ECCO LE FOTO

Ho caricato su Flickr  le foto di Budapest.

La bandiera ungherese

Si possono vedere qui (con le didascalie) oppure qui (in slide show).

Intendiamoci: le mie sono soltanto classiche "foto ricordo". Non ho alcuna velleità artistica.

Questa volta, come d’altra parte era prevedibile, il tempo è stato molto incostante: a splendide giornate con cielo azzurro e terso, ottima luce, si sono alternate giornate intere di pioggia e condizioni a volte proibitive, per fotografare. Tutte le foto del Castello di Buda sono state scattate con cielo coperto e pioggia intermittente. Però a me   piacciono egualmente proprio per la loro atmosfera invernale.

Non ci sono foto di alcune cose che mi sono piaciute moltissimo: l’interno dei teatri e dei musei e gli interni di ristoranti e pasticcerie.

Nei teatri e nei musei perchè ovviamente è vietato fotografare; e così il bellissimo, straordinario concerto del quartetto di Branford Marsalis al Budapest Congress Centrum (o World Trade Center), il concerto di Eliahu Inbal con l’Orchestra Filarmonica di Budapest al Teatro dell’Opera o il divertente Gran Gala dell’Operetta al Teatro dell’Operetta li ho fotografati solo con i miei occhi.

Nulla della bellissima mostra temporanea su Gallé e Tiffany allestita al Museo delle Arti Decorative e ovviamente nulla del Museo Nazionale Ungherese, interessantissimo perchè  c’è tutta la storia dell’Ungheria dai primi insediamenti di popolazioni proveniente dagli Urali fino ad oggi. Percorrendo quelle sale si capiscono un sacco di cose, sull’Ungheria. Tutti coloro che vanno a Budapest dovrebbero visitarlo attentamente.

Per gli interni dei ristoranti e delle pasticcerie il discorso è diverso: non riesco ancora a superare il disagio che mi provoca sfoderare la macchina fotografica all’interno dei locali, specialmente se sono pieni  di gente e devo usare il flash…

Perciò peccato, non posso mostrare i bellissimi interni di Gerbeaud o del Caffè Callas vicino all’Opera  o il minuscolo raffinato Ruszwurm al Castello di Buda.

Buon divertimento. Fra poco arrivano pure i filmini
E gli appunti di lettura su alcuni libri che ho letto in questo periodo.

Olè!

IO C’ERO

Ordunque. Voglio fare un raccontino.

Arrivo a Budapest   giovedi 15 Marzo intorno alle 17.00 dopo un Palermo-Milano Malpensa-Budapest. Praticamente tutta la giornata tra aeroporti e aerei. Quindi stanca morta.

Arrivo al mio albergo, che è centralissimo che più centralissimo non si può ("in the heart of historical downtown Budapest" recita la sua non menzognera brochure). Sta infatti in Királyi Utca. Che è una parallela di Andrássy Ut (Viale Andrassy) ed a tre passi da Deák Ferenc Tér, la piazza dove si trova lo snodo principale della metropolitana di Budapest.

Come faccio sempre in questi casi, dopo essermi sistemata in albergo esco per andare a mangiare nelle vicinanze (per me il giorno del viaggio rappresenta "giornata persa"; la vita comincia il giorno dopo).

Dunque vado a cena in Vörösmarty Tér, da Gerbeaud, che oltre la pasticceria ha la brasserie nel sottosuolo. Mentre finisco di cenare (locale vuoto, e questo già mi sembra molto strano ma mi dico che io arrivo dalla Sicilia e magari in inverno a Budapest hanno orari diversi dai miei qui in Terronia) accendono il televisore e comincio a vedere una diretta — commentata concitatamente e ovviamente in ungherese — in cui si vedono manifestanti, polizia, idranti etc. etc. etc.

Il fatto è che se non capisco le parole dei giornalisti in studio e degli inviati "sul campo", capisco però fin troppo bene le immagini, ed anche le didascalie sotto le immagini, che indicano i luoghi. Ed i luoghi sono praticamente quelli sopra la mia testa. Quelli vicini al ristorante ed al mio albergo: Andrássy Ut, Oktogon, Deák Ferenc Tér.

E proprio da Deák Ferenc Tér io devo passare per tornare in albergo. In tutto devo solo attraversare una piazza e due strade. Che devo fare? Di taxi manco a parlarne: da lì non si passa, tutto bloccato. E poi… per tre-quattrocento metri… un taxi? Mi vergogno solo a pensarlo. Perciò gambe in spalla e mi incammino. Ad un certo punto mi ritrovo tra cassonetti rivoltati e dati alle fiamme, gente con passamontagna ed urlante. Sirene a go go.
E comincio a sentire quelli che sul momento mi sembrano spari. Mi dico: "Ecco arrivato il mio momento di gloria: vedo già il titolo dei giornali: "Turista italiana beccata da una pallottola vagante nel centro di Budapest". Ma capisco subito che non di spari si tratta ma dei lacrimogeni della polizia.

Lo capisco per il semplice fatto che gli occhi cominciano a lacrimarmi e a bruciarmi da matti (no, non sono usa a camminare con un sacchetto di limoni di scorta).

All’incrocio, nella piazza, c’è un grande e ramificato sottopassaggio, ma mi guardo bene dall’avventurarmici, mi sembra che mi caccerei in una trappola per topi. Comunque. Riesco non so nemmeno io come a rientrare in albergo.

Gli occhi in fiamme. Alla reception mi si precipitano con asciugamani e raccomandazioni "acqua, si lavi gli occhi con l’acqua…" etc.

Guadagnata la mia stanza infilo la faccia sotto il rubinetto, passa tutto e non ci penso più.

Ieri ho dato un’occhiata su YouTube ed ho visto che sono già presenti parecchi filmati di quella sera. Ho scelto questo che si riferisce proprio al posto dov’ero io. Merita di esser visto per intero. Solo vedendo da casa mia qui a Palermo questo filmino mi sono spaventata pensando: "ma guarda un pò dove ero capitata"…Si, la paura può essere retroattiva.

Ah, dimenticavo: tutto questo ha un senso, non è che non ce l’abbia: il 15 marzo per l’Ungheria è Festa Nazionale, si commemora la Rivoluzione (fallita) del 1848 per l’indipendenza contro la monarchia austriaca. Oggi l’Ungheria ha una situazione politica molto, molto travagliata (è un popolo che, come diremmo qui da me in Terronia " non ha risetto" = "non ha mai serenità/pace")

E su questo avrei da dire tante cose, ma sarebbe troppo lungo e fra poco ho la puntata di LOST che mi aspetta

RITORNO DA BUDAPEST (2)

Davanti una vetrina di Vaci Utca Sono tornata ieri sera. E voglio intitolare questo post di rientro come suggerisce la sempre eccellentissima matisse.

Con una precisazione, però: questo post è da intendersi come "Ritorno n.2". Chè di Ritorno da Budapest ve n'era stato già uno: questo. Sarà una stupidaggine, ma tengo a precisarlo.

Adesso urge — come si dice — una "remise en situation".

Stamattina, subito dopo aver provveduto a render meno triste il frigorifero, desertificato più del deserto del tenente Dogo, ho riversato sul mio Mac circa 3 GB di foto e filmini.
Le foto saranno presto su Flickr.
Per i filmini ci vorrà più tempo. Non mi va di sbatterli brutalmente così come sono su YouTube. Vorrei renderli più presentabili lavorandoli un po' con IMovie. Che ci volete fare, non sopporto i tacchi a spillo, ma ho anch'io le mie civetterie

Nel frattempo, chi fosse (ne dubito, ma non si sa mai)  in  fremente attesa dei miei foto e cine grafici capolavori può  ammirare  la titolare di questo blog da se stessa medesima immortalata in tutto il suo splendore davanti una vetrina di cioccolato al peperoncino

Notarella a margine: da Budapest non ho postato.  Mi mancava la mia personalissima "cassetta degli attrezzi". Però ho continuato a leggere tutti i blog che normalmente frequento. In alcuni ho lasciato anche qualche sporadico commento.

Molti blog che si occupano — dicono loro — di letteratura mi pare somiglino sempre più a pollai (senza offesa per i polli).

Un altro blog, mentre ero fuori i patrii confini, ha deciso di abbassare le saracinesche e scomparire. Mi spiace molto. Era uno dei blog che apprezzavo di più. Ma la decisione del/della suo/a titolare non mi ha stupito più di tanto. Me l'aspettavo, una mossa del genere. Dostoevskij e Rabelais. E le lettere di Flaubert. Dimmi cosa leggi e mi farò un'idea di che cosa posso aspettarmi da te. Strepitosi, i suoi ultimi due post. Peccato non avere avuto la possibilità di salvarli sul mio HD.

Mi chiedo  quale sarà la prossima mise  con cui ricomparirà CarloMaria. Sono curiosissima

RITORNO A BUDAPEST

Ci sono stata a luglio dell’anno scorso e ne sono rimasta incantata. Però c’erano 35° all’ombra (qui le foto) e molte cose non ho  potuto vederle: l’interno dei teatri, per esempio. E lo splendido Museo delle Arti Decorative era chiuso. Con quel caldo, non me l’ero proprio sentita di affrontare le torte al cioccolato di Gerbeaud o i gulash del Kárpátia

Logo del FestivalEd allora, siccome venerdi comincia il Festival di Primavera ho deciso di tornarci  (why not? mi sono detta).

In valigia ho messo quattro romanzi di due scrittori ungheresi: una donna della quale non ho ancora letto nulla e un uomo che invece ormai conosco molto bene (indovina indovinello)  

Purtroppo gli scrittori ungheresi sono ancora poco tradotti, da noi. Mi piacerebbe molto, ad esempio, leggere qualche altro romanzo di Miklós Vámos ma che io sappia Il libro dei padri è l’unico, almeno finora, disponibile in italiano 

A presto  

LEGGETE IL MENO POSSIBILE!

Henry Miller
“…provo l’irreprimibile impulso di offrire un consiglio gratuito. Ed è questo: leggete il meno possibile, non il più possibile! Oh, non crediate che io non abbia invidiato quelli che si annegano nei libri. Anch’io, segretamente, vorrei immergermi nel mare di libri che ho tanto vagheggiato. Ma so che ciò non è importante. Ora so che  non avevo bisogno di leggere neanche un decimo di quanto ho letto. La cosa più difficile nella vita è apprendere a fare soltanto ciò che è strettamente vantaggioso, strettamente vitale al proprio benessere.

V’è un modo eccellente per mettere alla prova questo prezioso consiglio che non vi ho dato avventatamente. Quando vi imbattete in un libro che vi piacerebbe leggere, o che pensate dovreste leggere, mettetelo in disparte per qualche giorno. Ma pensateci quanto più intensamente potete. Che il titolo e il nome dell’autore occupino la vostra mente. Pensate ciò che avreste scritto voi stessi, se ne aveste avuto l’opportunità. Domandatevi seriamente se sia assolutamente necessario aggiungere quest’opera al vostro bagaglio di conoscenze, o al vostro fondo di piacere. Cercate di immaginare che cosa significherebbe rinunciare a questo piacere, a questa illuminazione in più. Dopodichè, se ancora pensate di ‘dover’ leggere quel libro, soffermatevi a considerare con quanta straordinaria perspicacia lo affrontate. Considerate inoltre che, per quanto stimolante esso possa essere, in realtà ben poco di questo libro vi è veramente nuovo.

Se siete sinceri con voi stessi, scoprirete che la vostra statura si è accresciuta a motivo del semplice sforzo di aver resistito al vostro impulso”.

Henry Miller, I libri nella mia vita (tit. originale The books in my life), traduz. di Bruno Fonzi, Einaudi, 1976, pag. 16

 

POVERI, NON STUPIDI

Emigrazione/immigrazione/integrazione. Una delle tante sfaccettature con cui si presenta il tema principale dell’intera opera di Orham Pamuk: il difficile rapporto tra Oriente e Occidente.

“Per favore, ascoltatemi, — disse il giovane curdo appassionato. — Dirò solo poche parole. Forse si ha pena dei poveri quando sono considerati individualmente, ma se è povero un intero popolo, tutto il mondo pensa che quel popolo sia stupido, senza cervello, pigro, sporco e incapace. Invece di averne pena, si ride di loro. Si considerano ridicole la loro cultura, le loro usanze e le loro abitudini. Poi, a volte si vergognano di questi loro pensieri e smettono di ridere, facendo anche finta di trovare interessante la loro cultura, anzi di trovarli uguali a loro stessi, perchè gli immigrati di quel paese che spazzano per terra e fanno i lavori più schifosi non si ribellino. […] Così un occidentale, quando incontra uno che viene da una nazione povera, subito prova istintivamente disprezzo nei suoi confronti. Pensa che sia in queste condizioni perchè appartiene a un popolo stupido. L’occidentale pensa che abbia molto probabilmente la testa piena delle stesse assurdità che hanno reso il suo popolo povero e bisognoso.” (p.256)

Orhan PAMUK, Neve, Einaudi, Collana Super ET

PROUST E FLAUBERT

ProustFlaubert

Stamattina, scartabellando i miei tomi in cerca di un famoso brano di Proust sulle passeggiate in automobile, sono capitata su un articolo a proposito dello stile di Flaubert. Lo conoscevo bene, ma chissà perchè quando avevo letto la raccolta antologica dell’epistolario di Flaubert non me ne ero ricordata.

L’articolo, intitolato “A proposito dello stile di Flaubert” venne pubblicato nella Nouvelle Revue Française nel gennaio dl 1920 a firma Marcel Proust.

In esso, Proust dichiara di non avere “una predilezione per i libri di Flaubert o per il suo stesso stile” ma, nonostante questo, parla di Flaubert come di un uomo che “per l’uso affatto nuovo e personale che fece del passato remoto, del passato prossimo, del participio presente, di certi pronomi e di certe preposizioni, rinnovò la nostra visione delle cose quasi quanto Kant, con la sua dottrina delle categorie e della realtà del mondo esterno” aggiungendo che “chiunque sia salito una volta su quel grande “piano mobile” che è l’opera di Flaubert, dal movimento continuo, monotono, opaco, indefinito, non può non riconoscere che essa è letterariamente senza precedenti”

Rileggendo tutto l’articolo, mi ha colpita in particolare questo passaggio molto severo riguardo l’epistolario flaubertiano, che riporto quasi integralmente (i grassetti sono miei):

Quel che piuttosto stupisce in uno scrittore di tale grandezza è la mediocrità del suo epistolario. In genere, i grandi scrittori che “non sanno scrivere”, al pari dei grandi pittori che “non sanno disegnare”, non fanno, in realtà, che rinunziare alla loro virtuosità e facilità native al fine di creare, per una visione nuova, espressioni che cerchino di adeguarvisi a poco a poco. Ora, nelle loro lettere, in cui non sono più soggetti alla sovranità assoluta dell’ideale interiore, essi ridiventano quali, meno grandi, non avrebbero cercato di essere. Quante donne, deplorando le opere di uno scrittore loro amico, aggiungono: “Se sapeste che deliziosi biglietti scrive, quando si lascia andare! Le sue lettere valgono infinitamente più dei suoi libri”. Infatti, per chi solitamente sia privo di tali doti solo perchè si deve modellare su una realtà tirannica cui non gli è consentito di apportare il minimo cambiamento, è un gioco da ragazzi dar prova di eloquenza, di spirito, di brio, di vigore incisivo […] Nell’epistolario di Flaubert […] si nota piuttosto un “ribasso”. D’altro canto, ogni grande artista che lasci volentieri affermarsi nei propri libri la realtà, rinuncia perciò stesso a lasciarvi comparire un’intelligenza, un giudizio critico da lui ritenuti inferiori al suo genio. Ma tutto quanto non trova posto nella sua opera trabocca nella sua conversazione, nelle sue lettere. Quelle di Flaubert non ne lasciano trasparire nulla. Ci è impossibile riconoscervi […] un cervello di prim’ordine”.

Marcel Proust, Sullo stile di Flaubert, in SCRITTI MONDANI E LETTERARI, Einaudi, I Millenni, 1984 che costituisce l’edizione italiana, a cura di Mariolina Bongiovanni Bertini, condotta sul testo critico francese stabilito da Pierre Clarac e Yves Sandre, del volume della Bibliothèque de la Pléiade Contre Sainte-Beuve, Pastiches et mélanges, Essais et articles, Paris, 1971.

IL RETAGGIO – SYBILLE BEDFORD

Copertina libro
Sybille BEDFORD, Il retaggio, traduz. di Marina Antonielli, Adelphi, Collana BA n.449, p.388, 2003, ISBN 8845918203

Il retaggio uscì a Londra nel 1956. Fu stroncato dalla critica e ignorato dal pubblico.

Nella bella introduzione scritta per la nuova edizione di Adelphi Sybille Bedford racconta che le reazioni furono allora di ostile perplessità e che “in Inghilterra il romanzo sembrava spacciato”. Poi il colpo di fortuna: Il retaggio fu letto dal celebre critico Evelyn Waugh che scrisse una recensione entusiasta. Si deve dunque a lui se il romanzo non finì al macero ed ebbe invece una lenta, ma costante e sempre più entusiastica diffusione.

“L’epoca era a cavallo tra Ottocento e Novecento, il paese la Germania, le persone un triangolo di famiglie che, imparentate per via di matrimoni piuttosto infausti, erano completamente diverse per abitudini, principi e religione. A dividerle erano  l’estraneità o la vocazione alla politica, la geografia e il denaro. Tutte avevano una visione distorta della propria epoca, convinte com’erano di essere la norma, ignare di poter essere viste […] come rappresentanti eccentriche, di più, anacronistiche, dei rispettivi ambienti” scrive sempre la Bedford.

Voce narrante dell’intricata vicenda fatta di passioni, matrimoni, tradimenti e scandali, è una bambina, figlia di Julius Felden e della sua seconda moglie, l’affascinante e irrequieta Caroline. Questa giovane testimone racconta rincorrendo liberamente i suoi ricordi e muovendosi nel tempo, senza un preciso ordine cronologico. E così, attraverso le storie individuali di una moltitudine di personaggi, viene lentamente a delinearsi il ritratto di un’epoca che sta per finire.

Se dovessi sintetizzare con due parole quelli che secondo me sono i punti forti di questo romanzo, direi ironia e malinconia.

Malinconia perchè sia la voce narrante sia noi che leggiamo siamo perfettamente consapevoli del fatto che il mondo in cui si agitano i personaggi di questa saga familiare è un mondo destinato ad essere stravolto e a scomparire.

Ironia perchè la scrittura della Bedford è travolgente e corrosiva. Pochissime descrizioni, in questo romanzo. La galleria di bizzarri ed eccentrici personaggi è resa magnificamente attraverso la tecnica — utilizzata in modo magistrale — di dialoghi che per la loro vivezza, capacità evocativa, ricchezza di battute fulminanti accosta la Bedford a quella grande scrittrice inglese che si chiama Ivy Compton Burnett (che, a proposito, mi voglio rileggere tutta da cima a fondo), che dell’arte del dialogo rimane, a mio parere, insuperata maestra.

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Molti hanno associato il romanzo della Bedford a I Buddenbrook di Thomas Mann, scritto cinquantacinque anni prima. Gli elementi che li accomunano sono in effetti più di uno: il tema della saga familiare, l’epoca ed il paese (la Germania) in cui i fatti narrati si svolgono.

A me Il retaggio ha ricordato anche molto un altro grandissimo romanzo di Mann, Il Doctor Faustus.

La Bedford scrive infatti (sempre nell’introduzione): “Dal 1870 al 1914 l’arco di tempo abbracciato dal romanzo. In quei decenni si tollerarono cose brutte […], crudeli e mal congegnate; e c’era anche una vena di follia tutta tedesca, priva di senso dell’umorismo…Furono anche questi i fondamenti dell’immane mostruosità che sarebbe venuta dopo? E fatti di carattere privato ai quali attingo di sfuggita hanno forse lasciato un retaggio? A questo pensavo mentre li scrivevo. Da qui il titolo”.

Mi tornano in mente allora le pagine finali del Doctor Faustus in cui il professor Serenus Zeitblon lancia il suo grido di dolore e di orrore contro quella Germania nazista che forse non è stata “nelle parole e nei fatti [che] l’attuazione pervertita, incanaglita, depravata d’una mentalità e d’una valutazione del mondo […] che l’uomo dell’umanesimo cristiano trova, non senza timore, nei lineamenti […] delle più possenti figure del germanesimo”