
Vasilij GROSSMAN, Vita e destino, (tit. orig. Zizn’ i sud’ba) traduz. di Claudia Zonghetti, p. 827, Adelphi, ISBN 9788845923401
Parlare di Vita e Destino significa avere a che fare con tre romanzi in uno:
- la vita dell’autore
- le vicissitudini e le traversie del manoscritto e di come riuscì ad eludere la cortina di ferro sovietica e ad approdare a case editrici occidentali
- il romanzo vero e proprio
No, non mi è proprio possibile esser breve, questa volta.
Spero egualmente, però, che almeno qualcuno di coloro che si trovano a passare da qui abbia la pazienza di arrivare fino in fondo. Perchè Vita e Destino è libro davvero importante.
Dico di più: dopo averlo terminato sono profondamente convinta che George Steiner avesse decisamente ragione, a definirlo uno di quei libri che “eclissano quasi tutti i romanzi che oggi, in Occidente, vengono presi sul serio”.
Vasilij Grossman era un russo nato ebreo a Berdicev nel 1905, nel cuore dell’Ucraina e dell’antico hassidismo (o chassidismo).
Ebreo ed ucraino dunque, e questo, nella URSS di Stalin, non era cosa da prender sottogamba. Grossman si sentiva però perfettamente assimilato all’universalismo bolscevico, tanto da nascere alla vita intellettuale come perfetto militante sovietico.
Diventò ingegnere e dopo essere cresciuto a Ginevra e aver studiato a Kiev, all’epoca dei piani quinquennali credette talmente nella costruzione dell’ “uomo nuovo” da abbandonare i cantieri minerari del Donbuss, dove lavorava, per mettersi a raccontare l’epopea dei militanti bolscevichi. Scrisse romanzi edificanti dei quali uno, per esempio, narrava il dilemma di una donna ucraina, commissario politico nell’Armata rossa, divisa nel 1920 tra lotta politica e maternità.
Diventato molto famoso, apprezzato negli anni Trenta per quei suoi romanzi in stile da realismo socialista, considerato negli anni dello stalinismo il miglior reporter di guerra, divenne però, dopo la fine della guerra e la morte di Stalin il primo grande scrittore russo antisovietico.
Da entusiasta seguace del comunismo sovietico era divenuto un suo critico implacabile.
Difficile dire quanto di questa lucidità gli derivasse dall’essere ebreo ed ucraino, vittima quindi di una doppia tragedia.
Umanista a tutto tondo, scrittore sensibile, Grossman finisce la sua vita nella disperazione proprio negli anni del disgelo post-stalinista.
Dopo aver visto cadere con la guerra il velo di mistificazione che avvolgeva il totalitarismo sovietico, dopo aver vissuto sulla propria pelle di ebreo assimilato la segreta affinità tra nazismo e comunismo, dopo aver scritto e raccontato tutto questo in un libro magnifico, Vita e destino, aveva assistito impotente al sequestro del suo romanzo da parte del Kgb.
Con Stalin ancora vivo ed al potere, Grossman sarebbe senza dubbio finito dritto filato alla Lubjanka prima ed in un gulag della Kolyma poi.
Con il “disgelo” di Krusciov gli venne lasciata la libertà personale, ma il KGB gli sequestrò persino i nastri e la macchina da scrivere che aveva utilizzato per il suo romanzo e venne completamente emarginato. Morì a Mosca nel 1964 a soli 59 anni.
Come qualcuno ha scritto, negli anni del disgelo di Krusciov si preferiva imprigionare le parole e lasciar “libero” chi aveva avuto il coraggio di dirle.
Le vicissitudini di Vita e Destino, il modo in cui, dopo vent’anni dal sequestro, il libro di Grossman giunse in Europa e potè essere finalmente pubblicato e conosciuto in Occidente costituiscono già di per se un vero e proprio romanzo. Una storia talmente affascinante ed avventurosa (molto più di quella del manoscritto del Dottor Zivago) che purtroppo non mi è possibile descriverla qui in tutti i dettagli. Posso solo fare qualche accenno, ma invitando ad approfondire.
Il romanzo doveva intitolarsi Stalingrado, ma alla fine della prima stesura viene intitolato Per una giusta causa.
Grossman intende celebrare l’epos di un intero popolo in guerra, alla maniera di Tolstoj, con un romanzo corale i cui veri protagonisti siano gli umili, che nel turbine di eventi storici di immensa portata avanzano verso il loro riscatto.
Per una giusta causa esce in fascicoli nel 1952 con questo nuovo titolo ad hoc che serve a compiacere le autorità e superare qualche difficoltà di censura, dovute al fatto che si parla troppo di ebrei e troppo poco di Stalin. L’anno dopo, il compagno Stalin muore, “senza che ciò fosse pianificato”, commenta ironicamente Grossman.
Si mette allora a scrivere un secondo volume sulla battaglia di Stalingrado; stesso contesto, stessi personaggi, ma tutt’altra versione rispetto al primo e stavolta il titolo è davvero tolstojano, due soli sostantivi e una congiunzione: “Zisn’i sud’ba”, Vita e destino.
Spedisce il suo nuovo manoscritto alla rivista Znamja, ma appena lo leggono, i redattori si precipitano subito, terrorizzati, a consegnarlo alla Lubjanka in mano dei censori del Kgb. Nel febbraio del 1961, i funzionari della polizia politica piombano in casa Grossman, la perquisiscono, sequestrano il manoscritto con tanto di brutte copie, carta carbone, carte veline e persino i nastri della macchina da scrivere. Sequestrano anche la macchina da scrivere.
Grossman non può che lasciar fare. Però non si arrende, protesta. Scrive persino una lettera al segretario del Partito Nikita Krusciov per chiedere riparazione. Per quattro mesi, nessuna risposta, finché non viene ricevuto dal compagno Michail Suslov, il capo della sezione ideologica del Partito, che a nome del Comitato Centrale gli comunica che non è il caso di pubblicare il romanzo e men che meno restituirgli il manoscritto: “Il suo libro corre il rischio di non vedere la luce prima di due o trecento anni”.
Ma tre copie del dattiloscritto erano state da tempo consegnate da Grossman a tre amici fidati.
Per decenni queste tre copie sono rimaste nascoste sotto un letto, dietro uno specchietto del bagno, in altri incredibili nascondigli.
Ad un certo momento però uno di questi tre amici vent’anni dopo riuscì a far arrivare il testo di Grossman in Europa dopo averlo microfilmato. Pare che a far questo sia stato Sakharov ma a tutt’oggi non se ne ha la conferma ufficiale. L’unica condizione per la pubblicazione pare fosse che la prima edizione avrebbe dovuto avvenire in lingua russa. E così fu: il libro di Grossman venne pubblicato da un editore serbo, in russo, a Losanna, nel 1980. Venne poi tradotto e pubblicato in francese. La Jaca Book aveva poi tradotto e pubblicato in italiano il testo francese.
Questa edizione Adelphi è la prima traduzione integrale italiana effettuata sul testo russo originale.
Come avevo già scritto in un precedente post, Vita e Destino è un libro bellissimo, immenso, complesso e che si presta a parecchi possibili livelli di lettura. Un libro molto impegnativo, che richiede un “lettore ideale” che non si arrenda nelle prime cento pagine e prosegua pazientemente districandosi nella enorme mole di materiale che Grossman gli mette davanti. La fatica iniziale verrà abbondantemente compensata.
Le difficoltà più immediate e superficiali sono costituite dall’incredibile numero di personaggi che popolano il romanzo (una decina circa sono i personaggi principali e decine e decine altri personaggi allo stesso tempo secondari ma importanti). Non è facile, per un lettore italiano, tenere le fila di ciò che avviene considerando la difficoltà di memorizzare questa enorme quantità di nomi russi i quali — non è superfluo ricordarlo — sono costituiti da nome, cognome, patronimico. Se a questo aggiungiamo che spesso, nei dialoghi, le persone si parlano tra loro utilizzando diminutivi e vezzeggiativi, si capisce come fin dall’inzio sia bene armarsi come ho fatto io (non mi vergogno a dirlo) di bloc notes e matita e cominciare a segnarsi i nomi completi dei personaggi man mano che “entrano in scena”. Credetemi: se non avessi fatto così sarei rimasta travolta… Strano che il pur curatissimo volume Adelphi non sia stato corredato da un indice alfabetico dei personaggi, che in questo caso sarebbe stato di grande utilità, per i lettori.
Ma queste, come dicevo, sono solo piccole difficoltà che si superano con un minimo di pazienza e di accortezza.
Vediamo invece di entrare nel merito di questo romanzo che, non mi stancherò mai di ripeterlo, definire semplicemente “romanzo storico” (come purtroppo ho letto da qualche parte) sarebbe ingiustamente riduttivo.
Il libro è un romanzo corale, un immenso affresco — epico, ma senza alcuna indulgenza — della battaglia e dell’assedio di Stalingrado nella fase più tragica della Seconda guerra mondiale, fase che inizia nell’estate del 1941 con l’operazione Barbarossa, voluta da Hitler in sfregio al patto nazisovietico del 1939 e termina il 1° Febbraio 1943.
E’ una cronaca drammatica e struggente, realizzata attraverso un racconto a più voci, dell’invasione tedesca e della controffensiva sovietica per liberare la città sul Volga nell’inverno 1942-43.
E’ bene, mentre si legge il romanzo, non dimenticare che a Stalingrado Grossman c’era stato davvero, come corrispondente di guerra per il giornale Stella Rossa.
Nel libro c’è l’epos tragico e quotidiano di quella che fu contemporaneamente la più dura sconfitta dell’Armata Rossa e la più smagliante vittoria dello Stato sovietico, che riuscì a tener testa all’invasore sino a invertire il verdetto della battaglia.
Vita e Destino è ormai da più parti definito “il Guerra e Pace del Novecento”.
Ed in realtà i riferimenti a Guerra e Pace di Tolstoj sono subito evidenti: non solo il titolo, ma l’intero impianto narrativo. Come nel romanzo di Tolstoj, anche qui la Grande Storia si intreccia alla Micro-Storia, le epiche vicende della guerra vengono fatte vivere al lettore attraverso le storie individuali degli innumerevoli singoli personaggi ed in particolare dai componenti di una grande famiglia: la famiglia Saposnikov. Nel corso del romanzo, inoltre, i riferimenti e le citazioni esplicite di Grossman a Guerra e Pace sono numerose, l’autore non nasconde affatto quale sia il suo modello di riferimento.
Ma se l’impianto narrativo dell’opera è decisamente, dichiaratamente tolstojano, molto diverso è lo stile di scrittura: Tolstoj ha un ritmo lento, descrittivo, molto musicale (lo si percepisce anche in traduzione). Grossman, al contrario, ha uno stile secco, fatto di frasi brevi e concise. E’ uno stile duro. Le descrizioni ci sono, in Vita e Destino, e sono anche splendide. Ma ci sono quando la loro presenza viene ritenuta davvero funzionale. Nelle 827 pagine del romanzo non c’è una riga superflua, niente che non abbia una precisa ragione di esserci.
Il romanzo, diviso in tre parti, inizia quando sono i tedeschi ad avere la meglio sui russi, descrive poi, nella parte centrale, il capovolgimento della situazione con la descrizione dei tedeschi assediati dai sovietici e si conclude con la vittoria dell’Armata Rossa, decisiva per le sorti della Seconda Guerra mondiale.
Lo stesso macro-schema di Guerra e Pace, se ricordate. Anche il romanzo di Tolstoj si apre con i russi in difficoltà e con Napoleone che li sbaraglia nella battaglia di Austerlitz. Anche in Tolstoj avviene poi il ribaltamento della situazione e la vittoria ed il riscatto del popolo russo.
Ma Vita e Destino non è solo un romanzo di guerra ed una grande saga familiare, c’è ben altro.
Fu proprio questo “altro” che spinse il governo sovietico non solo a proibire la pubblicazione del libro ma a far sequestrare dal KGB tutto il sequestrabile.
In Stalingrado infatti Grossman aveva visto non solo l’apoteosi di Stalin ma il trionfo del suo regime imperiale e totalitario.
Determinante nell’esito della guerra, la vittoria sovietica a Stalingrado segnò anche, secondo Grossman, un fatto cruciale: “La disputa silenziosa tra il popolo e lo Stato, entrambi vincitori, dalla quale dipendeva il destino dell’uomo e la sua libertà”.
Per questo, dunque, prima di essere la sublime vittoria della Russia di Stalin, Stalingrado si rivelò secondo Grossman, sulla distanza, una catastrofe sia per vincitori sia per i vinti:
“Era in gioco la sorte dei calmucchi, dei tartari di Crimea, di balkari e ceceni che, sempre per volontà di Stalin, sarebbero stati deportati in Siberia e Kasakistan, perdendo il diritto a ricordare la propria storia e a insegnare ai figli nella loro lingua madre […] si decidevano le sorti degli ebrei salvati dall’Armata Rossa, sui quali, a dieci anni dalla vittoria di Stalingrado, Stalin avrebbe levato il gladio sottratto ad Hitler […] Si decidevano le sorti della Polonia, dell’Ungheria, della Cecoslovacchia e della Romania […] Si decidevano le sorti dei contadini e degli operai russi, della libertà del pensiero russo, della letteratura e della scienza russe” (pag. 619)
Il romanzo di questa “catastrofe” è un ritratto a più voci di un’umanità in balia della storia, prigioniera dei lager nazisti, o ostaggio di commissari sovietici. Un’umanità costretta a sopravvivere sotto le macerie o a subire le angherie e le vessazioni della coabitazione forzata.
Impressionante, nel libro, la scansione delle scene in cui Grossman ci fa vedere come, nello stesso momento, soldati russi soffrono e muoiono nei lager tedeschi e cittadini sovietici la cui unica colpa è di non essere graditi al regime soffrono atrocemente nei gulag stalinisti e che mentre a Stalingrado l’imponente spiegamento di forze dell’Armata Rossa trionfa mettendo definitivamente in ginocchio i tedeschi di Paulus stremati da mesi di assedio, vecchi combattenti della rivoluzione bolscevica vengono torturati nelle cantine della Lubjanka a Mosca e spinti a confessare colpe inesistenti per poi essere mandati a marcire in Siberia nei famigerati gulag della Kolyma…
Eppure, e nonostante tutto, c’è anche chi è ancora capace di gesti imprevedibili e di una “bontà folle e insensata” in cui si esprime la “tensione inestirpabile alla libertà”. Grossman fa dire ad un certo punto, ad uno dei suoi personaggi, prigioniero in un lager:
“In quest’epoca tremenda, un’epoca di follie commesse nel nome e nella gloria di Stati e nazioni o del bene universale, e in cui gli uomini non sembrano più uomini ma fremono come rami d’albero e sono come la pietra che frana e trascina con sé le altre pietre riempiendo fosse e burroni, in quest’epoca di terrore e di follia insensata, la bontà spicciola, granello radioattivo sbriciolato nella vita, non è scomparsa”.
I protagonisti di Vita e destino non sono solo russi, ma tedeschi, e non solo nazisti, ma semplici cittadini apolitici.
Son donne e uomini, madri e figli, mariti e mogli, vecchi e bambini, nemici e amanti, ma anche estranei che parlano e vivono e soffrono tra la Russia e l’Ucraina, tra Kazan e Kujbysev. A cominciare dalle sorelle Saposnikov, Evgenija e Ljudmila, col loro doppio destino di mogli e di madri. La prima, Evgenija lascia il primo marito Krymov, un vecchio intellettuale bolscevico che serve in guerra come commissario politico, per sposare il comandante capo dei carristi, colonnello Novikov, l’eroe di Stalingrado, che per trarre in salvo uomini e materiali, tarderà l’attacco di qualche minuto, sino a essere sfiorato da una condanna a morte.
Uno dei personaggi chiave del romanzo è Strum, il marito di Ljudmila, in cui si può intravedere una sorta di alter ego dello stesso autore. Strum non è a combattere al fronte.
E’ un fisico teorico figlio di madre ebrea il cui talento è riconosciuto a livello internazionale, che al culmine delle sue ricerche (si occupa di fissione nucleare) vede abbattersi su di sé il flagello dell’antisemitismo, col rischio di essere eliminato fisicamente.
Strum è un ebreo russo, anzi è un russo ebreo assimilato come Grossman. E come Grossman scopre cosa vuol dire essere ebreo solo quando la madre deportata in un lager dai nazisti invasori, gli scrive l’ultima lettera:
“Vitja, sono sicura che la mia lettera arriverà fino a te, benché io mi trovi oltre la linea del fronte e dietro il filo spinato del ghetto. Non riceverò mai la tua risposta. Non ci sarò più.
Voglio che tu conosca i miei ultimi giorni, con questo pensiero mi è più facile uscire dalla vita”.
E in quella lettera della madre di Strum, Grossman racconta l’irruzione dei tedeschi nella città, il loro grido al momento dello sfondamento, le liste dei deportati, il viavai dei vicini, l’esultanza del portinaio antisemita: “Grazie a Dio per i giudei è la fine”.
Scene di ordinaria follia, che accomunano nazisti e bolscevichi, e solo in guerra appaiono nella loro nudità.
“Non so cosa ci sia di più penoso”, dice un medico ebreo che lavora in ospedale, “se la gioia maligna o gli sguardi compassionevoli con cui si guarda un gatto rognoso agonizzante”.
Sono tanti, i personaggi dei quali sarebbe importante parlare, ma non è possibile. Mi limito solo ad alcuni: Krymov, funzionario di partito e bolscevico della prima ora torturato nelle cantine della Lubjanka, Grenko, il comandante del piccolo nucleo di assediati al mitico “civico sei-barra-uno” a Stalingrado, il pilota di caccia Viktorov, David, il ragazzino ebreo che muore nella camera a gas di Treblinka, Mostovskoj, bolscevico tutto d’un pezzo che non si arrende nemmeno di fronte all’evidenza, Stepan Fëdorovich, eroico direttore della Centrale Idroelettrica di Stalingrado… e tanti, tanti altri la cui vita viene travolta da un destino cui non possono opporsi.
Sof’ja Osipovna Levinton, per esempio, medico militare, di Mosca. Un passato di studi a Zurigo, a Parigi, le spedizioni in Caucaso, e poi i lunghi mesi a Stalingrado. Nell’estate del 1942 anche lei salirà su un convoglio piombato infestato di pidocchi, fra pianti, lamenti, fetori. Anche lei sentirà di perdere il senso della propria individualità, avvertendo come ineluttabile la fatalità.
“Constatò con stupore che le erano bastati solo pochi giorni per percorrere a ritroso il cammino che va dall’essere umano alla bestia sporca e miseranda senza nome e senza libertà, un cammino che aveva richiesto milioni di anni”.
I “mondi” che Grossman esplora in Vita e Destino sono tanti, ed ognuno con i suoi protagonisti, le sue regole, la sua cultura ed i suoi codici di comportamento: il mondo dei lager (nazisti e stalinisti), il mondo accademico dei ricercatori e degli scienziati, quello dei funzionari di partito e della nomenklatura, il mondo militare, quello della gente comune: contadini, operai…
Ed anche i temi affrontati sono tanti, e tra questi i più importanti sono sicuramente quelli dell’antisemitismo, della responsabilità individuale e collettiva, dell’identità…
Tutta l’ umanità che nel romanzo di Grossman ruota attorno alla vicenda di Stalingrado è, constatiamo pagina dopo pagina, stretta nella morsa di due totalitarismi nemici e antagonisti in apparenza, ma per principio identici.
E’ questo il vero grande tema, lo zoccolo duro del romanzo. Questa sostanziale specularità che Grossman individua nel confronto tra nazismo e comunismo.
Sui due versanti, infatti, la guerra si nutre dello stesso odio. Non fa che opporre forme diverse di un’identica essenza, lo Stato totalitario, lo Stato partito, e lo fa in nome di un bene universale, sia la razza, sia la società.
Circa a metà del romanzo è collocata una delle scene più importanti e significative del libro. Quella in cui Grossman descrive il dialogo in cui il comandante Liss, un ufficiale delle SS responsabile del lager nazista, dice al vecchio bolscevico Mostovksoj, suo prigioniero:
“Quando ci guardiamo in faccia l’un l’altro, noi guardiamo uno specchio. Questa è la tragedia dell’epoca. Forse che voi in noi non riconoscete voi stessi, la vostra volontà? Forse che per voi il mondo non è la vostra stessa volontà, qualcosa forse può farvi esitare o fermare? […] Non c’è nessun abisso tra di noi! […] siamo due ipostasi della stessa sostanza: uno Stato di partito” (pag.382)
Vita e Destino rappresenta una radicale presa di distanza dalle ideologie. Se per ideologia si intende una costruzione di pensiero che pretende di imporsi alla realtà partendo dal proprio preconcetto punto di vista, e considerando che comunismo e nazismo sono state, nel Novecento, le più mostruose impersonificazioni dell’ideologia, all’ideologia Grossman dice di no.
Grossman scriveva agli inizi degli anni Sessanta, e in quegli anni un discorso sulla sostanziale uguaglianza, la radicale somiglianza di nazismo e comunismo era considerato eretico ed inaccettabile. Sono in molti, d’altronde, a considerarlo inaccettabile ancora oggi.
Io no. Più leggo e mi documento su quel terribile periodo e sempre meno differenze vedo tra due regimi entrambi sanguinari e totalitari.
Certo è che le più lucide denunce del male novecentesco (nazismo e totalitarismo sovietico) ci sono venute da due intellettuali ebrei – Hannah Arendt e Vasilij Grossman – pervenuti nello spesso periodo (i primi anni Sessanta) e per vie indipendenti, a conclusioni molto simili.
Più ci si addentra nella lettura del romanzo di Grossman più ci si rende conto infatti che ci si trova davanti — espressi in forma narrativa — agli stessi assunti, alla stessa teoria, agli stessi concetti di fondo che Hannah Arendt esprime, con gli strumenti della saggistica e dell’analisi della filosofia politica, in Le origini del totalitarismo e ne La banalità del male.
Inoltre quando, parlando della battaglia di Stalingrado che è il nodo centrale del romanzo, Grossman ne dà una interpretazione terribile, porta anche in qualche modo a compimento il disegno potente di intuizioni che avevano già avuto altri scrittori di area slava.
Come, ad esempio, Sándor Márai che in Liberazione — recentemente tradotto da Adelphi — descrive l’ingresso vittorioso dei sovietici a Budapest. In questo romanzo scritto “in presa diretta” durante il verificarsi dell’evento storico Márai sosteneva che l’effettiva contrapposizione tra vincitori e vinti in realtà non esisteva, in quanto i due totalitarismi, il Nazismo e il Comunismo staliniano, sono parte di uno stesso specchio.
Ricordate le parole che Márai fa dire ad Erzsébet, la protagonista del romanzo? Ne avevo parlato qui.
“Bene, ci siamo […]. Il grande caos, la guerra che mi ha pervaso finora è finita. Adesso comincia un’altra guerra: così pensa. Perchè sa che questa “fine” non significa la fine in assoluto della guerra; al massimo che è cessato un tipo di guerra e che ne comincia una diversa. Non la pace, no”
Márai e Grossman, con stile e romanzi molto diversi, esprimono lo stesso concetto.
Per l’ungherese Márai si tratta di una intuizione. Per il sovietico Grossman, che ha vissuto “dall’interno” tutta una serie di vicende, nel momento in cui il comunismo si presenta come una speranza di salvezza per il mondo da un regime dittatoriale che rischia di travolgere tutto nella sua catastrofica follia, mette in luce quanto questa ‘speranza comunista’ sia essenzialmente una finzione e dimostra, attraverso le testimonianze dei suoi ‘eroi’ umiliati e vinti, come nazismo e comunismo abbiano inquietanti punti in comune: pur opponendosi dal punto di vista delle finalità ideologiche, all’atto pratico dimostrano di agire allo stesso modo.
Eppure, Vita e Destino, che descrive un mondo spesso coperto da una fitta nebbia (“nebbia” è una delle parole chiave del romanzo, una di quelle che ricorrono più frequentemente e che troviamo non solo nel bellissimo incipit) è uno struggente, continuo, poetico inno alla vita.
Alla cappa dell’ideologia si sfugge cercando di vivere la vita.
La vita, senza idee che pretendano giustificarla, senza utopie che presumano darle uno scopo.
La vecchia madre ebrea di Strum, chiusa dai nazisti in un ghetto e prossima a essere uccisa, scrivendo al figlio la sua ultima lettera (Parte prima, capitolo 18) conclude così:
“Ecco l’ultima frase dell’ultima lettera della mamma indirizzata a te. Vivi, vivi, vivi per sempre…”.
Vivere avendo la possibilità di decidere per se stessi e non esser costretti a subire una sorte decisa da altri.
Poter vivere la vita rimanendo padroni del proprio destino
Vasilj Grossman
Qualche link di approfondimento
- Vasilij Grossman su Wikipedia >>
- Utilissima lista di alcuni dei personaggi principali del romanzo >>
- Il sito del Centro Studi Vita e Destino Vasilij Grossman >>
- La puntata di Fahrenheit con Marino Sinibaldi, la traduttrice Claudia Zonghetti e Andrea Graziosi >>
- Su Lankelot, un’intervista alla traduttrice Claudia Zonghetti >>
- Il romanzo di Grossman si può leggere e scaricare on line con il titolo Vida y Destino nella traduzione dal russo allo spagnolo di Marta-Ingrid Rebón Rodríguez >>
- Un ottimo video su YouTube sulla battaglia di Stalingrado >>
- La battaglia di Stalingrado (cronologia, forze in campo, storia) >>
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