VOLEVO TACERE – SÁNDOR MÁRAI

Sandor Marai Volevo tacere

Finalmente Adelphi ha pubblicato in italiano, nella traduzione di Laura Sgarioto, il terzo volume delle memorie di Sándor Márai.

Di questo libro avevo parlato   in  questo post del 2015.

La scheda del libro sul sito Adelphi >>

LA CORTINA DI FERRO. LA DISFATTA DELL’EUROPA DELL’EST 1944-1956 – ANNE APPLEBAUM

 

Poster di propaganda Germania Est
Manifesto di propaganda della Germania dell’Est
Fonte

“La storia della stalinizzazione nel dopoguerra dimostra almeno una cosa: quanto la civiltà possa rivelarsi fragile.” scrive Anne Applebaum in La cortina di ferro. La disfatta dell’Europa dell’Est 1944-1956.

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Continua a leggere “LA CORTINA DI FERRO. LA DISFATTA DELL’EUROPA DELL’EST 1944-1956 – ANNE APPLEBAUM”

LA RESTITUZIONE DEGLI ACCENTI

 

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“sono tipi particolari’ disse. ´tengono moltissimo agli accenti’. Il vicequestore mostrò maggiore attenzione: ´agli accenti? non capisco. quali accenti?’. L’agente si strinse nelle spalle: ´agli accenti in generale. tutti quelli che arrivano dall’altra parte della cortina di ferro tengono moltissimo agli accenti. A Bagnoli, negli uffici dove rilasciano i documenti, chiedono ad alta voce la restituzione dei loro accenti. Si vede che in quei paesi gli accenti sono importanti. nei documenti si leggono nomi con segni e accenti di ogni genere, sulle vocali e anche sulle consonanti. Forse sono dei segni che sembrano accenti, e sono diversi per gli ungheresi, per i romeni, per i cechi e per i polacchi.E come ci tengono! a Bagnoli ho visto un avvocato ceco che dopo aver ricevuto il visto camminava tutto agitato su e giù per il corridoio: voleva tornare indietro dal console americano a lamentarsi perchè avevano dimenticato un accento sul suo nome. La credeva una cosa importante. Si vede che non hanno più nulla, ormai, anzi si sono accorti che senza i loro accenti non sono più quelli che erano prima, quando ancora ce li avevano. Per questo sono tanto attaccati alle loro vecchie macchine da scrivere da quattro soldi, e se le portano appresso da un continente all’altro, perchè hanno ancora le lettere accentate’. ´può darsi’ tagliò corto il vicequestore. ´l’accento fa parte della loro identità. e hanno paura di perderla. di libri ne aveva?’. ´pochi’ rispose l’agente. ´più che altro vocabolari. Italiano-francese. inglese-tedesco. francese-spagnolo. Vocabolari di ogni genere. Questa gente non fa che prepararsi a girare il mondo. E si prepara come per un esame di lingua. Se non hanno più gli accenti, non hanno più neanche una lingua madre, perciò parlano e leggono senza alcun ordine, in qualsiasi lingua. questo qui era uno scienziato’ concluse con indifferenza. il vicequestore annuì: ´lo so’ disse.

 



Di questo romanzo di Márai avevo parlato in >> QUI

QUEL CHE MÁRAI AVREBBE VOLUTO TACERE

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Sándor MÁRAI, Ce que j’ai voulu taire (tit. orig. Hallgatni Akartam)
traduz. dall’ungherese al francese di Catherine Fay
pp. 224, ed. Albin Michel, 2014

“Avrei voluto tacere. Ma il tempo mi ha interpellato ed ho capito che era impossibile. Più tardi, ho capito che tacere era di per se una risposta, come la parola e la scrittura. A volte tacere non è la risposta meno pericolosa. Niente irrita tanto l’autorità quanto il silenzio che la nega”

Con queste parole Sándor Márai inizia Ce que j’ai voulu taire. In effetti, dal giorno (18 marzo 1944) in cui le truppe naziste invadono l’Ungheria, loro “alleato”, Márai cessa di scrivere per i giornali e proibisce la riedizione delle sue opere. Qualche mese più tardi esprime sul suo diario il desiderio di aggiungere una terza parte alle due in cui era diviso il volume Le confessioni di un borghese pubblicato nel 1934 ed in questo modo completandolo.

Quello che possiamo leggere adesso nel volume Albin Michel è appunto questa terza parte, scritta da Márai tra il 1949-1950 e dunque appena un anno dopo aver fatto la dolorosa scelta dell’esilio volontario ed aver lasciato definitivamente l’Ungheria. Si tratta di un testo scritto ancora a caldo, la ferita è indubbiamente ancora troppo recente e dolorosa.

Il testo — incompleto e non definitivo, ma su questo tornerò — è stato ritrovato nel 2000 nel Fondo Márai del museo Petöfi di Budapest. E’ stato pubblicato in ungherese con il titolo Hallgatni akartam e nel novembre del 2014 tradotto e pubblicato in francese dalla casa editrice Albin Michel. Che io sappia si tratta della prima e sinora unica traduzione esistente di questo testo al di fuori dell’Ungheria.

Continua a leggere “QUEL CHE MÁRAI AVREBBE VOLUTO TACERE”

MÁRAI E PROUST

 

Tetti di Parigi© R.G. Photographe

Negli anni Venti del secolo scorso, l’ancor giovinotto Sándor Márai, che scarpinava e tirava la carretta guadagnandosi da vivere scrivendo articoli per giornali, ebbe il colpo di fortuna di venire inviato come corrispondente dalla Frankfurter Zeitung nientepopodimenoche a Parigi.

Le pagine in cui racconta come lui e Lola (la moglie che, allora molto giovane, lo accompagnò poi per tutta la vita fino alla definitiva e straziante tappa de L’ultimo dono ) trascorsero il loro periodo parigino  sono, per chi ama Parigi, tutte da leggere.

Io ne ho estratto solo un piccolo passaggio. Perchè è vero che questo blog si intitola NonSoloProust.

Ma è anche vero che quando qualcuno (e figuriamoci poi se quel qualcuno, come in questo caso, è un Márai) mi parla di Proust… beh… che vi devo dire… Ammè mi pare di sentire il corno di Ernani (ma al contrario) 🙂

Leggendo Proust mi accorsi sconcertato di non sapere nulla del mio mestiere. Fu in quell’epoca che egli si rivelò alla nuova generazione; in precedenza lo avevano considerato uno snob, un chiacchierone nevrotico e prolisso che si ostinava a mettere a nudo i fatti privati e le stravaganze di una società mondana. Fino a quel momento soltanto poche menti ardite e intraprendenti avevano riconosciuto le vere dimensioni del suo mondo; ora, invece, un’intera generazione dalla mentalità aperta e ricettiva cominciò a rendersi conto che la ´società mondana’ ritratta nell’opera di Proust era strettamente imparentata con l’umanità intera, con i suoi miti e i suoi ricordi; che al di là dei ´fatti privati’ e delle ´stravaganze’, delle relazioni umane analizzate nei minimi dettagli, delle atmosfere, delle azioni e degli incontri ´insignificanti’, affioravano gli strati più profondi e universali della natura umana. In quegli anni l’influenza di Proust crebbe in misura tale da proiettare la sua ombra su tutti i suoi successori; persino coloro che non lo avevano mai letto non potevano sottrarsi al suo influsso. La luce irradiata da una personalità così eccezionale penetra irresistibilmente attraverso il tessuto della letteratura, fino a raggiungere — sia pure per via indiretta, passando attraverso diversi filtri — anche i miscredenti e gli ignoranti.

 

ORA CI SONO I LIBRI, CHE CAMMINANO

Sándor Márai e Napoli.

 

” Lo scrittore è morto… Ora ci sono i libri, che camminano.
E’ la storia” [1:02]

Dal trailer del documentario “Sándor Márai e Napoli. Il sapore amaro della libertà”.

Mi piacerebbe moltissimo vedere l’intero documentario, ma non so proprio come reperirlo.

Márai visse quattro anni a Napoli in esilio volontario durante l’occupazione sovietica dell’Ungheria, per poi trasferirsi a New York nel 1952.

A Napoli è ambientato uno dei suoi romanzi più struggenti, Il sangue di San Gennaro. Ne avevo parlato >>QUI

IL GABBIANO – SÁNDOR MÁRAI

Sandor Marai Il gabbiano
Sándor MÁRAI, Il gabbiano (tit. orig. Sirály), traduz. di Laura Sgarioto, pp. 163, Adelphi, 2011, isbn: 9788845925955

Budapest, anni Quaranta, seconda guerra mondiale.

Il Consigliere di Stato ha appena controfirmato il documento che stabilisce che anche l’Ungheria sarà una delle Nazioni travolte dai devastanti venti di guerra. Per il momento però il documento è assolutamente segreto, Budapest e la Nazione vivono, inconsapevolmente, le ultime ore di pace e di relativa tranquillità.

Ma ecco che, appena qualche minuto dopo, entra nella stanza e nella vita del quaranticinquenne Consigliere una giovane donna che gli ha chiesto udienza.

Lui la guarda sbigottito, esterrefatto: “No, questo è davvero troppo, pensa”. E gli viene da ridere. Perchè la donna che gli sta davanti è il doppio perfetto di Ili, la donna che ha amato anni prima e che si è suicidata. Ma per amore di un altro.

” se non mi controllo […] attaccherò a ridere… ridere? No, a sghignazzare, a sbellicarmi dalle risa, a picchiare i pugni sul tavolo…” (p.20). Perchè “Non capita mica a tutti, pensa, di seppellire qualcuno che dopo un pò risorge dalla tomba […] e di punto in bianco se ne sta lì sulla soglia, in pieno giorno all’una e venti” (p.22).

Che vuol dire tutto questo? Che vuole da lui la sua Ili? E’ davvero tornata? E da dove? E perchè?

Ma la splendida, giovane donna dice di venire dalla Finlandia da dove se ne è andata quando i bombardamenti le hanno distrutto la casa ed è venuta da lui solo per chiedergli un permesso di soggiorno che le consenta di insegnare a Budapest: il Consigliere di Stato sarà così cortese da concederglielo?

Inizia così, dall’incontro del Consigliere con Aino Laine (questo è il nome della ragazza, che in finlandese significa Unica Onda) Il gabbiano, breve ma densissimo romanzo che si sviluppa interamente nell’arco di una notte, chiudendosi all’alba con molti più interrogativi e dubbi di quante siano state le risposte ottenute alle incalzanti domande poste sia dai personaggi della storia sia da noi lettori che ne seguiamo i serrati e spesso convulsi dialoghi in un crescendo sempre più incalzante.

Un romanzo in cui la tensione è estrema e tutta intellettuale, un romanzo raffinatissimo in cui Márai attraverso le parole che si scambiano i due protagonisti fa emergere da una parte il dramma tutto privato che ben presto si configura come “un circuito elettrico che collega tre persone e una defunta in una trama comune” ma anche uno scenario molto più  vasto, quello dell’immenso scacchiere della guerra che ha già travolto centinaia di migliaia di persone in molti Paesi e che sta per travolgerne altrettante, uno scenario in cui gli esseri umani rischiano di finire per perdere il loro statuto di individui per diventare pedine di un gioco più grande di loro.

Con Il gabbiano (pubblicato per la prima volta nel 1943) siamo di fronte al più classico e grande Márai, quello dei romanzi in cui “l’evento” cruciale è concentrato nel tempo (una notte, come ne Le braci, come ne La recita di Bolzano ) e nello spazio di una stanza (che sia di una casa di Buda, di un castello nei Carpazi, di una locanda di Bolzano poco importa…) , in cui due persone si confrontano attraverso densissimi monologhi; un romanzo in cui non solo sono presenti molti dei temi più sentiti dallo scrittore ungherese ma anche — come accadrà molti anni dopo con Il sangue di San Gennaro, scritto quando Márai aveva già lasciato definitivamente la sua patria, l’Ungheria — sorprendenti anticipazioni del tema della solitudine dell’esule, dell’apolide, del senza patria.

Il gabbiano ci presenta uno dei più  classici temi máraiani: un vero e proprio incontro-appuntamento col destino (così era stato anche, ad esempio, per il Casanova de La recita di Bolzano del 1940) tutto concentrato in poche ore, in cui i personaggi sono protagonisti di una sorta di duello in cui ciascuno è chiamato a fare i conti con se stesso e il proprio passato, a scoprire ragioni ed emozioni dell'”altro”.

Il nome della ragazza, le dice il Consigliere, “racchiude in sé due concetti commoventi e preziosi […] l’ ‘unico’, che è pathos e ossessione ]…] e l’ ‘onda’ […] che offre e toglie eternamente i suoi doni, fa incontrare caso e possibilità, crea un legame fra ciò che è unico e ciò che è casuale. Hai un nome bellissimo, Aino Laine. Non a caso è il tuo nome” (p.99)

Quella che ci viene raccontata in poco più di un centinaio di pagine è una notte di segreti, una notte in cui arrivano l’amore e la morte, una notte in cui arriva il momento che gli esseri umani temono di più, quello in cui ” la vita toglie loro la maschera” (p.96).

La maschera: un altro leit motiv tipico di Márai, qui rappresentato non solo dal fatto che nella prima parte della lunga notte i due protagonisti hanno assistito, all’Opera di Budapest, a Un ballo in maschera di Verdi ma anche perchè questo tema torna poi spesso, nel loro dialogo notturno: “Ci sono notti in cui si partecipa ad un ballo in maschera… La notte ti ha chiamato e tu rispondi turbato. Svegliati, amico mio” dice Aino Laine al Consigliere (p.97) e lui, da parte sua, guardando la ragazza, pensa che “è come se indossasse dei travestimenti per poi spogliarsene, travestimenti e maschere diversi per ogni istante” (p.106)

Il romanzo è anche un grande gioco di doppi e di specchi (due donne, due notti “fatali” — quella di Budapest e quella vissuta da Aino Laine a Parigi, notti entrambe che precedono i giorni della guerra e della morte, due serate all’Opera…

Aino Laine, la senza patria, colei che non ha più una casa, la fanciulla-gabbiano è anche, in qualche modo, una sorta di “doppio” dello stesso Márai non solo perchè lui stesso uomo dalle molte patrie (l’Ungheria, la Germania e la Vienna dell’adolescenza) ma anche di ciò che sarà da esule perchè, come dice Aino Laine

“quando non si ha più una casa, all’improvviso il mondo diventa molto piccolo… ci si può mettere in viaggio come i gabbiani. Ma volare come loro non è facile, perchè gli esseri umani si portano dietro anche i ricordi. E i ricordi ci tirano giù” (p.101)

L'Opera di Budapest nel 1947
L’Opera di Budapest nel 1947
  • La scheda del libro >>

IL SANGUE DI SAN GENNARO – SÁNDOR MÁRAI

Il sangue di San Gennaro
Sándor MÁRAI, Il sangue di san Gennaro (titolo orig. San Gennaro Vére), a cura di Antonio Donato Sciacovelli, p.346, Adelphi, Collana Biblioteca Adelphi, 2010, ISBN 9788845925238

«A Pasqualino, che aveva sei anni e ogni mattina portava giù l’immondizia
Al pescatore monco, perché metteva a tacere il mare
A Santo Strato, perché proteggeva il palazzo e i malati
Ai fiori
Agli animali
Al mare
Ai Poveri di Posillipo
All’Italia »

Sono le parole che Márai ha voluto porre in epigrafe di questo suo strano “romanzo napoletano” pubblicato per la prima volta a Baden Baden nel 1957.

A chi, come me, ha imparato a conoscere ed amare Sándor Márai attraverso tutti i suoi libri pubblicati sino ad ora in Italia da Adelphi, questo romanzo potrebbe apparire come un’incursione molto al di fuori del suo universo abituale, e cioè l’Europa centrale in cui nacque nel 1900, devastata prima dal nazismo e poi dal comunismo.

La storia narrata in questo libro si svolge in Italia, a Napoli, e precisamente a Posillipo.

Per spiegare questa apparente stranezza è utile forse fare un piccolo passo indietro e ricordare che quando nel 1948 Márai lasciò definitivamente l’Ungheria che si trovava sotto il regime comunista con cui egli non voleva avere niente a che fare scegliendo la dolorosa strada dell’esilio volontario andò prima in Svizzera e poi, da lì, si trasferì a Napoli dove rimase per quattro anni fino al 1952 per emigrare poi negli Stati Uniti.

Sandor Marai
Perchè proprio Napoli? Alla base della decisione c’erano motivazioni diverse: la prima era che a Napoli viveva Benedetto Croce, e per un liberale conservatore e aristocratico quale Márai, quella vicinanza significava al tempo stesso un conforto morale e una scelta politica.

A Napoli, dove arrivò con la moglie Lola, la sua compagna di tutta la vita, prese casa a Posillipo, sulla strada che scende a Marechiaro.

Posillipo

Anche la struttura del libro è molto particolare, molto diversa da quella degli altri romanzi di Márai.

Diviso in due parti, costruito su un doppio binario, Il sangue di San Gennaro ci mostra nella Prima Parte una folla di personaggi napoletani, di piccola gente, una carrellata di ritratti e personaggi minimi tratteggiati con grande simpatia, comprensione ed anche ironia; sfila una galleria di volti, di mestieri, di ragazzini e adulti esperti nell’arte di arrangiarsi e soprattutto veri e propri “professionisti dell’attesa”: attesa del “posto”, attesa di un miracolo — piccolo o grande — che possa risolvere i problemi dell’esistenza e della sopravvivenza e soprattutto attesa di quel “miracolo ufficiale” e programmato costituito dal prodigio della liquefazione del sangue di San Gennaro.

Con tenerezza ed affetto lo scrittore ungherese descrive il pranzo che in un basso napoletano viene allestito per festeggiare il ritorno di un nipote emigrato in America, un frate mendicante, il ragazzino guarito dal tifo con… le novene recitate da tutta la famiglia riunita al suo capezzale (!), il culto dei napoletani per i Santi, la loro ferma credenza nei miracoli….

In questa folla costituita dallo spazzino che arriva alle sei del mattino a raccogliere l’immondizia, e “riceve in cambio tre caramelle e una manciata di mozziconi di sigarette”, il venditore di uova che dice continuamente “eccellenza” e con i suoi modi fa capire che “tra i suoi avi ci furono di sicuro gli spagnoli”, il postino che arriva cantando e annuncia il suo prossimo matrimonio “ed è felice perché è italiano” non emerge alcun protagonista.

C’è invece la coralità di un racconto i cui protagonisti sono Napoli, il suo mare (al quale Márai dedica, nel cap. 17, pagine bellissime), la sua gente che per alcuni versi ci ricorda molto la Napoli di Eduardo, di Marotta, di un certo Totò e, perchè no, anche di Malaparte.

Nel bel mezzo di tutto questo ecco arrivare un giorno due stranieri, un uomo e una donna. Sono inglesi? o forse polacchi? ci si chiede nel quartiere di Posillipo dove vanno ad abitare. Sono, si capisce da lì a poco, delle “displaced persons” termine, questo, usato dalle Autorità per definire i profughi, gli esuli.

L’uomo e la donna (moglie? compagna? amante?) senza nome percorrono i vicoli, entrano nelle botteghe, figure educate, schive e discrete che al popolino del quartiere risultano allo stesso tempo estranee e familiari.

…E poi un giorno, durante una violentissima bufera, l’uomo senza nome precipita da un belvedere sfracellandosi sulla scogliera.

Suicidio? Omicidio? Banale incidente? Ne sentiremo parlare nella Seconda Parte del romanzo.

A questo punto stile e registro narrativo cambiano radicalmente, adesso sì che riconosciamo lo scrittore al quale eravamo abituati, perchè la complessa personalità dell’uomo morto in una notte di tempesta emerge da tre lunghi e affascinanti monologhi, dalle parole dell’agente di polizia che ha svolto le prime indagini, da quelle di un frate francescano con cui il morto aveva avuto lunghi ed intensi colloqui ed infine dal racconto della misteriosa donna con il quale aveva vissuto nella casa di Posillipo.

Qui Márai emerge con prepotenza, perché Il sangue di San Gennaro diventa il grido di dolore di chi, costretto ad andarsene dalla propria terra, sa benissimo da quel momento sarà sempre, dovuque e comunque, uno straniero.

C’è differenza tra stranieri, turisti e profughi, perchè questi ultimi non hanno più niente da perdere “se non la propria identità […] hanno già perso la patria, la famiglia, la casa e la lingua madre, e adesso, profughi in giro per il mondo, cominciano a perdere anche l’identità” e “un bel giorno capiscono che non hanno più neanche un nome […] perchè il nome non conta più. Contano solo le impronte digitali e il numero della cartella in cui sono stati registrati” (pagg. 193-194).

“Gli esiliati, displaced persons, sono i profeti tormentati di una civiltà in decadenza […] ormai non si aspettano più nulla […] quelli che si mettono in viaggio non credono più in cuor loro, di poter trovare una patria […] e se un giorno torneranno in patria, essa sarà per loro soltanto un luogo di soggiorno un po’ più familiare di altri…perchè una patria bisogna viverla, come si vive una sensazione, un amore, e se questo circuito di esperienze un giorno si interrompe, non lo si può più ristabilire” (p.252)

Le pagine (bellissime e toccanti) sulla spoliazione e perdita di identità, sulla madre lingua, sulla perenne sensazione di straniamento cui va incontro un esule non possono non ricordare quelle, altrettanto toccanti, contenute in “Terra…Terra!”, secondo volume dell’autobiografia dello scrittore ungherese così come quelle sul suicidio e la solitudine non possono non ricordare lo strazio di cui è intriso il diario degli ultimi anni di Márai, quel L’ultimo dono la cui ultima pagina fu scritta due giorni prima che lo scrittore si suicidasse.

Ne Il sangue di San Gennaro i temi dell’identità, dell’emigrazione e dell’esilio sono strettamente intrecciati ad una serie di sofferte considerazioni sul comunismo, sul ruolo degli intellettuali nelle dittature, troppo spesso “sciacalli dello spirito” (pagg.238, 239), “piromani terrorizzati dall’incendio che hanno contribuito ad appiccare e che ora si fanno assumere da una compagnia d’assicurazione in qualità d’esperti incaricati di stimare i danni” […] “compagni di strada che passano il loro tempo a lamentarsi ipocritamente sui metodi “erronei” del collettivismo”

Dalle pagine del romanzo emerge anche la delusione provata dall’uomo senza nome del romanzo (evidentissimo Alter Ego dello stesso Márai) nel constatare l’atteggiamento di tolleranza se non addirittura di speranza degli intellettuali italiani ed europei occidentali in genere nei confronti del comunismo (“la grande truffa, la truffa planetaria denominata bolscevismo” (p.233) ) e sedotti dalla “litania monotona del vespro comunista” (p.221)

Personalmente, non ho potuto fare a meno di notare profonde e sorprendenti analogie tra ciò che del comunismo scrive l’ungherese Márai (che comunista non è mai stato) ed il sovietico Vasilij Grossman (che comunista, ed entusiasta, anche, lo fu eccome, almeno per metà della sua vita) di Vita e Destino e di Tutto scorre.

Di questa analogia di pensiero avevo già parlato quando avevo scritto di Vita e Destino, perchè avevo trovato profonde assonanze con le pagine finali di Liberazione di Márai.

Questo passo di Il sangue di San Gennaro. per esempio, avrebbe potuto, ne sono certa, venir pienamente condiviso e sottoscritto anche da Grossman:

“Si sbagliano, quando credono che il bolscevismo possa realizzarsi in maniera diversa da quella messa in atto da Stalin… Si era convinto […] che Stalin e i suoi seguaci fossero dei bolscevichi di prim’ordine, capaci di realizzare il bolscevismo alla perfezione, perchè un’impresa che non è a misura d’uomo — e che promettendo nebulose utopie priva l’uomo della proprietà privata, poi del diritto alla libera impresa e alla libera professione, del diritto di scrivere, di professare una rligione e di esprimere le proprie idee politiche — non può che essere realizzato con mezzi disumani e violenti… E Stalin ebbe ragione a non voler affidare la realizzazione del bolscevismo ai comunisti romantici e idealisti, agli sciancati-simpatizzanti, ebbe ragione a distruggere la vecchia guardia, perchè per riscaldare l’inferno c’è bisogno di esperienza… Dunque non con i metodi delle agevolazioni liberali alla laissez-faire, ma con estrema professionalità, come fecero Stalin e i bolscevichi, quelli veri….” (p.240).

Per me, che sono una lettrice italiana che ama molto Márai questo romanzo ha avuto, evidentemente, un ulteriore motivo di interesse per l’immagine dell’Italia che viene fuori dalle sue pagine.

Marinella D’Alessandro, che di Márai ha tradotto per Adelphi parecchi romanzi ricorda  che Márai amò moltissimo Napoli e che parecchie volte, nei diari (purtroppo ancora inediti in Italia) scrive che gli anni trascorsi a Napoli furono “i più felici della sua vita”.

Ne Il sangue di San Gennaro a me sembra che emergano due sentimenti, nei confronti dell’Italia e degli italiani, che sono quelli cui ho già accennato: da una parte la simpatia e l’affetto verso il popolino napoletano, dall’altra la delusione che in alcuni passaggi del libro sembra vera e propria nausea, verso tutti quegli intellettuali che prestano orecchio al comunismo.

Benedetto Croce
A Benedetto Croce, che Márai apprezzava e stimava, sono dedicate alcune pagine molto significative.

Si inseriscono infatti nel ragionamento che lo scrittore ungherese ad un certo punto sviluppa a proposito di quegli intellettuali che, nei regimi totalitari, non vengono perseguitati ma lasciati più o meno indisturbati nell’ombra perchè “preferiscono uno scienziato o uno scrittore che respiri nell’ombra del potere” in qualche modo usandolo per poter dire“Vedete? Non siamo poi tanto barbari… Quest’uomo ha opinoni e sentimenti contrari ai nostri, eppure noi lo sopportiamo, lo nutriamo, non lo costringiamo a dichiararsi d’accordo con noi, a tradire le sue idee” (p.217).

Così Croce che “odiava e disprezzava sinceramente il fascismo […] per venticinque anni potè pubblicare […] e scrivere liberamente […] ebbene, questo Croce valeva per Mussolini molto più di un Croce martirizzato, ridotto al silenzio o addirittura esiliato…” (pagg.218-219).

Strano libro, Il sangue di San Gennaro.

Misterioso e accorato, autobiografico fino al punto di prefigurare il destino dell’autore, come ha scritto Raffaele La Capria in un articolo su “Il Corriere del Mezzogiorno” dell’ottobre 2010.

Scegliendo l’esilio, Márai aveva salvato la propria vita ma, proprio come il protagonista de Il sangue di San Gennaro, sentiva quel senso di colpa derivante “non dall’aver commesso qualcosa, ma, al contrario, per non avere agito” (p.255).

Quarant’anni dopo, si sarebbe sparato un colpo di pistola. Vecchio, malato, senza più affetti perchè tutte le persone a lui care erano morte, il pensiero stesso della letteratura gli procurava solo nausea e disgusto. Si uccise l’anno in cui crollò il Muro di Berlino e dall’Ungheria, mentre il regime sovietico si disfaceva, si moltiplicavano gli appelli intellettuali a tornare.

Ne L’ultimo dono Márai annota: “Vogliono trasformarmi in un monumento, me e i miei libri. Ripubblicano tutto, con rilegatura in pelle, me compreso. Il destino comune di ogni monumento è che i cani finiscono per pisciare sul piedistallo”.

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