
Anna Maria Ortese, Il mare non bagna Napoli, pp. 176, Adelphi
“Qui, il mare non bagnava Napoli. Ero sicura che nessuna lo avesse visto, o lo ricordava. In questa fossa oscurissima, non brillava che il fuoco del sesso, sotto il cielo nero del sovrannaturale.”
Il mare non bagna Napoli apparve la prima volta nei Gettoni della Einaudi, con una presentazione di Elio Vittorini. Era il ’53. L’anno seguente il libro vinse il Premio Viareggio. Si compone di cinque racconti dei quali i primi quattro (Un paio di occhiali, Interno familiare, Oro a Forcella e La città involontaria) descrivono con surreale, allucinata crudezza una Napoli infernale, da girone dantesco, derelitta e animalesca in cui “una miseria senza forma, silenziosa come un ragno, disfaceva e rinnovava a modo suo quei miseri tessuti, invischiando sempre più gli strati minimi della plebe, che qui è regina”. Un viaggio nelle viscere della città, in cui la narratrice – come un moderno Virgilio – conduce noi lettori attraverso realtà infernali.
Il quinto racconto Il silenzio della ragione è il più lungo, si assiste ad un mutamento di registro ed ha caratteristiche specifiche e molto particolari.
Il libro, nonostante il premio Viareggio e nonostante il giudizio molto positivo della critica, venne percepito come un’invettiva contro la città e i napoletani. Eppure, non di invettiva si trattava ma di una sferzata di chi amava Napoli di una passione che la spinge a scrivere: “Io cercavo […] qualcosa che fosse Napoli, il Vesuvio e il contro Vesuvio, il mistero e l’odio per il mistero, i sussulti di un figlio di queste strade, di un fedele di queste strade, che fu, o cessò di essere soffocato, e tornò ad essere soffocato”.