi siamo quelli illuminati Ah, ah! Non vorrei cambiare con voi, intelligenti come siete… No davvero!” (p.104)
Ma c’è ancora un altro personaggio che non solo non è da sottovalutare ma che è importantissimo: è un animale, si tratta di un corvo parlante e si chiama Grip. E’ l’amico inseparabile di Barnaby. Nota giustamente Fernanda Pivano nella sua introduzione che il corvo Grip “… è una specie di coro degli avvenimenti “, lo troviamo infatti a suggellare e, a modo suo, a commentare tutti gli eventi importanti del romanzo ed, alla fine, il romanzo stesso.
E che dire infine dello stile di scrittura? Dal tragico al comico, Dickens adopera tutti i registri in cui è maestro. Chi conosce Dickens anche solo superficialmente può immaginarlo.
Ma, come nota ancora Fernanda Pivano“il genuino, autentico Dickens, tenero come Cowper, scherzoso come Goldsmith, si trova soprattutto nel sorriso con cui l’autore contempla gli orrori creati dalla sua immaginazione […] il sorriso, in un parola, che doveva fargli concludere questa truculenta storia con le parole: “questo non è poi un mondo tanto disprezzabile nonostante tutti i suoi difetti”.