Bettina Stangneth, La verità del male. Eichmann prima di Gerusalemme (tit. orig.le tedesco Eichmann vor Jerusalem) traduz. dall’ edizione inglese Eichmamm before Jerusalem di Antonella Salzano, pp. 604, Luiss University Press, 2017
“Nessuna persona potrà mai più parlare del fenomeno Eichmann e delle sue implicazioni politiche senza fare riferimento a quest’opera”, ha scritto il The New York Times Book Review.
Il libro, pubblicato originariamente in Germania nel 2011 e negli Stati Uniti nel 2014, ha avuto un successo enorme.
Uscito in Italia con la bella traduzione di Antonella Salzano grazie al Goethe Institut e al Ministero degli Affari Esteri della Repubblica Federale Tedesca, il libro della Stangneth è, dal mio punto di vista, un’opera fondamentale; è infatti il risultato di una ricerca molto complessa ed impegnativa che non potrà che condizionare studi e ricerche che in futuro dovessero essere intraprese o proseguite su questo tema, un’opera in cui la storica e filosofa tedesca Bettina Stangneth esperta in teorie dell’inganno e psicologia della manipolazione si confronta con Hannah Arendt e la sua celeberrima teoria della “banalità del male”. Ma andiamo con ordine e facciamo qualche passo indietro.
Hermann Broch, Gli incolpevoli. Romanzo in undici racconti (tit. orig. le Die Schuldlose. Roman in elf Erzählungen), traduz. Giuseppina Gozzini Calzecchi Onesti, pp. 279, Einaudi, 1981
“quando il mostro
s’appressò e faceva lo smargiasso
emettendo uno sproloquio che era come
viscidume,
noi perdemmo la favella: la parola fu da allora un qualcosa di arido,
fu come se ci togliessero in eterno
la possibilità di farci capire.
Pazzo era chi poesia faceva ancora,
pazzo degno di disprezzo,
che da frutti tira fuori fiori morti.
S’era spenta la risata, e la maschera
vedemmo del terrore, il volgare orrendo
e funebre, applicato
alla faccia piccolo borghese del
carnefice: maschera alla maschera
davanti: non-natura a coprire non-natura,
il volto del non aver lacrime.”
Hermann Broch, scrittore tra i più grandi della prima metà del Novecento, nacque da una famiglia di origine ebraica nella Vienna del 1886, e dopo aver abbandonato la professione di ingegnere nella fabbrica paterna si dedicò agli studi di filosofia e matematica.
Visse tra due secoli, in un periodo in cui l’Europa veniva progressivamente coinvolta nell’ascesa dei nazionalismi, dei totalitarismi e in due guerre devastanti, in un contesto che finì per sganciare dalle responsabilità le persone responsabili (“- Per vivere bene si ha bisogno di non aver responsabilità”, dice un personaggio del romanzo), addebitando un’assolutoria pazzia ai tempi e incrementando la genìa di quelli che Broch definisce “incolpevoli”. Persone cioè completamente apolitiche, o di idee vaghe e nebulose, nessuna direttamente colpevole di quanto accaduto ma tutte eticamente coinvolte.
Questo, Hannah Arendt lo scriveva circa settant’anni fa…ed è purtroppo di un’attualità sconcertante. Ogni allusione da parte mia a eventi e situazioni cui stiamo assistendo nell’Italia di oggi non è casuale ma decisamente voluto.
“Molto peggiore del danno causato ai diritti sovrani in materia di nazionalità ed espulsione fu quello dell’illegalità introdotta nella vita interna dei vari paesi quando un numero crescente di residenti dovette vivere al di fuori dell’ordinamento giuridico statale. L’apolide, privo del diritto alla residenza e del diritto al lavoro, era continuamente costretto a violare la legge. Era passibile di pene detentive senza aver commesso alcun delitto. L’intera gerarchia di valori propria dei paesi civili era capovolta nel suo caso. Poiché era un’anomalia non contemplata dalla legge, egli poteva normalizzarsi soltanto commettendo un’infrazione alla norma che fosse contemplata, cioè un delitto.
Per stabilire se qualcuno è stato spinto ai margini dell’ordinamento giuridico basta chiedersi se giuridicamente sarebbe avvantaggiato dall’aver commesso un reato comune. Se un piccolo furto con scasso migliora la sua posizione legale, almeno temporaneamente, si può star sicuri che egli è stato privato dei diritti umani. Perché allora un reato diventa il modo migliore per riacquistare una specie di eguaglianza umana, sia pure come eccezione riconosciuta alla norma. L’importante è che questa eccezione sia contemplata dalla legge. Come delinquente l’apolide non sarà trattato peggio di un altro delinquente, cioè sarà trattato alla stregua di qualsiasi altra persona. Solo come violatore della legge egli può ottenere protezione da essa. Finché durano il processo e la pena, è al sicuro dall’arbitrio poliziesco contro il quale non ci sono né avvocati né ricorsi. Lo stesso uomo che ieri era in prigione per il semplice fatto di esistere in questo mondo, che non aveva alcun diritto e viveva sotto la minaccia dell’espulsione, o che senza processo è stato confinato in un campo d’internamento perché aveva cercato di lavorare e di guadagnarsi da vivere, può diventare quasi un cittadino in piena regola mercé un piccolo furto. Anche se non ha un soldo, può ora disporre di un avvocato, lamentarsi dei suoi carcerieri, e sarà ascoltato rispettosamente. Non è piú la schiuma della terra, ma tanto importante da venir informato di tutti i particolari della legge in base alla quale si svolge il suo processo. È diventato una persona rispettabile” (Hannah Arendt, “La ‘nazione delle minoranze’ e il popolo degli apolidi”, in “Le origini del totalitarismo”, Giulio Einaudi Editore)
Wladyslaw Szpilman Il pianista. Varsavia 1939-1945. La straordinaria storia di un sopravvissuto. (tit. orig. The Pianist), traduzione dall’inglese di Lidia Lax, pp. 239, collana Dalai, Baldini Castoldi, 2008
Da anni dico a me stessa: mai commettere l’errore, dopo aver visto un film che mi è piaciuto molto, di non leggere il libro da cui il film è stato tratto o al quale il regista si è comunque ispirato. È cosa di cui sono profondamente convinta, eppure ancora, qualche volta, casco egualmente nella trappola.
È il caso del libro Il Pianista del polacco Wadyslaw Szpilman.
Ho visto e rivisto più di una volta lo splendido film di Polanski. Mi era talmente piaciuto, l’avevo trovato così…completo che non mi ero mai curata di procurarmi il libro. “Cosa può esserci di più, nel libro, che non ci sia già nel film?”, mi dicevo.
Ma i buoni libri non si lasciano ignorare o snobbare tanto facilmente ed è così che, pur avendo io nel mese di agosto ben altri progetti di lettura, il libro di Szpilman mi si è improvvisamente imposto e non voleva sentir ragioni o scuse. Mi sono arresa ed ho iniziato a leggere.
Stig Dagerman, Autunno tedesco (tit. orig. Tysk höst), traduz. dallo svedese Massimo Ciaravolo, Postfazione Fulvio Ferrari, pp. 160, Iperborea, 2018.
1946. Un giornalista vaga tra le rovine delle città tedesche distrutte dai bombardamenti. Si chiama Stig Dagerman, ha 23 anni, è svedese e nell’autunno del 1946 è stato inviato in Germania per testimoniare delle condizioni in cui si trovano le città tedesche.
Per due mesi egli si aggira tra le rovine e si immerge nelle sofferenze della vita quotidiana dei tedeschi. Ma Dagerman non è solo un giornalista, ha la stoffa e la sensibilità dello scrittore. Il suo sguardo va oltre il semplice reportage.
Per settimane, Dagerman osserva, pone domande, scende nelle cantine e nei rifugi per incontrare e parlare con la gente che vi abita, interrogandosi lui stesso, meditando sulla sofferenza e l’angoscia, l’odio e il senso di colpa. Così, a poco a poco, prende forma il libro Autunno tedesco (dal titolo del primo reportage), libro che si impone subito come una testimonianza di grande forza sulle conseguenze della disfatta tedesca e il destino dell’Europa. Continua a leggere “AUTUNNO TEDESCO – STIG DAGERMAN”
“In meno di sei anni la Germania, commettendo crimini che nessuno avrebbe ritenuto possibili, ha distrutto la struttura morale del mondo occidentale, mentre i suoi conquistatori hanno ridotto in cenere le testimonianze visibili di più di mille anni di storia tedesca.”
1949. Per la prima volta dopo la fuga in Francia nel 1933 e la successiva emigrazione negli Stati Uniti avvenuta nel 1941, Hannah Arendt torna in Germania tra l’agosto del 1949 e il marzo del 1950 per conto della Commission on European Jewish Cultural Reconstruction che aveva sede a Wiesbaden per raccogliere e ordinare i frammenti di una civiltà distrutta, e nella misura in cui questo è ancora possibile, riconsegnarli alle istituzioni culturali ebraiche. Proprio prima di partire per l’Europa la Arendt ha portato a termine la monumentale ricerca su Le origini del totalitarismo e completato il manoscritto dell’opera. Continua a leggere “RITORNO IN GERMANIA – HANNAH ARENDT”
Comincia con una gran litigata, l’amicizia tra Hannah Arendt e Mary McCarthy. Si incontrano per la prima volta nel 1944 a New York, in un bar di Manhattan.
Mary McCarthy, Il gruppo, (tit. orig. The Group), traduz. Elena Dal Pra, p.350, Einaudi, collana ET, ISBN 978-88-06-18662-3
Quando questo romanzo di Mary McCarthy venne pubblicato in America, nel 1963, ebbe subito uno straordinario successo (più di cinque milioni di copie vendute) nonostante le polemiche spesso molto aspre suscitate anche tra molti intellettuali per i toni troppo espliciti con i quali venivano trattati temi come la sessualità femminile (omosessualità compresa), il rapporto con la maternità, il modo di allevare i figli. In Inghilterra, il libro fu persino censurato.
Grandissimo il successo in Italia, dove il libro comparve per la prima volta nel 1964, edito da Mondadori. Scomparso poi per molti anni dalle librerie, è stato finalmente riproposto da Einaudi con questa nuova traduzione di Elena Dal Pra. Ho detto “finalmente” perchè con Il Gruppo siamo davanti ad un vero libro cult per la generazione alla quale appartengo.
Ricordo ancora l’impressione che mi fece quando lo lessi per la prima volta negli anni ’70 ed è per questo che l’ho voluto rileggere per intero in questi giorni. Per vedere se avrebbe superato la “prova rilettura” a distanza di tanto tempo e nonostante i profondi cambiamenti avvenuti in tutti questi anni non solo in me ma nel mondo, nel costume, nella morale corrente. Bisogna infatti tener presente, tra l’altro, che il romanzo della McCarthy è anteriore ai terremoti del ’68 ed ai momenti più significativi delle battaglie dei movimenti femminili e femministi. Ho provato grande piacere nel constatare come questo romanzo, così come molte altre opere della McCarthy, mi sia apparso ancora attualissimo nella sua rappresentazione della difficoltà di crescere che ogni nuova generazione inevitabilmente incontra, trovandosi, quale che sia il periodo storico, combattuta tra l’educazione ricevuta e il mutare dei tempi.
Il gruppo cui fa riferimento il titolo è costituito da otto ragazze, tutte di estrazione sociale molto elevata ed ex compagne di studi al Vassar College, il più prestigioso ed esclusivo college femminile degli Stati Uniti, nell’era roosveltiana.
Il romanzo si apre nel 1933, quando subito dopo la cerimonia delle lauree ognuna delle ragazze (che rimarranno comunque sempre in contatto tra loro) intraprende un diverso cammino, va incontro a differenti tipi di scelte.
Mary McCarthy segue il percorso di ciascuna di esse, ne racconta le vicende, le scelte davanti alle quali vengono poste, le illusioni e le frustrazioni, le vittorie e le sconfitte che a volte diventano vere e proprie tragedie. Il tutto con stile ironico e persino tagliente ma allo stesso tempo molto affettuoso, con grande capacità di penetrazione psicologica ed empatia nei confronti delle sue eroine, anche quelle meno simpatiche. Il risultato è che attraverso le storie di Kay, Dottie, Polly, Lakie, Priss, Pokey, Helena e Libby la McCarthy delinea un grande affresco dell’America del New Deal, appena uscita dalla crisi economica della Grande Depressione in cui tutte le ragazze devono e vogliono darsi da fare per trovare un lavoro che consenta loro di bastare a se stesse ed in cui i venti di guerra provenienti dall’Europa (guerra di Spagna prima e inizio della seconda guerra mondiale poi) si fanno sentire sempre più violenti e minacciosi.
Ma oltre al più immediato aspetto finanziario e dello scenario sociopolitico, c’è tutto il tema delle trasformazioni delle concezioni riguardanti il codice di comportamento sessuale.
Motivo di scandalo fu appunto, all’epoca, il modo diretto ed esplicito di trattare anche i problemi legati alla vita sessuale delle ragazze e al conflitto creatosi in quel periodo, nelle coscienze della nuova generazione di donne, tra quella che era stata l’educazione trasmessa dalla generazione delle madri e le nuove prospettive introdotte dal femminismo e da tematiche quali il “controllo delle nascite” e la questione dell’allattamento (naturale o artificiale?) dei neonati. E proprio a questi due temi sono dedicati due dei capitoli più significativi e — per quell’epoca puritana — dirompenti — del romanzo. In uno, la ventenne Dottie, appena persa la verginità, si reca da sola da una ginecologa per farsi istruire nelle pratiche anticoncezionali e nell’uso del pessario. In un altro, la storia della maternità di Priss Hartshorn che, sposata con un pediatra, unica nel suo ambiente e fascia sociale, allatta il proprio figlio al seno andando talmente in controtendenza rispetto all’uso mitizzato del biberon e dell’allattamento artificiale da ricevere persino proposte di interviste da vari media che le chiedono di raccontare questa sua “strana” esperienza.
Il sesso dunque è molto presente nel romanzo, e spesso la McCarthy sembra si diverta a provocare appositamente i suoi lettori. Ma sa farlo con grande eleganza, leggerezza, affetto ed ironia. Mai volgare ed irritante. Risultando di fatto molto più efficace di tante sedicenti scrittrici e scrittori di oggi che infestano le loro pagine di noiosi e soporiferi turpiloqui.
Il Gruppo, dal quale nel 1966 fu anche tratto un film diretto da Sidney Lumet, appartiene a quei libri che, pur essendo perfettamente contestualizzati e collocati con dovizia di particolari nel tempo e nello spazio trattano temi universali e parlano un linguaggio capace di arrivare al cuore ed alla mente di molte generazioni.
Mary McCarthy, scrittrice polemista e giornalista americana di origini irlandesi, nata a Seattle nel 1912 e morta a New York nel 1989, ha affrontato anche grandi temi storici contemporanei in importanti saggi come Viet Nam (1967) e Hanoi (1968) ed ha scritto libri molto belli su Venezia e Firenze, città che amava e nelle quali soggiornò a lungo. Suo secondo marito fu Edmund Wilson e la sua più grande amica Hannah Arendt, conosciuta a Manhattan nel 1944. Un’amicizia che durò tutta la vita e che si interruppe solo alla morte della Arendt, nel 1975.