GWENDOLEN E LE ALTRE

 

Romola Garai Gwendolen Harleth
Gwendolen Harleth (Romola Garai) in Daniel Deronda
Miniserie BBC del 2002

 

Gwendolen Harleth di Daniel Deronda, Dorothea Brooke di Middlemarch, Maggie Tulliver di Il mulino sulla Floss… molti tratti delle eroine e dei maggiori romanzi di George Eliot li ritroviamo, a volte più a volte meno immediatamente riconoscibili, in altre eroine ed in altri grandi romanzi della letteratura occidentale a cavallo tra il XIX ed il XX secolo ed in particolare nell’opera di altri due grandi:
Henry James e Marcel Proust. Continua a leggere “GWENDOLEN E LE ALTRE”

RACCONTI ITALIANI – HENRY JAMES

John Singer Sargent Henry James

John Singer Sargent, Henry James, 1913
National Portrait Gallery, Londra
(fonte)

“la patria della bellezza, delle arti, di tutto ciò che rende la vita splendida e dolce. Italia, per noi smorti stranieri, è una parola magica. […] Veniamo educati a pensare che quando ci saremo guadagnati agio e riposo […] potremo partire attraversare oceani e montagne e vedere sul suolo italiano la sostanza prima – “l’idea platonica” – dei nostri sogni consolatori, delle nostre fantasie più fervide.”

Henry James e l’Italia in nove racconti uno più bello dell’altro.

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VIAGGIARE

valigie“Viaggiare significa, per così dire, andare a divertirsi, gustarsi uno spettacolo; per questo c’è qualcosa di crudele nel passeggiare per vie straniere allo scopo di rallegrarsi del “carattere”, quando il carattere consiste semplicemente nel costume leggermente differente che indossano la fatica e il bisogno.”

Henry James, Racconti italiani

UN LIBRO TIRA L’ALTRO [3]

Esther Singer KreitmanAlice James

Esther Singer  Kreitman ed Alice James

Subito dopo aver letto Debora di Esther Singer Kreitman, di cui  ho parlato >> qui sono andata a rileggermi due libri.

Il primo è il Diario di Alice James, sorella dei ben più noti William ed Henry.

Il secondo è Alla corte di mio padre di Isaac Bashevis Singer.

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THE MASTER – COLM TÓIBÍN

Colm Toibin

Colm TÓIBÍN, The Master (tit. orig. The Master), traduz. Maurizio Bartocci, p.350, Fazi Editori, Collana Le Strade, 2004, ISBN 88-8112-580-3

Quinto romanzo dell’irlandese Colm Tóibín, The Master è ispirato alla vita del grande scrittore Henry James, ormai considerato il fondatore e Maestro riconosciuto del moderno romanzo psicologico.

Tóibín concentra la narrazione sui quattro anni della vita di James che vanno dal 1895 al 1899, gli anni che nella famosa e monumentale biografia di Henry James scritta da Leon Edel vengono definiti treacherous years (“anni traditori”), anni di delusione e di profondo malessere spirituale.

Nel 1895  James ha già ha scritto alcuni dei suoi capolavori come Ritratto di signora, Washington Square, Le bostoniane e II carteggio Aspern. É molto ricercato in società, frequenta volentieri i salotti dell’alta società londinese; i suoi libri pur non avendo un grande successo popolare sono però molto apprezzati da un pubblico di lettori colti e raffinati.

Adesso ha deciso di darsi al teatro, e le prime pagine di The Master ci fanno vedere James che va nel teatro dove si recita la “prima” del suo dramma Guy Domville al quale ha affidato le speranze di dare una svolta alla sua carriera.

Ma quando finalmente cala il sipario  James, che si presenta alla ribalta in quanto autore del dramma viene sommerso dai fischi e dalle proteste dei loggionisti che lo seppelliscono di insulti mentre i suoi imbarazzatissimi amici aristocratici in platea cercano invano di mitigare la sua umiliazione applaudendolo.

Tutto questo, mentre nella stessa sera, nelle stesse ore, la commedia Un marito ideale di Oscar Wilde — che James trova fiacca e volgare così come trova “grosso, volgare e irlandese” il suo autore Oscar Wilde nei cui confronti prova un misto di invidia e disprezzo — sta ottenendo un enorme successo e raccoglie applausi a scena aperta.

La polarità James- Wilde ricorre spesso nel libro di Tóibín che nel confronto tra questi due grandi autori fa emergere la diversità di due intelligenze, di due talenti artistici e soprattutto di due stili di vita in completa, totale opposizione.

Dopo questo fiasco clamoroso James decide di tornare alla narrativa, ma prima di rimettersi al lavoro accetta l’invito di alcuni amici dell’aristocrazia inglese che abitano in Irlanda, sperando così di sfuggire agli echi della sua débâcle teatrale.

Gli anni che seguono vengono da James interamente dedicati all’arte e sono gli anni in cui scrive i suoi ultimi grandi capolavori, tra i quali Cosa sapeva Masie, Il giro di vite, Gli Ambasciatori.

Ma a che prezzo? Il processo di Oscar Wilde, la morte della sorella Alice e della cugina Minnie, il suicidio della sua amica Constance Fenimore Cooper lo rendono consapevole dell’aridità (che arriva alla crudeltà) della sua vita privata e della sua sostanziale incapacità di amare qualcuno che non sia un personaggio dei suoi libri.

Henry JamesOgni capitolo in cui il romanzo è suddiviso mescola sapientemente la narrazione lineare degli avvenimenti del periodo di volta in volta preso in esame (ogni capitolo infatti ha per titolo una data: aprile 1895, giugno 1898 e così via) e lunghe parentesi dedicate a ricordi di James che fanno riemergere le persone, gli incontri, i momenti più significativi e decisivi della sua infanzia e della sua giovinezza.

Da questa rete di relazioni familiari (con i genitori, i fratelli, la sorella Alice), con amici ed amiche e persino con i domestici ci viene restituita l’immagine di un uomo continuamente impegnato a nascondere e reprimere i propri sentimenti e le proprie pulsioni e l’omosessualità.

Il titolo che Tóibín (peraltro omosessuale dichiarato, e che alla vita ed ai problemi di artisti omosessuali ha dedicato parecchi scritti, tra i quali Amore in un tempo oscuro. Vite gay da Wilde ad Almodóvar) ha dato al suo libro  assume ad un certo punto una doppia valenza.

Perchè se James è certamente un Maestro della letteratura occidentale, è stato sicuramente, dolorosamente, anche un “maestro nell’arte della riservatezza”.

“Non gli dispiaceva affatto mantenersi invisibile […] era pronto ad ascoltare, ma non a svelare il lavorio della propria mente, l’immaginazione o la profondità dei suoi sentimenti” (p.233).

Il paradosso di James sta in questo: da una parte, tutta la sua opera, come ben sanno tutti coloro che, come me, non si stancano di leggere e di rileggere i suoi libri, da Ritratto di signora a La coppa d’ oro a Le ali della colomba è un monumento alla capacità di comprendere le infinite sfumature dell’ umano sentire.

Dall’altra parte, quali fossero le reali emozioni di Henry James, quali siano  state le sue reazioni emotive di fronte alle morti, i suicidi, le malattie di persone a lui vicinissime per legami familiari e/o affettivi si può forse, solo intuirla e sembra che nemmeno la monumentale biografia in cinque volumi — che io non ho letto perchè mai tradotta in italiano — scritta da Edel sia riuscita a intaccare la ferrea barriera di riservatezza che James ha innalzato davanti a se, nonostante l’immensa mole di libri e le 10.000 lettere che ha lasciato.

Proprio lui, che tanto a fondo riusciva a scrutare le più complesse sfumature dell’animo umano, pare non essere mai stato coinvolto in un legame amoroso o dall’erotismo.

Nel romanzo The Master sembra proprio che Tóibín, utilizzando la tecnica del guardare le cose solo ed esclusivamente dalla prospettiva interiore di Henry James (adottando dunque quella particolarissima tecnica del “punto di vista circoscritto” teorizzata e portata all’eccellenza proprio da James) sia riuscito a varcare quella soglia davanti alla quale saggisti, biografi, critici letterari prima di lui avevano fallito.

Il tema dell’omosessualità repressa è centrale, nel libro, ma è trattato con grande discrezione ed emerge prepotentemente da una scrittura che mi piace definire ” puro James- style”, e cioè attraverso allusioni, non-detto, ricordi e fantasie di James la più toccante delle quali è, a mio parere, quella della notte trascorsa, da ragazzo, con l’amico di gioventù William Dean Howells.

Molto evocative sono anche le pagine in cui Tóibín ci mostra un James non più giovanissimo che prende coscienza del fascino su di lui esercitato dal giovane scultore svedese Hendrick Andersen, conosciuto a Roma, suo ospite poi nella casa di Rye nel Sussex. La frequentazione con Andersen proseguirà poi per molti anni.

Henry James e Andersen
Henry James con Henrik Andersen a Roma nel 1907
Copyright 2007 The New York Times Company

 

Eppure, le pagine in assoluto più belle e toccanti del romanzo di Tóibín a me sono sembrate quelle quelle dedicate alle donne importanti nella vita dello scrittore.

Alice James Minnie Temple Constance Fenimore
Alice James, Minnie Temple, Constance Fenimore

La sorella Alice, morta nel 1892 durante un soggiorno a Londra.

Permettetemi una parentesi: sulla vita di Alice James, sulla sua malattia, sul suo Diario (ne ho scritto tempo fa >> qui) perchè questa ragazza, dotata di una intelligenza che nulla aveva da invidiare a quella dei fratelli William ed Henry fu vittima delle convenzioni sociali del tempo che per la donna vedevano solo un futuro di moglie e di madre e che per questo si lasciò letteralmente morire. Sto divagando solo apparentemente, perchè la vita di Alice James ci dice tante cose anche sull’egoismo di Henry.

La cugina Minny (o Minnie)  Temple, morta di tubercolosi a 24 anni e le cui caratteristiche ritroviamo in molte delle belle, intelligenti ragazze americane che popolano i romanzi di James (Daisy Miller ed Isabel Archer le più note). Henry adorava la cugina Minnie, e forse proprio per questo la considerava più o meno consapevolmente “pericolosa”, tanto che — scrive Tóibín — “lui l’aveva preferita morta anzichè viva […] aveva saputo trattarla una volta che le era stata rubata la vita, ma […] le aveva negato il suo aiuto quando glielo aveva gentilmente chiesto” (p.129)

La scrittrice Constance Fenimore Cooper, che si suicidò gettandosi dal balcone della sua casa di Venezia, grandissima amica di James ma che James abbandonò proprio nel momento in cui lei, sprofondata in una terribile crisi depressiva, aveva invocato invano la sua compagnia e l’aveva pregato di raggiungerla a Venezia.

A Constance ed alla sua morte sono dedicati alcuni dei più bei capitoli del libro (magnifica la scena in cui James ed il gondoliere veneziano, di notte, gettano nelle acque della laguna i vestiti, la biancheria, le scarpe della suicida Constance).

Sono, queste tre donne, figure che hanno lasciato segni indelebili nella vita emotiva di James e nei confronti delle quali egli non riesce a esorcizzare la colpevole sensazione di essere stato causa di grandi sofferenze. Donne alle quali pensa con affetto e rimpianto ma anche con la fredda consapevolezza del proprio enorme egoismo.

Superfluo dire che tutte e tre le donne si ritrovano in molti personaggi femminili dei racconti e dei romanzi dl grande scrittore…

Con una serie di flash-back intensi, Tóibín ci riporta dunque anche alla genesi dell’opera letteraria di James. Gli episodi della sua vita raccontati qui con un continuo avanti e indietro temporale ci mostrano il delicato confine che separa la realtà dalla finzione. Suo padre, la sorella, la cugina, i suoi problemi di salute, i suoi studi, le chiacchiere londinesi… tutto diventa materiale per la sua immaginazione. Si va a poco a poco delineando — attraverso i ricordi d’infanzia, le sue aspirazioni, la sua vita sociale, Henry James come persona.

Un uomo che sembra sempre fluttuare sopra gli avvenimenti e le altre persone guardando, ascoltando, osservando, sempre alla ricerca di materiale per le sue narrazioni.

Quello che viene fuori dalla scrittura sobria, calma, riposante di Tóibín è — potremmo dire parafrasando il titolo di uno dei capolavori dello stesso James — il “ritratto di un signore” che trasforma la vita in letteratura, un uomo per il quale tutto non è che materiale che serve ad alimentare l’ispirazione letteraria.

Tecnicamente il libro è certamente da definirsi “romanzo” o “biografia romanzata” ma — basato com’è su una mole impressionante di fonti e di documenti e soprattutto su un’attenta lettura delle opere di James e del suo epistolario — a me è sembrato che Tóibín abbia delineato con grandissima sensibilità ed empatia un magnifico ritratto psicologico del grande scrittore.

Audace biografia letteraria, commovente omaggio al Maestro, The Master è anche un bellissimo romanzo che si interroga sui conflitti tra creazione letteraria e vita quotidiana.

Colm Toibin
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RITRATTO DI SIGNORA – HENRY JAMES

John Malkovich
Gilbert Osmond (John Malkovich) nel film Ritratto di signora (1996)

Isabel Archer, la protagonista di Ritratto di signora di Henry James, diventata molto ricca grazie all’eredità ricevuta dallo zio Touchett, dopo aver rifiutato due ottimi e ricchi pretendenti (l’industriale americano Caspar Goodwood e l’inglese Lord Warburton) finisce per innamorarsi e sposare l’ambiguo Gilbert Osmond andando così incontro a una vita segnata da solitudine ed infelicità.

Come spesso accade nei romanzi di James, mentre ci sono momenti che vengono narrati con minuziosa analiticità, altri vengono invece completamente (e volutamente) taciuti. James non racconta, ad esempio, la scena del fidanzamento con Osmond, che risulterà fatale per Isabel. Per molti lettori rischia di rimanere così non del tutto comprensibile la motivazione profonda che porta una ragazza che respingendo la domanda di matrimonio di Goodwood aveva detto “Amo troppo la mia libertà. Se c’è qualcosa al mondo alla quale io sia attaccata […] è la mia indipendenza personale” a cadere poi tanto ingenuamente nella trappola tesale da Osmond e dalla sua amica madame Merle.

Ho rivisto proprio qualche giorno fa il bel film che dal libro ha tratto Jane Campion, in cui all’eccellente Isabel Archer di Nicole Kidman si affianca il diabolico Gilbert Osmond di John Malkovich. Continuo a pensare che Jane Campion abbia fatto un ottimo lavoro e che sia riuscita a cogliere in pieno l’atmosfera del romanzo di James pur reinterpretandone radicalmente, nel finale, il senso complessivo. Credo però anche che la difficoltà di concentrare nel tempo di un film le circa seicento pagine di analisi psicologica di James l’abbia in qualche modo costretta a semplificare il personaggio di Osmond, presentato forse un po’ troppo superficialmente come “cacciatore di dote”. Osmond è certamente attratto dalla ricchezza di Isabel ma nel romanzo questo elemento — pure molto importante — risulta — anche se può sembrare paradossale — quasi in secondo piano rispetto ad altre caratteristiche che rendono lui personaggio molto più inquietante e mortifero che nel film e la sua relazione con Isabel molto più complessa.

L’Osmond di Campion-Malkovich è, inoltre, così evidentemente malvagio e insopportabile fin dall’inizio che davvero risulta difficile credere come Isabel, per quanto “di poca esperienza” e con “la sua innocenza confidente ad un tempo e dogmatica” ma descritta anche come “molto intelligente” e con “un irresistibile bisogno di stimarsi” se ne possa innamorare. Il fatto è che se da una parte Isabel, come scrive James “nelle situazioni più gravi, quando avrebbe avuto bisogno di usare soltanto della sua ragione, doveva pagare il fio di aver sempre dato via libera alla facoltà di vedere senza giudicare” è altrettanto vero che l’Osmond del romanzo si svela molto più lentamente e soprattutto si comporta sempre, formalmente, in modo assolutamente ineccepibile e corretto.

Mi sono in un certo modo divertita a tratteggiare un identikit di Gilbert Osmond servendomi di quello che di lui ci svela Henry James.

Osmond fa la sua comparsa a circa un terzo del romanzo. Ha quarantanni, James descrive il suo aspetto fisico con molta precisione. A poco a poco, nel corso della lettura, emergono anche le sue caratteristiche interiori che sono quelle di un uomo che “aveva sempre di mira l’effetto”, che “sotto la maschera di occuparsi solo dei valori interiori […] viveva esclusivamente per il mondo”. “Qualsiasi cosa facesse era posa, posa così sottilmente studiata, che, se uno non fosse stato più in guardia, l’avrebbe senz’altro scambiata per spontaneità”. “La sua ambizione non era di piacere al mondo; ma di piacere a se stesso con l’eccitarne la curiosità, senza soddisfarla. Ingannare così il mondo gli dava sempre un senso di grandezza”.

Osmond non è un sadico, ma Isabel lo percepisce sempre più come un essere mortifero che possiede “la facoltà […] di fare appassire qualsiasi cosa toccasse, di guastar […] qualsiasi cosa guardasse”. “Era come s’egli avesse avuto il malocchio, come se la sua presenza fosse stata un contagio e il suo favore una disgrazia”. Nella lunga notte insonne che Isabel trascorre a riflettere sul marito, pensa  a proposito dei suoi comportamenti  che   “Non si trattava di misfatti, di turpitudine: ella non poteva accusarlo di nulla, o poteva accusarlo di una cosa sola, che non era un delitto. Non poteva dire ch’egli avesse fatto alcun male: non era violento, non era crudele; ella credeva semplicemente che la odiasse.Questo era tutto ciò di cui lo accusava, e ciò che rendeva più disperata la sua causa era il fatto che questo non era un delitto, perchè contro un delitto ella avrebbe potuto trovare soccorso”

Ma perchè Osmond, che all’inizio era stato molto piacevolmente colpito dalla bellezza e dalla intelligenza di Isabel tanto che se ne era effettivamente innamorato, ha finito per odiarla? James ce lo dice attraverso i pensieri della stessa Isabel, che ricorda:

“Egli le aveva detto un giorno che aveva troppe idee e che doveva liberarsene. Le aveva detto questo già prima del loro matrimonio, ma allora ella non ci aveva fatto caso: più tardi soltanto le era tornato in mente […] Questo egli aveva voluto dire: gli sarebbe piaciuto che ella non avesse nulla di suo, tranne la graziosa apparenza. Ella aveva sempre saputo di avere troppe idee: ne aveva anche di più di quel che egli avesse supposto, di più di quel ch’ella gli avesse espresso quando egli le aveva domandato di sposarlo”

Nel romanzo ci sono tre colloqui fondamentali per comprendere Osmond e la sua relazione con Isabel.

Quello tra Isabel e la sua amica, la giornalista Henrietta. Quando questa le chiede: “Che cosa ti fa lui?” Isabel risponde: “Nulla, ma non mi ama”.

Quello tra Osmond e Madame Merle, in cui ad un certo punto lui  si lamenta: “Domandavo assai poco: domandavo soltanto che lei mi volesse bene […] che ella mi adorasse, se vuoi. Oh, si, ne avevo bisogno”

Il terzo, drammatico colloquio si svolge tra Isabel ed Osmond che le dice (e qui le sue parole sono veramente illuminanti: “Io ho un’idea precisa di quel che dovrebbe essere una moglie, di quel che mia moglie dovrebbe o non dovrebbe fare […] tu sorridi in modo molto espressivo quando parlo di “noi”: ma ti assicuro che “noi”, “noi”, signora Osmond, è tutto quel che conosco. Io prendo sul serio il nostro matrimonio, ma sembra che tu abbia trovato il modo di far diversamente […] può essere una vicinanza sgradevole, ma l’hai scelta tu, di tua libera volontà. Non ti piace che te lo rammenti, lo so; ma io te lo voglio rammentare perchè […] perchè penso che dobbiamo accettare le conseguenze delle nostre azioni, poichè quello che io pregio maggiormente nella vita è l’onore”

Ed è questo appello alla responsabilità la vera trappola che distrugge Isabel. La quale infatti, pur avendone la possibilità, si rifiuta di abbandonare Osmond e ad Henrietta che le chiede: “Perchè non lo lasci?” risponde appunto “Dobbiamo accettare le conseguenze dei nostri atti. L’ho sposato davanti a tutto il mondo: ero perfettamente libera, non avrei potuto fare qualcosa più di proposito. Non si può cambiare in questo modo”.

E così la volontà di controllo totale di Osmond si salda con il senso di responsabilità di Isabel, che si sente “colta in una rete di fila sottilissime” e  sa “di aver buttata via la sua vita”.

The portrait of a lady è dunque un romanzo di formazione che descrive minuziosamente la manipolazione umana ed una acuta analisi di quale orrenda trappola possa diventare il conformismo: agito e adorato da Osmond, accettato e subito da Isabel Archer. Lo stesso James affermò in seguito che “L’idea di fondo è che la poverina, la quale, coi suoi sogni di libertà e di nobiltà, crede di aver compiuto un gesto generoso, spontaneo ed avveduto, si ritrova in realtà schiacciata dagli ingranaggi del convenzionale” ed in un passaggio del romanzo avverte il lettore, difendendo la sua Isabel: “vi prego di non sorridere di questa giovane donna […] era una creatura piena di buona fede e se c’era qualche follia nella sua saggezza, quelli che volessero giudicarla severamente potranno aver la soddisfazione di constatare che più tardi ella rinsavirà, ma solo a prezzo dell’accumularsi di altre follie che quasi reclameranno di venir compatite”.

Jane Campion termina il film alla penultima pagina del romanzo di James, cambiando  così completamente il senso della storia. Si tratta di una modifica apparentemente leggera ma che invece pesa profondamente su tutto il film. Nell’ultima pagina del testo di James, infatti, Isabel, rientrata in Inghilterra per vegliare il cugino Ralph gravemente malato, assisterà alla sua morte e, consapevole di averlo sempre amato, tornerà alla sua prigione romana, sapendo di avere sbagliato tutto. James non spiega perchè Isabel firmi così la sua condanna, e conclude il racconto con un sacrificio borghese. Nel film invece la Campion taglia il suo ritorno dal marito lasciandoci intravedere la possibilità che lo abbandoni definitivamente ed offrendole in questo modo  un’opportunità di riscatto.

John Malkovich e Nicole Kidman
Isabel Archer (Nikole Kidman) e Gilbert Osmond (John Malkovich in Ritratto di Signora

I GIORNALI – HENRY JAMES

Henry JAMES, I Giornali, (tit. orig. The Papers), a cura e traduz. di Donatella Izzo, p. 162, Liberilibri, ISBN 88-85140-03-3

Di Henry James il grande pubblico generalmente conosce, anche per le fortunate trasposizioni cinematografiche che ne sono state ricavate, i grandi romanzi come Ritratto di Signora, La coppa d’oro, Le bostoniane, lo straordinario racconto Il giro di vite. Ma James è uno scrittore che non finisce mai di stupirmi ed incantarmi, la sua produzione letteraria è uno vero scrigno di gioielli.

Daumier,1856
Questo I Giornali, per esempio. Un racconto lungo (o romanzo breve) scritto quando il suo autore aveva già prodotto la maggior parte dei suoi lavori più importanti e che a mio parere è testo da non trascurare.

Non solo perchè presenta un Henry James nelle vesti piuttosto insolite dell’analista della nascente comunicazione di massa piuttosto che in quelle che in genere più lo caratterizzano e cioè di acuto osservatore dell’impatto tra cultura americana — semplice ed ingenua — e cultura europea complessa e carica di secoli di esperienza ma perchè, a distanza di più di cento anni (il racconto fu pubblicato nel 1903) è ancora attualissimo nei contenuti e, per molti versi, addirittura profetico.

La maiuscola del titolo (The Papers) non è affatto casuale: indica infatti una identità collettiva, un vero e proprio istituto che sta a rappresentare una civiltà nascente, una realtà nuova dominata dalla comunicazione di massa.

Lo scenario del racconto è la Londra di inizio Novecento ed in particolare quella dello Strand e di Fleet Street, la Londra del giornalismo e degli affari.

Protagonisti due giovani reporter: Maud Blandey e Howard Bight, che in questo mondo spietato aspirano a fare carriera.

Non è la prima volta che James inserisce in una sua opera figure di giornalisti: lo aveva fatto in Ritratto di signora, ne Le ali della colomba, ne Il riflettore. E’ un tema, quello del giornalismo inteso a volte in parallelo e/o in contrapposizione con la letteratura “colta” che lo interessa parecchio. Gli stessi protagonisti di questo racconto hanno, in realtà, ambizioni letterarie.

Alla coppia di reporter fanno da contrappunto altri due personaggi: Sir A.B.C. Beadel-Muffet — personaggio pubblico di cui tutti i giornali parlano, uomo astuto ed arrivista — cui fa da contraltare l’educato, scialbo e timido commediografo Mortimer Marshal il quale, al contrario, non riesce ad ottenere che i giornali si occupino di lui benchè egli lo desideri ardentemente. Di questi quattro personaggi il lettore ne vede solo tre, perchè di Beadel-Muffet si parla sempre ma non compare mai.

Scrive Donatella Izzo nel suo ottimo saggio introduttivo: “Come in un gioco stilizzato dei quattro cantoni, i personaggi costruiranno l’intera dinamica dell’intreccio con il loro disporsi, lungo tutto il racconto, in ogni possibile rapporto di simmetria o d’opposizione, talvolta scambiandosi i ruoli, talvolta solo aspirandovi: “entrando” o “uscendo” dai giornali, salendo e scendendo nella carriera, trasformandosi da prede in cacciatori”

Nel meccanismo mediatico non è facile entrare (Marshal non vi riesce) ma è ancora più difficile uscirne e di questo fa esperienza Beadel-Muffet il quale, ad un certo punto, vorrebbe non si parlasse più di lui.

“La cosa diabolica è che non può essere aiutato. La sua unica idea di aiuto, dal giorno che ha aperto gli occhi, è stata di essere citato — maledetta parola! — col dovuto rilievo: è il solo tipo di aiuto che esista in rapporto a lui. E allora che cosa vuoi che si possa fare ora che si dà il caso che lui voglia che finisca […] Si deve forse citare il fatto che lui non vuole essere citato — mai, mai, per favore, mai più? Te lo immagini il successo di una cosa del genere […] No, deve morire così com’è vissuto — il Principale Personaggio Pubblico del suo tempo” (p.32)

I Giornali è un racconto tutto basato sulla parola e sul dialogo. L’azione è tutta verbale e le svolte drammatiche della vicenda (che pure ci sono) non avvengono sotto i nostri occhi di lettori ma sono “dette” dai personaggi e soprattutto dalla voce fuori campo degli strilloni delle edizioni straordinarie. Dunque l’azione c’è, ma si svolge interamente sul piano mentale.

La cifra stilistica del racconto è ardua, il tessuto verbale di straordinaria intensità; James utilizza massicciamente le figure metaforiche ed immagini molto elaborate. “Indirection è, insomma, la cifra di questa prosa: l’espressione indiretta, obliqua, mediata, programmaticamente tangenziale” scrive la Izzo (la quale ha curato anche la traduzione del testo) che aggiunge, a proposito della sintassi: “di tutti gli elementi, forse quello che in modo più decisivo contribuisce alla famosa “difficoltà” della prosa jamesiana; quello che più impone al lettore (e al traduttore) estenuanti ginnastiche mentali” .

Quello che emerge da questo lungo e denso racconto è un mondo del giornalismo rappresentato come un meccanismo sovrapersonale ed incontrollabile descritto a volte con immagini antropomorfiche come quando leggiamo che i Giornali “ruggivano e risuonavano più che mai per la carne nuova che veniva gettata loro in pasto” (p.130) ed un mestiere, quello del giornalista, in cui è necessario essere feroci (“Io non ho la tua ferocia”, dice ad un certo punto Maud ad Howard). Un mondo in cui i due giovani reporter passano continuamente da sentimenti di onnipotenza (“Noi possiamo — sorrise consapevole — dare la morte”) a sentimenti di frustrazione e di impotenza, perchè ci si accorge, ad un certo punto, che la comunicazione di massa è cieco ingranaggio che stritola, un organismo che ha una sua vita propria.

Maud e Howard, alla fine, tentano di uscire dalla spietata logica del mercato e rinunciano ai Giornali, ma è una rinuncia che, più che un una ribellione, somiglia ad una resa.

Perchè sanno perfettamente che comunque vadano le cose esisteranno sempre dei Marshal e dei Beadel-Muffet, esisterà “il piccolo desiderio di distinguersi nel mondo” e che:

“La gente […] quasi preferisce che si parli a vanvera di loro e se ne dica male, piuttosto che non se ne parli affatto […] Non è soltanto che se gli offri appena la punta della canna balzano ad afferrarla come pesci affamati; è che sono loro a saltare dritti fuori dall’acqua, a saltare a migliaia e a venire ondeggiando e frusciando, a bocca aperta e con gli occhi a palla, fin davanti alla tua porta”

post-itUna piccola notazione: purtroppo della gran mole delle opere di Henry James non c’è molto nei cataloghi italiani. Un romanzo importante come Europei non mi risulta essere stato neanche tradotto, Gli ambasciatori — considerato uno dei suoi capolavori e pubblicato in Italia nella collana di Frassinelli diretta da Aldo Busi — è di difficilissimo reperimento (io ci ho provato senza successo) e i racconti sono sparpagliati in volumi e volumetti. Posseggo il bel romanzo L’americano nella vecchia collana della Biblioteca Romantica Mondadori (quella con la copertina verde telata con la piccola rosa dorata e il nastrino segnalibro) e me lo tengo caro perchè è ormai introvabile. Come altrettanto cari  mi tengo La musa tragica e la stupenda raccolta Racconti di fantasmi nei Millenni Einaudi, anche questi spariti dalla circolazione.

Constatare che Henry James, e cioè uno dei massimi autori della letteratura occidentale, viene trattato in questo modo dalle case editrici mi fa ormai ahimè sospettare che se non ci fossero stati i film di successo oggi sarebbe difficile trovare in libreria anche Ritratto di signora, La coppa d’oro e Il giro di vite.

E questo  mi mette, scusate, un po’ di amarezza.

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ALICE JAMES: QUANDO MORIRE DIVENTA UN’ARTE

Alice James (1848-1892)

E’ stato ristampato, a distanza di vent’anni dalla prima pubblicazione in Italia, il Diario che Alice James tenne dal 1889 al 1892, data della sua morte.
Sorella di due grandi personalità come lo scrittore Henry James e del filosofo e psicologo William James, affine a loro per intelligenza, cultura ed ambizione, Alice era però una donna cui l’epoca e l’ambiente rendevano impossibile anche solo sperare di potere realizzare le proprie aspirazioni. Da lei ci si aspettava che, come le altre donne della media e alta borghesia americana, si sposasse, facesse figli, diventasse una perfetta padrona di casa. Come sua madre.
Alice però rifiutò questo destino, e lo fece reagendo in un modo che come ha scritto Laura Lepri su Il Sole 24 Ore del 3/9/2006 “avrebbe fatto la gioia di Sigmund Freud”. Alla morte del padre, alla quale era stata legata da fortissimo amore-odio, e che era privo di una gamba, si inchiodò su una sedia dalla quale non si sarebbe più alzata. Decise insomma di diventare paralitica. Da quel momento e da quella postazione iniziò tutto un turbinio di amicizie, conoscenze, relazioni epistolari, riflessioni assistita, dal 1873, dalla forte, affettuosa Katherine, che le farà da madre, amica, governante e infermiera.

Cominciò a tenere segretamente un diario nel 1889. In esso annotava le sue riflessioni sulla cronaca, la politica e la cultura dell’Inghilterra dove si era trasferita definitivamente assieme al fratello Henry. Ma nel diario descriveva anche se stessa con feroce autoironia definendosi “dittatore paralizzato” e”zitella inacidita” preparandosi al grande evento della sua vita: la propria morte.

Costantemente tentata dall’idea del suicidio, con la morte ci giocava; la immaginava, ci scherzava su, temeva solo di non gustarla appieno, morendo nel sonno. La malattia e la morte sono l’espressione della sua competizione e della sua realizzazione. Non essendole concesso di distinguersi in altro modo, sceglie di distinguersi “per differenza”. Fino a che, il 31 maggio del 1891, potè scrivere nel diario:

“Tutto arriva a colui che sa attendere! Può darsi che le mie aspirazioni fossero stravaganti, ma oggi non posso lamentarmi che non si siano brillantemente realizzate!”

Quel giorno, un medico londinese le aveva diagnosticato un tumore al seno. Finalmente qualcosa di concreto.

Da quel momento Alice cura la regia di uno spettcolo che sarà costituito dalla sua “uscita di scena”, cioè dalla sua morte.
Un solo pensiero la affligge: non potervi assistere lei stessa: “Visto che il battesimo mi è stato negato dai miei genitori, il matrimonio da uomini insensibili e ciechi, è un peccato che non possa assistere a questa mia prima ed ultima cerimonia”. E ancora: “la difficoltà del morire sta nel fatto che la cosa non si può raccontare ai propri amici, e allora dov’è il divertimento?”

Alla sua morte, la fedele Katherine fece stampare privatamente quattro copie del diario: una per se ed una per ciascuno dei fratelli ancora in vita e che erano completamente all’oscuro dell’esistenza del diario.
William ne fu felice. Henry invece, che aveva un terrore folle della pubblicità e che difendeva ossessivamente la propria privacy ne rimase atterrito.
In una lettera al fratello William espresse una grande apprezzamento per le doti letterarie di Alice, ma poi non se la sentì di conservare pagine in cui si parlava tanto anche di lui. E poco dopo bruciò la copia in suo possesso.

Si deve sempre a Katherine se esso è arrivato sino a noi. Nel 1934, ormai ottantaquattrenne, Katherine ne incoraggiò la pubblicazione ufficiale. Il diario di Alice ottenne un immediato successo di critica e Virginia Woolf lo segnalò fra i libri che meritavano di essere letti.

Scrive Maria Antonietta Saracino nella sua acuta, sensibile e documentata prefazione:
“Morire può dunque essere davvero un’arte, una vocazione? […] Con il suo atteggiamento di sfida verso l’ordine sociale, verso la razionalità borghese che allontana da sé la morte come fa con i pazzi e gli anormali, Alice, in realtà, è della vita che sta gridando tutto lo scandalo.

Parlando di sé, parla di infinite altre donne come lei che a questo scandalo non sono riuscite a sottrarsi scrivendone, rende giustizia anche a tutte coloro che, non godendo del privilegio di un cognome famoso, dalla Storia sono state condannate al silenzio”.

Alice James, Il Diario 1889-1892,Traduz. e introduz. di Maria Antonietta Saracino, Nutrimenti, Roma, 2006,

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