IL TIMBALLO DI MACCHERONI

Ne Il Gattopardo, Tomasi di Lampedusa racconta che ogni anno, da generazioni, quando arrivava la bella stagione i principi di Salina si trasferivano da Palermo nel loro palazzo di Donnafugata.

In occasione del loro arrivo si riapriva la casa, e una cena solenne veniva offerta per accogliere gli amici di sempre e ribadire il potere immutato del principe.

“Il principe aveva troppa esperienza per offrire a degli invitati siciliani in un paese dell’interno, un pranzo che si iniziasse con un “potage”, e infrangeva tanto più facilmente le regole dell’alta cucina in quanto ciò corrispondeva ai propri gusti. Ma   le informazioni sulla barbarica usanza forestiera di servire una brodaglia come primo piatto erano giunte con troppa insistenza ai maggiorenti di Donnafugata perchè un residuo timore non palpitasse in loro all’inizio di ognuno di questi pranzi solenni.

Perciò quando tre servitori in verde, oro e cipria entrarono recando ciascuno uno smisurato piatto d’argento che conteneva un torreggiante timballo di maccheroni, soltanto quattro su venti persone si astennero dal manifestare una lieta sorpresa: il principe e la principessa perchè se l’aspettavano, Angelica per affettazione e Concetta per mancanza di appetito.

Tutti gli altri (Tancredi compreso, rincresce dirlo) manifestarono il loro sollievo in modi diversi, che andavano dai flautati grugniti estatici del notaio allo strilletto acuto di Francesco Paolo. Lo sguardo circolare minaccioso del padrone di casa troncò del resto subito queste manifestazioni indecorose.

Buone creanze a parte, però,  l’aspetto di quei babelici pasticci era degno di evocare fremiti di ammirazione. L’oro brunito dell’involucro, la fraganza di zucchero e di cannella che ne emanava non erano che il preludio della sensazione di delizia che si sprigionava dall’interno quando il coltello squarciava la crosta: ne erompeva dapprima un vapore carico di aromi, si scorgevano poi i fegatini di pollo, gli ovetti duri, le sfilettature di prosciutto, di pollo e di tartufi impigliate nella massa untuosa, caldissima dei maccheroncini corti cui l’estratto di carne conferiva un prezioso color camoscio.”

(Giuseppe Tomasi di Lampedusa, Il Gattopardo)

In Sicilia esistono varie versioni del timballo di maccheroni (detto anche “Gattò a’ francisi”, dal francese “gateau”).

La cucina siciliana dell’aristocrazia ha molti piatti provenienti dalla tradizione culinaria francese. Viene chiamata “la cucina del Monsù”, storpiatura del vocabolo francese Monsieur. In questo caso per “Monsù” si intendeva il Cuoco, lo Chef.
Questa ricetta del timballo è dell’ Ottocento, e la scelgo perchè credo sia quella che si avvicina di più al “torreggiante  timballo”, al “babelico pasticcio”  offerto dal principe di Salina ai suoi ospiti di Donnafugata.

TIMBALLO DI MACCHERONI detto anche GATTO’ A’ FRANCISI


Ingredienti per 6 persone
400 ml sugo di carne, va bene l’estratto
1/2 pollo, lessato
100 g funghi
100 g fegatini di pollo
200 g prosciutto cotto, tagliato a striscioline
100 g di salsiccia
120 g pisellini mignon, lessati al dente
burro
500 g maccheroni
parmigiano grattugiato
3 uova sode a fette
sale e pepe
un tartufo nero
Per la pasta frolla
400 g di farina
200 g di zucchero
200 g di burro, a temperatura ambiente
sale e cannella un pizzico
4 tuorli d’uovo
Per la crema pasticcera
3 cucchiai di zucchero
3 tuorli d’uovo
2 cucchiai di farina
sale e cannella, un pizzico
1/2 litro di latte

Per prima cosa preparate la pasta frolla impastando velocemente con le mani tutti gli ingredienti in modo da ottenere un composto omogeneo e lasciatela riposare un’ ora coperta con un panno in frigorifero.

Procedete poi a preparare la crema pasticcera che coprirete con la pellicola trasparente fino al momento dell’uso.

Preparate poi delle polpettine, grandi come nocciole, con 200 g di carne tritata di pollo lesso mescolata a 1 uovo, 100 g di prosciutto cotto, 2 cucchiai di parmigiano, prezzemolo tritato e un pizzico di sale. Friggetele in abbondante olio e tenetele da parte. Fate insaporire in un po’di burro il pollo ed il prosciutto rimasti, tagliati a striscioline; aggiungete i fegatini, le salsicce, i funghi, le polpettine, i pisellini e cuoceteli per qualche minuto.
Trasferiteli poi in una casseruola con qualche cucchiaiata di succo di carne e fate cuocere ancora per qualche minuto in modo che i sapori si mescolino bene.
Lessate nel frattempo i maccheroni molto al dente, scolateli e conditeli con il sugo di carne, il burro, abbondante parmigiano e fateli raffreddare.

Imburrate una tortiera ad anello di 30 cm di diametro e ricoprite il fondo ed i bordi con un terzo della pasta frolla che avrete steso sottile, circa 1/2 cm. E’ importante che la pasta sporga un po’dai bordi in modo che con facilità possiate chiudere il timballo con l’altro disco di pasta.

Disponeteci sopra metà dei maccheroni, distribuiteci sopra la finanziera di carne, le uova, spolverizzate con il parmigiano e il tartufo nero a lamelle, infine coprite con il resto dei maccheroni a cui darete una forma leggermente a cupola sulla quale verserete la crema pasticcera che farete penetrare bene.

Ricoprite il timballo con la pasta frolla avanzata premendo bene i suoi bordi per farla aderire alla prima.

Spennellate la sua superficie con dell’uovo sbattuto e fate cuocere per circa 45 minuti nel forno a 180 gradi.

Prima di togliere l’anello, lasciatelo riposare per 5 minuti e servitelo subito.

Ho trovato molte  foto del timballo  di maccheroni, ma nessuna che mi soddisfacesse tanto da pubblicarla.

Perciò che si   dia libero   sfogo all’immaginazione, che quella sì, che non ci delude mai…

Visconti -  Il Gattopardo

Le immagini sono tratte dal film Il Gattopardo di Luchino Visconti (1963)

VITA E DESTINO – VASILIJ GROSSMAN

Vasilij Grossman
Vasilij GROSSMAN, Vita e destino, (tit. orig. Zizn’ i sud’ba) traduz. di Claudia Zonghetti, p. 827, Adelphi, ISBN 9788845923401

Parlare di Vita e Destino significa avere a che fare con tre romanzi in uno:

  • la vita dell’autore
  • le vicissitudini e le traversie del manoscritto e di come riuscì ad eludere la cortina di ferro sovietica e ad approdare a case editrici occidentali
  • il romanzo vero e proprio

No, non mi è proprio possibile esser breve, questa volta.
Spero egualmente, però, che almeno qualcuno di coloro che si trovano a passare da qui abbia la pazienza di arrivare fino in fondo. Perchè Vita e Destino è libro davvero importante.

Dico di più: dopo averlo terminato sono profondamente convinta che George Steiner avesse decisamente ragione, a definirlo uno di quei libri che “eclissano quasi tutti i romanzi che oggi, in Occidente, vengono presi sul serio”.

Vasilij Grossman era un russo nato ebreo a Berdicev nel 1905, nel cuore dell’Ucraina e dell’antico hassidismo (o chassidismo).

Ebreo ed ucraino dunque, e questo, nella URSS di Stalin, non era cosa da prender sottogamba. Grossman si sentiva però perfettamente assimilato all’universalismo bolscevico, tanto da nascere alla vita intellettuale come perfetto militante sovietico.

Diventò ingegnere e dopo essere cresciuto a Ginevra e aver studiato a Kiev, all’epoca dei piani quinquennali credette talmente nella costruzione dell’ “uomo nuovo” da abbandonare i cantieri minerari del Donbuss, dove lavorava, per mettersi a raccontare l’epopea dei militanti bolscevichi. Scrisse romanzi edificanti dei quali uno, per esempio, narrava il dilemma di una donna ucraina, commissario politico nell’Armata rossa, divisa nel 1920 tra lotta politica e maternità.

Vasilij GrossmanDiventato molto famoso, apprezzato negli anni Trenta per quei suoi romanzi in stile da realismo socialista, considerato negli anni dello stalinismo il miglior reporter di guerra, divenne però, dopo la fine della guerra e la morte di Stalin il primo grande scrittore russo antisovietico.

Da entusiasta seguace del comunismo sovietico era divenuto un suo critico implacabile.

Difficile dire quanto di questa lucidità gli derivasse dall’essere ebreo ed ucraino, vittima quindi di una doppia tragedia.

Umanista a tutto tondo, scrittore sensibile, Grossman finisce la sua vita nella disperazione proprio negli anni del disgelo post-stalinista.

Dopo aver visto cadere con la guerra il velo di mistificazione che avvolgeva il totalitarismo sovietico, dopo aver vissuto sulla propria pelle di ebreo assimilato la segreta affinità tra nazismo e comunismo, dopo aver scritto e raccontato tutto questo in un libro magnifico, Vita e destino, aveva assistito impotente al sequestro del suo romanzo da parte del Kgb.

Con Stalin ancora vivo ed al potere, Grossman sarebbe senza dubbio finito dritto filato alla Lubjanka prima ed in un gulag della Kolyma poi.

Con il “disgelo” di Krusciov gli venne lasciata la libertà personale, ma il KGB gli sequestrò persino i nastri e la macchina da scrivere che aveva utilizzato per il suo romanzo e venne completamente emarginato. Morì a Mosca nel 1964 a soli 59 anni.

Come qualcuno ha scritto, negli anni del disgelo di Krusciov si preferiva imprigionare le parole e lasciar “libero” chi aveva avuto il coraggio di dirle.

Le vicissitudini di Vita e Destino, il modo in cui, dopo vent’anni dal sequestro,  il libro di Grossman giunse in Europa e potè essere finalmente pubblicato e conosciuto in Occidente costituiscono  già di per se un vero e proprio romanzo. Una storia talmente affascinante ed avventurosa (molto più di quella del manoscritto del Dottor Zivago) che purtroppo non mi è possibile descriverla qui in tutti i dettagli. Posso solo fare qualche accenno, ma invitando ad approfondire.

Il romanzo doveva intitolarsi Stalingrado, ma alla fine della prima stesura viene intitolato Per una giusta causa.

Grossman intende celebrare l’epos di un intero popolo in guerra, alla maniera di Tolstoj, con un romanzo corale i cui veri protagonisti siano gli umili, che nel turbine di eventi storici di immensa portata avanzano verso il loro riscatto.

Stalingrad battle

Per una giusta causa esce in fascicoli nel 1952 con questo nuovo titolo ad hoc che serve a compiacere le autorità e superare qualche difficoltà di censura, dovute al fatto che si parla troppo di ebrei e troppo poco di Stalin. L’anno dopo, il compagno Stalin muore, “senza che ciò fosse pianificato”, commenta ironicamente Grossman.

Si mette allora a scrivere un secondo volume sulla battaglia di Stalingrado; stesso contesto, stessi personaggi, ma tutt’altra versione rispetto al primo e stavolta il titolo è davvero tolstojano, due soli sostantivi e una congiunzione: “Zisn’i sud’ba”, Vita e destino.

Spedisce il suo nuovo manoscritto alla rivista Znamja, ma appena lo leggono, i redattori si precipitano subito, terrorizzati, a consegnarlo alla Lubjanka in mano dei censori del Kgb. Nel febbraio del 1961, i funzionari della polizia politica piombano in casa Grossman, la perquisiscono, sequestrano il manoscritto con tanto di brutte copie, carta carbone, carte veline e persino i nastri della macchina da scrivere. Sequestrano anche la macchina da scrivere.

Grossman non può che lasciar fare. Però non si arrende, protesta. Scrive persino una lettera al segretario del Partito Nikita Krusciov per chiedere riparazione. Per quattro mesi, nessuna risposta, finché non viene ricevuto dal compagno Michail Suslov, il capo della sezione ideologica del Partito, che a nome del Comitato Centrale gli comunica che non è il caso di pubblicare il romanzo e men che meno restituirgli il manoscritto: “Il suo libro corre il rischio di non vedere la luce prima di due o trecento anni”.

Ma tre copie del dattiloscritto erano state da tempo consegnate da Grossman a tre amici fidati.

Per decenni queste tre copie sono rimaste nascoste sotto un letto, dietro uno specchietto del bagno, in altri incredibili nascondigli.

Ad un certo momento però uno di questi tre amici vent’anni dopo riuscì a far arrivare il testo di Grossman in Europa dopo averlo microfilmato. Pare che a far questo sia stato Sakharov ma a tutt’oggi non se ne ha la conferma ufficiale. L’unica condizione per la pubblicazione pare fosse che la prima edizione avrebbe dovuto avvenire in lingua russa. E così fu: il libro di Grossman venne pubblicato da un editore serbo, in russo, a Losanna, nel 1980. Venne poi tradotto e pubblicato in francese. La Jaca Book aveva poi tradotto e pubblicato in italiano il testo francese.

Questa edizione Adelphi è la prima traduzione integrale italiana effettuata sul testo russo originale.

Come avevo già scritto in un precedente post, Vita e Destino è un libro bellissimo, immenso, complesso e che si presta a parecchi possibili livelli di lettura. Un libro molto impegnativo, che richiede un “lettore ideale” che non si arrenda nelle prime cento pagine e prosegua pazientemente districandosi nella enorme mole di materiale che Grossman gli mette davanti. La fatica iniziale verrà abbondantemente compensata.

Le difficoltà più immediate e superficiali sono costituite dall’incredibile numero di personaggi che popolano il romanzo (una decina circa sono i personaggi principali e decine e decine altri personaggi allo stesso tempo secondari ma importanti). Non è facile, per un lettore italiano, tenere le fila di ciò che avviene considerando la difficoltà di memorizzare questa enorme quantità di nomi russi i quali — non è superfluo ricordarlo — sono costituiti da nome, cognome, patronimico. Se a questo aggiungiamo che spesso, nei dialoghi, le persone si parlano tra loro utilizzando diminutivi e vezzeggiativi, si capisce come fin dall’inzio sia bene armarsi come ho fatto io (non mi vergogno a dirlo) di bloc notes e matita e cominciare a segnarsi i nomi completi dei personaggi man mano che “entrano in scena”. Credetemi: se non avessi fatto così sarei rimasta travolta… Strano che il pur curatissimo volume Adelphi non sia stato corredato da un indice alfabetico dei personaggi, che in questo caso sarebbe stato di grande utilità, per i lettori.

Ma queste, come dicevo, sono solo piccole difficoltà che si superano con un minimo di pazienza e di accortezza.

Vediamo invece di entrare nel merito di questo romanzo che, non mi stancherò mai di ripeterlo, definire semplicemente “romanzo storico” (come purtroppo ho letto da qualche parte) sarebbe ingiustamente riduttivo.

Il libro è un romanzo corale, un immenso affresco — epico, ma senza alcuna indulgenza — della battaglia e dell’assedio di Stalingrado nella fase più tragica della Seconda guerra mondiale, fase che inizia nell’estate del 1941 con l’operazione Barbarossa, voluta da Hitler in sfregio al patto nazisovietico del 1939 e termina il 1° Febbraio 1943.

E’ una cronaca drammatica e struggente, realizzata attraverso un racconto a più voci, dell’invasione tedesca e della controffensiva sovietica per liberare la città sul Volga nell’inverno 1942-43.

Vasilij GrossmanE’ bene, mentre si legge il romanzo, non dimenticare che a Stalingrado Grossman c’era stato davvero, come corrispondente di guerra per il giornale Stella Rossa.

Nel libro c’è l’epos tragico e quotidiano di quella che fu contemporaneamente la più dura sconfitta dell’Armata Rossa e la più smagliante vittoria dello Stato sovietico, che riuscì a tener testa all’invasore sino a invertire il verdetto della battaglia.

Vita e Destino è ormai da più parti definito “il Guerra e Pace del Novecento”.

Ed in realtà i riferimenti a Guerra e Pace di Tolstoj sono subito evidenti: non solo il titolo, ma l’intero impianto narrativo. Come nel romanzo di Tolstoj, anche qui la Grande Storia si intreccia alla Micro-Storia, le epiche vicende della guerra vengono fatte vivere al lettore attraverso le storie individuali degli innumerevoli singoli personaggi ed in particolare dai componenti di una grande famiglia: la famiglia Saposnikov. Nel corso del romanzo, inoltre, i riferimenti e le citazioni esplicite di Grossman a Guerra e Pace sono numerose, l’autore non nasconde affatto quale sia il suo modello di riferimento.

Ma se l’impianto narrativo dell’opera è decisamente, dichiaratamente tolstojano, molto diverso è lo stile di scrittura: Tolstoj ha un ritmo lento, descrittivo, molto musicale (lo si percepisce anche in traduzione). Grossman, al contrario, ha uno stile secco, fatto di frasi brevi e concise. E’ uno stile duro. Le descrizioni ci sono, in Vita e Destino, e sono anche splendide. Ma ci sono quando la loro presenza viene ritenuta davvero funzionale. Nelle 827 pagine del romanzo non c’è una riga superflua, niente che non abbia una precisa ragione di esserci.

Il romanzo, diviso in tre parti, inizia quando sono i tedeschi ad avere la meglio sui russi, descrive poi, nella parte centrale, il capovolgimento della situazione con la descrizione dei tedeschi assediati dai sovietici e si conclude con la vittoria dell’Armata Rossa, decisiva per le sorti della Seconda Guerra mondiale.

Stalingrad battle

Stalingrad battle

Lo stesso macro-schema di Guerra e Pace, se ricordate. Anche il romanzo di Tolstoj si apre con i russi in difficoltà e con Napoleone che li sbaraglia nella battaglia di Austerlitz. Anche in Tolstoj avviene poi il ribaltamento della situazione e la vittoria ed il riscatto del popolo russo.

Ma Vita e Destino non è solo un romanzo di guerra ed una grande saga familiare, c’è ben altro.

Fu proprio questo “altro” che spinse il governo sovietico non solo a proibire la pubblicazione del libro ma a far sequestrare dal KGB tutto il sequestrabile.

In Stalingrado infatti Grossman aveva visto non solo l’apoteosi di Stalin ma il trionfo del suo regime imperiale e totalitario.

Determinante nell’esito della guerra, la vittoria sovietica a Stalingrado segnò anche, secondo Grossman, un fatto cruciale: “La disputa silenziosa tra il popolo e lo Stato, entrambi vincitori, dalla quale dipendeva il destino dell’uomo e la sua libertà”.

Stalingrad battle

Per questo, dunque, prima di essere la sublime vittoria della Russia di Stalin, Stalingrado si rivelò secondo Grossman, sulla distanza, una catastrofe sia per vincitori sia per i vinti:

“Era in gioco la sorte dei calmucchi, dei tartari di Crimea, di balkari e ceceni che, sempre per volontà di Stalin, sarebbero stati deportati in Siberia e Kasakistan, perdendo il diritto a ricordare la propria storia e a insegnare ai figli nella loro lingua madre […] si decidevano le sorti degli ebrei salvati dall’Armata Rossa, sui quali, a dieci anni dalla vittoria di Stalingrado, Stalin avrebbe levato il gladio sottratto ad Hitler […] Si decidevano le sorti della Polonia, dell’Ungheria, della Cecoslovacchia e della Romania […] Si decidevano le sorti dei contadini e degli operai russi, della libertà del pensiero russo, della letteratura e della scienza russe” (pag. 619)

Il romanzo di questa “catastrofe” è un ritratto a più voci di un’umanità in balia della storia, prigioniera dei lager nazisti, o ostaggio di commissari sovietici. Un’umanità costretta a sopravvivere sotto le macerie o a subire le angherie e le vessazioni della coabitazione forzata.

Impressionante, nel libro, la scansione delle scene in cui Grossman ci fa vedere come, nello stesso momento, soldati russi soffrono e muoiono nei lager tedeschi e cittadini sovietici la cui unica colpa è di non essere graditi al regime soffrono atrocemente nei gulag stalinisti e che mentre a Stalingrado l’imponente spiegamento di forze dell’Armata Rossa trionfa mettendo definitivamente in ginocchio i tedeschi di Paulus stremati da mesi di assedio, vecchi combattenti della rivoluzione bolscevica vengono torturati nelle cantine della Lubjanka a Mosca e spinti a confessare colpe inesistenti per poi essere mandati a marcire in Siberia nei famigerati gulag della Kolyma…

Eppure, e nonostante tutto, c’è anche chi è ancora capace di gesti imprevedibili e di una “bontà folle e insensata” in cui si esprime la “tensione inestirpabile alla libertà”. Grossman fa dire ad un certo punto, ad uno dei suoi personaggi, prigioniero in un lager:

“In quest’epoca tremenda, un’epoca di follie commesse nel nome e nella gloria di Stati e nazioni o del bene universale, e in cui gli uomini non sembrano più uomini ma fremono come rami d’albero e sono come la pietra che frana e trascina con sé le altre pietre riempiendo fosse e burroni, in quest’epoca di terrore e di follia insensata, la bontà spicciola, granello radioattivo sbriciolato nella vita, non è scomparsa”.

I protagonisti di Vita e destino non sono solo russi, ma tedeschi, e non solo nazisti, ma semplici cittadini apolitici.

Son donne e uomini, madri e figli, mariti e mogli, vecchi e bambini, nemici e amanti, ma anche estranei che parlano e vivono e soffrono tra la Russia e l’Ucraina, tra Kazan e Kujbysev. A cominciare dalle sorelle Saposnikov, Evgenija e Ljudmila, col loro doppio destino di mogli e di madri. La prima, Evgenija lascia il primo marito Krymov, un vecchio intellettuale bolscevico che serve in guerra come commissario politico, per sposare il comandante capo dei carristi, colonnello Novikov, l’eroe di Stalingrado, che per trarre in salvo uomini e materiali, tarderà l’attacco di qualche minuto, sino a essere sfiorato da una condanna a morte.

Uno dei personaggi chiave del romanzo è Strum, il marito di Ljudmila, in cui si può intravedere una sorta di alter ego dello stesso autore. Strum non è a combattere al fronte.

E’ un fisico teorico figlio di madre ebrea il cui talento è riconosciuto a livello internazionale, che al culmine delle sue ricerche (si occupa di fissione nucleare) vede abbattersi su di sé il flagello dell’antisemitismo, col rischio di essere eliminato fisicamente.

Strum è un ebreo russo, anzi è un russo ebreo assimilato come Grossman. E come Grossman scopre cosa vuol dire essere ebreo solo quando la madre deportata in un lager dai nazisti invasori, gli scrive l’ultima lettera:

“Vitja, sono sicura che la mia lettera arriverà fino a te, benché io mi trovi oltre la linea del fronte e dietro il filo spinato del ghetto. Non riceverò mai la tua risposta. Non ci sarò più.
Voglio che tu conosca i miei ultimi giorni, con questo pensiero mi è più facile uscire dalla vita”
.

E in quella lettera della madre di Strum, Grossman racconta l’irruzione dei tedeschi nella città, il loro grido al momento dello sfondamento, le liste dei deportati, il viavai dei vicini, l’esultanza del portinaio antisemita: “Grazie a Dio per i giudei è la fine”.

Scene di ordinaria follia, che accomunano nazisti e bolscevichi, e solo in guerra appaiono nella loro nudità.

“Non so cosa ci sia di più penoso”, dice un medico ebreo che lavora in ospedale, “se la gioia maligna o gli sguardi compassionevoli con cui si guarda un gatto rognoso agonizzante”.

Sono tanti, i personaggi dei quali sarebbe importante parlare, ma non è possibile. Mi limito solo ad alcuni: Krymov, funzionario di partito e bolscevico della prima ora torturato nelle cantine della Lubjanka, Grenko, il comandante del piccolo nucleo di assediati al mitico “civico sei-barra-uno” a Stalingrado, il pilota di caccia Viktorov, David, il ragazzino ebreo che muore nella camera a gas di Treblinka, Mostovskoj, bolscevico tutto d’un pezzo che non si arrende nemmeno di fronte all’evidenza, Stepan Fëdorovich, eroico direttore della Centrale Idroelettrica di Stalingrado… e tanti, tanti altri la cui vita viene travolta da un destino cui non possono opporsi.

Sof’ja Osipovna Levinton, per esempio, medico militare, di Mosca. Un passato di studi a Zurigo, a Parigi, le spedizioni in Caucaso, e poi i lunghi mesi a Stalingrado. Nell’estate del 1942 anche lei salirà su un convoglio piombato infestato di pidocchi, fra pianti, lamenti, fetori. Anche lei sentirà di perdere il senso della propria individualità, avvertendo come ineluttabile la fatalità.

“Constatò con stupore che le erano bastati solo pochi giorni per percorrere a ritroso il cammino che va dall’essere umano alla bestia sporca e miseranda senza nome e senza libertà, un cammino che aveva richiesto milioni di anni”.

I “mondi” che Grossman esplora in Vita e Destino sono tanti, ed ognuno con i suoi protagonisti, le sue regole, la sua cultura ed i suoi codici di comportamento: il mondo dei lager (nazisti e stalinisti), il mondo accademico dei ricercatori e degli scienziati, quello dei funzionari di partito e della nomenklatura, il mondo militare, quello della gente comune: contadini, operai…

Ed anche i temi affrontati sono tanti, e tra questi i più importanti sono sicuramente quelli dell’antisemitismo, della responsabilità individuale e collettiva, dell’identità

Tutta l’ umanità che nel romanzo di Grossman ruota attorno alla vicenda di Stalingrado è, constatiamo pagina dopo pagina, stretta nella morsa di due totalitarismi nemici e antagonisti in apparenza, ma per principio identici.

E’ questo il vero grande tema, lo zoccolo duro del romanzo. Questa sostanziale specularità che Grossman individua nel confronto tra nazismo e comunismo.

Sui due versanti, infatti, la guerra si nutre dello stesso odio. Non fa che opporre forme diverse di un’identica essenza, lo Stato totalitario, lo Stato partito, e lo fa in nome di un bene universale, sia la razza, sia la società.

Circa a metà del romanzo è collocata una delle scene più importanti e significative del libro. Quella in cui Grossman descrive il dialogo in cui il comandante Liss, un ufficiale delle SS responsabile del lager nazista, dice al vecchio bolscevico Mostovksoj, suo prigioniero:

“Quando ci guardiamo in faccia l’un l’altro, noi guardiamo uno specchio. Questa è la tragedia dell’epoca. Forse che voi in noi non riconoscete voi stessi, la vostra volontà? Forse che per voi il mondo non è la vostra stessa volontà, qualcosa forse può farvi esitare o fermare? […] Non c’è nessun abisso tra di noi! […] siamo due ipostasi della stessa sostanza: uno Stato di partito” (pag.382)

Vita e Destino rappresenta una radicale presa di distanza dalle ideologie. Se per ideologia si intende una costruzione di pensiero che pretende di imporsi alla realtà partendo dal proprio preconcetto punto di vista, e considerando che comunismo e nazismo sono state, nel Novecento, le più mostruose impersonificazioni dell’ideologia, all’ideologia Grossman dice di no.

Grossman scriveva agli inizi degli anni Sessanta, e in quegli anni un discorso sulla sostanziale uguaglianza, la radicale somiglianza di nazismo e comunismo era considerato eretico ed inaccettabile. Sono in molti, d’altronde, a considerarlo inaccettabile ancora oggi.

Io no. Più leggo e mi documento su quel terribile periodo e sempre meno differenze vedo tra due regimi entrambi sanguinari e totalitari.

Certo è che le più lucide denunce del male novecentesco (nazismo e totalitarismo sovietico) ci sono venute da due intellettuali ebrei – Hannah Arendt e Vasilij Grossman – pervenuti nello spesso periodo (i primi anni Sessanta) e per vie indipendenti, a conclusioni molto simili.

Più ci si addentra nella lettura del romanzo di Grossman più ci si rende conto infatti che ci si trova davanti — espressi in forma narrativa — agli stessi assunti, alla stessa teoria, agli stessi concetti di fondo che Hannah Arendt esprime, con gli strumenti della saggistica e dell’analisi della filosofia politica, in Le origini del totalitarismo  e ne La banalità del male.

Inoltre quando, parlando della battaglia di Stalingrado che è il nodo centrale del romanzo, Grossman ne dà una interpretazione terribile, porta anche in qualche modo a compimento il disegno potente di intuizioni che avevano già avuto altri scrittori di area slava.

Come, ad esempio, Sándor Márai che in Liberazione — recentemente tradotto da Adelphi — descrive l’ingresso vittorioso dei sovietici a Budapest. In questo romanzo scritto “in presa diretta” durante il verificarsi dell’evento storico Márai sosteneva che l’effettiva contrapposizione tra vincitori e vinti in realtà non esisteva, in quanto i due totalitarismi, il Nazismo e il Comunismo staliniano, sono parte di uno stesso specchio.

Ricordate le parole che Márai fa dire ad Erzsébet, la protagonista del romanzo? Ne avevo parlato qui.

“Bene, ci siamo […]. Il grande caos, la guerra che mi ha pervaso finora è finita. Adesso comincia un’altra guerra: così pensa. Perchè sa che questa “fine” non significa la fine in assoluto della guerra; al massimo che è cessato un tipo di guerra e che ne comincia una diversa. Non la pace, no”

Márai e Grossman, con stile e romanzi molto diversi, esprimono lo stesso concetto.

Per l’ungherese Márai si tratta di una intuizione. Per il sovietico Grossman, che ha vissuto “dall’interno” tutta una serie di vicende, nel momento in cui il comunismo si presenta come una speranza di salvezza per il mondo da un regime dittatoriale che rischia di travolgere tutto nella sua catastrofica follia, mette in luce quanto questa ‘speranza comunista’ sia essenzialmente una finzione e dimostra, attraverso le testimonianze dei suoi ‘eroi’ umiliati e vinti, come nazismo e comunismo abbiano inquietanti punti in comune: pur opponendosi dal punto di vista delle finalità ideologiche, all’atto pratico dimostrano di agire allo stesso modo.

Eppure, Vita e Destino, che descrive un mondo spesso coperto da una fitta nebbia (“nebbia” è una delle parole chiave del romanzo, una di quelle che ricorrono più frequentemente e che troviamo non solo nel bellissimo incipit) è uno struggente, continuo, poetico inno alla vita.

Alla cappa dell’ideologia si sfugge cercando di vivere la vita.
La vita, senza idee che pretendano giustificarla, senza utopie che presumano darle uno scopo.

La vecchia madre ebrea di Strum, chiusa dai nazisti in un ghetto e prossima a essere uccisa, scrivendo al figlio la sua ultima lettera (Parte prima, capitolo 18) conclude così:

“Ecco l’ultima frase dell’ultima lettera della mamma indirizzata a te. Vivi, vivi, vivi per sempre…”.

Vivere avendo la possibilità di decidere per se stessi e non esser costretti a subire una sorte decisa da altri.

Poter vivere la vita rimanendo padroni del proprio destino

Vassilij Grossman
Vasilj Grossman

Qualche link di approfondimento

  • Vasilij Grossman su Wikipedia >>
  • Utilissima lista di alcuni dei personaggi principali del romanzo >>
  • Il sito del Centro Studi Vita e Destino Vasilij Grossman >>
  • La puntata di Fahrenheit con Marino Sinibaldi, la traduttrice Claudia Zonghetti e Andrea Graziosi >>
  • Su Lankelot, un’intervista alla traduttrice Claudia Zonghetti >>
  • Il romanzo di Grossman si può leggere e scaricare on line con il titolo Vida y Destino nella traduzione dal russo allo spagnolo di Marta-Ingrid Rebón Rodríguez  >>
  • Un ottimo video su YouTube sulla battaglia di Stalingrado >>
  • La battaglia di Stalingrado (cronologia, forze in campo, storia) >>

NATALE A STALINGRADO

Stalingrad

La porta si spalancò bruscamente, e dalle grosse volute tonde e umide di vapore affiorò una voce sonora e spessa:
“In piedi! Attenti!”
I soliti ordini pronunciati come al solito, senza fretta, con tranquillità.
L’ “attenti” era per l’amarezza, le sofferenze, la nostalgia, i cattivi pensieri… attenti a tenerli a bada….
[…] gli inquilini del bunker scorsero il cappotto grigio-azzurro del comandante di divisione, i suoi occhi miopi strizzati, la fede d’oro sulla mano bianca e vecchia che strofinava il monocolo con una pezzolina di camoscio.
E la voce che sul campo di Marte era abituata a raggiungere senza incrinarsi comandanti di reggimento e soldati semplici dell’ala sinistra del fronte disse:
“Riposo. Buongiorno”.
I soldati risposero alla rinfusa.

Stalingrad

Il generale sedette su una cassa di legno e la luce gialla della stufa scivolò sulla Croce di ferro nera del suo petto.

“Sono qui per farvi gli auguri: buona vigilia di Natale” disse il vecchio.

I soldati che lo accompagnavano avvicinarono una cassa alla stufa, sollevarono il coperchio con le baionette e cominciarono a tirar fuori piccoli alberelli di Natale alti un palmo e avvolti nel cellophane. Su ogni alberello c’era un un filo dorato, qualche pallina e qualche caramella.
Il generale osservò i soldati che toglievano la plastica, chiamò il tenente, gli bisbigliò qualche cosa e Bach disse ad alta voce:
“Il generale mi ordina di dirvi che questo regalo della madrepatria vi è stato recapitato da un pilota colpito nei cieli di Stalingrado. E’ riuscito ad atterrare all’aeroporto di Pitomnik, ma l’hanno estratto cadavere dalla cabina”.
I soldati tenevano i minuscoli alberelli nell’incavo della mano. L’aria calda del bunker li aveva riscaldati e coperti di piccole gocce di rugiada, e il profumo della resina invase il sotterraneo scacciandone l’odore di obitorio e di fucina, l’odore della prima linea.
Sensibile, Bach percepiva tutta la malinconia e la bellezza di quegli attimi.
Uomini che sprezzavano la forza dell’artiglieria pesante russa, uomini crudeli e rozzi stremati dalla fame, dalle pulci e dalla mancanza di munizioni avevano capito tutti, di punto in bianco, di non avere bisogno di bende, pane o tritolo, ma di quei rami d’abete avvolti in inutili ghirlande e con appeso un pugno di caramelle da orfanelli”.

(Vasilij Grossman, Vita e Destino)

Stalingrad

Le immagini le ho prese dal film Stalingrad di Joseph Vilsmaier (1993) >>

LE SALSICCE MEZZANOTTE

Tino Buazzelli
Nero Wolfe (Tino Buazzelli)

Quel gran simpaticone e terrificante misogino che è Nero Wolfe, il detective creato da Rex Stout ha, come credo tutti sanno, due grandi passioni: la coltivazione di orchidee e l’alta cucina.

Nero Wolfe, sia detto en passant, fu magnificamente interpretato per la RAI, negli anni 1969-1971, dal grandissimo Tino Buazzelli. Al suo fianco, nel ruolo di Archie Goodwin, suo simpaticissimo e scanzonato assistente e factotum c’era Paolo Ferrari. La regia televisiva era di Giuliana Berlinguer. Altri tempi, altra televisione…

Ma non divaghiamo.

Il libro che ho riletto in queste sere è stato proprio Alta cucina, un giallo ambientato in un grande albergo americano in cui Nero Wolfe, invitato a partecipare come ospite d’onore al convegno dei quindici più grandi cuochi del mondo si trova (ma no?! maddavero?! ma come mai?!) a dover risolvere il mistero di un morto ammazzato.

In Alta cucina il nostro Nero smania anche — per ben tre quarti del libro — per ottenere da un cuoco catalano (uno dei Quinze maîtres) la ricetta delle famosissime e secondo lui eccezionali “salsicce mezzanotte”. Nell’ultima pagina del libro finalmente ci riesce, a farsi dare l’agognata ricetta.

Considerato il periodo festivo, ho pensato di “girarla” anche a voi, chissà qualcuno volesse cimentarsi nell’impresa…

Tino Buazzelli Paolo Ferrari
Tino Buazzelli con Paolo Ferrrari nel ruolo di Archie Goodwin
 
SALSICCE MEZZANOTTE
2 cipolle
1 spicchi d’aglio
30 gr cioccolato
2 cucchiai grasso d’oca
3 cucchiai brandy cucchiai di burro
3 cucchiai brodo di manzo
3 cucchiai vino rosso
timo, rosmarino, zenzero, noce moscata, chiodi di garofano, pane grattugiato q.b.
100 gr. pancetta bollita100 gr. lonza di maiale arrosta
200 gr. arrosto d’oca
200 gr. fagiano arrosto
sale e pepe q.b.
1 cucchiaio pistacchi sbucciati
intestini di maiale
Tritate le cipolle e l’aglio e rosolatele nel grasso d’ oca. Versate prima il brandy fino a coprire le cipolle, poi il brodo ed il vino rosso. Aggiungete un pizzico di timo e rosmarino e spolverate con zenzero, noce moscata e con un’idea di chiodi di garofano. Cuocete a fuoco lento per dieci minuti e aggiungete sufficiente pane grattugiato per ottenere una polpa. Cuocete ancora per 5 minuti. Aggiungete prima il bacon bollito e l’arrosto di lonza, poi l’arrosto d’oca e di fagiano. Tutta la carne deve essere sminuzzata. Condite col sale e con una generosa dose di pepe nero, aggiungete il pistacchio e lasciate cuocere a fuoco lento finchè l’impasto di carne abbia la consistenza del ripieno di una salsiccia fresca.
Raffreddate completamente.
Lavate e scottate gli intestini di maiale.
Riempiteli con l’ impasto di carne, strozzando di tanto in tanto con del filo per ottenere le salsicce.
Cuocetele sotto il grill del forno, dopo avere bucato qua e là la pelle.
salsicce mezzanotte DVD

…Se per caso vi capitasse di storcere il naso o di lamentarvi per la difficoltà di realizzazione di questo piatto racconsolatevi rimembrando che, nel romanzo, Nero Wolfe pur di ottenere questa ricetta arriva a far cose…. ma cose…

Gialli Mondadori
La copertina di Alta cucina nella mitica collana Gialli Mondadori illustrata dall’altrettanto mitico Lojacono
 
  • I mille volti di Nero Wolfe >>
  • Chi poi volesse cimentarsi con altri piatti preferiti dal nostro raffinato gourmet troverà — come dire — pane per i suoi denti in questo libro di ricette.
  • I DVD della serie televisiva completa >>
  • Qualche video su YouTube

Nero Wolfe (T. Buazzelli) e il suo cuoco Fritz Brenner (Pupo de Luca) in cucina >>

Nero Wolfe (T. Buazzelli), Archie Goodwin (P. Ferrari) e la botanica >>

 

GRADIVA. VARIAZIONI SU UN TEMA

Gradiva
La Gradiva, particolare dal rilievo delle Aglauridi
Prima metà II sec. d.C.
Marmo, altezza 72 cm
Città del Vaticano, Museo Chiaramonti

“L’immagine riproduceva, a un terzo delle dimensioni naturali, una completa figura femminile nell’atto di camminare: una donna ancor giovane, ma non più bambina […] Nel modo in cui la figura era riprodotta  traspariva qualche cosa di umano e di comune (ma non nel senso deteriore), in certo modo qualcosa di moderno. […] Una figura slanciata e snella, la cui capigliatura lievemente ondulata era quasi completamente stretta da una sciarpa leggera. Non vi era alcuna civetteria nell’espressione del volto sottile; i suoi tratti  raffinati esprimevano piuttosto una serena indifferenza per quanto si svolgeva intorno, l’occhio era ranquillamente rivolto davanti a sé, e lo sguardo non appariva turbato né da cose materiali né da complicazioni interiori. Così la giovane donna non colpiva tanto per una sua bellezza plastica; piuttosto possedeva una grazia naturale, semplice, virginale, che sembrava infondere vita all’immagine di pietra. Vi contribuiva notevolmente il movimento in cui la giovane donna era rappresentata. Col capo lievemente reclinato, tratteneva la veste assai ampia che scendeva dalle spalle alle caviglie, così che erano visibili i piedi nei sandali. Il piede sinistro era avanti, e il destro sul punto di seguirlo toccava appena con le punte delle dita il terreno, mentre la pianta e il calcagno si alzavano quasi verticalmente. Questo movimento dava una doppia impressione: soprattutto quella di una lieve agilità nel passo, ma insieme anche quella di una stabilità. Questo librarsi in volo, congiunto alla sicurezza dell’incedere, conferiva all’immagine la sua grazia specifica”.

Questa è la scena d’apertura di Gradiva, racconto lungo dello scrittore tedesco Wilhelm Jensen pubblicato nel 1903.

Jensen narra di un giovane archeologo, Norbert Hanold, che vede in un museo il bassorilievo di una fanciulla che cammina.

Il bassorilievo colpisce tanto Hanold da spingerlo a procurarsi un calco in gesso dell’opera, da portare a casa.

Norbert comincia a sentire progressivamente un’ossessionante attrazione per la figura di pietra, un interesse che egli stesso riconosce andare al di là della curiosità professionale e da alla figura il nome di “Gradiva”, “l’avanzante”.

Gradiva viene infatti dal verbo intransitivo deponente latino gradior (gradior, graderis, gressus sum, gradi) che vuol dire “camminare, procedere, andare”.

Poco dopo, Hanold fa un sogno angoscioso in cui si trova nell’antica città di Pompei proprio nel momento in cui il Vesuvio in eruzione sta per distruggere la città. Nel sogno scorge Gradiva davanti a lui e gli sorge l’idea che Gradiva fosse pompeiana e che entrambi siano vissuti, contemporaneamente, nell’antica Pompei. Prima che egli possa avvertirla, la Gradiva viene sepolta dall’eruzione. Il delirio si impossessa di lui finchè Norbert riconosce in Gradiva la graziosa vicina Zoe Bertgang, un tempo compagna dei suoi giochi d’infanzia e i suoi sentimenti si spostano dalla donna di pietra alla donna di carne, rompendo il cerchio del delirio.

La novella di Jensen interessò moltissimo Freud, che su di essa scrisse un saggio intitolato Il delirio e i sogni della Gradiva di Wilhelm Jensen pubblicato nel 1907  in cui forniva una interessantissima interpretazione psicoanalitica del delirio di Norbert descritto da Jensen.

Il tutto si trova in un piccolo volumetto intitolato Gradiva edito dallo Studio Tesi che contiene sia la novella di Jensen che il saggio di Freud.

Jensen Freud Gradiva

Tutto questo mi è tornato in mente quando mi sono trovata nelle mani Il Momento di Magda Szabó e dunque la scelta della casa editrice Anfora di mettere in copertina proprio questa immagine del bassorilievo dei Musei Vaticani mi è sembrata particolarmente raffinata.

Perchè la Gradiva è — certo — la fanciulla che avanza, ma avanzando, spostandosi, “cambia stato”, cioè cambia. Gradiva è anche un’immagine di mutamento, di trasformazioni.

Proprio come la Creusa del romanzo della Szabó.

Magda Szabo Il momento

LA NEBBIA COPRIVA LA TERRA…

Stalingrado
Battaglia di Stalingrado

“La nebbia copriva la terra. Il bagliore dei fanali delle automobili rimbalzava sui fili dell’alta tensione che correvano lungo la strada.
Non aveva piovuto, ma all’alba il terreno era umido e, quando si accendeva il semaforo, sull’asfalto bagnato si spandeva un alone rossastro. Il respiro del lager si percepiva a chilometri di distanza — lì convergevano i fili della luce, sempre più fitti, la strada e la ferrovia. Era uno spazio riempito di linee rette, uno spazio di rettangoli e parallelogrammi che fendevano la terra, il cielo d’autunno, la nebbia.

Questo è l’incipit del libro  che sto leggendo.

Immenso, bellissimo, molto impegnativo.
Come sempre, quando mi trovo di fronte opere di questo tipo, cerco di non andar di fretta. E d’altra parte, di fretta non è possibile andare, considerata la densità, la complessità ed anche l’atrocità delle cose narrate.

L’inverno scorso ho intrapreso la rilettura di tutto Guerra e Pace, ho visto il film di Serghei Bondarchuk e ne sono venuti fuori parecchi post.

Questo è per me l’inverno di un altro grandissimo romanzo russo, che già molti hanno definito “il Guerra e Pace del Novecento.”

L’inverno scorso decine e decine di personaggi presi nel vortice delle armate di Kutusov e della Grande Armée di Napoleone.

Questa volta, la vita e il destino di decine e decine di personaggi tra i tedeschi di Friedrich Paulus e l’Armata Rossa di Vasilij Ivanovic Cujkov.

Ma soprattutto: nazismo e comunismo, Hitler da una parte, Stalin dall’altra…

IL MOMENTO – MAGDA SZABÓ

Magda Szabo
Magda SZABÓ, Il Momento (Creusaide) (tit. orig. A Pillanat), traduz. Vera Gheno, p. 260, Casa Editrice Anfora, codice ISBN-13: 9788889076200

“Perchè nel corso di ogni azione e di ogni vita c’è un momento, un unico momento soltanto, quando la mano che tiene l’urna della Sorte, la quale mescola ed estrae i tasselli del fato che registrano le fortune – sfortune a noi destinate, si ferma per il tempo di un respiro, e se qualcuno proprio in questa infinitesimale pausa fa un passo che lo porti nella direzione opposta rispetto alla via indicata per lui sul tassello che reca il suo nome, può percorrerla senza incappare nella punizione degli dèi: non lo fermerà neanche Giove.” (p. 141)

Questo libro è il penultimo romanzo scritto da Magda Szabó prima della sua morte.

E’ del 1980, ma l’autrice nella lunga e splendida introduzione — che una volta tanto vale davvero la pena leggere “prima” di addentrarsi nel romanzo e non “dopo” come in genere faccio io — in cui ci spiega nei particolari la genesi della sua opera, ci racconta che era stato da lei elaborato mentalmente in una gestazione durata più di trent’anni.

E’ un romanzo molto particolare, che chiama in causa la mitologia greca ma anche l’epica romana e in particolare l’Eneide di Virgilio.

Non tutti sanno che la Szabó conosceva talmente a fondo il latino da parlarlo correntemente fin dall’infanzia con suo padre e sua madre, persone di grande cultura. Così era, e dunque è inevitabile che riferimenti, citazioni, allusioni alla letteratura classica greca e latina siano parte integrante del contenuto, dello stile, della struttura de Il Momento.

Ricordate cosa ci hanno tramandato le leggende sulla caduta di Troia, la fuga di Enea e sul lungo viaggio che lo portò in Italia a fondare le prime basi dell’impero Latino?

Enea, figlio del mortale Anchise e della dea Afrodite (Venere), era sposato con Creusa, figlia del re Priamo e della regina Ecuba.

Protetto da Venere, Enea poteva scampare al massacro dei troiani assieme ad Anchise, al figlioletto Ascanio, la moglie Creusa accompagnati dal sacerdote Panto, la balia Caieta e pochissima altra gente fidata. Era un “raccomandato”, insomma, per dirla con la Szabó. Raccomandato di ferro, mi permetto di aggiungere io.

Da tutti i racconti dei rapsodi e soprattutto dal secondo libro dell’Eneide sappiamo però che durante la fuga Creusa si perse nella nebbia, non riuscì mai ad arrivare alla Porta dei Dardani e a mettersi in salvo sulla nave. L’epica e l’iconografia ci hanno tramandato nei secoli la celeberrima immagine di un gruppetto in cui il Pio Enea avanza portando sulla schiena il vecchio padre Anchise (carico anche dei sacri penati) e tenendo per mano il piccolo Ascanio (Iulo) di appena due anni.

Bernini
Gian Lorenzo Bernini
Enea, Anchise e Ascanio, 1618-19
Roma, Galleria Borghese

Creusa cammina dietro, senza niente in mano.
Personaggio marginale, sparirà ben presto nel nulla.

Federico Barocci
Federico Barocci
La fuga di Enea, 1598

Ma, riflette la Szabó, in realtà Creusa aveva il destino segnato, non poteva sopravvivere, era destinata alla morte: se fosse sopravvissuta, se Enea avesse intrapreso il viaggio con una moglie viva, vegeta e pimpante, tutta l’impalcatura su cui si reggono il poema di Virgilio e la leggenda sulle origini dell’impero latino sarebbe crollato.

La sparizione di Creusa è il marchingegno narrativo che consente a Virgilio di costruire il poema che celebra le origini divine dell’imperatore Ottaviano.

Altro che personaggio marginale! Creusa era “un catalizzatore, perchè se lei non fosse morta, non ci sarebbe stata possibilità logica per dare alla fresca corona di Ottaviano il luccichio smorzato della brillantezza patinata […] senza Creusa non ci sarebbe stata Eneide”.

Giovanni Giorgi
Giovanni Giorgi,
(Verona 1687 – Bologna 1717)
Enea fugge da Troia con
Anchise, Ascanio e Creusa

olio su tela, cm. 246×123.

Ecco allora che nel suo romanzo la Szabó non solo fa morire Enea invece di Creusa (come non ve lo dico), ma fa prendere a Creusa il posto di Enea e tutta la storia si sviluppa da questo “momento” iniziale in cui Creusa, contravvenendo al volere divino di Venere prende il posto del marito. Ci troviamo sin dalle prime pagine immersi in una rilettura della leggenda vista con occhi femminili ma non femministi, perchè non c’è niente dell’ideologia femminista, nel romanzo della scrittrice ungherese.

Per fare questo la Szabó allestisce una macchina narrativa particolarissima e che rifà il verso ai più classici poemi epici. Decide infatti di scrivere “un poema epico sotto forma di romanzo”.

Abbiamo dunque un (immaginario, eh, sia chiaro) poeta latino che si chiama Sartorio Saboade, il quale scrive un poema epico in ventiquattro canti intitolato Creusaide in cui vengono celebrate le gesta di Creusa.

Il poema, che come tutti i poemi epici che si rispettino ha tanto di Invocatio e di Peroratio alla divinità, è però censurato e messo all’indice, perchè considerato contrario alla politica letteraria dell’Imperatore Augusto. A questo proposito, va detto che l’allusione alla condizione in cui vennero a trovarsi la stessa Magda Szabó ed i suoi amici letterati del dissidente Circolo Luna a Budapest durante gli anni del governo filosovietico è molto trasparente. Solo molti secoli dopo il poema di Saboade viene ritrovato, però non integro, con molte parti mancanti e salti logici evidenti. E’ per questo che la narrazione è tutta in prima persona, è per questo che noi ascoltiamo (leggiamo) solo la voce di Creusa. Creusa, a cui Virgilio aveva tolto la voce e la vita.

Poichè inoltre il genere del poema epico conosce ed utilizza il “prodigio”, questo fornisce alla Szabó lo strumento per superare molti ostacoli di credibilità della storia che ha inventato.

Un esempio per tutti: all’esitazione di Creusa a prendere il posto del defunto Pio Enea, la balia Caieta così argomenta: “…chi può farci qualcosa se i greci ti hanno ucciso, e il comandante si è trasformato in donna? Per difendere suo figlio una dea può fare anche miracoli più grandi.”

Ne viene fuori un testo estremamente dissacrante, con pagine tragiche e commoventi ma anche con capitoli decisamente esilaranti. Accenno solo a qualcuno: tutta la fondamentale sequenza del decisivo momento in cui, alla Porta dei Dardani, Creusa si sostituisce al marito (il Pio Enea), le pagine dedicate all’incontro con la Sibilla Cumana, la figura di Caronte e tutto l’episodio della Discesa agli Inferi…

Magda Szabó smantella sapientemente moltissimi luoghi comuni tramandati dal mito e cantati/celebrati dai rapsodi e riflette lucidamente — collegandosi anche all’attualità della drammatica storia europea ed ungherese in particolare — sui temi del’autorità e dell’autoritarismo.

Il libro è infatti anche una acuta disamina dei meccanismi costitutivi del potere e della volontà di conquista:  importantissimo il capitolo intitolato Il Golpe, in cui si narra di quando Creusa-Enea sostituisce il potere frigio-troiano a quello dei Latini, dei Rutuli e delle altre tribù del Lazio ed il capitolo  intitolato Educazione, in cui Creusa/Enea teorizza sui meccanismi della propaganda, della formazione del consenso e della costruzione dell’immagine ufficiale dei vincitori che deve essere tramandata.

Tutto questo, la Szabó lo fa utilizzando gli strumenti della razionalizzazione e di una garbata ma finissima e micidiale ironia.

Altri temi fondamentali attraversano tutto il romanzo.

I modi di scrivere la Storia (“chi ha vinto ha sempre ragione”), per esempio, o il rapporto dell’individuo e la Storia, del Destino e del Fato: perchè gli esseri umani sono solo marionette nelle mani degli Dei.

“dietro alle vite si staglia oscuro il Fato, e […] è impossibile difendersi dai disegni divini”.

“I celesti sono come dei neonati, solo che usano noi come sonaglini. Ci afferrano, iniziano a scuoterci, e quando ce ne accorgiamo, in una sola scrollata la nostra vita è volata via”.

Il libro è anche una godibilissima galleria di ritratti sia maschili che femminili. Mi piacerebbe riportarne alcuni, ma evidentemente non mi è possibile. Magda Szabó afferma esplicitamente che leggendo e rileggendo l’Eneide la sua simpatia è sempre andata alle donne, ed in effetti mentre il Pio Enea è dipinto al vetriolo (“beccamorto dalla penna rossa”, “l’eroe del circo”, “il raccomandato”), e di tutti i personaggi maschili si salva solo Turno, il capo dei Rutuli mentre gli stessi Priamo, Anchise, il re Latino, il sacerdote Panto ne escono piuttosto malconci, bellissimi e toccanti sono ad esempio i ritratti — oltre ovviamente Creusa — quelli di Ecuba, Cassandra, Lavinia, Caieta.

Per tutti i personaggi comunque esiste “il momento”.

Ma “il momento che modifica la sorte […] non può essere previsto, solo riconosciuto.”

Creusa, Caieta, Panto, Turno, Acate sanno riconoscerlo ed utilizzarlo al meglio. Riescono a fare quel “passo che lo porti nella direzione opposta rispetto alla via indicata per lui”.

Altri non ci riescono, e causano la propria e spesso anche l’altrui rovina. Priamo, per esempio, perchè “Priamo non riconobbe l’attimo che significava la […] salvezza: richiamare a casa Paride, non accogliere Elena — e ci rimise lui, la stirpe di Ilo, e tutto l’impero”.

Chi non ricorda l’Eneide o non ha molta dimestichezza con la mitologia non deve assolutamente pensare che leggere Il Momento risulti impresa ardua. Non è così. Il libro si può leggere e godere tranquillamente anche senza saper nulla di letteratura latina e greca.

Per tutti quelli che almeno un’infarinatura la posseggono, il romanzo della Szabó ha, ai miei occhi, un pregio ulteriore, e cioè quello di far tornare la voglia di tirar giù dagli scaffali il testo di Virgilio ed almeno un paio di volumi di Euripide.

Soprattutto se teniamo presente che, a proposito della conoscenza della mitologia, ad un certo punto del romanzo Magda Szabó fa dire alla sua Creusa/Enea:

“Mi venne anche da pensare a che età inadatta e senza alcuna esperienza di vita si studi a scuola la mitologia. Andrebbe studiata più tardi, quando alle persone è già successo questo e quello, e sembra loro comprensibile che le mogli degli eroi servano ai mariti i propri figli come cena, o che magari nella loro notte di nozze inviino camicie carnivore all’amante che le abbandona”.

Enea
  • Il libro >>

ECUBA

Ecuba Priamo Ettore
Ettore giovinetto si arma tra Priamo ed Ecuba.
Anfora attica a figure rosse di Eutimide
Monaco, Staatliche Antikensammlungen

Magda Szabó, la grande scrittrice ungherese, nel suo penultimo romanzo Il momento, che ho appena terminato di leggere e di cui nei prossimi giorni spero parlerò, fa dire ad un certo punto ad uno dei suoi personaggi a proposito di Ecuba, regina di Troia e moglie di Priamo:

“…Non avrei mai pensato che la fantasia dei poeti fosse così povera […] E’ proprio una vergogna che la regina sia rappresentata mentre piange lo sterminio della sua famiglia torcendosi le mani, e che poi, rifugiatasi presso un altare, esali l’ultimo respiro accanto al cadavere del marito, o in un’altra versione che lavi, strofini e faccia le pulizie come serva di uno dei comandanti greci. […] Credi che sarebbe stato possibile trascinare via Ecuba? Pensi che sarebbe stata in grado di piangere, di supplicare, di scappare strillando nella reggia? Come osa fare questo l’epica, come può tramandare così Ecuba, […] Vergogna! […] Il rapsodo canta la sua propria ricostruzione, e quello che l’uditorio vorrebbe, ovvero tollera di sentire.
Tutti sono tanto felici se in un certo momento e in una certa situazione si possono immaginare che anche Ecuba si sarebbe comportata come si sarebbe comportato chi ascolta la storia: piangere e scappare”.

(Magda Szabó,   Il momento,  traduz. dall’ungherese di Vera Gheno.)

L’ Ecuba di Euripide
Questa vecchia dinanzi alla tenda
conducete, o fanciulle, reggete
questa schiava, ora vostra compagna,
o Troiane, ed un tempo regina.
(Euripide, Ecuba, traduz. di Ettore Romagnoli.
Il testo integrale >>qui)

Su via, misera, il capo dal suolo,
la cervice solleva. Non c’è
piú Troia, non sono regina
piú di Troia.
[…]
Ahimè, ahimè!
Qual mi manca motivo di piangere,
me tapina? La patria ho perduta,
i figli, lo sposo. O degli avoli
supremo fastigio magnifico,
tu dunque eri nulla!
Che devo tacere? Che devo
non tacere? Che piangere? Oh misera,
[…]
Rimane la Musa ai tapini,
nei cordogli che vietan le vittime.
(Euripide, Le Troiane, traduzione di Ettore Romagnoli.
Il testo integrale >>qui)

L’Ecuba di Virgilio
In mezzo al palazzo, a cielo aperto, s’ergeva
una grande ara e, accanto, un vecchissimo lauro,
proteso sull’ara, e con l’ombra abbracciava i penati.
Ecuba qui con le figlie invano intorno agli altari,
come colombe cacciate da nera tempesta,
strette insieme, abbracciando le statue dei numi, sedevano
(Virgilio, Eneide, Libro II, vv. 512 e segg., traduz. di Rosa Calzecchi Onesti)

L’Ecuba di Dante
Ecuba trista, misera e cattiva,
poscia che vide Polissena morta,
e del suo Polidoro in su la riva
del mar si fu la dolorosa accorta,
forsennata latrò sì come cane;
tanto il dolor le fé la mente torta.
(Dante Alighieri, Divina Commedia, Inferno, canto XXX, versi 16-21)