LA DONNA GIUSTA – SANDOR MARAI

La donna giusta-Copertina libro
Sándor Márai, La donna giusta,Traduz. dall’ungherese di Laura Sgarioto e Krisztina Sándor,Adelphi, 2004, pagine 444,ISBN 88-459-1872-6

Gli Happy Few che frequentano questo blog sanno già che quando parlo di libri non intendo fare recensioni: quelle le lascio ad altri. I miei sono solo appunti di lettura, e non ho la pretesa di sentenziare su alcunchè.

Perciò quello che penso di questo libro voglio dirlo subito e senza giri di parole: è magnifico.

Un libro dallo stile limpido, smagliante, di grande eleganza ma mai stucchevole e che, come tutti i libri veramente importanti, si presta a parecchi livelli di lettura.

È certo un grande romanzo di passione e tradimenti; di sentimenti estremi e di personaggi tormentati strutturato in monologhi in cui la stessa storia viene narrata dal punto di vista dei diversi protagonisti. Ma sarebbe troppo ingiusto e riduttivo farlo passare esclusivamente come un romanzo d’amore, anche se la stupefacente capacità di approfondimento psicologico di Márai che — narrando in prima persona si identifica di volta in volta negli uomini e nelle donne dei diversi Io Narranti della storia — basterebbe già, a mio parere, a fare di questo romanzo una grande opera.

Ma questo è solo uno dei tanti possibili livelli di lettura di “La donna giusta”, che è anche, e per certi versi, forse soprattutto un libro su un mondo in trasformazione, sul sentimento di appartenenza ad una classe sociale la borghesia, sulla solitudine e sulla cultura, temi che vengono declinati attraverso le voci dei quattro personaggi monologanti di cui tre protagonisti della storia.

Ilonka, la moglie piccolo borghese, donna bella e intelligente che ama e desidera catturare l’anima del marito amato. E’ lei che dipana e sviluppa il tema dell’amore e che ad un certo punto dice “Ho capito che non c’è nessuna persona giusta. Esistono solo le persone ed in ognuna c’è un pizzico di quella giusta”.

Peter, il marito, borghese colto e raffinato, personaggio onesto e tormentato, innamorato dell’arte ma incapace di creare. E’ la voce di chi sente di appartenere alla borghesia colta ed illuminata (“non quei borghesi da strapazzo, che portano tale titolo soltanto in virtù del loro denaro o perchè sono stati in qualche modo promossi sulla scala sociale […] Io mi riferisco ai veri borghesi, a quelli che hanno creato qualcosa e lo conservano” ). Peter è la voce solitudine, quella “… solitudine profonda, intensa, che circonda ogni spirito creatore come l’atmosfera avvolge la terra.” Eppure “si continua a sperare. E’ davvero difficile arrendersi di fronte a questa realtà sconfortante, rassegnarsi al fatto di essere soli, terribilmente e disperatamente soli” […] ” …Forse un grande artista è in grado di tollerare una solitudine di quel genere: è costretto a pagare un pezzo terribile, ma entro certi limiti viene risarcito dalla sua opera”

Judit, la sottoproletaria diventata serva, terza voce narrante. Scaltra, bellissima, intelligente, orgogliosa. Di lei Peter si innamora, per sposar lei abbandona la moglie, è da lei che viene derubato da quasi ogni suo bene.

Eppure, è al personaggio di Judit, questa serva che diventa padrona ma che poi ridiventa povera senza farne una tragedia che Márai affida il ruolo di cogliere i significati ultimi e profondi di quello che è la cultura: “la cultura è quando una persona o un popolo sono pieni di una gioia immensa! Dicono che una volta i greci hanno avuto una cultura perchè tutti loro sapevano gioire. Prova ad immaginarti un popolo che vive nella gioia e questa gioia è la cultura!”

Ci sono poi, immediatamente riconoscibili per chi abbia letto i due volumi di memorie di Márai “Confessioni di un borghese” e “Terra, terra!…” lampi autobiografici che squarciano il romanzo e che si colgono
soprattutto in due personaggi: Peter (il marito) e Lázár, uno scrittore … che ha smesso di scrivere perchè — osservando l’apocalisse e gli orrori dell’occupazione nazista prima e di quella sovietica poi — si consuma sulla domanda ” i libri sono mai riusciti a rendere migliore qualcuno?” ed ha smesso anche di leggere niente più altro che dizionari di lingua ungherese.

Sia Peter che Lazar lasciano per sempre l’Ungheria quando si instaura il regime sovietico; entrambi consapevoli delle profonde trasformazioni cui viene sottoposta la loro appartenenza di classe e di cultura; della messa in discussione delle loro radici più profonde. Sono i due alter ego dello stesso Márai. Non a caso Peter parla di Lázár come del “testimone oculare” della propria esistenza.

Sándor Márai (1900-1989) è uno scrittore che amo profondamente. E’ uno di quelli che io chiamo “i miei scrittori”.

Era ungherese, profondamente antifascista ed anticomunista. Lasciò l’Ungheria nel 1948 (“La donna giusta” è del 1941) con l’instaurarsi dell’occupazione sovietica e non vi fece più ritorno. Le sue opere (romanzi e volumi autobiografici) rimasero inediti e sconosciuti mentre era vivo poichè gli scritti ungheresi molto raramente venivano tradotti all’estero ed egli, da parte sua, rifiutò di curare la loro pubblicazione in patria durante il regime sovietico.

Viaggiò molto in Europa (Parigi, Roma, Berlino, Napoli) e poi negli Stati Uniti, sempre struggendosi nella nostalgia non tanto della sua terra quanto della sua lingua madre, l’ungherese, lingua ostica e difficile da parlare e da tradurre (“la sola lingua che il diavolo rispetti”), lingua assolutamente minoritaria e pressocchè sconosciuta al di fuori dei confini magiari ma che per Márai rappresentava davvero la sua “madre patria” perduta.

Perchè uno scrittore è davvero senza patria se è consapevole del fatto che la lingua in cui scrive non viene compresa…

Morì suicida negli Stati Uniti, a San Diego, nel 1989. Si racconta che prima di uccidersi telefonò per chiamare un’ambulanza. “C’è un cadavere da portar via”, disse all’operatore che aveva risposto al telefono.

Adelphi, dando alle stampe anni fa “Le braci” e continuando in seguito con la pubblicazione di altre sue opere ha fatto (ri)scoprire Márai, che oggi è tradotto e conosciuto in tutto il mondo.

E’ dunque grazie all’ “operazione Adelphi” che ho potuto conoscere Márai.