KUNDERA, PROUST E IL SENSO DEL ROMANZO

Milan Kundera

Ne “Il sipario”, una raccolta di brevi note sul senso del romanzo, Milan Kundera riporta questo brano di Proust tratto da “Il Tempo ritrovato” :

… ogni lettore, quando legge, è soltanto il lettore di se stesso. L’opera dello scrittore non è che una specie di strumento ottico che egli offre al lettore per permettergli di scorgere ciò che forse, senza il libro, non avrebbe visto in se stesso. Il riconoscersi del lettore in ciò che il libro dice è la prova della verità di questo….

E Kundera chiosa il pensiero di Proust in questo modo


Tali affermazioni non definiscono solo il senso del romanzo proustiano, definiscono il senso del romanzo tout court

UN SOPRAVVISSUTO DI VARSAVIA – ARNOLD SCHOENBERG

Arnold Schoenberg “UN SOPRAVVISSUTO DI VARSAVIA”

Oratorio per voce recitante, coro maschile ed orchestra op.46

Bamberger Symphoniker, Direttore Horst Stein, Hermann Prey (voce narrante).

Un giorno, discutendo di questo argomento, chiesi a un amico:

«… conosci Un sopravvissuto di Varsavia? – Un sopravvissuto? Chi?»

Non sapeva di che cosa stessi parlando. Eppure Un sopravvissuto di Varsavia (Ein berlebender aus Warschau), oratorio di Arnold Schönberg, è il più grande monumento che la musica abbia mai dedicato all´Olocausto. Tutta l´essenza esistenziale del dramma degli Ebrei del XX secolo è in quest´opera viva e presente. In tutta la sua atroce grandezza. In tutta la sua bellezza atroce. Ci si batte perché degli assassini non vengano dimenticati. E Schönberg, lo abbiamo dimenticato.


  • NSP per il Giorno della Memoria 2009 >>

LO SCHERZO

Alex ColvilleAlex Colville
Visitors are invited to register, 1954
Mendel Art Gallery Collection, Saskatoon (Canada)

Ho riletto in questi giorni, dopo tanti anni, Lo scherzo di Milan Kundera.

Nella Praga del ’48, in pieno regime filosovietico, lo studente Ludvik invia alla sua ragazza una cartolina in cui, per scherzo, scrive:

L’ottimismo è l’oppio dei popoli. Lo spirito sano puzza di imbecillità! Viva Trockij!

La sua vita ne verrà stravolta.

Una commissione di studenti suoi ex amici lo espelle dal Partito, lo esclude dall’Università, Ludvik viene mandato a lavorare in miniera in una compagnia di “Neri”, uno speciale reparto militare costituito da “nemici della rivoluzione”.

Molti anni dopo, l’odiato Zemánek, il suo ex amico un tempo comunista fervente, quello che aveva presieduto la commissione studentesca che aveva sancito la rovina di Ludvik gli dice, parlando delle nuove generazioni (il grassetto è mio):

“Mi piacciono proprio perchè sono diversi. Amano il loro corpo. Noi lo trascuravamo. Amano viaggiare. Noi siamo sempre rimasti inchiodati allo stesso posto. Amano l’avventura. Noi abbiamo sprecato la vita a far riunioni. Amano il jazz. Noi imitavamo senza successo il folklore. Si dedicano egoisticamente a se stessi. Noi volevamo salvare il mondo. In realtà, col nostro messianismo, c’è mancato poco che non lo distruggessimo, il mondo. Forse loro, col loro egoismo, lo salveranno”

Ludvik, dal canto suo, riflette sul fatto che

“tutta la storia della mia vita aveva avuto origine da un errore, dal brutto scherzo della cartolina, da quel caso, da quell’assurdità. E sentii con terrore che le cose nate per errore sono tanto reali quanto le cose nate a ragione e per necessità […] Nessuno rimedierà alle ingiustizie commesse, ma tutte le ingiustizie saranno dimenticate”

A volte le date sono davvero importanti.

Kundera scrisse questo libro nel 1965.

Venne pubblicato in Cecoslovacchia nel 1967.

Venne poi pubblicato in Francia in pieno ’68 con una prefazione di Aragon mentre nel frattempo in Cecoslovacchia il libro veniva ritirato dalla circolazione.

Kundera nel ’75 si trasferì in Francia, dove da allora risiede.

I suoi ultimi libri li ha scritti in francese.

Io lessi per la prima volta Lo scherzo negli anni Novanta.

Il libro di Kundera era una finestra sull’attualità. Di cosa succedesse davvero a Praga e nei cosiddetti “Paesi dell’Est” si sapeva ancora poco, per molti La Grande Illusione esisteva ancora e il romanzo di Kundera lasciava molta gente interdetta.

Dopo Lo scherzo ho letto quasi tutto quello che di Kundera è arrivato in Italia. Del Kundera romanziere i libri che preferisco sono questo e La vita è altrove.

Rileggere Lo scherzo oggi, a vent’anni dalla caduta del Muro di Berlino, dopo essere stata due volte a Praga (la prima volta subito dopo l’implosione dell’URSS, la seconda volta due anni fa) è stato come leggere due libri uguali ma diversi.

Durante la ri-lettura mi ha accompagnato il ricordo di un altro libro, scritto anni dopo quello di Kundera: L’orgia di Praga di Philip Roth , di cui avevo parlato >> qui.

E’ incredibile quanto influisca, nel nostro modo di leggere un libro, la conoscenza che direttamente o indirettamente crediamo di avere del suo contesto di riferimento.

La rilettura de Lo scherzo non mi ha delusa, tutt’altro. Mi è piaciuto quanto e forse di più della prima volta.

Ma è come se avessi letto un libro diverso.

De Lo scherzo posseggo ancora questa vecchia, cara edizione >>

L’immagine che ho inserito nel post  è quella che compare sulla copertina del volume Adelphi.

MORALE DELL’ESSENZIALE E MORALE DELL’ARCHIVIO

Milan Kundera
Milan Kundera

“L’opera […] non è tutto ciò che un romanziere ha scritto: lettere, taccuini, diari, articoli. L’opera è l’esito di un lungo lavoro su un progetto estetico.
Mi spingerò oltre: l’opera è ciò che l’autore approverà nel momento del bilancio. La vita, infatti, è breve, la lettura lunga e la letteratura si sta suicidando con il suo insensato proliferare. Ogni romanziere, cominciando da se stesso, dovrebbe eliminare tutto ciò che è secondario, raccomandare per sé e per gli altri la morale dell’essenziale.

Ma non ci sono solo gli autori, le centinaia, migliaia di autori, ci sono anche i ricercatori che, guidati da una morale completamente opposta, accumulano tutto ciò che trovano nel tentativo di abbracciare il Tutto, loro scopo supremo. Il Tutto, cioè una montagna di scartafacci, di paragrafi cancellati, di capitoli rifiutati dall’autore ma che i ricercatori pubblicano in edizioni dette “critiche” sotto la perfida etichetta di “varianti”, il che significa, se le parole hanno ancora un significato, che tutto ciò che l’autore ha scritto si equivale, è in ugual modo autorizzato da lui.

La morale dell’essenziale ha lasciato il posto alla morale dell’archivio. (L’ideale dell’archivio: la dolce eguaglianza che regna in un’immensa fossa comune).”

(Milan Kundera, Il Sipario, p.109)

  • Di questo libro di Kundera avevo scritto >>qui

L’ACQUA SPORCA DELLA MUSICA

Edvard Munch, L'urlo Non sopporto la musica come sottofondo, mi irrita la musica in macchina, riesco a farmi detestare da qualunque guidatore tutto fiero del suo impianto ad Alta Fedelta perchè appena accende i suoi gioielli io strillo subito: “spegni quella roba”. Che si tratti di Mozart o di Miles Davis, di Bach o John Coltrane, di Sanremo (eventualità   molto improbabile che io m’accompagni ad un Sanremofan, ma  insomma è bello metterci pure Sanremo, giusto per arricchire la casistica esemplificativa) io urlo “spegni”. Detesto chiacchierare se sto ascoltando musica. Se la chiacchierata mi interessa mi affretto a spegnere la musica. Se entro in un ristorante e c’è la musica scappo. Se non posso scappare divento intrattabile.

Gli amici che mi conoscono da anni e sanno quanto io ami la musica continuano a non capire e a dirmi: “ma percheeeè?!?!” Qualcuno —  forse un po’ meno amico  — è arrivato a ringhiarmi — tra l’umiliato e l’offeso — un: “Non hai un cervello multimediale”. Non ha aggiunto il supremo insulto del “Tu non sei una multitasking” ma giuro che poco c’è mancato, e comunque ho provveduto ad integrar  io mentalmente

Eppure, la spiegazione del mio comportamento è molto semplice: per me ascoltare musica è un’attività fine a se stessa; la musica un linguaggio e come tutti i linguaggi richiede — per esser compreso — che gli si presti l’attenzione dovuta. Non è però il mio un atteggiamento che deriva da una teorizzazione, ma il contrario: è un atteggiamento istintivo che ho poi elaborato e razionalizzato.

Ed ecco che proprio in questi giorni mi sono imbattuta in una pagina de L’ignoranza di Kundera nella quale ho trovato espresso, cento volte meglio di quanto avrei mai potuto fare io, questo concetto.

Milan Kundera, che come tutti i suoi lettori sanno bene è un grande conoscitore di musica e musicista egli stesso, riflettendo su un passo di Schömberg a proposito della “musica come rumore” scrive (i grassetti sono miei):

“Se un tempo ascoltavamo la musica per amore della musica, oggi essa urla ovunque e sempre […] urla negli altoparlanti, nelle auto, nei ristoranti, negli ascensori, nelle strade, nelle sale d’attesa, nelle palestre, nelle orecchie tappate dai walkman, musica riscritta, ristrumentata, accorciata, dilaniata, frammenti di rock, di jazz, di opera, flusso in cui tutto si mescola, al punto che non sappiamo chi sia il compositore (la musica diventata rumore è anonima), che non distinguiamo l’inizio dalla fine (la musica diventata rumore non ha forma): l’acqua sporca della musica dove la musica muore

Il libro di Kundera è del 2000: agli strumenti tecnologici che lui elenca se ne è aggiunto oggi un altro, vero strumento di tortura: la suoneria dei cellulari.

LETTERATURA, LETTERATURE, PROVINCIALISMI

Milan Kundera Il sipario “Ci sono due contesti elementari nei quali è possibile collocare un’opera d’arte: la storia della sua nazione (chiamiamolo il piccolo contesto) o la storia sovranazionale della sua arte (chiamiamolo il grande contesto). […] un romanzo […] a causa del legame con la sua lingua, è studiato in tutte le università del mondo nell’ambito del piccolo contesto nazionale. L’Europa non è riuscita a pensare la propria letteratura come un’unità storica e non mi stancherò di ripetere che in questo consiste il suo irreparabile fallimento intellettuale. Infatti per restare nella storia del romanzo: è a Rabelais che Sterne reagisce, è Sterne che ispira Diderot, è a Cervantes che Fielding si richiama costantemente, è con Fielding che Stendhal si misura, è la tradizione di Flaubert che prosegue l’opera di Joyce, è nella sua riflessione su Joyce che Broch sviluppa una poetica del romanzo, è Kafka che fa capire a Garcia Marquez che è possibile abbandonare la tradizione e “scrivere diversamente”.

Quel che ho appena detto è stato formulato per la prima volta da Goethe: “La letteratura nazionale non rappresenta più granchè ai giorni nostri, stiamo entrando nell’era della letteratura mondiale ” […]. E’ questo, se vogliamo, il testamento di Goethe. Un altro testamento tradito. Provate infatti ad aprire qualsiasi manuale, qualsiasi antologia: la letteratura universale è sempre presentata come un giustapposizione di letterature nazionali. Come una storia delle letterature! Delle letterature, al plurale!

Eppure Rabelais […] non è stato mai capito così profondamente come da un russo: Bachtin; Dostoevskj da un francese: Gide; Ibsen da un irlandese: G.B. Shaw; James Joyce da un austriaco: Hermann Broch; l’importanza universale della generazione dei grandi nordamericani — Hemingway, Faulkner, Dos Passos — è stata rivelata in primo luogo da alcuni scrittori francesi […]

Questi pochi esempi non sono bizzarre eccezioni alla regola; no, sono la regola: la distanza geografica allontana l’osservatore dal contesto locale e gli permette di abbracciare il grande contesto della Weltliteratur, il solo capace di mostrare il valore estetico di un romanzo, vale a dire gli aspetti sino ad allora sconosciuti dell’esistenza sui quali il romanzo ha saputo far luce; la novità della forma che ha saputo trovare.”

(Milan Kundera, Il Sipario)

MILAN KUNDERA e AMOS OZ

Una delle cose che mi affascina di più, della lettura, è la continua riscoperta del gioco di rimandi e collegamenti che esiste tra ogni libro ed altri libri; le associazioni di idee e connessioni di pensiero che ogni testo suscita.
Perchè ogni libro non è che il nodo di una rete e più gli autori sono grandi, più i libri si rincorrono l’un l’altro al di là dei confini del tempo e dello spazio.
L’ultima connessione in ordine di tempo mi è venuta dalla lettura di Chiacchiere di bottega di Philip Roth. Alcune frasi sul senso dell’umorismo del praghese Milan Kundera che mi hanno riportato alla mente frasi molto simili dell’israeliano Amos Oz.

  • “Ho scoperto il valore dell’umorismo nel periodo del terrore stalinista. Avevo vent’anni, e riuscivo sempre a riconoscere le persone che non erano staliniste, le persone che non dovevo temere, dal modo in cui sorridevano. Il senso dell’umorismo era un segno di riconoscimento affidabile. Da allora mi terrorizza un mondo che sta perdendo il suo senso dell’umorismo  (Milan Kundera a Philip Roth nel 1980)
  • In vita mia non ho ancora visto un fanatico dotato di senso dell’umorismo, e non ho nemmeno mai visto una persona dotata di senso dell’umorismo diventare un fanatico, a meno di non perdere il senso dell’umorismo.   (Amos Oz nel 2001, in Contro il fanatismo)

“QUEL CHE SOLO UN ROMANZO PUO’ DIRE…”

Copertine libri Ci sono, a casa mia, libri che non riescono mai ad ottenere una fissa dimora. Non stanno mai fermi. Non sonnecchiano  quieti sugli scaffali come tutti i loro compagni dabbene, ma li si ritrova oggi qui e domani là. Su un tavolinetto vicino a un divano e una tenda oppure sul comodino o accanto a una pianta di fiori.

Sono i libri che anche se non rileggo spesso, voglio siano sempre presenti ed ad immediata portata di mano e di occhio. Per questo la mia casa ha sempre un aspetto così disordinato.

Tra i libri senza fissa dimora ci sono quelli di Milan Kundera.

Non sono mai riuscita a decidere se mi piace di più il Kundera narratore o il Kundera saggista. Forse perchè quest’autore (che per quanto mi riguarda si strameriterebbe un Nobel) riesce nella difficile impresa di scrivere romanzi che mi fanno riflettere molto e saggi dei quali alla prima lettura volto le pagine con avida curiosità, con quel piacere del “tuffarsi in una fornace” di cui parlava Tomasi di Lampedusa.
Perchè Kundera scrive i suoi saggi con un linguaggio piano e comprensibile, rifugge da qualsiasi accademicismo, non enuncia teorie, non emette proclami, non adopera tutti quegli astrusi quanto inutili e dunque irritanti paroloni che fin troppo spesso ammorbano i libri di saggistica. Kundera sa bene che per essere profondi non occorre (anzi spesso è controproducente) mostrarsi pomposi e paludati. Ma forse, presa dall’entusiasmo, sto divagando.

Dunque. Ho appena terminato “Il Sipario”. Quando avevo cominciato a leggerlo avevo pensato che poi ne avrei forse scritto qualcosa. Ma dopo appena poche pagine mi sono resa conto che non è possibile parlare de “Il Sipario” senza fare riferimento anche alle altre due  precedenti raccolte di saggi   e cioè “L’arte del romanzo” e “I testamenti traditi”. Ne “Il Sipario” infatti Kundera riprende, come se non l’avesse mai interrotta, la sua riflessione sviluppando temi già affrontati con quei precedenti libri.

“L’arte del romanzo”, pubblicato da Adelphi nel 1988 è costituito da sette testi indipendenti ma collegati tra loro. In esso, Kundera parla del romanzo, o meglio, dell'”arte del romanzo”. Il ragionamento prosegue nel bellissimo “I testamenti traditi” nel quale lo scrittore praghese — figlio di padre musicista e musicista egli stesso — intreccia analisi del romanzo e riflessioni musicologiche con bellissimi parallelismi tra architettura di un romanzo e singoli capitoli di esso con le partiture musicali. Vi si trovano pagine illuminanti su musica e letteratura (penso ad esempio a quelle su Janacek o gli ultimi Quartetti o la Sonata 111 di Beethoven). Libro che forse può risultare un po’ ostico per chi non abbia molta dimestichezza con la musica classica oppure non la ama, “I testamenti traditi” è secondo me profondo e affascinante.

Ne “Il Sipario” Kundera riprende tutto questo e torna a parlare del romanzo come “sfera privilegiata dell’analisi, della lucidità, dell’ironia”. Perchè, egli dice, “le arti non sono tutte uguali: ognuna accede al mondo attraverso una porta diversa. Una di queste porte è riservata esclusivamente al romanzo” e aggiunge — citando un frase di Herman Broch che è uno dei leit motiv delle sue riflessioni — “ci sono cose che solo il romanzo può dire”.

Il romanzo ha dunque una sua specificità. Considerarlo un “genere letterario” sarebbe troppo semplicistico. Esso possiede una sua genesi, una sua storia, una sua morale (e qui di nuovo Kundera si rifà a Broch secondo il quale “la sola morale del romanzo è la conoscenza”), un suo tempo di creazione e, a differenza ad esempio della poesia, è in grado di travalicare le barriere della lingua nazionale perchè è traducibile.

Proprio perchè il romanzo è un’arte autonoma, la sua evoluzione si deve leggere non nel piccolo contesto della storia nazionale di questo o quell’altro paese ma nel grande contesto della storia sovranazionale (la Weltliterature di cui parla Goethe). Solo il grande contesto della Weltliterature è capace infatti di mostrare il valore estetico del romanzo mentre il rifiuto di considerare la propria cultura nel grande contesto condanna al provincialismo.

Solo leggendo in quest’ottica la storia del romanzo si può vedere e capire come “Sterne reagisce a Rabelais e ispira Diderot, Fielding si misura con Stendhal, la tradizione di Flaubert prosegue nell’opera di Joyce ed è nella sua riflessione su Joyce che Broch sviluppa una poetica del romanzo” (dal risvolto di copertina).

Tornano ancora una volta in questo libro anche gli autori più amati da Kundera. Cervantes, certo, ma soprattutto quelli che lui definisce la sua “grande Pleiade”: Musil, Kafka, Broch, Gombrowicz. Sono tutti autori dell’Europa centrale (Kundera non condivide il termine “mitteleuropeo”, che infatti non adopera mai). Sono gli autori che hanno introdotto nell’estetica del romanzo moderno quella che egli chiama “la riflessione romanzesca” che è afilosofica, non giudicante, che non proclama verità ma al contrario “si interroga, si stupisce, sonda”. Sono autori di “romanzi che pensano”.

Perchè il romanzo possiede una sua saggezza: “la saggezza dell’incertezza” che esprime la difficoltà — aveva scritto già nel “L’arte del romanzo” — di accettare e sopportare “la sostanziale relatività delle cose umane”.

L’arte, per Kundera, è dunque conoscenza, scoperta, invenzione. Altrimenti — aggiungerei io — non è che ripetizione, routine, mestiere.

E chiudo qui, che’ m’è venuta voglia di andarmi a leggere un bel romanzo…

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