L’ALBERO DEI DESIDERI – TENGIZ ABULADZE (1976)

Abuladze L'albero dei desideri

La prima immagine del film L'albero dei desideri del regista georgiano Tengiz Abuladze che compare subito dopo i titoli di testa è proprio il fotogramma di questo bambino, che ci catapulta in un campo di papaveri e in un mondo di colori e di fotografia incredibili.
Siamo nel piccolissimo villaggio caucasico di Kachetien, negli anni immediatamente precedenti la Rivoluzione d'Ottobre.Dalle poche notizie che sono riuscita a trovare ho appreso che la storia è basata su un romanzo rapsodico (22 racconti in versi liberi) di Gheorghj Leonidze, scrittore georgiano dell'ultimo Ottocento a me completamente sconosciuto.

Abuladze L'albero dei desideri
Ghedia e Zizirkhore

Nel villaggio ci sono persone che incarnano la consuetudine, la più rigida tradizione patriarcale e maschilista, il rispetto per le istituzioni ufficiali zariste e per i costumi tribali.
Rappresentante principale di questa categoria è il vecchio Zizirkhore. Nel villaggio, tutti lo riconoscono come autorità. Indiscussa dai più, discussa — ma comunque subita — da altri. E' Zizirkhore che rappresenta la Norma e che vigila perchè venga rispettata. A lui fanno riferimento tutti i tradizionalisti (uomini e donne) del villaggio, coloro che al futuro ed al progesso guardano con diffidenza. Perchè tutto il Bene sta nel Passato e nella Tradizione e tutto ciò che implica anche un benchè minimo cambiamento è inteso come il Male e deve essere combattuto e represso.

Abuladze L'albero dei desideri

A Zizirkhore si contrappone Ioram, un anarchico rivoluzionario, appassionato sostenitore della libertà e della rivoluzione tecnologica, dell'abbattimento della monarchia autocratica degli zar.

Abuladze L'albero dei desideri

In Zizirkhore Ioram vede il portatore della superstizione e dell'oscurantismo.
In una scena centrale del film i due hanno un durissimo confronto-scontro verbale:

"Sta arrivando la tempesta. La vittoria è vicina. Gli zar finiranno nelle tombe." dice Ioram e Zizirkhore replica: "Credi che la tempesta seppellirà solo gli zar? Non sai forse che porta con se anche macerie, sangue, sventure? Tutto andrà perso, e l'opera e il sudore della gente. La tua tempesta ucciderà noi. Non si appianano monti e pianure". La Storia darà torto e ragione ad entrambi.

Abuladze ha realizzato un film corale, nel quale tutti gli abitanti del piccolo villaggio hanno un loro spazio, una personalità ed un ruolo ben preciso anche se una storia principale c'è, ed è quella a cui si collegano in qualche modo tutte le altre. E' la storia d'amore tra la bellissima adolescente Marita e il giovane contadino Ghedia

Abuladze L'albero dei desideri
Abuladze L'albero dei desideri

Ma Ghedia è povero e Marita viene data in moglie — senza tener minimamente conto della sua volontà — a Shete, un uomo ricco che si rivela subito rozzo e brutale.

Abuladze L'albero dei desideri

Abuladze L'albero dei desideri

Tutti i personaggi che compaiono nel film meriterebbero un accenno e una immagine perchè ciascuno di essi è così ben delineato dal regista anche in sequenze brevissime da fare del film una vera e propria galleria di splendidi ritratti. Ma sono tanti e non mi è possibile farlo.

Nella folla che ruota attorno ai due ragazzi Marita e Ghedia, a Zizirkhore e Ioran c'è Elioz, che nella sua ossessiva ricerca dell' "albero dei desideri" finisce per morire assiderato

Abuladze L'albero dei desideri

Pupala, eccentrica e borderline, un po' strega e fattucchiera, buona e malinconica. Per consolarsi della sua solitudine si è inventata l'esistenza di una grande storia d'amore vissuta in gioventù e la va raccontando a tutte le donne del paese (che la prendono in giro) quando nei rari momenti di riposo dalle dure fatiche quotidiane si seggono a sferruzzare e spettegolare sedute sulle enormi radici dell'albero più grande del villaggio.

Abuladze L'albero dei desideri

C'è la giovane donna sfrontata e civetta, la cui sensuale bellezza fa perdere la testa a tutti i maschi del villaggio primo fra tutti il prete.

L'albero dei desideri Tengiz Abuladze

Ci sono le donne anziane, più spietate degli uomini nel giudicare e perseguitare qualunque tentativo delle giovani di avere una vita anche solo un poco più libera di quella toccata alle loro madri e nonne.

Abuladze L'albero dei desideri
Abuladze L'albero dei desideri

E poi ci sono i bambini, tanti bambini, felici di giocare con Ioram che spiega loro che cos'è un treno e come cambierà il villaggio quando arriverà la ferrovia, e come tutti staranno meglio…

Abuladze L'albero dei desideri

L'albero dei desideri è un film di grande poesia, ironico, grottesco, a tratti surreale (i preparativi di Eliaz quando ogni mattina si mette in cammino alla ricerca del suo albero dei desideri, per esempio) commovente ma mai svenevole. Di una stupefacente bellezza figurativa: ogni inquadratura, ogni sequenza è un vero e proprio trionfo per gli occhi.

Tengiz Abuladze L'albero dei desideri

Ho letto che le citazioni pittoriche — che si avvertono immediatamente — non sono casuali, e che Abuladze si è ispirato ai quadri di Brueghel il vecchio. Non sono un'esperta di pittura, ma sono andata a riguardarmi i dipinti di Brueghel e in effetti ho avuto la conferma del riferimento.

Ma nel film c'è anche il dramma. La sequenza finale, che non racconto ma di cui dico solo che in essa vengono al pettine i nodi del conflitto tra l'ordine costituito e gli irregolari, gli emarginati, i diversi del villaggio, tra il sogno d'amore e di libertà e le più crudeli leggi tribali è una delle scene più toccanti che io abbia visto al cinema. La capacità di Abuladze di rappresentare tutto l'orrore della violenza senza mostrarci concretamente nulla della violenza è roba da vero maestro.

Abuladze L'albero dei desideri

La prima inquadratura del film era il tripudio del rosso di un campo di papaveri.
Una delle ultime inquadrature è sul rosso di un fiore di melograno "bello" dice la voce fuori campo che si intuisce essere quella di Ioram "come il volto di Marita, il fiore di melograno appena sbocciato".

Abuladze L'albero dei desideri

Nonostante la sconfitta del sogno di Elioz, di Marita, di Ghedia, il film si chiude con un messaggio di speranza e con un volto di fanciulla perchè la figlia di Eliaz annodando ai rami i nastrini colorati continuerà a cercarlo, l'albero dei desideri.

"Albero porporino, albero piccolino
albero radioso, albero miracoloso
Signore, aiutami a trovarlo, aiutami a trovarlo"

Abuladze L'albero dei desideri

Questo film mi ha incantata per la raffinatezza delle immagini, per l'incisività e la solennità del racconto, per l'equilibrio tra elementi comici, surreali e drammatici.

E' uno di quei film che sembra siano scomparsi dalla circolazione e davvero non riesco a capire il perchè. Anche in rete sono reperibili pochissime informazioni e lo stesso imdb in questo caso si è rivelato di ben poco aiuto. E allora non potendo farlo vedere io, il film, ho cercato, almeno, di raccontarlo.

Le notizie che ho trovato sul regista dicono che "Fondamentale appare […] il rapporto tra la problematica civile e i canoni del neorealismo: un neorealismo stravolto e allucinato, immerso nella più accesa fantasia popolare. Il mondo contadino, da cui A. trae ispirazione è in particolar modo quello suggeritogli dalla realtà poetica di Georgij Leonidze, autore dei racconti da cui deriva il soggetto di Drevo Zelanija. […] Un anno dopo, generoso e convinto comunista, si iscrive al partito. E nel 1980 è nominato «artista del popolo». Insofferente verso le chiusure di un potere insensibile tanto alla verità quanto alle esigenze sociali, concepisce nel 1981 il progetto di un film di dura denuncia dei soprusi e di dolente autocritica a nome di tutti coloro (lui per primo) che hanno accettato compromessi per inseguire il sogno di una nuova società. Trascorrono tre anni, giungono le autorizzazioni, il film – Pentimento – si realizza e arriva sugli schermi, ma solo della Georgia. Ancora tre anni di limbo e infine, in clima di perestroika, il film può uscire dall'Urss e ricevere (1987) al Festival di Cannes il premio speciale della giuria e il premio Fipresci. È una satira feroce e disperata che il regista racconta come una fiaba, attraverso il suo implacabile portaparola, una donna del popolo che infierisce contro la salma del tirannico sindaco d'una cittadina georgiana (l'allusione a tutti i tiranni sovietici è trasparente e brutale). Nel 1989 gira un film storico, Hadzi Murad, dopo aver ricevuto per Pokajanie – paradossalmente, ma non troppo – il premio Lenin. È stato una delle personalità più eminenti del cinema georgiano". (Da >> qui)

Tengiz Abuladze
Tengiz Abuladze

Titolo originale: Natvris khe Regia: Tengiz Abuladze, sceneggiatura e dialoghi di Tengiz Abuladze e Revaz Inashivili, da racconti di Georgi Leonidze.
Attori: Lika Kavjaradze, Soso Jachvliani, Zaza Kolelishvili, Kote Daushvili Sofiko Chiaureli, Kakhi Kavsadze, Erosi Mandjgaladze, Otar Megvinetukhutsesi, Ramaz Chkhikvadze, Giorgi Gegechkori Sesilia Takaishvili,Giorgi Khobua,Givi Berikashvili,Djemal Gaganidze, Boris Tsipuria
Musiche originali di Jakob Bobokhidze e Bidzina Kvernadze, Fotografia Lomer Akhvlediani, Durata: 107 min. Nazione: Georgia URSS, 1976

  • P.S. Non sono sicura della esatta grafia dei nomi dei personaggi perchè li ho trovati scritti in maniera molto diversa su imdb e nei sottotitoli italiani del file in lingua originale che ho visionato. Ho riportato quelli che compaiono nei sottotitoli.

    CECHOV E MANDEL’STAM

    Tre sorelle

    Ne le Tre sorelle (1901) di Cechov, Mosca diventa il simbolo di quella felicità tanto assente dalla vita delle protagoniste. Esse desiderano ardentemente andare a Mosca, dove abitavano da bambine e dove erano state felici quando il padre viveva ancora. Ma, nel trapasso dalle speranze giovanili all’amara disillusione della mezza età, si trovano ingabbiate in una città di provincia. Incapaci di fuggire. Non c’è una chiara spiegazione per la loro inerzia, cosa che fece perdere la pazienza a certi critici.

    “Date alle sorelle un biglietto ferroviario per Mosca ed alla fine del primo atto la commedia sarà finita”, scrisse una volta Mandel’stam.

    Ma ciò significa non coglierne l’essenza. Le tre sorelle soffrono di un malessere spirituale, non di un dislocamento geografico. Oppresse dalla meschina routine della vita di tutti i giorni, aspirano ad una più elevata forma di esistenza, che immaginano a Mosca, ma che nel loro cuore sanno che non esiste. La “Mosca” delle sorelle, dunque, non è tanto un luogo quanto un reame leggendario: una città di sogno che offre speranza e un senso illusorio alla loro vita. La vera tragedia delle tre sorelle è espressa da Irina quando finalmente capisce che questo paradiso non è che una fantasia:

    “Io mi illudevo: andremo a Mosca, e lì lo incontrerò: lo sognavo, gli volevo bene. E invece, macchè, macchè…”

    (da Orlando Figes, La danza di Natasha)

    Cechov Tre sorelle

    IL MISTERO DI RUE DES SAINTS PERES – CLAUDE IZNER

    Il mistero di Rue des Saints Peres cover
    Claude IZNER, Il mistero di Rue des Saints-Pères (tit.orig. Mystère rue des Saints-Pères), traduz. C. Salina, p.309. TEA, ISBN-13: 9788850213726

    Ambientato a Parigi nel giugno del 1889 questo romanzo ha come scenario i padiglioni dell’Esposizione Universale e l’inaugurazione della torre di Monsieur Eiffel, prodigio della tecnica del XIX secolo.
    Protagonista è il giovane libraio Victor Legris, proprietario della libreria Elzévir in rue des Saints-Pères che si trova alle prese con una serie di morti misteriose causate, apparentemente, dalla puntura di un’ape. L’unico modo di uscirne diventa, per lui, quello di cercare di risolvere il mistero e così, tra collezionisti eccentrici, uno stravagante immigrato russo il cui sogno è di cantare il Boris Godunov all’Opera Garnier da poco inaugurata, una bizzarra padrona di casa tedesca che auspica pantaloni e bicicletta per tutte le donne, un’affascinante giovane pittrice e caricaturista ed un socio giapponese che gli ha fatto da padre Victor Legris si trasforma — suo malgrado — in detective.

    Un romanzo gradevole, un mistery in bilico tra avventura, enigmi e storia, che si legge scorrevolmente. Divertente e sciccoso, anche. Perchè nel libro vediamo circolare come comparse anche gente come Anatole France, Georges Eiffel, il leggendario Père Tanguy — il mercante d’arte di Montmartre che fu tra i primi a scoprire ed acquistare i dipinti degli Impressionisti e che aveva tra i suoi clienti Gertrude Stein ed il fratello Leo — ed altri nomi noti dell’arte, la letteratura, la politica.
    Chi conosce ed ama Parigi si diverte alle strizzatine d’occhio che le due autrici rivolgono continuamente al lettore con le tante citazioni/allusioni di toponomastica, pittura e letteratura parigina sparse nel romanzo.

    Ho parlato di autrici perchè Claude Izner non è che uno pseudonimo dietro il quale si celano (mica poi tanto, comunque) due donne, due sorelle: sono Liliane Korb e Laurence Lefèvre entrambe nate a Parigi una nel 1940 e l’altra nel 1951. Liliane ha lavorato a lungo come montatrice cinematografica, mentre Laurence si è laureata in archeologia. Avendo le due sorelle grande passione per i libri sono diventate entrambe “bouquinistes” ed hanno la loro attività una sulla rive droite e l’altra sulla rive Gauche della Senna.

    Dopo aver scritto in collaborazione svariati romanzi (pare siano una ventina), hanno deciso di scrivere anche dei gialli che si svolgono nella Parigi di fine ‘800. Sino ad ora ne hanno scritti sei il cui protagonista fisso è appunto il libraio Legris .
    Avendo, in passato, fatto delle ricerche sulla Parigi di fine ‘800 per un saggio storico, alle due sorelle è venuta l’idea di utilizzare quelle ricerche ambientando i romanzi in quegli anni. Per inquadrare le vicende narrate nel loro contesto storico e dar loro una maggiore credibilità, le autrici hanno letto molto, soprattutto i fatti di cronaca sui giornali dell’epoca. Hanno inoltre studiato accuratamente i luoghi descritti e la toponomastica della città in quegli anni.

    Ho comprato questo romanzo perchè avevo bisogno di qualcosa di leggero ma non stupido, coinvolgente ma non troppo, intelligente ma non troppo impegnativo. Di Claude Izner, del libraio Legris e delle due sorelle non sapevo assolutamente nulla.

    Ma quando, da Feltrinelli, scavalcando e scansando  le pile degli   “strillati” del momento (non faccio nomi, per carità) ho visto in un angolino questo volumetto dalla copertina con la riproduzione di un dipinto di Jean Béraud, ho letto il risvolto con le note biografiche delle due autrici ed ho visto che la storia era ambientata nella Parigi fin de siècle non ho esitato a comprarlo ed ho passato un paio d’ore molto piacevoli.

    Niente di più e niente di meno. Ma ogni tanto ci vuole anche questo.

    Liliane Korb Laurence Lefèvre
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    ORFEO – JEAN COCTEAU (1950)

    Jean Marais Orphée Jean Cocteau
    Orfeo (Jean Marais)

    Inizio del film, voce fuori campo di Cocteau:

    "La leggenda di Orfeo è ben conosciuta. Nella mitologia greca, Orfeo era un cantore della Tracia. Il suo canto affascinava anche gli animali ma lo distraeva dalla moglie Euridice. La Morte gliela tolse. Lui discese agli Inferi ed usò il suo canto per ottenere di ricondurre Euridice nel mondo dei vivi. A condizione di non guardarla. Ma lui la guardò e venne fatto a pezzi dalle Baccanti.
    Dove si svolge la nostra storia, ed in quale epoca? E' privilegio della leggenda essere senza tempo.
    Fate come volete. Interpretate come volete…"

    Ecco come lui, Cocteau, interpreta questa leggenda nel suo film.

    Parigi, anni cinquanta. Durante una rissa al Café des Poètes, luogo di raduno di giovani artisti e scrittori, il celebre poeta Orfeo (Jean Marais) assiste ad un incidente nel corso del quale il diciottenne poeta Cégest (Edouard Dhermitte) muore, investito da due motociclisti.

    Orphée Jean Cocteau

    La Principessa (Maria Casarès) in compagnia della quale Cégeste era arrivato fa mettere il corpo sulla sua Rolls Royce guidata da Heuterbise (François Périer) e vi fa salire anche Orfeo.

    Giungono ad una casa abbandonata, dove li aspettano i due motociclisti che hanno ucciso Cégeste ed Orfeo capisce che essi agiscono secondo gli ordini della Principessa.

    Maria Casares

    La Principessa rianima Cégeste e quando lei gli chiede:"Sai chi sono io?" il giovane risponde: "Si, la mia Morte" e giura che le obbedirà in tutto.
    Entrambi subito dopo scompaiono attraversando uno specchio, sotto lo sguardo stupefatto di Orfeo che non riesce a seguirli e sviene.

    Maria Casares Edouard Dhermitte
    La Principessa (Maria Casares) e Cégeste (Edouard Dhermitte)

    Jean Marais

    Quando l'indomani Orfeo rinviene si ritrova in un deserto. La casa non c'è più. Ad attenderlo trova però la Rolls Royce che, guidata da Heuterbise, lo riporta a casa.
    La moglie di Orfeo, Euridice (Marie Déa), incinta, nonostante Orfeo sia tornato è molto preoccupata per la scomparsa del marito e per il suo strano comportamento.

    Marie Déa François Périer
    Euridice (Marie Déa) ed Heuterbise (François Périer)

    Orfeo infatti è nervoso, insolitamente scortese, e trascorre il suo tempo all'interno della Rolls intento a captare sulle onde corte strani messaggi poetici. Euridice — nonostante Heuterbise cerchi di metterla in guardia — decide di uscire per andare a cercare Aglaonice (Juliette Gréco) e viene, a sua volta, investita dai due motociclisti. La Principessa penetra nella sua stanza attraverso lo specchio e la porta con se nel regno dei morti. Heuterbise protesta, l'accusa di avere agito senza esserne stata autorizzata e perchè si è innamorata di Orfeo. Aiuta poi lo stesso Orfeo ad attraversare lo specchio perchè egli possa recarsi nell'aldilà a testimoniare dinanzi al tribunale del mondo dei morti. I giudici condannano la Principessa ed autorizzano Orfeo a riportare Euridice tra i viventi, a condizione però che egli non la guardi mai più.

    Orphée Jean Cocteau

    Non è facile seguire questa regola nella vita quotidiana della coppia; Orfeo è sempre più irritabile, ricomincia ad ascoltare i messaggi radio della Rolls Royce, senza rendersi conto che sono composizioni poetiche di Cégeste. Ma Euridice incrocia incidentalmente lo sguardo di Orfeo nello specchietto retrovisore della macchina e viene subito ricacciata nel regno dei morti.
    Un gruppo di artisti, trascinati dalle Baccanti (Juliette Gréco e Anne-Marie Cazalis) fa nello stesso tempo irruzione a casa di Orfeo accusandolo di essersi appropriato delle opere di Cégeste. Orfeo viene mortalmente ferito durante lo scontro e si ritrova tra i morti assieme ad Euridice.
    Orfeo è affascinato dalla Principessa-Morte ma questa, che si è innamorata di lui, si mette d'accordo con Heuterbise per rinviarlo tra i vivi: "Davanti al Poeta, la Morte deve sacrificarsi", dice.

    Orfeo, tornato a casa, ritrova la sua Euridice. Entrambi sono convinti che sia stato tutto un brutto sogno. Un incubo.

    Orphée Jean Cocteau

    Heuterbise, a sua volta innamorato di Euridice, e la Principessa, vengono infine condannati dal tribunale dell'aldilà per alto tradimento.

    Orphée Jean Cocteau

    Orphée è un dramma metafisico e fa parte di una trilogia, assieme a Le sang d'un poète (1930) e a Le testament d'Orphée (1960). In esso, Jean Cocteau riprende il soggetto da una sua opera drammatica del 1925 e trasporta il mito agli anni Cinquanta.

    L'Orfeo di Cocteau non finisce tragicamente. La Morte, innamorata del Poeta, lo risparmia. L'epilogo non ha nulla di eroico: Orfeo si ricongiunge alla moglie Euridice in una promessa di tranquillo e duraturo amore coniugale.

    Il mito greco, nella versione moderna pensata e realizzata da Cocteau può apparire, per il suo felice epilogo, come "demitizzato". L'ambientazione in una metropoli contemporanea, il Café des Poètes che richiama il Café Flore, le Baccanti che non sono altro che un Club letterario presieduto da Aglaonice e la Principessa-Morte che si muove su una Rolls Royce, contribuiscono a fare di Orfeo non un eroe tragico ma un moderno intellettuale borghese.

    La caratteristica del film è una estetica della fascinazione con la quale Cocteau riesce a realizzare una suspense degna di un grande noir.
    Lo schematico riassunto che ho fatto della storia non può in alcun modo rendere l'idea del fascino del film.

    L'uniforme dei due assistenti motociclisti, i guanti di caucciù che permettono di passare attraverso lo specchio, i blocchi di pietra che rappresentano l'inferno (o la Zona, come piuttosto la chiama Cocteau), le rovine della casa abbandonata ed altre mille stupefacenti idee di scenografia come la superficie degli specchi che si trasformano in acqua al semplice contatto delle mani, la Rolls che cammina in un paesaggio fotografato al negativo, le false prospettive, il trompe-l'oeil, l'inesistenza della legge di gravità nel mondo dei morti contribuiscono a creare un alto grado di fusione poetica.

    Maria Casares

    Il tema dell'amore e della morte è esplorato nelle sue implicazioni culturali (teatro greco, romanticismo tedesco, espressionismo) e psicologiche. Ma Cocteau gioca anche con l'estetica del romanzo popolare e dei feuilletons. Il risultato è un vero e proprio… realismo dell'irreale.

    Maria Casares
    La Principessa – La Morte (Maria Casares)
    Juliette Gréco Orphée Jean Cocteau
    Aglaonice (Juliette Gréco)

    Ritornano qui tematiche già presenti in Le Sang d'un poète: il rapporto del poeta con il tempo e con la morte e la sua funzione di raccordo tra il mondo reale e quello dello spirito. Soprattutto, ritroviamo anche qui il narcisismo e la presenza ossessiva degli specchi, che permettono il passaggio nel mondo dell'aldilà (e quindi dell'immaginazione).

    "Vi rivelo il segreto dei segreti" dichiara Heuterbise ad Orfeo"gli specchi sono le porte attraverso le quali la morte viene e va. Del resto, guardatevi tutta la vita in uno specchio e vedrete la morte lavorare come api in un alveare di vetro".
    Lo specchio registra "la morte al lavoro", ma per Cocteau la modulazione attiva e violenta di questo motivo conferisce lo straordinario potere di operare le traversate, le metamorfosi e le resurrezioni per quanto eretiche, per quanto tormentate. Gli specchi di Cocteau aprono un oltre-mondo segreto, fantasmatico, interdetto.

    Jean Marais Orphée Jean Cocteau

    Orphée è un poeta ufficiale in lite con l'avanguardia rappresentata dai giovani Cégeste e Aglaonice, ma è anche un uomo alla ricerca di un'identità.
    Per ottenere la ricchezza dei tanti simboli presenti nel film e che sono riconducibili da un lato alla mitologia classica, dall'altro al mondo poetico personale di Cocteau, le immagini di gusto un po' barocco e per trasportare nelle inquadrature le avventure fantastiche di Orphée sono stati necessari molti effetti speciali. Lo specchio attraverso cui passano la Principessa-Morte, i suoi due assistenti motociclisti e poi anche Heuterbise ed Orfeo era costituito, ad esempio, da una vasca di mercurio in cui si immergevano gli attori.

    Qualche parola sul cast. La parte del poeta era interpretata dall'attore preferito di Cocteau, Jean Marais. Con lui Cocteau ha lavorato anche per La Belle et la Bête del 1946 e L'Aigle aux deux têtes del 1947. Personalmente, Jean Marias mi è sempre sembrato espressivo quanto un armadio, ma Cocteau evidentemente la pensava in modo diverso.

    Maria Casarès era invece una grande attrice. Interprete teatrale di Shakespeare, Strindberg, Brecht, Racine e indimenticabile protagonista, al cinema, di Les enfants du Paradis di Marcel Carné (1943) e di Les dames du bois de Boulogne di Robert Bresson (1944) dà qui, nel ruolo della Principessa-Morte una delle prove migliori della sua carriera cinematografica.

    Edouard Dhermitte era un ex minatore, giardiniere di Cocteau a Milly-la-Fôret a cui Cocteau si era molto legato e che impose anche a Melville per il ruolo di Paul quando si trattò di trasporre sullo schermo Les enfants terribles. Tra gli esperti della vita e delle opere di Cocteau c'è chi vede, nel personaggio del poeta adolescente Cégeste — che muore ma i cui versi arrivano a Orfeo dall'aldilà — il ricordo di Raymond Radiguet, il giovane autore di Le diable au corps e grande amore di Cocteau. La morte di Radiguet, avvenuta quando aveva appena vent'anni (come il Cégeste del film) aveva gettato lo scrittore nella disperazione e nel baratro dell'oppio. Affidando al suo nuovo giovane pupillo Dhermitte il ruolo di Cégeste, Cocteau rendeva omaggio a Radiguet, da lui mai dimenticato.

    Il ruolo di Aglaonice, la giovane Baccante, non a caso venne affidato a Juliette Gréco, musa degli esistenzialisti e regina delle caves della rive gauche.

    Le musiche originali di Orphée, sono anche questa volta di Georges Auric, uno dei componenti del gruppo Les Six.

    Una curiosità: nel film compaiono anche in minuscole particine il regista Jean Pierre Melville (nel ruolo del direttore dell'hotel) e lo scrittore Claude Mauriac che impersona uno dei giudici dell'oltretomba.

    Cocteau dedicò questo film a Christian Bérard, l'amico con cui aveva lavorato all'epoca di La Belle et la Bête e che proprio prima della sua morte, aveva cominciato a disegnare gli abbozzi per la scenografia ed i costumi di Orphée. I costumi vennero poi creati da Marcel Escoffier.

    Orphée, 1950, (dedicato a Christian Bérard) Regia di Jean Cocteau, sceneggiatura e dialoghi di Jean Cocteau, con Jean Marais (Orphée), François Périer (Heurtebise), María Casares (La Principessa – Morte), Marie Déa (Eurydice) , Henri Crémieux (l'editore), Juliette Gréco (Aglaonice), Roger Blin (il poeta), Edouard Dermithe (Jacques Cégeste), René Worms, Raymond Faure, Pierre Bertin, Jacques Varennes.
    Musiche originali di Heorges Auric, scenografie Albert Volper, Costumi Marcel Escoffier, fotografia Nicolas Hayer, 112 min., produzione: André Paulvé / Films du Palais-Royal; Francia 1950

    Jean Marais Maria Casares

    L'Orphée di Philip Glass

    Orphée Philip Glass

    Fa parte del trittico che negli anni tra il 1993 ed il 1996 Glass compose basandosi sulla prosa e sui film di Jean Cocteau (Orphée (1949), La Belle et la Bête (1946) ed il racconto Les Enfants Terribles (1929). L'opera è anche un omaggio musicale ai Les Six, il gruppo di compositori francesi associati a Cocteau. Orphée è sia concettualmente che musicalmente ispirata all'opera Orfeo ed Euridice di Christoph Willibald Gluck.

  • imdb
  • Jean Cocteau su NSP
    Les enfants terribles >>
    La Belle et la Bête >>
  • Questo post è stato pubblicato anche su Abbracci e pop corn il 29  Marzo 2008

    LA DANZA DI NATASHA – ORLANDO FIGES

    Orlando Figes La danza di Natasha
    Orlando FIGES, La danza di Natasha (tit. orig. Natasha’s dance. A cultural history of Russia), traduz. di Mario Marchetti, Einaudi, Collana Piccola Biblioteca Einaudi, p. 618, 2008, EAN13 9788806192761

    Orlando Figes, londinese con laurea a Cambridge, insegna storia al Birbeck College dell’Università di Londra. Questo libro che, come recita il sottotitolo è una storia della cultura russa dal XVIII al XX secolo, è un volumone di quasi settecento pagine il cui obiettivo è di delineare una storia culturale della Russia che prenda in considerazione però non soltanto le grandi opere creative della letteratura ma anche l’artigianato, la musica popolare, il folclore, la religione.

    La domanda di fondo che l’autore si pone è cosa significa essere russi e ciò che cerca di dimostrare è l’esistenza di “un temperamento russo, un insieme di costumi e credenze innate, qualcosa di viscerale, di emotivo, di istintivo trasmessosi attraverso le generazioni, che è servito a modellare la personalità e a cementare la comunità” e come tutto questo si ponga ed interagisca con la cultura europea.

    Il libro di Figes è lettura impegnativa ma affascinante e di grandi soddisfazioni. Molto denso perchè ricchissimo di dati, informazioni, riflessioni, collegamenti, aree tematiche prese in considerazione. Benchè strutturato in capitoli che seguono un macro ordine cronologico, Figes di fatto privilegia una trattazione per aree tematiche ed è questa caratteristica che me lo ha reso davvero interessante ed utile. Uno di quei volumi da tenere sempre a portata di mano, da leggere e da consultare. Perchè è possibile sia seguire l’ordine dei capitoli, sia inseguire i vari fili (la letteratura, il cinema, la musica, l’ordinamento politico etc.) che, numerosissimi, concorrono a delineare il tessuto complessivo dell’opera. Inoltre, Figes dedica un lungo capitolo anche a “la Russia esule”, cioè a tutti quei russi della diaspora che nei primi decenni del secolo scorso fuggirono dalla Rivoluzione d’Ottobre e che, sparpagliandosi in Europa ed oltre oceano costituirono i loro maggiori centri culturali a Parigi, Berlino e New York. Si tratta insomma di un libro interessante e utile proprio per questa ottica interdisciplinare dell’approccio. Il volume è inoltre corredato da utilissime tavole cronologiche, mappe, una ricchissima bibliografia, indici analitici che lo rendono, come già detto, un prezioso strumento di consultazione.

    Orlando Figes
    Orlando Figes

    Il punto di partenza simbolico del suo ragionamento, Figes lo individua in quelle pagine di Guerra e Pace in cui Tolstoj descrive la danza di Natasha.

    Al termine di una giornata di caccia nei boschi, la contessina Natasha Rostova ed il fratello Nikolaj sono invitati dallo zio nella sua dacia nei boschi. Qui egli vive con la governante Anisja (una solida e bella serva che si intuisce conviva con lui come una moglie).
    Dopo pranzo si sentono accordi di balalaika provenire dalla stanza dei cacciatori. Non è, si suppone, il genere di musica che una contessa dovrebbe amare, visto che si tratta di una semplice ballata popolare, ma lo zio notando la commozione della nipote si fa portare la sua chitarra, soffia via la polvere e con un cenno di intesa con Anisja comincia a suonare la famosa canzone d’amore “Una fanciulla camminava per strada”, con il preciso ritmo in crescendo di una danza russa. Benchè Natasha non l’abbia mai ascoltata prima, seguendo l’invito dello zio comincia a danzare.

    Natasha Rostova (Lyudmila Savelyeva) nel film di Sergej Bondarchuk del 1966

    La danza di Natasha costituisce per Figes il simbolo dell’incontro tra due mondi che coesistono in Russia, la cultura europea delle classi elevate e la cultura russa dei contadini.

    Le parole di Tolstoj:

    “– Su, nipotina! — gridò, invitando Natasha con un gesto della mano che aveva troncato l’accordo.
    Natasha gettò via lo scialle che l’avvolgeva, corse davanti allo zio e, mettendo i pugni sui fianchi, fece un movimento con le spalle e si fermò.

    Dove, come, quando, quella contessina educata da un’emigrata francese aveva assorbito, con l’aria russa da lei respirata, lo spirito che l’animava? Dove aveva preso quei modi che il pas de châle da lungo tempo avrebbe dovuto cancellare? Eppure erano quello stesso spirito e quegli stessi modi russi, inimitabili e inapprendibili, che lo zio si aspettava da lei. Appena ella si fermò, con un fiero, allegro e furbo sorriso di trionfo, il primo sentimento che aveva preso Nikolaj e tutti i presenti, la paura cioè che non se la potesse cavare, svanì ed essi già l’ammiravano.

    Essa faceva proprio quello che occorreva e lo faceva con una tale perfezione, che Anisja Fiòdorovna, che subito le porse il fazzoletto necessario per il ballo, fra le risa versò una lacrima, guardando quella contessina esile e graziosa, a lei così estranea, educata in mezzo alle sete ed ai velluti, che sapeva comprendere tutto ciò che c’era in Anisja, e nel padre di Anisja, e nella zia, e nella madre, e in ogni anima russa”

    (Leone Tolstoj, Guerra e Pace)

    • Il libro di Orlando Figes  >>
    • La scena della danza di Natasha nel film Guerra e Pace di Sergei Bondarchuk, di cui ho parlato >>qui

    I CANI E I LUPI – IRENE NEMIROVSKY

    irene Nemirovsky I Cani e i Lupi
    Irène Némirovsky, I cani e i lupi (tit. orig. Les Chiens et les Loups), traduz. Marina Di Leo, Adelphi, Collana Biblioteca Adelphi n.521, p.260, 2008, EAN13 9788845922541

    Sono convinta del fatto che quando prendo in mano un nuovo libro da leggere, avendone appena terminato un altro che mi ha molto impegnata, la scelta non avvenga mai in modo casuale. Anche quando può sembrare che lo sia.
    Dopo la full immersion in Guerra e Pace non sapevo proprio su cosa dirigermi. La mia idea era di andar comunque su robine poco impegnative.
    Poi, da Feltrinelli, ho visto l’ultimo romanzo della Némirovsky tradotto e pubblicato in Italia da Adelphi e l’ho preso. Senza nemmeno badare al risvolto di copertina. I libri della Némirovsky li compro, ormai, a scatola chiusa e a risvolti di copertina ignorati.
    Mi sono ritrovata… guarda un pò… ma và…: di nuovo in Russia (per la precisione Ucraina) nella prima parte del romanzo ed a Parigi nella seconda parte. Ho passato perciò due giorni in compagnia di una scrittrice ebrea che però si convertì al cattolicesimo, di origini russe che però voleva essere francese che però aveva nostalgia della Russia.
    Che scriveva in francese e che aveva fatto di tutto per ottenere la cittadinanza francese. Senza ottenerla. Un romanzo che si svolge per metà in Russia e per l’altra metà in Francia. Una situazione di confine, insomma, di difficile individuazione di identità e di appartenenze.
    Posso dire dunque che il mio (temporaneo) rientro letterario in Europa è stato molto graduale e particolare.

    Ma andiamo al romanzo.

    Dopo l’enorme e meritatissimo successo postumo di Suite francese e della ripubblicazione di David Golder, in Francia Gallimard sta ristampando tutto lo stampabile e Adelphi, in Italia, mi pare stia facendo lo stesso.  Questo I cani e i lupi è del 1940. La Némirovsky aveva trentasette  anni.

    La scena iniziale è la Kiev dell’epoca dello Zar Nicola II, negli anni che precedono la Rivoluzione d’Ottobre. Nell’incipit del romanzo sono già presenti, nella descrizione della città, tutti gli elementi simbolici che accompagneranno e determineranno le vicende dei singoli personaggi e dei loro rapporti.

    “Agli occhi degli ebrei che vi abitavano, la città ucraina, culla della famiglia Sinner, era divisa in tre aree distinte, come certi quadri antichi: in basso, i dannati, fra le tenebre e le fiamme dell’inferno; al centro della tela i comuni mortali, rischiarati da una luce pallida e quieta; in alto il regno degli eletti”.

    Gli ebrei che ce l’hanno fatta, che sono riusciti ad arrivare nella città alta, vivono nella costante paura di essere ricacciati giù: ciascuno di essi è come “un cagnolino, ben nutrito e curato, che sente nella foresta l’ululato famelico dei lupi, i suoi fratelli selvaggi”. Non solo non c’è alcuna solidarietà tra loro (“i cani”) e i miserabili abitanti del ghetto (“i lupi”): li temono e li scacciano perchè “rappresenta[vano]no per i ricchi ebrei un eterno monito, il ricordo atroce e vergognoso di ciò che erano stati e di ciò che sarebbero potuti essere. O anche — ma nessuno questo osava ammetterlo neppure a se stesso — di ciò che sarebbero potuti tornare ad essere” (p.67).

    Il personaggio principale del romanzo è l’ebrea Ada Sinner, che vediamo per la prima volta a cinque anni in giro con il padre nel ghetto di Kiev, in quella città bassa, vicina al fiume dove “viveva la marmaglia — ebrei infrequentabili, piccoli artigiani e commercianti in squallide botteghe a pigione, vagabondi, frotte di bambini che si rotolavano nel fango e parlavano solo yddish, vestiti di stracci, con enormi berretti sui colli esili e sui lunghi boccoli neri”.

    Vediamo poi Ada crescere e diventare donna, la seguiamo quando emigra a Parigi, assistiamo allo sviluppo del suo talento di pittrice, al matrimonio con il cugino Ben, che non ama ma con il quale ha condiviso gli anni di Kiev, i pogrom e i giochi infantili. Ada è un personaggio toccante e molto ben delineato. La sua è una personalità insieme forte e vulnerabile, triste e solitaria, pudica ma anche selvaggia. Fin dall’infanzia nutre una passione segreta e incrollabile per Harry Sinner, giovane ebreo, suo parente ma inavvicinabile perchè mentre lei appartiene al ramo povero della famiglia, quello i cui componenti convivono eternamente con il terrore dei pogrom, dell’espulsione, del disprezzo, della precarietà, Harry è nato e cresciuto nella parte della città considerata “il regno degli eletti”. E’ figlio e nipote di ricchissimi banchieri (dietro la descrizione degli zii Isaac e Salomon Sinner, delle loro immense ricchezze e del funzionamento della loro banca non è difficile intravedere la stirpe dei Rothschild), abituato al lusso, al potere e ad ogni raffinatezza.

    Eppure, nonostante la vita grama di Ada ed il suo amore apparentemente senza speranza, il sentimento che suscita non è di compassione nè di pietà ma di stima per la sua dirittura morale e per la grande dignità che riesce a mantenere in ogni circostanza.

    Ma ecco che un giorno, come avviene nelle favole, le due esistenze di Ada ed Harry, tanto sideralmente lontane, si incontrano, i due giovani si conoscono e si riconoscono. Si amano. Ma a differenza di quanto avviene nelle favole, la loro storia non è di quelle da cui ci si può aspettare un “…e vissero felici e contenti”. Anche questa volta, però, Ada non perderà la sua forza e la sua dignità ed il libro si chiude con una nota di ottimismo e di speranza.

    Molto presenti sono in tutto il romanzo i temi dell’ascesa (il desiderio di ri-uscire, di innalzarsi al di sopra del ghetto, di arrivare) e della discesa (il terrore di essere ricacciati indietro, di venire espulsi, di ripiombare “in basso, [tra] i dannati, fra le tenebre e le fiamme dell’inferno”). La struttura del libro è impostata su un codice binario: due patrie (l’Ucraina, la patria d’origine) e la Francia (la patria d’elezione), due rami di una stessa famiglia, due coppie (Ada e il cugino-marito Ben, Harry e la moglie francese Lauren), povertà e ricchezza, il famelico coraggio dei lupi e la tranquilla, accomodante remissività dei cani. Su tutto, la labilità e la precarietà dei confini dei due mondi contrapposti. Chi è in basso può sempre sperare di salire in alto, di cambiare identità. Chi sta in alto non è mai definitivamente al sicuro, è sempre consapevole della precarietaà del suo status.

    “Tra gli ebrei tutto avveniva in modo brusco e improvviso. Fortuna e disgrazia, prosperità e miseria si abbattevano su di loro come un fulmine sul gregge. E questo li rendeva perpetuamente inquieti e inguaribilmente speranzosi” (p.68)

    Carico di malinconia, I Cani e i Lupi è tante cose: un toccante racconto sull’infanzia e l’innocenza perduta, la storia di un grande amore, l’espressione della nostalgia e del sordo dolore dell’esilio.

    Anche questo, come la maggior parte dei romanzi di Irène Némirovsky, non è estraneo al destino personale della sua autrice e numerosi sono gli elementi autobiografici che vi si possono riscontrare. Proveniente dall’alta borghesia russa, la Némirovsky fuggì infatti con la famiglia da Kiev e dalla Rivoluzione d’Ottobre per trovare infine rifugio in Francia dove visse a Parigi e nei dintorni fino al giorno in cui venne deportata ad Auschwitz, dove morì di tifo.

    Sullo straordinario talento narrativo di questa scrittrice, sul suo stile terso, acuto e musicale al tempo stesso non ho granchè da aggiungere a quanto avevo già scritto a proposito di David Golder e Suite francese. Se Irène Némirovsky avesse deciso di riscrivere l’elenco telefonico, sarebbe riuscita a renderlo un testo appassionante.

    Quello che, personalmente, in questo romanzo della Némirovsky mi ha colpito sopra ogni cosa è però la rappresentazione che essa ci dà degli ebrei, del loro mondo, e della enorme ambivalenza che lei, ebrea essa stessa, manifesta nei loro confronti.

    Già in David Golder la Némirovsky non era stata certo molto tenera, con gli ebrei: basti pensare a com’erano rappresentate le figure del banchiere Golder, di sua moglie e di sua figlia.

    Ne I Cani e i Lupi, però, sono rimasta veramente impressionata dalla quantità di volte in cui — parlando di ebrei — vengono utilizzati (in modo spregiativo) la parola “razza”, il continuo esplicito riferimento al “tipo ebraico”, il ricorrere costante, nelle descrizioni fisiche dei personaggi (tutti ebrei, tranne la francese Lauren, moglie di Harry) alle caratteristiche somatiche che secondo la Némirovsky sarebbero proprie, appunto del “tipo ebraico” e che in genere si trova nella letteratura e vignettistica dichiaratamente antisemita.
    Il “tipo ebraico” è “malaticcio, intelligente e triste” (p.96), non c’è personaggio di cui non viene descritto il naso. Che è sempre “adunco”, “aquilino”. Le dita dei vecchi ebrei (il padre e gli zii di Harry, i mercanti del ghetto) sono “come artigli”, le dita “lunghe e sottili, con le unghie ingiallite, adunche, dure come l’avorio” (p.65). E non va certo meglio quando si tratta di descrivere caratteristiche morali o caratteriali: “Siamo una razza avida, affamata da così tanto tempo che la realtà non basta a saziarci” (p.97)

    Irene Nemirovsky

    I personaggi ebrei di Irène Némirovsky sono il più delle volte — inutile nasconderselo — caricaturali, oltraggiosi, spesso abbietti; i suoi cosmopoliti che trascorrono la loro vita mondana a Biarritz (in David Golder) sono spesso immorali parvenus votati al culto del Dio Denaro. “Io li vedo così” si giustificava lei a chi glielo faceva notare.

    Se gli ebrei ricchi si comportano tutti come rapaci, quelli di modeste condizioni sono miserabili, ripugnanti, macchiettistici, sinistri, privi di cuore e di anima.

    La Némirovsky scrisse e pubblicò spesso ma sotto pseudonimo sui giornali francesi dell’estrema destra ed apertamente antisemiti (Gringoire, Candide). Il suo romanzo breve La moglie di Don Giovanni, ad esempio, venne pubblicato nel 1938 su Candide, ma pubblicò anche — e persino durante l’Occupazione — su giornali di sinistra come Marianne diretto da Emmanuel Berl.
    Per Olivier Philipponnat e Patrick Lienhardt, autori di una recente corposa biografia della Némirovsky, l’opinione politica dei giornali su cui scrisse a partire dal 1932 è un fatto trascurabile. In realtà, secondo i suoi biografi, la Némirovsky non si preoccupava delle tendenze politiche dei giornali su cui scriveva: aveva solo bisogno di guadagnare e lei stessa, inoltre, non si occupava di politica.
    Benchè in realtà fosse agnostica e i turbamenti religiosi le fossero completamente estranei, alla vigilia della guerra si convertì al cattolicesimo (lo fece fare anche al marito ed alle figlie) nella speranza di sottrarsi così alla catastrofe che sentiva avvicinarsi.

    Ci sono due passaggi ne I Cani e i Lupi che possono forse aiutarci a comprendere.

    Uno è quello in cui Harry capisce che la giovane pittrice della quale ha acquistato due dipinti che l’hanno immediatamente conquistato per la loro bellezza è sua cugina Ada, la bambinetta del ghetto di Kiev e vorrebbe fuggirla perchè:

    “Come tutti gli ebrei, Harry nutriva per i tipici difetti della sua razza un’avversione più profonda, più sentita di quella che potevano suscitare in un cristiano. Quella tenace determinazione, quel sogno quasi selvaggio di realizzare i proprio desideri, quel cieco disprezzo delle opinioni altrui erano tutte classificabili, nella sua mente, sotto una stessa etichetta: insolenza giudea.
    Non aveva alcuna voglia di incontrare quell’Ada Sinner”
    (p.135)

    L’altro è quando Ben, cercando di convincere Ada a rimanere con lui e a smetterla di amare Harry, le dice: “Ada, perchè preferisci lui? Guarda bene! Guardaci meglio! Io e lui, lui ed io, siamo della stessa stoffa! Siamo fratelli!
    Harry si nascose il viso tra le mani:
    No, no! Non è vero!”

    E Ben allora dice, sprezzante: “Non ha il coraggio di fissarmi negli occhi! Ha paura del suo riflesso!” (p.169)

    Da tutti gli scritti della Némirovsky sembra emergere potentissima  se non la negazione della parte ebraica della propria identità certamente il rapporto travagliato che aveva con essa.

    Tragica ironia della sorte, questa ebrea russa convertitasi al cattolicesimo, che scriveva cose terribili degli ebrei e spesso anche delle donne, che aveva studiato alla Sorbona, che scriveva in francese, che amava enormemente la Francia ma che non riusciva a dimenticare la Russia finì — nonostante le sue influenti relazioni negli ambienti di destra — deportata ad Auschwitz  dai  nazisti per i quali non era che una donna russa ed ebrea.

    LA BELLA E LA BESTIA – JEAN COCTEAU (1946)

    Jean Cocteau La Belle et la Bete

    "Il était une fois…"
    "C'era una volta…"
    Su una lavagna di ardesia che compare subito dopo i titoli di testa, leggiamo il messaggio di Jean Cocteau che invita noi, spettatori adulti, a lasciarci andare alle magiche parole dell'infanzia e dell'ingenuità

    Jean Cocteau La Bella e la Bestia

    La Bella e la Bestia (tit. orig. La Belle et la Bête) del 1946, con Josette Day e Jean Marais nel ruolo della Bestia, fu il primo film scritto e diretto da Jean Cocteau dopo il surrealista Le Sang d'un Poete del 1930. Sebbene apparentemente molto diversi, le metafore visive di entrambi i lavori avevano a che fare con il mito ed avevano come obiettivo di creare un'atmosfera di bellezza da fiaba. Con La Bella e la Bestia, il romanziere, poeta, drammaturgo, pittore Jean Cocteau realizza dunque il secondo film ed il suo primo lungometraggio tornando all'idea, a lui familiare, di mostrare come sia difficile distinguere la realtà dalla fantasia.

    La Belle et la Bête di Cocteau è il primo vero adattamento cinematografico della fiaba del 1757 di Mme Leprince de Beaumont, revisionatrice, a sua volta,  di un'antica versione   già nota nella tradizione orale e precedentemente  trascritta da M.me Gabrielle-Suzanne de Villeneuve.

    Oltre a quella di Cocteau esistono parecchie altre versioni, tra cui il film di Edward L. Cahn con George C. Scott (1962), il film d'animazione degli studi Disney del 1991, e anche un musical di Broadway del 1994.

    Non credo ci sia bisogno, questa volta, di parlare dettagliatamente della trama, penso la conoscano tutti. Belle è una ragazza buona e generosa, che vive con le sorelle intriganti e invidiose e che accetta di prendere il posto del vecchio padre, rimasto imprigionato nel castello della Bestia. Con il passare del tempo si rende conto che quest'ultimo non è così terribile come sembra a prima vista.

    Jean Cocteau La Belle et la Bete

    Avenant, un giovane del villaggio innamorato di Belle cerca invano di liberarla dall'influenza della Bestia e tenta, con l'aiuto di Ludovic, fratello di Belle, di uccidere il mostro.

    Mi chiedo se questo film di Cocteau, che occupa un posto molto importante nella storia del cinema, sia abbastanza conosciuto ed apprezzato o se quando si parla di trasposizione cinematografica di questa fiaba viene in mente soltanto il (gradevolissimo, peraltro) film della Disney.

    L'idea del film l'ebbe Jean Marais. Alla fine della seconda guerra mondiale, la Francia non si era ripresa dall'incubo di un passato ancora troppo recente. Marais suggerì allora a Jean Cocteau che un bel diversivo avrebbe potuto essere, per i francesi, un film basato sulla celebre favola di Madame de Beaumont. Cocteau colse al volo il suggerimento e si ripromise di introdurre un nuovo genere cinematografico: il film fiabesco.

    Non mancarono i problemi. Innanzitutto, Jean Marais era ancora sotto le armi e non avrebbe potuto girare il film. Cocteau ottenne però dal generale Leclerc una speciale licenza perchè l'attore potesse tornare, con il solo vincolo di presentarsi tutte le settimane a firmare un foglio di presenza a Les Invalides a Parigi. Sarebbe rientrato alla sua divisione in Germania al termine delle riprese.

    Poi lo stesso Jean Marais, quando scoprì che in pratica sarebbe stato mascherato per tutta la durata del film minacciò di non interpretare più la Bestia.

    Jean Cocteau riuscì a convincerlo ed in seguito girerà con lui tutti gli altri suoi film: L'Aigle à deux têtes (1947), Les Parents terribles (1948), Orphée (1949) et Le Testament d'Orphée (1960).

    A metà circa della lavorazione, fu la volta del produttore André Paulvé a minacciare di ritirarsi. Cocteau gli propose di provare a visionare un pezzo del film e Jean Marais suggerì di scegliere la scena più commovente. La moglie del produttore pianse durante la proiezione e André Paulvé cambiò opinione.

    Durante la formazione del cast, Marcel Pagnol, che aveva rotto la sua relazione con Josette Day, chiese a Cocteau di prenderla per il ruolo di Belle. L'incontro avvenne ad una cena in casa Rothschild. Sembra che Josette Day si sia presentata alla cena ingioiellata, truccata, molto elegante. Questo non corrispondeva all'idea che di Belle aveva Jean Cocteau. Allora il costumista e decoratore di interni Christian Bérard la portò in bagno, le fece lavare la faccia, le rifece la pettinatura raccogliendo i capelli in uno chignon e poi la riportò a tavola esclamando: "Ecco qui la Belle!"

    Jean Cocteau La Belle et la Bete

    Gli abiti sontuosi e fiabeschi furono creati da tre grandi costumisti: Antonio Castillo, Marcel Escoffier, Christian Bérard e vennero realizzati da una delle più importanti case d'alta moda dell'epoca, la maison Paquin.

    Jean Cocteau La Belle et la Bete

    Jean Marais immaginava, all'inizio, una Bestia con la testa di cervo.
    Marcel Pagnol gli ricordò però il significato che in Francia — ma non solo — ha l'uomo "cornuto", e che dunque era meglio lasciar perdere…
    Christian Bérard, da parte sua, gli dimostrò anche che siccome la Bestia doveva mettere paura, non poteva certo essere un animale erbivoro ma un carnivoro.
    La famosa maschera della Bestia venne confezionata dal grande parrucchiere parigino Pontet. Ogni pelo era montato su un un velo di tulle diviso in tre parti che veniva incollato sul viso di Marais. L'operazione di trucco era molto penosa e prendeva cinque ore al giorno: tre ore per il viso ed un'ora per ciascuna mano. Alcuni denti furono ricoperti di vernice nera per dar loro un aspetto appuntito ed i canini provvisti di zanne tenute da ganci dorati.
     Così conciato, Marais durante le riprese poteva nutrirsi solo di purées e di passati.

    Jean Cocteau La Belle et la Bete

    Assistente alla regia di Jean Cocteau per il film fu René Clement, che all'epoca non aveva ancora realizzato che cortometraggi e documentari. Alcune sequenze de La Bella e la Bestia furono girati personalmente da René Clément, in particolare le scene che si svolgono al villaggio di Belle.

    Le musiche originali del film sono di Georges Auric, uno dei componenti di quel gruppo musicale detto "Il gruppo dei Sei" composto da musicisti del calibro di Darius Milhaud, Francis Poulenc, Arthur Honegger, Germaine Tailleferre (unica donna del gruppo) e Louis Durey.

    Per quanto riguarda la fotografia, le citazioni pittoriche sono evidenti ed anche dichiarate. Il mondo di Belle, domestico e borghese, non è fotografato allo stesso modo di quello della Bestia.
    Gli esterni del primo sono molto luminosi perchè reali

    Jean Cocteau La Belle et la Bete
    Jean Cocteau La Bella e la Bestia

    mentre i suoi interni sono influenzati dalle pitture dei maestri fiamminghi ed olandesi, soprattutto da Vermeer.

    Jean Cocteau La Belle et la Bete

    Il mondo della Bestia, invece, scuro e misterioso, barocco e surreale, fa riferimento alle incisioni di Gustave Doré che aveva illustrato le fiabe di Perrault. "Ho fatto il mio film pensando a lui" dichiarò Cocteau.

    I luoghi della lavorazione furono il Castello di Rochecorbon in Indre-et-Loire, e gli esterni del castello della Bestia il castello di Raray vicino Senlis.

    Jean Cocteau La Belle et la Bete

    Girare nella Francia del '45 non fu semplice. Il film fu realizzato nell'immediato dopoguerra (precisamente dal 27 agosto 1945 all'11 gennaio 1946). Le condizioni di lavoro non erano le più confortevoli. Ci furono difficoltà a trovare la pellicola, c'erano restrizioni nell'erogazione dell'energia elettrica, interruzioni di corrente, mancanza di luce di studio. Le riprese dipendevano soprattutto dalla luce naturale. Jean Cocteau insistette per filmare in ogni condizione con l'obiettivo di "evocare la bellezza che arriva per caso". Quando la scena richiedeva più luce, si utilizzavano torce e lampade al magnesio. Le persone addette ai costumi ed alle scenografie lavoravano spesso a lume di candela.

    In questo film si vede che grande ruolo possa giocare la luce nell'emergenza del fantastico. Per Cocteau, "un film è una scrittura in immagini". La luce, sotto la direzione dell'operatore capo Henri Alekan, diviene uno dei modi poetici privilegiati dell'espressione dell'irreale: in questo "racconto di fate senza fate", come lo definì lo stesso Cocteau, la magia è soprattutto quella del linguaggio cinematografico.

    Quando La Bella e la Bestia uscì nelle sale cinematografiche sorprese molto ed ebbe un grandissimo successo e nel 1946 ottenne il Premio Louis Delluc.

    Il film rimane fedele allo spirito della fiaba del 18° sec., ma attraverso le sue invenzioni Cocteau lo rese inconfondibile e ne fece un modello di riferimento anche per altri registi. Introdurre nel cast nel ruolo della Bestia colui che in quel momento era considerato "il più bell'uomo del mondo" fu un vero coup de theatre.

    I candelabri retti da braccia viventi e le cariatidi fumanti e con gli occhi umani non si dimenticano facilmente.

    Jean Cocteau La Belle et la Bete

    I talismani magici (un cavallo bianco, un globo, una chiave, lo specchio magico ) hanno un grande ruolo in tutto il film e ci si è sbizzarriti sull'interpretazione del loro significato simbolico. Senza contare i giardini incantati, gli oggetti che si muovono, le porte che parlano. L'iconografia, come in molti enigmatici lavori di Cocteau, suscitò discussioni e dibattiti tra surrealisti, junghiani, simbolisti.

    Jean Cocteau La Belle et la Bete

    Il film, come il racconto su cui si basa, parla del modo di rapportarsi con la diversità: è mostruoso tutto ciò cui non siamo abituati, ci fa paura tutto ciò che non rientra nei canoni abituali.

    Nell'elaborare il tema dell'identità (anche sessuale) Cocteau "gioca" molto sul travestitismo ed è molto significativo che Jean Marais interpreti e rivesta i panni, nel film, di tre identità molto diverse: Marais è infatti nei panni di Avenant, l'avvenente giovanotto innamorato di Belle ma è anche la mostruosa Bestia. Lo vediamo infine vestire gli sfarzosi abiti del bellissimo principe in cui la Bestia — salvata dall'amore di Belle — si trasforma.

    Jean Cocteau La Belle et la Bete

    Nel film c'era originariamente una sequenza (chiamata "La farce du drapier") di cui Cocteau era entusiasta ma che poi tagliò dalla versione definitiva del film: era una scena in cui Avenant (Jean Marais) in compagnia del fratello di Belle, Ludovic (Michel Auclair) per prendere in giro l'usuraio si traveste da donna ed imitando la voce di Felicie, una delle due sorelle di Belle, dichiara il suo amore all'usuraio. Questa scena di cui Cocteau non parlò mai pubblicamente è accuratamente descritta nel suo diario e lo spezzone di pellicola è stato ritrovato solo qualche anno fa, nella villa di Milly-la forêt in cui l'artista visse gli ultimi anni.

    Perchè Cocteau, pur essendo entusiasta della riuscita di questa sequenza, alla fine la tagliò? Molto probabilmente per salvaguardare l'immagine e la carriera di Jean Marais.

    Interpretando infatti un ruolo "en travesti" il giovane attore si sarebbe compromesso.

    Si trattava, certo, di un travestimento scherzoso, buffo, fatto per far ridere, ma Cocteau lo giudicò talmente riuscito da temere che il pubblico e la stampa, che non ignoravano la relazione tra lui e Jean Marais, e che inoltre assimilavano omosessualità e modi effeminati non gli avrebbero risparmiato frecciate e battute velenose.

    Come succede con tutti i libri o i film che sono ormai entrati nella storia, anche sulla genesi, sui retroscena, sugli elementi anche secondari dell'opera non si smette di indagare, scavare, ipotizzare.

    Comunque sia, resta il fatto che La Bella e la Bestia di Jean Cocteau rimane una bellissima fiaba raccontata nel linguaggio e con le immagini di colui che fu un maestro in entrambi i campi.

    Jean Cocteau La Belle et la Bete

    La Belle et la bête (1946), dal racconto di M.me Leprince de Beaumont, regia di Jean Cocteau, aiuto regista René Clement, sceneggiatura e dialoghi di Jean Cocteau, con Jean Marais, Josette Day, Mila Parély, Nane Germon, Michel Auclair, Raoul Marco Marcel André. Tecnico delle luci Henri Alekan, Scenografie Lucien Carré, René Moualert, Costumi di Antonio Castillo, Marcel Escoffier, Christian Bérard (non accreditato), Musiche originali di Georges Auric, Produzione Èmile Darbon, Francia, 1h 36min., 1946

  • imdb
  • Il film di Cocteau ha ispirato anche altri artisti.

    Philip Glass La Bella e la BestiaNegli anni tra il 1993 ed il 1996 Philip Glass compose un trittico di opere basato sulla prosa e sui film Jean Cocteau ("Orphée" (1949), "La Belle et la Bête" (1946) ed il racconto "Les Enfants Terribles" (1929) adattato a film nel 1950 dallo stesso Cocteau e da Jean-Pierre Melville) che è anche un omaggio musicale ai Les Six, il gruppo di compositori francesi associati a Cocteau.
    La Belle Et La Bête del 1994 è un'opera per voci e il Philip Glass Ensemble o orchestra da camera.

    Glass ha espunto dal film di Cocteau tutta la parte sonora, compresa naturalmente la musica originale di George Auric. Proposta come spettacolo dal vivo, il risultato pare che sia una forma di teatro multimediale, in cui lo spettatore assiste contemporaneamente alle dinamiche di tre relazioni: quella visiva sullo schermo tra gli interpreti del film (nei ruoli dei protagonisti Jean Marais e Josette Day), quella tra i cantanti in carne ed ossa, e infine a quella tra i cantanti e i loro 'doppi' sullo schermo.

    CHE COS’E’ GUERRA E PACE?

    Napoleone a Borodino
    Robert Alexander Hillingford
    Napoleone e le sue truppe alla battaglia di Borodino, 1812
    Coll. privata

    Ho terminato di leggere Guerra e Pace, cominciato il 20 febbraio.
    Se avessi seguito i miei normali ritmi, l’avrei finito molto prima, anche perchè la lettura è molto scorrevole e il mio interesse per i fatti narrati, i personaggi, le riflessioni di Tolstoj notevolissimi. Ma mi ero imposta un ritmo lento, che mi consentisse di far sedimentare ciò che andavo leggendo.

    Adesso sono arrivata alla fine. Come sempre mi succede con i Grandi Libri, non mi è facile staccarmene e mi è difficilissimo attaccare subito con la lettura di un altro autore, un altro romanzo. Specialmente se si tratta di un autore importante. Dunque sono tre giorni che vago per librerie chiedendomi: “… e ‘mo’ che leggo?!?!”

    Per fortuna ho sempre una piccola riserva di volumi “cuscinetto”, poco impegnativi, che utilizzo come una sorta di camera di decompressione tra un libro importante ed un altro. Cosa leggerò, dunque? Ancora non so.

    La voglia di parlare/scrivere di Guerra e Pace è tanta, ma la cosa non è semplice.
    Non perchè non saprei cosa dire, ma perchè per parlarne in modo non superficiale dovrei necessariamente toccare elementi fondamentali della trama. Quella famigerata “trama” di cui nessuno mai vuol sentir parlare, nemmeno se il testo in questione è ormai un grande classico.

    Mi piacerebbe scrivere di quello che in Tolstoj mi è piaciuto e mi ha convinta, ma anche di quello che non mi è piaciuto e non mi ha convinta. Per esempio, sul versante delle vicende private dei personaggi inventati (i componenti delle famiglie Bolkonskj, Rostov, Kuraghin), mi piacerebbe analizzare e discutere la concezione di Tolstoj che viene fuori da Guerra e Pace a proposito della famiglia, della sua idea del femminile, del ruolo delle donne nella società; parlare del modo con cui i personaggi femminili del romanzo (Natasha Rostova, la principessa Marja Bolkonskj, Hélène Kuraghin e tanti altri) vengono rappresentati e del destino che Tolstoj riserva loro.

    Perchè Tolstoj è uno scrittore immenso ma mi son fatta anche l’idea che fosse un misogino della più bell’acqua: i modelli che propone sono tremendi e la fine che fa fare alle sue seducenti eroine semplicemente raccapricciante. Tutto questo mi era già molto chiaro dal pur splendido Anna Karenina. La lettura di Guerra e Pace me lo ha confermato alla grande. Però Tolstoj è davvero un grandissimo scrittore, e dunque in quanto tale è riuscito a inventare personaggi femminili i quali (che ci piacciano oppure no) risultano così vivi che sembrano balzare fuori dalla pagina, più reali di tante persone reali rendendoli, con la sua arte, immortali. Ma per parlare di tutto questo, dovrei entrare nei dettagli, e non voglio rovinare il piacere della lettura a coloro i quali ancora non hanno letto il libro. Perciò rinuncio.

    Sul versante invece dei personaggi storici realmente esistiti (Napoleone, lo zar Alessandro I, il generalissimo Kutuzov, il generale Bagration etc.) e dei fatti realmente accaduti (le battaglie contro Napoleone ed in particolare la descrizione della battaglia di Austerlitz e di quella di Borodino, l’ingresso di Napoleone a Mosca, l’abbandono di Mosca da parte dei suoi abitanti e l’incendio della città) mi sento un po’ meno vincolata.

    Posso dire, credo, che ho trovato splendide tutte le descrizioni dei fatti di guerra e interessantissima e molto moderna la riflessione e l’analisi che Tolstoj fa sulle dinamiche di potere, delle tattiche e delle strategie di guerra e di battaglia, sulle caratteristiche e tipologie di quello che lui chiamava “l’autorità di un comandante” e che noi oggi, con terminologia più attuale chiameremmo “modelli di funzionamento della leadership”. Tutte queste parti mi hanno veramente estasiata, e me le sono godute molto più che le pagine delle vicende private dei protagonisti.

    La Grande Armée alla Beresina
    January Suchodolski, La Grande Armée al passaggio della Beresina, 1895.
    Muzeum Narodowe, Poznan

    Solo una cosa non ho proprio digerito: le circa duecento pagine (che non rivelo in quale parte del libro si trovano) in cui Tolstoj passa dal livello della descrizione e della analisi ad un livello più teorico e comincia ad illustrare la sua personale filosofia della storia. Queste duecento pagine le ho trovate, dal mio punto di vista, talmente incondivisibili, talmente lontane dal mio modo di pensare che ne avrei fatto molto volentieri a meno. In effetti, la tentazione di “leggiucchiarle” e non di “leggerle” l’ho avuta, ma ho resistito. Sono duecento pagine che mi sono sembrate anche, nell’economia interna dell’intero romanzo, un fastidioso corpo estraneo: pedanti, didascaliche, supponenti e dunque — almeno per me — irritanti.

    Ho scoperto di non essere l’unica a pensarla in questo modo: questi saggi sulla natura della storia e della storiografia sono effettivamente molto controversi e sembra che alcune versioni russe ridotte li tolsero del tutto, mentre altre (pubblicate quando l’autore era ancora in vita) si limitarono a trasferirli in un’appendice.

    Per fortuna, però, sono solo (?) duecento pagine contro le altre duemila che invece incantano. Guerra e Pace è epico, lirico. Il passo narrativo è lento e maestoso. Cerco di rendere l’idea utilizzando come metafora la terminologia degli spartiti musicali: in Guerra e Pace i movimenti classici sono tutti presenti: c’è l'”andante con moto” , l'”allegro con brio”, ed il “pianissimo” ma su tutti emergono l’ “andante spianato” e l'”andante maestoso”.

    Sul romanzo non voglio andare, qui, più in profondità. Tornerò a parlarne, ma indirettamente, attraverso i film che ne sono stati tratti riprendendo il discorso che avevo cominciato con il film russo di Serghei Bondarchuk.

    Per (temporaneamente) concludere: nei confronti di Tolstoj, la cui opera ormai posso dire di conoscere abbastanza bene perchè oltre i suoi tre maggiori romanzi (Guerra e Pace, Anna Karenina e Resurrezione) ho letto anche I racconti di Sebastopoli, il bellissimo I Cosacchi e La Sonata a Kreutzer ho un rapporto molto ambivalente. Lo trovo eccezionale nello stile di scrittura, nel ritmo, nelle descrizioni, nella presentazione e rappresentazione dei suoi personaggi… ma poi non lo sopporto quando comincia a pontificare ed a teorizzare sulla morale, sulla storia, sulla famiglia, sul bene e sul male.

    E’ così, e me ne sono ormai fatta una ragione. Le delizie che mi regalano i suoi testi sono di molto più numerose dei fastidi che mi provocano le parti che non condivido.

    Il Principe Lev Nikolaevic Tolstoj scrisse Guerra e Pace tra il 1862-65 e il 1869. Quando si accinse a quest’opera immensa aveva 35 anni.

    Lev Tolstoj nel 1868
    Tolstoj nel 1868

    Nel 1888 comparve, sulla rivista Le antichità russe un lungo scritto nel quale Tolstoj scrive: “approfitto dell’ospitalità di una rivista speciale per esporre, se pure brevemente e non pienamente, per quei lettori a cui questo può interessare, l’opinione dell’autore sulla propria opera”.

    Ne trascrivo in piccolo ma significativo passaggio in cui Tolstoj risponde alla domanda: “Che cos’è Guerra e Pace?”:

    “Che cosa è Guerra e Pace? Non è un romanzo, ancor meno un poema, ancor meno una cronaca storica. Guerra e Pace è ciò che l’autore volle e potè esprimere in quella forma in cui si espresse il suo intendimento. Una tale dichiarazione di noncuranza da parte dell’autore verso le forme convenzionali di un’opera d’arte in prosa potrebbe parere presunzione, se fosse intenzionale e se non avesse esempi.
    La storia della letteratura russa dal tempo di Pushckin in poi, non solo offre molti esempi di opere che si allontanano dalla forma che si può chiamare europea, ma non dà nemmeno un solo esempio contrario. Cominciando da Anime morte di Gogol, sino al Sepolcro dei vivi di Dostoievskj, nel nuovo periodo della letteratura russa non esiste una sola opera d’arte in prosa, un poco al di sopra della mediocrità, che abbia pienamente rivestito la forma di romanzo, di poema, di racconto”

    (Leone Tolstoj, da “Alcune parole a proposito di Guerra e Pace”, Appendice pubblicata nella rivista “Le antichità russe” nel 1888).