Nicholas Stargardt, La guerra tedesca. Una nazione sotto le armi 1939-1945 (tit. orig.le The German War), traduz. Filippo Verzotto, pp. 832, Neri Pozza
Nel 1939 i tedeschi, ancora traumatizzati dalla sconfitta e dal ricordo del 1918 non volevano affatto una nuova guerra. Nonostante ciò, la loro cieca determinazione fece sì che i combattimenti durassero fino al 1945.
Com’è stato possibile che il popolo tedesco, uno dei popoli più colti d’Europa abbia potuto aderire in massa — fino al disastro finale — all’impresa nazista?
Com’è stato possibile che siano caduti nella stragrande maggioranza nella trappola della propaganda orchestrata da Goebbels e dell’ideologia della razza di Rosenberg che confondessero una guerra intenzionale e brutale di conquista coloniale con una guerra alla quale erano stati costretti per difendere la patria dalle macchinazioni degli Alleati e dall’aggressione polacca? Perchè è a questo che ha creduto la maggior parte dei tedeschi. Com’era possibile che vedessero in se stessi dei patrioti provocati, attaccati, accerchiati anzichè dei guerrieri che si battevano per la “razza superiore” di Hitler?
Alla fine del 1941 i nazisti si rendevano ormai conto che non avrebbero potuto vincere la guerra. Tuttavia, la Seconda Guerra mondiale sarebbe durata ancora circa tre anni e mezzo. Com’è stato possibile che i tedeschi abbiano potuto resistere per così tanto tempo ai bombardamenti, malgrado le privazioni e le sconfitte? Si rendevano conto di stare combattendo una guerra genocida? In che misura credevano alle menzogne di un regime che li stava portando alla loro stessa rovina? Continua a leggere “LA GUERRA TEDESCA – NICHOLAS STARGARDT”
Thomas Mann durante il suo esilio negli Stati Uniti, nel 1943
“ci sono ore, momenti della vita collettiva […] in cui l’artista non può procedere secondo il suo impulso interiore, perchè più immediate preoccupazioni imposte dalla vita scacciano il pensiero dell’arte; in cui la crisi tormentosa della collettività sconvolge anche lui in modo che quell’appassionato gioco dello sprofondarsi nell’eternamente umano, che si chiama arte, assume davvero l’impronta temporale del lussuoso e dell’ozioso e diventa una impossibilità psichica”
(da Un appello alla ragione, discorso tenuto da Thomas Mann a Berlino il 17 Ottobre 1930)
Mondadori ha ripubblicato, settant’anni dopo la prima edizione del gennaio 1947 (collana ‘Orientamenti’) e arricchita da una importante introduzione di Giorgio Napolitano la raccolta di saggi di contenuto etico-politico che in quella prima edizione era stata curata da Lavinia Mazzucchetti, valorosa germanista e traduttrice — esclusa nel ventennio mussoliniano dall’insegnamento universitario perchè antifascista — ed alla quale Arnoldo Mondadori aveva affidato l’incarico di curare l’Opera Omnia del grande scrittore tedesco. Fu Lavinia Mazzucchetti a voler dare alla raccolta il titolo Moniti all’Europa. Continua a leggere “MONITI ALL’EUROPA – THOMAS MANN”
Stig Dagerman, Autunno tedesco (tit. orig. Tysk höst), traduz. dallo svedese Massimo Ciaravolo, Postfazione Fulvio Ferrari, pp. 160, Iperborea, 2018.
1946. Un giornalista vaga tra le rovine delle città tedesche distrutte dai bombardamenti. Si chiama Stig Dagerman, ha 23 anni, è svedese e nell’autunno del 1946 è stato inviato in Germania per testimoniare delle condizioni in cui si trovano le città tedesche.
Per due mesi egli si aggira tra le rovine e si immerge nelle sofferenze della vita quotidiana dei tedeschi. Ma Dagerman non è solo un giornalista, ha la stoffa e la sensibilità dello scrittore. Il suo sguardo va oltre il semplice reportage.
Per settimane, Dagerman osserva, pone domande, scende nelle cantine e nei rifugi per incontrare e parlare con la gente che vi abita, interrogandosi lui stesso, meditando sulla sofferenza e l’angoscia, l’odio e il senso di colpa. Così, a poco a poco, prende forma il libro Autunno tedesco (dal titolo del primo reportage), libro che si impone subito come una testimonianza di grande forza sulle conseguenze della disfatta tedesca e il destino dell’Europa. Continua a leggere “AUTUNNO TEDESCO – STIG DAGERMAN”
Francia, 1936. André Gide (al centro), il pugno alzato, in occasione dell’inaugurazione dell’Avenue Maxim Gor’kij a Villejuif Fonte Le Figaro
“Ho sempre dichiarato apertamente che il desiderio di rimanere coerenti con se stessi comportava troppo spesso un rischio di insincerità; e penso che sia importante essere sinceri quando con la nostra è impegnata la fede di molti”
Il volume di cui parlo oggi in realtà ne rassembla due pubblicati, a suo tempo, separatamente. I due testi sono entrambi smilzi: tutto il volume Gallimard che li contiene entrambi conta complessivamente circa 220 pagine note comprese, ma si rivelarono, all’ epoca in cui uscirono (1936-37), assolutamente clamorosi. Costituirono una vera e propria bomba che per parecchi mesi sconvolse il microcosmo politico e letterario dell’epoca e che ancora oggi sono in grado di suscitare, a mio parere, un grande interesse e non solo come documento di testimonianza storica.
Da qui in avanti utilizzerò i due titoli nella versione italiana Ritorno dall’URSS e Postille al mio Ritorno dall’URSS.
Qui in Italia, Bollati Boringhieri pubblicò Ritorno dall’URSS nel 1988 tradotto in italiano da G. Guglielmi ma attualmente — per quel che ne so — il volume non risulta più disponibile e dunque, come anche troppo spesso mi succede, mi sono dovuta rivolgere, per poterlo leggere, ai “cugini” francesi…
Più che un racconto di viaggio, Ritorno dall’URSS descrive la delusione di André Gide e dei suoi cinque compagni di viaggio in occasione del loro soggiorno in Unione Sovietica nel 1936. Vedremo anche perchè, appena l’anno successivo, Gide sentì il bisogno di scrivere e di dare alle stampe le Postille e che cosa, di nuovo rispetto al primo libro, in esse vi si trova.
A volte, però, una lettura semplicemente testuale di un libro si può rivelare insufficiente a renderne l’importanza e il significato profondo. Le due testimonianze di André Gide a me sembrano costituire un esempio molto significativo di questa tipologia di testi scritti. Ci troviamo di fronte ad un’opera la cui comprensione richiede non solo la conoscenza di un antefatto ma anche di quanto, in seguito, suscitato dalla sua pubblicazione.
Si tratta, a mio parere, di una storia molto interessante che merita di esser raccontata — anche se per sommi capi — , ma di certo non potrò essere breve…
Klaus Mann, Contre la barbarie. 1925-1948, traduzione dal tedesco di Dominique Laure Miermont e Corinna Gepner, Prefazione di Michel Crépu, pp. 480, Points, Collection Points Essais, 2010
Klaus Mann lasciò la Germania, andando in volontario esilio nel 1933 ed esattamente il 13 marzo. Precisare la data è importante: due mesi prima infatti, in gennaio, Hitler era diventato Cancelliere.
Privato dai nazisti della sua nazionalità nel 1934, Klaus considerò questa sua messa al bando cosa di cui andare orgoglioso.
Contre la barbarie raccoglie sessantasette articoli, testi di conferenze, documenti mai pubblicati ritrovati negli archivi del Fondo Klaus Mann, testi di trasmissioni radiofoniche, lettere, interviste effettuate o rilasciate dallo stesso Klaus. La maggior parte di questi testi firmati dall’autore di Mephisto e de La svolta e che vanno dal 1925 al 1948 sono (per quel che mi risulta) ancora inediti in Italia nonostante la loro evidente importanza.
I testi qui raccolti non rappresentano che una piccola parte degli scritti politici di Klaus Mann, ma la loro pubblicazione è doppiamente importante non solo perchè costituiscono una preziosa documentazione su un drammatico periodo della storia europea, ma anche perchè molte delle considerazioni in essi contenute presentano elementi di sconcertante attualità.
Ancora una volta, non riesco a comprendere perchè certi libri rimangano inediti in Italia mentre altrove sono da anni disponibili anche in edizioni economiche… Continua a leggere “KLAUS MANN CONTRO LA BARBARIE”
Annemarie Schwarzenbach a 24 anni, in quella che probabilmente è la sua fotografia più famosa, scattata nel 1931 a Berlino da Marianne Breslauer, la sua amica fotografa ex allieva di Man Ray.
…Ma su questa foto avrò modo di tornare.
“Angelo inconsolabile”la chiama Roger Martin du Gard nella dedica scritta su una copia del suo Confessione africana: “Per Annemarie Schwarzenbach, ringraziandola di camminare su questa terra con il suo bel viso di angelo inconsolabile”. “Angelo inconsolabile” la chiameranno spesso anche Klaus ed Erika, les enfants terribles figli di Thomas Mann.
Il suo nome in effetti compare nei luoghi più diversi e più singolari. Carson McCullers, pazzamente innamorata di Annemarie le dedica il suo romanzo più famoso Riflessi in un occhio d’oro. Klaus Mann parla spesso di lei nella sua autobiografia La svolta e nei suoi Diari, il nome di Annemarie compare nella corrispondenza di Catherine Pozzi con suo figlio Claude Bourdet, con lo pseudonimo di Christine ne La via crudele di Ella Maillart.
Ne La svolta Klaus Mann descrive così la reazione del padre Thomas quando incontrò per la prima volta la sua amica Annemarie: «[…] il Mago la guardò per un po’ di sguincio, con un misto di preoccupazione e di compiacimento. Alla fine sentenziò: “Strano, se lei fosse un giovinetto, dovrebbe essere dichiarata eccezionalmente bella!”». Dichiarazione che è tutto un programma…
Nel 1938, quando lo stato di Annemarie, eroiname, morfinomane, con tendenze suicide e crisi aggressive sempre più difficili da gestire peggiora di nuovo nonostante i numerosi e terribili ricoveri in cliniche specializzate, Thomas Mann la definisce nel suo diario un “angelo devastato”.
Carson McCullers descrive con queste parole Annemarie che le parla di se stessa:
«Non immagini che cosa significhi […] guarire da una simile dipendenza.»
«Da quale dipendenza?»
«Nessuno te ne ha parlato?»
«No, che cosa avrebbero dovuto raccontarmi?»
«Sono morfinomane dall’età di diciotto anni.»
Quando Carson le chiede da quando non prende più la morfina, Annemarie risponde: «Da oggi».
L’americana scriverà in seguito: «Il suo viso era un Donatello, i suoi capelli biondi e morbidi erano tagliati come quelli di un ragazzo; il suo sguardo blu scuro ti scrutava con lentezza; la sua bocca era infantile e dolce».
Klaus Mann comincia a scrivere il suo diario intimo a 25 anni.
Questo volume contiene solo la prima parte dei Diari di Klaus, quella che va dal 1928 al 1935.
Nei Diari, egli non esita a mettere a nudo la propria anima.
Sono pagine che ci mostrano lo spirito irrequieto dell’autore di bellissimi romanzi come Il vulcano o di quel Mephisto ispirato alla figura dell’attore e regista Gustav Gründgens — ex marito della sorella Erika — che aveva aderito al nazismo per non sacrificare la propria carriera e che è stato poi trasposto sullo schermo nel 1981 con il bel film di Istvan Szabó magnificamente interpretato da Karl Maria Brandauer.
Pagine di diario scritte nel momento del crollo dell’universo della giovinezza di Klaus quando a Monaco, la città in cui egli vive, si assiste al disfacimento della Repubblica di Weimar mentre nei cabaret ci si batte a colpi di lancio di confetti.
Nelle pagine di questo diario fittissimo, frenetico, troviamo una miriade di informazioni perchè in esso è rappresentata, attraverso la scrittura e lo sguardo di Klaus, un’ intera epoca.
Leggendo i Diari ci si trova, all’inizio, molto spaesati. Non si tratta di una lettura facile.
Il materiale non è elaborato. Klaus butta giù annotazioni telegrafiche, i riferimenti di contesto sono molto scarsi e le pagine pullulano di sigle e di abbreviazioni. Per fortuna, però, il volume degli Editori Riuniti presenta un eccellente ed utilissimo apparato di note esplicative e un’ottima prefazione di Marino Freschi.
Molte delle annotazioni contenute nei Diari serviranno per la redazione de La Svolta, la bellissima autobiografia che verrà pubblicata per la prima volta nel 1942.
I Diari sono zeppi di nomi, eventi, luoghi, aneddoti.
Si possono però individuare alcuni filoni dominanti e temi ricorrenti.
Il rapporto con il padre, per esempio.
Klaus era il primo figlio maschio di Thomas Mann, nato un anno dopo Erika, la sorella alla quale fu legato sempre da un affetto così profondo da far pensare, ad alcuni, persino a caratteristiche incestuose.
Nei diari ci sono moltissime annotazioni (mai irriverenti) che riguardano il padre Thomas che Klaus chiama (come da sempre hanno fatto tutti i ragazzi di casa Mann) “Il Mago” ed i suoi rapporti con il nazismo avanzante.
Il rapporto con il nazismo, l’atteggiamento da tenere nei confronti dei nazisti e nel momento del disfacimento della Repubblica di Weimar, le discussioni sulla opportunità se non addirittura della necessità, per la famiglia Mann, di lasciare la Germania e di rifugiarsi all’estero cominciano, da un certo momento in poi, ad essere l’argomento principale delle discussioni in casa Mann e con i loro ospiti.
Da tenere presente anche che Katia Mann, moglie di Thomas e madre di Klaus apparteneva ad una ricca famiglia ebrea di Monaco, per cui il problema ebraico era molto presente nella famiglia Mann.
La parola “emigrazione” viene pronunciata per la prima volta il 19 dicembre 1931 ad una cena in casa Mann a Monaco; tra gli ospiti c’è anche il direttore d’orchestra Bruno Walter, legatissimo alla famiglia.
Da quella sera la parola “emigrazione” diventa ossessiva e ricorrente. Thomas esita, gli costa troppo lasciare la Germania, il suo mondo. Si deciderà a partire appena in tempo e quando la situazione è ormai precipitata.
Al contrario, Klaus mostra una grande preveggenza e lucidità politica. Egli infatti già alla fine del 1931 annota: “Sempre politica oltre gli affari”.
Ma l’esistenza di Klaus è contrassegnata anche, da un certo momento in poi, dalla droga dalla quale diventa sempre più dipendente e dall’omosessualità.
Le avventure omoerotiche vengono esibite provocatoriamente e di molte di esse Klaus fornisce, nelle pagine dei Diari, descrizioni ricche di particolari.
Intanto, tutti i salotti d’Europa sono aperti, per il figlio di quello che viene considerato il più grande autore tedesco vivente, a cui nel 1929 è stato conferito il Premio Nobel.
Klaus ha la possibilità di frequentare e di corrispondere con gli intellettuali e gli scrittori più rappresentativi del suo tempo. I Diari sono un turbinìo di nomi: da Crevel a Cocteau a Giraudoux a Gide a Julien Green e innumerevoli altri a quelli di lingua tedesca che Klaus ammira, che considera suoi Maestri: per esempio Stefan George, Gotfried Benn, Stefan Zweig.
Con alcuni di essi però ad un certo punto arriva alla rottura ed allo scontro verbale proprio a proposito dell’atteggiamento da loro tenuto nei confronti di Hitler e dei Nazisti. Questo avviene soprattutto con Gotfried Benn, da lui giudicato troppo condiscendente nei confronti del nazismo e con Stefan Zweig, al quale invia una lettera dai contenuti molto forti e a proposito del quale scriverà “Un altro vigliacco che si tira indietro”.
Gotfried Benn, molti anni dopo, si trovò ad ammettere in La doppia vita:“Quel ragazzo di ventisette anni aveva valutato la situazione, era stato più chiaroveggente di me”.
L’ebreo Zweig si rese conto anche lui di quanto giusto avesse visto Klaus Mann e riuscì a fuggire dall’Austria ormai occupata dai nazisti appena in tempo per non essere travolto dalla catastrofe.
Uno degli aspetti più singolari e inquietanti dei Diari è costituito dal grande numero di sogni che Klaus vi annota. La maggior parte si tratta di incubi, incubi eloquenti e profetici dell’approssimarsi del terrore nazista.
Klaus Mann lascia la Germania il 13 marzo del 1933.
La sua esistenza, così come viene fuori dai Diari, mostra una singolare, affascinante ma anche drammatica oscillazione tra una precoce maturità intellettuale, una lucidissima capacità di analisi politica ed uno stile di vita da dandy viziato, un mixing che si esprime attraverso una febbrile, nevrotica attività, un’esistenza stracolma di incontri, impegni, incarichi, progetti.
Eppure, dal 1933, questo dandy figlio di Thomas Mann si trasforma in vero intellettuale europeo, coinvolto lucidamente nella lotta antifascista.
Fino al suicidio, avvenuto il 21 maggio del 1949 in un albergo di Cannes, incarna una generazione profondamente impegnata e profondamente ossessionata dalla morte.
La lettura del Diario di Klaus spinge anche, in qualche modo, alla compassione per questo giovane uomo colto, intelligente, sincero; per questo tedesco che amava profondamente la Germania ma che forse proprio anche per questo ha saputo, molto prima di tanti altri intellettuali decifrare il nazismo e lottare contro di esso addirittura prima che il Terzo Reich consolidasse il suo potere.
Nella sua autobiografia Klaus, ricordando quei giorni, scriverà:
“Non capivo più i tedeschi! Ma non ero forse un tedesco anch’io? Certo lo ero; e non per la lingua soltanto. La cultura tedesca aveva formato la mia visione cosmica, la mia individualità spirituale, o quanto meno l’aveva influenzata in modo decisivo. Una casa paterna come la mia, un’infanzia sotto il segno dei canti e delle fiabe tedesche, una giovinezza trascorsa con Novalis, Hölderlin, George; come potevo esssere estraneo allo spirito tedesco? […] La Germania mi era divenuta estranea e io ero uno straniero in Germania prima ancora di essermi definitivamente staccato da lei”
E’ un vero peccato che — almeno per quel che ne so io — in Italia non risulta essere stato pubblicato anche il secondo volume dei Diari, quello che va dall’anno dell’esilio al suicidio.
In Francia non solo i Diari sono stati tutti pubblicati integralmente, ma proprio di recente è stato pubblicato dall’editore Daniel Arsand Contre la barbarie, un volume che raccoglie saggi, conferenze, cronache, articoli e lettere di Klaus Mann dal 1925 al 1948 tradotti dal tedesco al francese da Dominique Laure Miermont.
Klaus MANN, La peste bruna. Diari 1931-1935 (Tit. orig. Tagebücher 1931-1935), traduz. di Matilde de Pasquale, Prefazione di Marino Freschi, p. 368, Editori Riuniti, Collana Biblioteca di storia, 1998, ISBN: 8835945658, ISBN-13: 9788835945659 >>
Klaus Mann, Staff sergeant 5th United States Army, Italy 1944
Quando Hitler sale al potere Klaus Mann, assieme a tutta la famiglia, fugge dalla Germania e dopo lunghi vagabondaggi in Europa con lunghe permanenze a Parigi si trasferisce definitivamente negli Stati Uniti, si arruola nell’esercito americano ottenendo anche la cittadinanza americana.
Nel 1945 torna in Germania come militare dell’esercito degli USA e, in una lunghissima lettera al padre Thomas rimasto in America, racconta di una serie di incontri con varie personalità ed ex gerarchi nazisti (Goering, ad esempio), che ha avuto modo di avvicinare in qualità di giornalista militare.
Va anche, assieme ad un collega, a trovare Richard Strauss, il grande musicista che, a differenza della famiglia Mann, era rimasto in Germania e non aveva mai nascosto le sue simpatie per i nazisti.
Il racconto di Klaus al padre Thomas è molto lungo e purtroppo non lo posso riportare per esteso. Assicuro però che sono pagine che fanno correre un brivido lungo la schiena specialmente a chi, come me, considera le opere di Strauss, dal “Rosenkavalier” ad “Elektra” a “Salome” ad “Arianna a Nasso” pagine tra le più splendide che la musica colta occidentale abbia mai prodotto .
Mi limito a stralciare la parte iniziale e quella conclusiva del racconto di Klaus:
“… come corrispondente degli Stati Uniti, mi sono recato da Richard Strauss a Garmisch. Ci facemmo annunciare come due reporter americani
[…]
Eh, si, uomini del suo stampo si arrangiano sempre, sotto qualsiasi regime, non importa. Che i nazi abbiano sulla coscienza una guerra insensata e assassina, che milioni di innocenti siano periti nelle camere a gas, che la Germania sia ora infranta e carbonizzata, che importa ciò a Richard Strauss?
Richard Strauss dice: “Emigrare? Si, se non si potrà più mangiare bene. Sotto il terzo Reich si mangiava benissimo, specialmente quando si coglievano a staio le percentuali di ottanta teatri d’opera. Ad eccezion fatta di un paio di stupidi incidenti, non avevo proprio di che lagnarmi”.
Molti dei capi del nazismo — dice Richard Strauss — erano gente davvero in gamba: Hans Frank, per esempio, il “protettore” della Polonia (“molto fine! molto colto! apprezza le mie opere!”) e Baldur Von Schirach (…) Grazie alla sua protezione la famiglia Strauss godeva a Vienna di una posizione di privilegio: e questo sebbene il figlio del maestro avesse una moglie in senso razziale non inoppugnabile. “Ho il diritto di affermare che mia nuora è la sola ebrea rimasta libera nella Grande Germania”.
“Libera? Eh, no, papà! O, quanto meno, non del tutto!” Era la signora Strauss junior nata Grab, che protestava, civettuola e lamentevole “La mia libertà lasciava alquanto da desiderare. Dimentichi, papà, ciò che ho dovuto sopportare? Mi era forse lecito andare a caccia? Persino il cavalcare mi fu, per un po’ di tempo, proibito…”
Lo giuro: queste furono le sue testuali parole! Ci sono state le leggi di Norimberga, ci fu Auschwitz, ci fu un massacro senza esempi; il più infame regime della storia universale ha degradato gli ebrei a bestie da preda (…) e la nuora di Richard Strauss si lagna per non avere potuto andare a caccia….
Non ne potevo più, e misi fine a quel colloquio rivoltante.
“Se ne vanno già?” Il maestro e la nata Grab volevano trattenerci a pranzo. Io rifiutai. Curt dichiarò anche lui di avere un appuntamento in città, però non seppe resistere al desiderio di chiedere al signor Strauss una sua fotografia con firma. “Ma si, certo. Con piacere!” Il vecchio era raggiante. Poi, volgendosi a me: “Anche lei vuole il mio ritratto?”
“Grazie. Non faccio raccolta”.
La mia risposta deve essere suonata gelida. Le bianche sopracciglia si inarcarono più che mai, più stupite che offese. Poi una spallucciata, un sorriso di superiorità. Questi americani! Ma già si sa quanto siano rozzi e volgari, questi stupidi yankees non apprezzano che i boxeurs e le stars del cinema.”
(da una lettera di Klaus Mann a Thomas Mann del 16 maggio 1945, in Klaus Mann LA SVOLTA, Il Saggiatore, pag. 416 e segg.)