L’OCA DI GERVAISE

Maria Shell Gervaise

L’Assommoir di Émile Zola è un romanzo potente e pullulante di sequenze memorabili.
Uno dei miei romanzi preferiti in assoluto, uno dei migliori del ciclo dei Rougon Macquart e un capolavoro della letteratura occidentale dell’Ottocento.

E’ la storia dell’ascesa e della caduta di Gervaise Macquart che, da poverissima lavandaia sedotta e abbandonata da Lantier con due figli avuti da lui, riesce lavorando duro a riscattarsi socialmente e a diventare un’agiata borghese ma che poi, trascinata dal marito Coupon, sprofonda inesorabilmente nell’abiezione e nell’alcoolismo.

Questo romanzo durissimo, magnifico, crudele, magmatico e ribollente ha una struttura interna molto solida ed una ferrea simmetria.

Il momento centrale della storia occupa un intero capitolo, il VII, e descrive il grande pranzo offerto da Gervaise ad alcuni vicini, parenti e alle sue lavoranti per festeggiare il proprio compleanno.

Se i primi sei capitoli mostrano la fase emergente della bella, dolce, buona lavandaia, gli ultimi sei mostrano la fase discendente, lo sgretolamento della personalità di Gervaise, il suo diventare una sorta di capro espiatorio e vittima sacrificale del gruppo che la circonda.

Il giorno del grande pranzo è l’ultimo felice nella storia di Gervaise: da quel momento, per lei che un tempo aveva detto a Coupeau: “Il mio ideale sarebbe di lavorare tranquilla, di avere sempre un tozzo di pane e un buco un po’ più decente per dormire […] un letto, un tavolino, due seggiole e nient’altro […] tirar sù  i miei figlioli, farne dei bravi ragazzi” e soprattutto di non esser mai bastonata […] tutto qui, vedete, tutto qui” comincia la discesa agli inferi della degradazione e dell’abbrutimento.

Nella “gran mangiata” che Gervaise offre ai suoi invitati e che Zola descrive da par suo, l’oca arrosto rappresenta il momento culminante, il simbolo del successo di Gervaise.

Le immagini che ho utilizzato per illustrare alcuni stralci di questo VII capitolo sono tratte dal film  Gervaise di René Clément del 1956 in cui Gervaise è magistralmente interpretata da Maria Schell, che per questo film ottenne la Coppa Volpi come migliore attrice protagonista al Festival di Venezia del 1956.

La traduzione del testo di Zola è di Luigi Galeazzo Tenconi. Mi sono presa però la libertà di lasciare i nomi delle persone in francese, perchè proprio non sopporto leggere “Gervasia” al posto di “Gervaise”…

Maria Shell

Le signore […] tutte attorniarono la casseruola e stettero a vedere, grandemente interessate, Gervaise e mamma Coupeau che pescavano il bestione. E subito scoppiò un grande clamore; vi si distinguevano le voci stridule e i salti di gioia dei ragazzi.
Fu un ingresso trionfale, Gervaise portava l’oca, le braccia tese, la faccia sudata, tutta raggiante d’un largo sorriso silenzioso. Le donne la seguivano anch’esse

Gervaise Rene Clement

 Quando l’oca fu sulla tavola, enorme, rosolata e tutta grondante sugo, non l’attaccarono subito. Era come un diffuso stupore, una sorpresa piena di rispetto; la tavolata ne era rimasta senza fiato. Se la mostravano l’un l’altro con strizzatine d’occhi, con cenni della testa. Corpaccio! che matrona quell’oca, che cosce! e che pancia!

Gervaise Rene Clement

Chi è che taglia? “No, no, io no! E’ troppo grossa, mi fa paura.” […] Finalmente la signora Lerat , con voce quanto mai suasiva, propose: “Tocca al signor Poisson… Ma certo, proprio al signor Poisson”
E siccome pareva che i commensali non capissero, aggiunse con un che di ancora più lusinghiero nella voce:
“Certo, tocca al signor Poisson. E’ abituato ad adoperare le armi, lui”.
E passò alla guardia di città il coltello da cucina.
Tutti ebbero un cortese sorriso di contentezza e di approvazione. Poisson, militarmente, annuì con un cenno di testa e attirò l’oca davanti a sé. I suoi vicini, Gervaise e la Boche, si scostarono perchè potesse muovere i gomiti. Tagliava adagio, con gesti larghi, gli occhi fissi sull’oca come per inchiodarla in fondo al piatto. Quando sprofondò il coltello nella carcassa, che crocchiò, Lorilleux ebbe uno slancio di patriottismo. Gridò: “Eh! se fosse un cosacco!”

Gervaise Rene Clement
Gervaise Rene Clement
Gervaise Rene Clement
Gervaise Rene Clement

Poisson riservava una sorpresa: a un tratto, inferse un ultimo colpo, e la parte posteriore della bestia si separò e rimase dritta, con la groppa in aria: era il boccone dei preti. Allora, l’ammirazione deflagrò. Soltanto gli ex militari sapevano essere tanto cortesi in società.

Gervaise Rene Clement
Gervaise Rene Clement

Fu davvero un’eccezionale battaglia di forchette, quella. Nessuno della brigata ricordava di avere mai avuto un’indigestione simile sulla coscienza.

Gervaise Rene Clement
Gervaise Rene Clement

Gervaise, enorme, appoggiata sui gomiti, inghiottiva grossi bocconi di polpa, senza parlare per timore di perdere una masticata, ed era soltanto un po’ di soggezione per via di Goujet: la imbarazzava alquanto mostrarsi golosa come una gatta.

Povera Gervaise. La sua storia è ad una grande svolta, ma lei non lo sa.

Noi però lo sappiamo, che non la vedremo mai più ridere, sorridere e mangiare così.

  • Scheda del film di René Clément su imdb >>

 

FANCIULLE IN FIORE

Jean Beraud Bd St Denis
Jean Béraud
Parigi, il Boulevard St. Denis

 

Ne L’assommoir di Émile Zola pubblicato nel 1877 compare quella che sarà poi la protagonista di uno degli altri capolavori del ciclo dei Rougon – Macquart: Nana, figlia di Gervaise Macquart ed Henri Coupeau.

C’è un brano, nel cap. XI de L’Assommoir, in cui Zola descrive Nana ancora quindicenne che, con alcune sue coetanee tra cui l’amica Pauline forma una vera e propria “banda” di fanciulle che va a scorazzare nei boulevard parigini.

Parecchi anni dopo Marcel Proust, ne Alla ricerca del tempo perduto e precisamente in All’ombra delle fanciulle in fiore pubblicato nel 1919, descrive la prima volta in cui il Narratore vede il gruppo di ragazzine tra le quali ci sono Albertine e la sua amica Andrée che, come una piccola “banda”, si diverte a passeggiare e correre lungo la diga di Balbec.

Sono rimasta colpita da alcune analogie (ma anche significative differenze) presenti nei due brani. Analogie e differenze tanto più interessanti in quanto si trovano in libri di due grandissimi scrittori che sulla natura e la funzione della scrittura e dell’arte avevano idee diametralmente opposte…

Inserisco anche il testo originale francese non solo per l’ovvio motivo che quando è possibile è sempre meglio gustarsi i testi in lingua originale, ma anche perchè nelle traduzioni italiane l’analogia di alcuni termini usati si perde.

I grassetti sono miei.

Émile Zola, L’assommoir, cap. XI

Elles venaient de se glisser dans la rue et de gagner les boulevards extérieurs. Alors, toutes les six, se tenant par les bras, occupant la largeur des chaussées, s’en allaient, vêtues de clair, avec leurs rubans noués autour de leurs cheveux nus. Les yeux vifs, coulant de minces regards par le coin pincé des paupières, elles voyaient tout, elles renversaient le cou pour rire, en montrant le gras du menton. Dans les gros éclats de gaieté, lorsqu’un bossu passait ou qu’une vieille femme attendait son chien au coin des bornes, leur ligne se brisait, les unes restaient en arrière, tandis que les autres les tiraient violemment ; et elles balançaient les hanches, se pelotonnaient, se dégingandaient, histoire d’attrouper le monde et de faire craquer leur corsage sous leurs formes naissantes. La rue était à elles ; elles y avaient grandi, en relevant leurs jupes le long des boutiques ; elles s’y retroussaient encore jusqu’aux cuisses, pour rattacher leurs jarretières.

Boulevaard Rochechouart
Il Boulevard Rochechouart in una cartolina d’epoca

 

Au milieu de la foule lente et blême, entre les arbres grêles des boulevards, leur débandade courait ainsi, de la barrière Rochechouart à la barrière Saint-Denis, bousculant les gens, coupant les groupes en zigzag, se retournant et lâchant des mots dans les fusées de leurs rires. Et leurs robes envolées laissaient, derrière elles, l’insolence de leur jeunesse ; elles s’étalaient en plein air, sous la lumière crue, d’une grossièreté ordurière de voyoux, désirables et tendres comme des vierges qui reviennent du bain, la nuque trempée.

Nana prenait le milieu, […] Elle donnait le bras à Pauline, […] Et comme elles étaient les plus grosses toutes les deux, les plus femmes et les plus effrontées, elles menaient la bande, elles se rengorgeaient sous les regards et les compliments. Les autres, les gamines, faisaient des queues à droite et à gauche, en tâchant de s’enfler pour être prises au sérieux.

Le ragazze erano sgattaiolate in strada e corse a raggiungere i boulevard esterni. Là, tenendosi tutte e sei a braccetto, occupando la strada quanto era larga, passeggiavano nei loro vestitini chiari, a testa coperta, i capelli annodati da bei nastri. Con la coda degli occhi vivacissimi lanciavano occhiatine così in tralice. Vedevano tutto, e rovesciando all’indietro, ad ogni scoppio di riso il collo, mostravano il grasso della gola. In quei grossi scoppi di allegria, ogni qualvolta passava un gobbo o una vecchia sostava ad aspettare il suo cane alla cantonata, la fila delle sei ragazze si spezzava; alcune rimanevano indietro, mentre le altre davano loro energici strattoni, e tutte avevano un gran dimenare i fianchi, si raggomitolavano, si sbracciavano tanto, da richiamare l’attenzione della gente e da far scricchiolare il busto sotto le forme nascenti. La strada era loro; vi erano diventate grandi tirandosi sù le sottanelle davanti alle botteghe; ancora adesso se le tiravano sù, e fino al grosso delle cosce, per riallacciare le giarrettiere. In mezzo alla folla lenta e scialba, fra gli alberi rachitici dei boulevard, scorrazzavano così dalla barriera di Rochechouart alla barriera di Saint-Denis, urtando la gente, fendendo i capannelli a zig-zag, voltandosi indietro e gettando qualche parola in mezzo a quelle grandi esplosioni di risate. E le loro vesti svolazzanti si lasciavano dietro l’insolenza della gioventù. Si esibivano così all’aria aperta, in piena luce, con la volgare grossolanità di gente di malaffare, desiderabili e tenere vergini che tornano grondanti dal bagno grondanti d’acqua dalla testa ai piedi.

Nanà stava sempre in mezzo alle altre […] Dava il braccio a Paolina […] E siccome erano loro due le più attempate, le più donne e le più sfrontate, guidavano la compagnia, impettendosi sotto gli sguardi e i complimenti; le altre, le monelle, facevano coda a destra e a sinistra

(Traduzione di Luigi Galeazzo Tenconi, BUR Classici Moderni)

Marcel Proust, À la recherche du temps perdu, À l’ombre des jeunes filles en fleurs

Seul, je restai simplement devant le Grand-Hôtel à attendre le moment d’aller retrouver ma grand’mère, quand, presque encore à l’extrémité de la digue où elles faisaient mouvoir une tache singulière, je vis s’avancer cinq ou six fillettes, aussi différentes, par l’aspect et par les façons, de toutes les personnes auxquelles on était accoutumé à Balbec, qu’aurait pu l’être, débarquée on ne sait d’où, une bande de mouettes qui exécute à pas comptés sur la plage, — les retardataires rattrapant les autres en voletant, — une promenade dont le but semble aussi obscur aux baigneurs qu’elles ne paraissent pas voir, que clairement déterminé pour leur esprit d’oiseaux.

Cabourg, la diga
Cabourg. La diga e il Grand Hôtel in una cartolina d’epoca

 

Une de ces inconnues poussait devant elle, de la main, sa bicyclette; deux autres tenaient des «clubs» de golf; et leur accoutrement tranchait sur celui des autres jeunes filles de Balbec, parmi lesquelles quelques-unes il est vrai, se livraient aux sports, mais sans adopter pour cela une tenue spéciale. […]

Telles que si, du sein de leur bande qui progressait le long de la digue comme une lumineuse comète, elles eussent jugé que la foule environnante était composée d’êtres d’une autre race et dont la souffrance même n’eût pu éveiller en elles un sentiment de solidarité, elles ne paraissaient pas la voir, forçaient les personnes arrêtées à s’écarter ainsi que sur le passage d’une machine qui eût été lâchée et dont il ne fallait pas attendre qu’elle évitât les piétons, et se contentaient tout au plus si quelque vieux monsieur dont elles n’admettaient pas l’existence et dont elles repoussaient le contact s’était enfui avec des mouvements craintifs ou furieux, précipités ou risibles, de se regarder entre elles en riant. […]

Mais elles ne pouvaient voir un obstacle sans s’amuser à le franchir en prenant leur élan ou à pieds joints, parce qu’elles étaient toutes remplies, exubérantes, de cette jeunesse

Da solo, me ne restai semplicemente ad aspettare davanti al Grand- Hôtel il momento di andare incontro alla nonna, quando, quasi ancora all’estremità della diga dove animavano, muovendosi, una macchia singolare, vidi avanzarsi cinque o sei ragazzine, tanto diverse per aspetto e comportamento da tutte le persone cui eravamo avvezzi a Balbec, quanto, sbarcato da chissà dove, uno stormo di gabbiani che avessero compiuto – con i ritardatari intenti a raggiungere gli altri svolazzando — una passeggiata il cui scopo, chiaramente definito nella loro testa d’uccelli, fosse rimasto oscuro ai bagnanti, a loro volta del tutto ignorato dai volatili.
Una delle sconosciute spingeva davanti a sé, con la mano, la sua bicicletta; alte due reggevano delle mazze da golf: e il loro abbigliamento contrastava nettamente con quello delle altre ragazze di Balbec , fra le quali ce n’era sì qualcuna che si dedicava agli sport, ma senza per questo adottare una speciale tenuta […]

Esattamente come se, dall’interno del loro gruppo che, simile ad una luminosa cometa, procedeva lungo la diga, avessero deciso che la folla circostante era composta d’esseri di un’altra razza, nei cui confronti nemmeno la sofferenza avrebbe potuto destare in loro un sentimento di solidarietà. Davano l’impresssione di non vederla, costringendo le persone ferme a farsi da parte come al passaggio di una macchina lanciata dalla quale non bisognava attendersi che schivasse i pedoni, e tutt’al più, se qualche anziano signore, la cui esistenza non ammettevano e dal cui contatto rifuggivano, scappava con gesti di timore o di rabbia, ma precipitosi o grotteschi, si limitavano a guardarsi tra loro ridendo […]

Ma non potevano scorgere un ostacolo senza divertirsi a superarlo di slancio o a piedi giunti, giacchè erano tutte esuberanti, traboccanti di […] giovinezza

(Traduzione di Giovanni Raboni, Mondadori)

LA BESTIA UMANA – FRITZ LANG (1954)

Glenn Ford

Quando un film è tratto da un romanzo, mi interessa vedere come un regista “legge”, “interpreta” il testo narrativo al quale si ispira.

La cosa diventa ancora più interessante quando i film che fanno riferimento ad un romanzo famoso sono più di uno e quando ci si trova davanti all’opera di grandi registi che per storia personale, stile di direzione, radici culturali sono molto diversi tra loro.

E’ per questo motivo che torno a parlare del romanzo di Émile Zola La bête humaine: da esso, oltre al bellissimo film di Jean Renoir del 1938 che nell’originale francese manteneva lo stesso titolo del romanzo e del quale ho già parlato >>> qui venne tratto nel 1954 un altro film diretto, questa volta, dal grande regista tedesco Fritz Lang (Metropolis, M il mostro di Düsseldorf, Il testamento del dottor Mabuse…) .

Non è inutile riassumere la trama del film di Lang, perchè già da essa si può cogliere la radicale differenza di impostazione sia con il film di Renoir (del quale non è un semplice remake) e la singolare interpretazione che viene data al testo originale di Zola.

Jeff Warren (Glenn Ford), appena tornato dalla guerra di Corea, riprende il suo servizio come conducente di locomotive.

Glenn Ford Edgar Buchanan

Il suo collega Carl Buckley (Broderick Crawford) è sposato con Vicky (Gloria Grahame), una donna bella e molto più giovane di lui.

Broderick Crawford

Uomo litigioso e violento, Carl è stato licenziato e chiede alla moglie Vicky di intercedere per lui presso Owens (Grandon Rhodes), un personaggio influente, per ottenere di venire reintegrato nel suo posto di lavoro.

Broderick Crawford Gloria Grahame

Ma Carl, gelosissimo, si rende presto conto che per fargli riottenere il posto sua moglie si è dovuta mostrare sin troppo compiacente, con Owens.

Dopo una lite tremenda con Vicky, la costringe a scrivere ad Owens un biglietto in cui gli dà appuntamento sul treno.

Gloria Grahame
Broderick Crawford Gloria Grahame

Owens cade nella trappola, ed appena il treno si mette in movimento viene raggiunto nello scompartimento privato in cui Carl Buckley lo accoltella, alla presenza della moglie.

Human desire

Anche Jeff si trova sul treno — questa volta come semplice viaggiatore — ha visto la coppia e con la sua testimonianza potrebbe smascherare l’assassino. Ma non lo fa, perchè si innamora di Vicky.

Gloria Grahame Glenn Ford

Buckley e la moglie perciò, grazie al silenzio di Jeff, non vengono nemmeno sospettati.

Ma presto Vicky comincia a mostrare insofferenza, dice sempre più insistentemente di non riuscire più a vivere con il marito il quale, oltre ad essere un assassino, si ubriaca di continuo, è sempre stato violento con lei e durante i suoi attacchi di gelosia l’ha più volte picchiata.

Gloria Grahame Glenn Ford

Alla richiesta di Jeff di lasciare il marito e di andare via con lui Vicky gli rivela che non le è possibile farlo perchè Carl la tiene legata con il biglietto da lei scritto ad Owen, e che proverebbe la sua complicità nell’omicidio.

Vicky non ha più che una sola idea fissa: sbarazzarsi del marito, e chiede a Jeff di ucciderlo. Davanti alle resistenze di Jeff ad un certo punto gli dice: “Tu sei stato in guerra, sei abituato ad uccidere” e si stupisce quando Jeff le risponde:Ma non è la stessa cosa colpire un altro militare in un’azione di guerra e uccidere a sangue freddo un poveraccio inerme ed indifeso”.

Gloria Grahame Glenn Ford

Innamorato di Vicky, ad un certo punto Jeff comunque cede ed acconsente ad uccidere Carl Buckley.

All’ultimo momento però comprende che la passione per Vicky che lo spinge all’omicidio sarà la sua rovina. Si limita perciò a stordire Buckley approfittando di un momento in cui questi è ubriaco e sottrargli il biglietto fatale che riconsegna a Vicky.

Human desire-Fritz Lang

Subito dopo però abbandona la donna riuscendo così a sottrarsi a questa attrazione che avrebbe potuto essergli fatale.

Nell’ultima scena del film, che si svolge ancora una volta in treno, Carl Buckley raggiunge Vicky che vuole comunque partire abbandonandolo e, folle di rabbia e di gelosia la strangola.

Broderick Crawford

Anche questa volta sul treno c’è pure Jeff.
Ma adesso è nella cabina alla testa del treno alla guida della locomotiva e le ultime inquadrature ce lo mostrano con il volto di un uomo che ha riacquistato la serenità.

Con Human desire è la seconda volta, dopo La strada scarlatta (Scarlet Street) del 1946 che Lang dirige in America un film già realizzato, in Francia, da Jean Renoir.

Ma le differenze tra i due film sono profonde: La Bête humaine di Renoir era un film molto sensuale grazie alla favolosa coppia Jean Gabin – Simone Simon e denunciava lo sfruttamento della classe operaia. Nell’opera di Lang, che non a caso si intitola, nell’originale americano, Human desire, i rapporti tra Glenn Ford e Gloria Grahame sono molto più crudi, si intuisce che sono basati soprattutto sul sesso.

La loro crudezza corrisponde al rigore della scenografia.

Per Lang, l’essere umano è doppio: le ombre zebrate di una tenda sezionano il viso ed il corpo di Vicky-Grahame.

Gloria Grahame

L’ombra dei tralicci metallici del capannone della stazione dove di notte si incontrano Vicky e Jeff taglia in due la coppia degli amanti.

Il condizionamento sociale e soprattutto l’atavismo (tema caro a Zola) è concentrato tutto nella figura di Buckley (Broderick Crawford), un uomo che non ragiona, che agisce solo perchè spinto dalle sue pulsioni e che in definitiva è l’unica “bestia umana” della storia narrata da Lang.

Broderick Crawford
Broderick Crawford

Facendo di Buckley un uomo completamente privo di quel libero arbitrio che consente invece a Jeff – Glenn Ford di sottrarsi al fascino di Vicky, di troncare la relazione con lei e di non diventare un omicida Lang stravolge completamente l’intreccio del romanzo di Zola ma, io credo, non ne stravolge il senso profondo.

Concentrando (e spostando) la forza delle pulsioni “bestiali” nel personaggio di Buckley piuttosto che in quello di Jeff (che nel romanzo di Zola era il macchinista Jacques Lantier) Lang non fa che esasperare espressionisticamente quello che era il feroce messaggio di Zola: l’uomo è condizionato dall’atavismo.

Qualche curiosità riguardo al cast: sembra che Fritz Lang abbia fatto  l’impossibile per ottenere che il ruolo di Buckley venisse interpretato da Peter Lorre, lo straordinario interprete di M, il mostro di Düsseldorf uno dei suoi film più famosi. Lorre però si rifiutò perchè era stato talmente strapazzato dal regista durante la lavorazione di M che era fermamente deciso a non ripetere l’esperienza…

In quanto al ruolo di Vicky, si era in un primo tempo pensato a Rita Hayworth ma poi il ruolo venne affidato a Gloria Grahame.

Piccola nota a margine a proposito dei titoli italiani: è bizzarro, a me sembra, che mentre il titolo originale La bête humaine del film di Renoir è stato tradotto in italiano con quell’assurdo L’angelo del male, il film di Lang invece, che si intitola Human desire , titolo che gli stessi francesi hanno rispettato traducendolo letteralmente con Desirs humains sia stato tradotto in italiano con La bestia umana

Francamente, alcune logiche riguardo la titolazione italiana di libri e film stranieri mi sfuggono totalmente.

Fritz Lang La bestia umana
Fritz Lang Human Desire
Fritz Lang Desirs humains

Human desire, Regia di Fritz Lang, Sceneggiatura Alfred Hayes dal romanzo di Emile Zola La Bête humaine

Principali interpreti e personaggi: Glenn Ford (Jeff Warren), Gloria Grahame (Vicki Buckley), Broderick Crawford (Carl Buckley), Edgar Buchanan (Alec Simmons), Kathleen Case (Ellen Simmons), Diane DeLaire (Vera Simmons) Grandon Rhodes (John Owens)

Direttore della fotografia Burnett Guffey, Ingegnere del suono John P. Livadary, Musiche di Daniele Amfitheatrof, Scenografia William Kiernan, Costumi Jean Louis, Montaggio William A. Lyon

Bianco e Nero, Durata 90 mn, Stati Uniti, 1954

L’ANGELO DEL MALE (LA BÊTE HUMAINE) – JEAN RENOIR (1938)

Jean Gabin-La Bete Humaine

Il titolo originale di questo film, considerato assieme a La grande illusione uno dei capolavori di Jean Renoir, è La bête humaine ed è tratto dal romanzo omonimo di Émile Zola, diciassettesimo volume del ciclo dei Rougon-Macquart.

Non riesco proprio a spiegarmi perchè si sia sentito il bisogno di dare alla versione italiana questo orrendo titolo Angelo del male. Non ne capisco il senso, e se anche lo capisco non mi trova d’accordo. Ma così è e dunque tant’è. Ne riparlerò. Forse.

Jacques Lantier (Jean Gabin) è uno scrupoloso macchinista ferroviario che percorre ogni giorno la tratta Parigi-Le Havre.
Assieme a lui c’è sempre il fuochista ed amico Pecqueux (Julien Carette). I due amici e compagni di lavoro sono diversissimi ma inseparabili.

Jean Gabin

Un giorno, a causa del surriscaldamento di un cilindro della locomotiva — che Jacques chiama “Lison” ed alla quale è affezionato come se si trattasse di un essere vivente (“sono sposato con la Lisa”, dice all’amico fuochista che gli risponde sbuffando: “Figuriamoci! Sposato con… una locomotiva?!” ) — Lantier e Pecqueux sono costretti, aspettando che il guasto venga riparato, a trascorrere il turno di riposo a Le Havre.

Jean Gabin

Lantier ne approfitta per andare a Bréauté a trovare la madrina malata (Charlotte Clasis).

Jean Gabin

Qui incontra anche la bella scontrosa Flore (Blanchette Brunoy), innamorata di lui e che conosce fin da quando erano ragazzini.
Baciandola, Lantier è preda di un raptus che lo porta sul punto di strangolare la ragazza

Jean Gabin-Blanchette BrunoyJean Gabin-Blanchette Brunoy

Jacques Lantier è figlio di Auguste Lantier e Gervaise, della famiglia dei Rougon-Macquart.

Il suo sangue ha ereditato la tara dell’alcolismo che lo tormenta con tremende emicranie, spaventosi accessi di tristezza e furibondi attacchi di collera.

Passato il momento di crisi, Lantier spiega a Flore il suo problema e rifiuta l’amore della ragazza: ha paura per lei, teme che in uno dei momenti in cui la sua tara ereditaria prende il sopravvento egli possa ucciderla.

Jean Gabin-Blanchette Brunoy“E’ una specie di nebbia che mi sale alla testa e deforma tutto. Mi sento come un cane rabbioso che vuole mordere. Eppure non bevo mai, neppure un goccio di vino a tavola. Se bevo alcoolici divento un pazzo. Sembra che io debba pagare per gli altri. I padri, i nonni che bevevano. Ho nel sangue generazioni e generazioni di ubriachi. Devo ringraziare loro per questo malanno”

Sul treno che lo riporta a Le Havre Lantier incontra Roubaud (Fernand Ledoux), il sottocapo stazione di Le Havre e la sua bella moglie Séverine (Simone Simon) .

Jean Renoir-La bete humaine

Durante il viaggio, Lantier, mentre si trova nel corridoio a fumarsi tranquillo una sigaretta, vede Roubaud che all’interno di uno scompartimento uccide Grandmorin, un uomo ricco e potente, notabile del luogo, padrino e protettore di Séverine che, orfana, è stata allevata in casa sua.

Roubaud ha infatti scoperto solo da qualche ora che Grandmorin ha sedotto Séverine quando questa era ancora quasi una bambina.

Reso folle dalla gelosia, il capostazione ha ora costretto con la violenza la moglie ad essere sua complice.
Tutto questo, Lantier non lo sa, ma lo sappiamo noi spettatori. Perchè Renoir ce lo ha fatto vedere, l’antefatto.

Jean Renoir-La bete humaine
Simone Simon

Jean Renoir-La bete humaine

Il delitto al quale Séverine era contraria ma al quale non si è opposta ed a cui ha oggettivamente collaborato, anche se costretta, ormai lega il suo destino a quello del marito.

Séverine si è accorta che Lantier ha visto tutto.
Decide perciò di sedurlo per impedirgli di parlare.

Simone Simon

Roubaud agevola le manovre di Séverine invitando spesso a casa Lantier.

Jean Renoir La bete humaine

Nel corso delle indagini, Lantier non parla di quello che ha visto e lascia che del delitto venga accusato l’innocente Cabuche (Jean Renoir), un povero cantoniere che per caso si trovava anche lui sul treno.

Jean Renoir-La bete humaineJean Renoir

Il regista Jean Renoir nel ruolo di Cabuche

Séverine però si innamora davvero, di Lantier, ed esplode la passione.
Per un certo tempo i due si incontrano clandestinamente di notte in un capannone della stazione.

Jean Renoir-La bete humaine

In seguito, capiscono che Roubaud è al corrente della loro relazione ma che — lui, che la gelosia nei confronti di Grandmorin aveva spinto sino al delitto — non se ne cura affatto. Roubaud è ormai sprofondato nel vizio del gioco. Da quel momento, i due amanti non hanno più alcuno scrupolo ad incontrarsi a qualunque ora in casa di Roubaud e Séverine.

A poco a poco Séverine diventa sempre più esigente ed insofferente nei confronti del marito. Arriva al punto da cercare insistentemente di convincere Lantier ad uccidere il marito.

Jean Renoir-La bete humaineJean Renoir-La bete humaine

“Ah, se fossi libera, come saremmo felici!”
“Ma non possiamo mica ucciderlo!”

Lantier ci prova, ad ammazzare Roubaud, ma non riesce a commettere l’omicidio.

Jacques Lantier è infatti un uomo fondamentalemente onesto, non è un assassino.
Non vuole uccidere nessuno.

Cerca invece di convincere Séverine a fuggire con lui. Che cosa la trattiene dall’abbandonare il marito che ormai non si cura più di lei? Perchè non possono semplicemente andar via insieme, lontano, magari in America?

Ma — delusa — Séverine comincia ad assumere nei confronti di Lantier atteggiamenti sempre più provocatori.

Una sera, nel corso di una scenata in cui per l’ennesima volta Lantier chiede a Séverine di partire con lui mentre lei si ostina nell’idea di uccidere il marito Lantier viene colto da una delle sue terribili crisi provocate dalla tara ereditaria e uccide l’amante.

La strangola in una sequenza in cui le scene dell’omicidio si alternano — in drammatico contrappunto — a quelle di una festa di ferrovieri in cui uno chansonnier canta una vecchia canzone sentimentale.

Jean Renoir-La bete humaineJean Renoir - La bete humaine

Jean Renoir-La bete humaine

Il giorno dopo, mentre come al solito è alla guida del treno diretto a Parigi confessa all’amico Pecqueux il delitto commesso

Jean Renoir-La bete humaine
“L’ho uccisa. L’amavo, sai”

Folle di dolore e di rimorso e disperato per la sua impossibilità a dominare le sue crisi si uccide gettandosi dalla “sua Lison” lanciata a tutta velocità.

Jean Renoir-La bete humaine

Jean Gabin, divenuto con questo film il più celebre ferroviere del cinema francese (per noi italiani c’è il Pietro Germi de Il ferroviere) era figlio di un conduttore di locomotive, ed anche per questo voleva interpretare la parte d’un ferroviere.

Jean Renoir aveva soltanto un vago ricordo del romanzo di Zola, in cui i tre protagonisti sono visti come moderni Atridi che il peso dell’ereditarietà condanna ai peggiori delitti.

Dopo aver rifiutato a malincuore un adattamento dello scrittore Roger Martin Du Gard (Premio Nobel per la Letteratura nel 1937) che si concludeva con la dichiarazione di guerra dell’agosto 1914, Renoir scrisse lui stesso una sceneggiatura operando rispetto al testo originario scelte molto radicali centrate soprattutto sullo sviluppo di una tragica storia d’amore e di morte che si svolge nel contesto di un ambiente ferroviario.

Renoir sfronda allora il testo di Zola da tutte le vicende dei personaggi secondari (quella di Cabuche e di Flore, ad esempio, che nel romanzo ha un ruolo determinante mentre nel film compare in una sola scena).

Ambientando la vicenda nei contemporanei anni Trenta elimina l’affresco sociale così importante in Zola mantenendo però lo sfondo determinista in cui si colloca la vicenda causata dalla tabe ereditaria (il film si apre con una didascalia iniziale che riporta testualmente le parole di Zola) e da un contesto in cui l’estrazione proletaria dei personaggi opera un condizionamento sociale che mira alla soppressione dell’individuo.

Simone Simon Ne è venuta fuori un’opera in un meraviglioso bianco e nero nella quale ciascun interprete porta il contributo del suo stile e delle sue caratteristiche personali: l’opacità pesante ed inquietante di Ledoux (il marito di Séverine), il fascino felino di Simone Simon (Séverine) che sempre più nel corso del film connota il suo personaggio come una “dark lady” e “femme fatale” tipica del noir, il romanticismo lirico di Jean Gabin (un Lantier allo stesso tempo duro e vulnerabile), l’affettuosa ironia di Carette (il fuochista Pecqueux), testimone impotente del suicidio di Lantier.

I tre personaggi sono dominati dalle passioni: condizionati da spinte pulsionali che non riescono a controllare e che li obbligano a commettere gesti irreversibili che li conducono alla rovina.

L’inizio del film è ormai entrato nell’antologia della storia del cinema: una lunga sequenza che dura quasi sette minuti che mostra il tratto Parigi-Le Havre visto da una locomotiva in corsa, capolavoro di montaggio (tra parentesi: il montaggio è opera di due donne, Marguerite Renoir e Suzanne de Troeye) di grande ma efficacissima semplicità. Sette minuti senza dialogo e senza musiche di sottofondo: udiamo solo lo sferragliare del treno lanciato a tutta velocità.

Tutte le sequenze di viaggio (ce ne sono parecchie, nel film) sono realizzate con la macchina da presa collocata come se noi spettatori vedessimo con gli occhi del macchinista Lantier.

Memorabile, all’inizio del film, la fine del viaggio e l’arrivo del treno a Le Havre con la lunghissima corsa del treno lanciato verso l’uscita del tunnel, in cui qualcuno ha visto una metafora di un tunnel esistenziale: i personaggi sperano di vedere finalmente la luce ma di fatto sono incosapevolmente diretti verso un destino che li porterà alla tragedia.

Renoir ha costruito un film tragico e possente, eppure molto meno feroce del testo di Zola.

Potrei fare molti esempi di “ammorbidimento dei toni”: in Zola, la scena in cui Roubaud, in preda ad una folle gelosia costringe la moglie Séverine a scrivere a Grandmorin un biglietto per attirarlo al treno dove troverà la morte, è di una violenza feroce.

Renoir sostituisce poi con lo strangolamento (che peraltro si intuisce ma che non viene mostrato con chiarezza) l’omicidio per sgozzamento che Zola descrive con grandissima cura di ogni macabro dettaglio.

Tutte le volte in cui Lantier viene colto dalle sue crisi, è di una gola femminile in cui affondare la lama affilata di un coltello che egli fantastica, ed è l’immagine di uno sgozzamento che gli provoca brividi di piacere e di lussuria.

Sia il romanzo che il film di Renoir si chiudono con la morte di Lantier, ma il regista francese modifica radicalmente il finale del testo di Zola per renderlo più coerente con la scelta di fondo da lui fatta, e cioè di mantenere la centratura della narrazione sul dramma della passione, della gelosia e dell’omicidio.

Renoir dunque opera pesanti modifiche del testo originale, ma le sue sono scelte consapevoli che rendono il suo film un dramma vigoroso e coerente dominato comunque dalla concezione fatalistica e naturalistica di Zola per il modo con cui è presentato il carattere maledetto di Lantier.

“Je regrette une chose:
c’est que Zola ne puisse voir Jean Gabin interpréter ce personnage.”
Jean Renoir (1939)

Jean Gabin
Jacques Lantier (Jean Gabin) si prende cura della “sua Lison”

Ancora una curiosità a proposito del titolo, ché la questione mi ha innervosita assai.
Allora: ho visto su  >>> imdb che in tutti i paesi in cui il film è stato distribuito è stato mantenuto il titolo originale di La bestia umana.

Ma l’ Inghilterra ha fatto peggio dell’Italia: lì il titolo l’hanno tradotto infatti con Judas Was a Woman.

La bête humaine, regia di Jean Renoir, dall’omonimo romanzo di Émile Zola, sceneggiatura di Jean Renoir.

Fotografia Curt Courant, Montaggio Marguerite Renoir, Suzanne de Troeye, Scenografia Eugène Louré, Musiche Joseph Kosma, Costumi Laure Lourie Assistenti alla regia Suzanne de Troeye, Claude Renoir

Interpreti e personaggi: Jean Gabin (Jacques Lantier), Simone Simon (Séverine Roubaud), Fernand Ledoux (Roubaud), Blanchette Brunoy (Flore), Gérard Landry (Il figlio Dauvergne), Jenny Hélia (Philomène Sauvagnat), Colette Régis (Victoire Pecqueux), Claire Gérard (Una viaggiatrice), Charlotte Clasis (Tante Phasie la madrina di Lantier), Jacques Berlioz (Grandmorin), Tony Corteggiani (Dabadie, il capo sezione), André Tavernier (Il giudice istruttore), Jean Renoir (Cabuche), Julien Carette (Pecqueux)

B/N, durata 100′, Francia, 1938

Jean Renoir-La bete humaine

BARTHES e ZOLA

La Bete Humaine Zola
“Ironia della letteratura: gli scrittori non sono mai letti per quello che vogliono dire, per quello che essi credono di aver detto.

La grande idea di Zola consisteva nell’ereditarietà dei crimini, dei vizi, delle tare, delle passioni: idea antica, rinnovata dalle tesi appararentemente scientifiche […].

Al giorno d’oggi nessuno ci crede, nessuno ci pensa: Zola è letto (e abbondantemente, forse è il romanziere più letto al mondo), ma senza che si abbia alla fine la minima coscienza del messaggio a cui egli teneva tanto, dal momento che egli ne fa la base di un’opera ciclica di venti romanzi.

Fortunatamente esiste una sorta di dialettica della lettura e del talento; poichè egli aveva saputo guardare, leggere e decifrare il testo sociale della propria epoca, Zola, credendo di descrivere una catastrofe fisiologica, ha invece descritto il crollo storico di una società“.

(Roland Barthes, introduzione a La bestia umana di Émile Zola)

AL PARADISO DELLE SIGNORE

Zola cominciò a scrivere Al paradiso delle signore (Au bonheur des dames) il 28 maggio 1882 e lo terminò il 25 gennaio 1883. Per documentarsi, come sempre faceva prima di accingersi alla stesura di una nuova opera, aveva visitato a lungo i grandi magazzini La Place de Clichy, il Bon Marché, il Louvre intervistando direttori, commessi, responsabili delle cucine, contabili, addetti agli uffici amministrativi. Fotografando, prendendo ogni genere di appunti. Le Galeries Printemps funzionavano già dal 1870. Il primo nucleo di quelle che oggi sono le Galeries Lafayette è invece del 1893.

Mi è sempre impossibile entrare alle Printemps o alle Lafayette senza pensare alle descrizioni che Zola fa del grande magazzino Al paradiso delle signore creato da Octave Mouret, il protagonista del suo romanzo.

"A forma di navata, la grande galleria somigliava all’interno della tettoia di una stazione, contornata dalla rampe dei due piani, intramezzata da scale sussidiarie, traversata da ponti volanti,. Scale di ferro a doppio giro, di curvatura ardita, con un gran numero di ripiani; ponti di ferro, sospesi nel vuoto, slanciati dritti  verso l’alto,. E tutto quel ferro, sotto il bianco risplendere dei vetri, componeva un’architettura leggera, un trina complicata, attraverso cui passva la luce del giorno. Era come un palazzo sognato e poi tradotto nella realtà la più moderna; una babele sorgente da piano a piano, allargantesi nelle sale, aperta in "fughe" verso altri ballatoi e verso altre stanze, all’infinito. Del resto, il ferro signoreggiava dappertutto […] nel basso, per non nuocere alla vista delle mercanzie, gli ornamenti erano sobri, a tratti uniti, e di tono grigio. Poi, di mano in mano che la costuzione metallica saliva, i capitelli delle colonne si facevano più ricchi, le ribaditure formavano rosoni, le modanature e gli aggetti s’empivano di figure scolpite. Al termine, lassù, splendevano le verniciature verdi e rosse, frammezzo all’oro sparso senza economia, a strisce, a chiazze, fino alle invetriate, anch’esse, riquadro per riquadro, con motivi aurei […] mosaici e ceramiche facevano parte degli ornati, rinvispendo i fregi e mettendo note di freschezza all’insieme severo."

Émile ZOLA, Al paradiso delle signore (Au bonheur des dames)

LA PARIGI DI ZOLA

Copertina libro
Riccardo Reim, La Parigi di Zola, p. 290, Editori Riuniti, Collana Capitali della cultura, 2001, ISBN: 8835951224

Rituffatami in questi giorni nel mondo dei Rougon-Macquart ho tirato giù dagli scaffali il tomone Carnets d’Enquêtes, che raccoglie tutti i taccuini (pubblicati anche in italiano da Bollati Boringhieri) degli appunti preparatori di Zola per ciascuno dei romanzi del ciclo e ho tirato fuori dalla pila dei libri sfogliati ma non ancora letti questo La Parigi di Zola di Riccardo Reim.

Henri Mitterand, curatore e forse il massimo esperto dell’opera di Émile Zola, presentando a suo tempo i Carnets aveva definito lo scrittore “etnografo contemporaneo”. Zola infatti, per preparare i suoi romanzi, si documentava minuziosamente e, armato di macchina fotografica, perlustrava, raccoglieva immagini ed informazioni di ogni genere sui luoghi che avrebbero costituito lo scenario delle sue storie: dalle Halles a Passy, dai grandi magazzini alla stazione di Havre, al campo di battaglia di Sedan e così via. Il risultato sono moltissime fotografie della Parigi dell’Ottocento e circa seicento fittissime pagine nelle quali troviamo, divisi in dodici capitoli, dodici società differenti, complementari e spesso antagoniste. I quartieri residenziali, la Borsa, i grandi magazzini, i luoghi frequentati dalle cocottes, le miniere, la Parigi dei quartieri popolari… Quello che ne viene fuori è un potente affresco (interessante quanto e a volte più dell’opera narrativa vera e propria) della società francese della fine del XIX secolo.

Zola fotografoSempre con la sua macchina fotografica, Zola è instancabile, il suo è un vero e proprio “lavoro sul campo”: intervista i banchieri, i commessi dei grandi magazzini, i ferrovieri, interroga i clienti delle grandi mantenute (non a caso è stato definito anche un “sociologo delle professioni”), si documenta, fa schizzi e fotografie di palazzi dell’alta borghesia in cui ambienterà Pot- Bouille e La Curée, studia nei minimi dettagli il funzionamento delle Halles, l’enorme mercato che sarà Il Ventre di Parigi, studia il comportamento degli alcolizzati mescolandosi ad essi nelle bettole più sordide (gli “assommoirs”, “ammazzatoi”), luoghi di miseria e abbrutimento.

Nel bel libro di Riccardo Reim troviamo tutto questo e di più, perchè l’autore mette a confronto, per i romanzi più importanti del ciclo, gli appunti preparatori e le pagine dell’opera narrativa corredando il tutto di acute osservazioni e citazioni bibliografiche (non tante però da appesantire la lettura) e soprattutto con una ricchissima iconografia costituita in gran parte dalle fotografie dello stesso Zola e da cartoline, manifesti pubblicitari, incisioni d’epoca. Chiude il volume un bel capitolo, anch’esso ricco di illustrazioni, intitolato Zola e i pittori. I pittori e Zola. E’ noto infatti che molti erano i pittori impressionisti suoi amici personali e che spesso per alcune pagine dei suoi romanzi Zola si ispirò ad alcuni loro dipinti.

Chi non avesse il tempo, la voglia o abbastanza interesse dunque per affrontare la lettura delle seicento pagine di appunti di Zola così “nudi e crudi” troverà certamente, in questo libro di piacevolissima lettura (che è un godimento anche per gli occhi) una guida decisamente preziosa per avventurarsi nell’esplorazione dell’universo di Zola.

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