LA CASA DEI BAMBINI DIMENTICATI – OWEN MATTHEWS

Owen Matthews
La madre di Owen Matthews, Mila (a sinistra) e la zia Lenina (a destra).
© 2008 The New York Times Company dal libro “Stalin’s Children”

Il titolo originale di questo libro di Owen Matthews è Stalin’s children. Per “bambini  di Stalin” si intendevano i figli di coloro che erano stati fatti sparire dalla polizia politica di Stalin nelle camere di tortura della Lubjanka o nei gulag siberiani. Questi bambini, che da un giorno all’altro si ritrovavano soli al mondo, senza genitori, e con parenti i quali — se pur erano ancora in vita — li fuggivano come fossero appestati venivano “presi in carico” dallo stato sovietico e rinchiusi in orfanotrofi governativi in cui venivano trattati come soggetti che, in quanto figli di traditori della Patria e “nemici del popolo”, dovevano essere rieducati. Una sorta di gulag per bambini, insomma, in cui i piccoli venivano in realtà abbandonati e dimenticati.

Il pur buono titolo italiano La casa dei bambini dimenticati rende solo in parte, io credo, la forza di quello originale il cui sottotitolo è altrettanto significativo: Three Generations of Love, War, and Survival.

Lyudmila (Mila), la madre di Owen Matthews, autore di questo libro, era appunto una di quei “bambini dimenticati”, una di quei “bambini  di Stalin”.

Stalin’s children è un libro autobiografico in cui l’autore, giornalista inglese di madre russa ricostruisce la storia della sua famiglia dal nonno materno perseguitato ed ucciso dal KGB al tempo delle grandi purghe staliniane alla terribile infanzia della zia Lenina e della madre Mila, alla grande storia d’amore di lei con un inglese e la lotta dei suoi genitori — durante cinque lunghi anni — per potersi sposare nonostante i divieti del governo russo dei tempi di Breznev. Molto interessante come ricostruzione storica e come spaccato di vita di tre generazioni nel corso di quattro differenti momenti dell’Unione Sovietica prima e della Russia poi.

Nato a Londra da madre russa e da padre inglese, Owen Matthews ha studiato storia ad Oxford. Reporter per il Moscow Times, poi corrispondente per Newsweek a Mosca ed a Istanbul, ha scritto sulla seconda guerra in Cecenia, i conflitti in Medio Oriente, i combattimenti in Afghanistan e la guerra in Iraq.

Attualmente dirige la Redazione di Newsweek a Mosca e vive ad Istanbul con la moglie e i due figli.

Tutto, per Owen Matthews, comincia quando in Inghilterra legge le lettere — conservate in grandi scatole di cartone — che durante sei lunghi anni si sono scambiati il padre Mervyn (inglese) e la madre Mila (russa) separati dalla guerra fredda e dalla cortina di ferro.

Sono lettere che turbano profondamente Matthews: “In alcuni momenti la loro conversazione epistolare è così intima che leggerla pare una violazione. In altri momenti il dolore della separazione è così intenso che sembra far tremare la carta […] . Ma soprattutto le lettere sono cariche di un senso di perdita e di solitudine, e di un amore così grande che, scrisse mia madre ‘può far muovere le montagne e far girare il mondo sul proprio asse’ “

Negli anni ’90 Matthews — giovane reporter di origini russe dal lato materno e inglesi dal lato paterno — si trova nella Mosca post-comunista e può ritrovare le tracce dei suoi familiari russi che questo paese “[…] ha costruito, […] ha liberato, […] ha ispirato e […] ha quasi spezzato”.

In un articolo online del New York Times ho letto che in un reading Matthews ha spiegato che cominciò a scrivere questo libro circa dieci anni fa, nel periodo immediatamente post-sovietico ma prima dell'”era Putin”; un periodo cioè di intermezzo che egli definisce “rampante” e che sembrava uscito fuori da una fantasia di Gogol.

La saga familiare raccontata da Matthews comincia in Ucraina, a Kiev, dove Matthews si reca circa 60 anni dopo la morte del nonno Boris Bibikov (il padre di sua madre) per consultare gli archivi del KGB finalmente disponibili per i parenti delle vittime staliniane.

Il fascicolo giudiziario che riguarda il nonno ha una copertina marrone su cui è stampata l’intestazione “Segretissimo. Commissariato del popolo per gli affari interni. Organizzazione antisovietica trockijsta di destra in Ucraina”.

Boris Bibikov, padre della madre dell’autore, puro “homo sovieticus” protagonista ed eroe della tragica collettivizzazione degli inizi dell’epoca staliniana, diventa vittima delle purghe del 1937. Viene preso dalla polizia segreta, torturato, costretto a confessare crimini inesistenti ed infine fucilato mentre la moglie Martha (la nonna di Owen) viene deportata in un gulag in cui riuscirà a sopravvivere e dal quale verrà liberata dieci anni dopo.

Il racconto continua con l’allucinante storia delle loro due figlie, la più piccola delle quali molti anni dopo diventerà la moglie del padre dell’autore e la madre dello stesso autore.

Matthews ricostruisce l’odissea di sua madre Lyudmila (Mila) che, rimasta sola — bimbetta di appena tre anni — alla soglia del caos della seconda guerra mondiale e separata dalla sorella (e zia dell’autore) Lenina durante la loro fuga nelle steppe russe passa da un orfanotrofio sovraffollato ad un altro, da un ospedale all’altro. Le due sorelle riescono comunque a sopravvivere  ad anni di fame, guerra, malattie, privazioni di ogni tipo ed a ricongiungersi. Private dei genitori e poverissime, sono però vive.

Margaret Burke
Margaret Bourke-White/Time & Life Pictures
Getty Images (circa 1931)

Matthews racconta la vita delle due sorelle ma soprattutto, poi, la grande e drammatica storia d’amore della madre Mila — diventata una brillante intellettuale dissidente — e del padre Mervyn, un inglese russofilo che ha osato rifiutare le avances del KGB che, in piena guerra fredda, fa di tutto per “arruolarlo” come spia.

Il rifiuto di Mervyn di tradire l’Inghilterra provoca la vendetta del KGB e i due giovani vengono separati dalla Cortina di Ferro: le autorità sovietiche vietano il matrimonio, Mervyn è dichiarato “non gradito” e dall’oggi al domani deve lasciare l’URSS, mentre a Mila è vietato varcare la frontiera. Buona parte del libro racconta la storia della disperata lotta di Mervyn che per cinque lunghi anni, mettendo in secondo piano anche la propria carriera di docente universitario investe il proprio tempo, le magre risorse finanziarie e tutte le proprie energie cercando di utilizzare tutti i canali burocratici e diplomatici per ottenere la possibilità di un suo rientro in Russia o di un espatrio di Mila e poter così finalmente realizzare il matrimonio.

Attraverso i sei anni di corrispondenza appassionata dei genitori, il dossier dell’NKVD riguardante il nonno Bibikov, i vagabondaggi  per Mosca dello stesso Owen — diventato un giornalista — è la propria ambivalenza e il proprio dualismo che Matthews si trova a (ri)scoprire: perchè la Russia se la porta dentro, lo spinge a scrivere…

La Mosca che conosce Owen   negli anni ’90  è diventata una capitale decadente e la Russia è molto diversa da quella in cui hanno vissuto e sofferto i nonni Boris e Martha Bibikov, sua madre e la zia Lenina. “La Russia che conobbi io” scrive Matthews “aveva contratto il virus del caos del secolo. L’incubazione era stata lunga, ma d’un tratto, senza preavviso, l’intero edificio putrefatto franò sotto il peso della propria ipocrisia e disfunzione.

Per i russi lo choc dell’implosione del sistema […] fu molto più profondo di qualunque altra cosa il sistema sovietico avesse imposto loro, comprese le Purghe o la Seconda guerra mondiale […] Adesso […] i russi erano colpiti da qualcosa di assolutamente inspiegabile: non un nemico, ma un vuoto. Non avevano altro cui aggrapparsi tranne il loro essere russi”

Il libro è dunque il percorso di tre generazioni di una famiglia attraverso quattro epoche storiche: l’era di Stalin, la Seconda guerra mondiale, la guerra fredda ed il collasso dell’Unione Sovietica.

Sono molti, nel libro, i riferimenti letterari ad artisti testimoni eccezionali di questi diversi momenti. Tra di loro, scrittori come Pasternak e Solgenitzin, registi cinematografici come Mikhail Kalatozov (Quando volano le cicogne), Nikita Mikhalkov (Sole ingannatore), Grigory Chukhrai (La ballata del soldato).

In una intervista pubblicata sul Guardian, ad una domanda su quali siano stati i suoi modelli letterari Matthews ha risposto così (i grassetti sono miei”):

“There actually aren’t many models for this kind of narrative, autobiographical non-fiction, which is another reason perhaps that my book proved so difficult to construct. But the landmarks are Michael Herr‘s Dispatches, probably the finest piece of reportage I have ever read, and Truman Capote’s In Cold Blood. In terms of storytelling, Jung Chang’s Wild Swans was an important influence on how to blend the historical and the personal. I have always loved Nabokov’s Lolita – that self-lacerating, hypercritical voice of the narrator’s is unforgettable. Gogol conjures Russia’s sordid craziness best, and Dostoevsky the very Russian habit of agonising over great existential problems that always threaten to overwhelm his characters”.

Owen Matthews

Owen MATTHEWS, La casa dei bambini dimenticati (Tit. originale Stalin’s children), traduz. di Roberto Marasco, p.378, ed Piemme, Collana Narrativa, 2009, ISBN 9788856609547 >>

Owen MatthewsOwen Matthews

IMPRESSIONI ITALIANE – CHARLES DICKENS

Emil Brack (1860-1905)
Pianificando il Grand Tour

Nel 1844 Charles Dickens arriva in Italia con tutta la famiglia per uno di quei viaggi che, secondo la tradizione sette-ottocentesca del “grand tour” duravano parecchi mesi.

Dickens ha trentadue anni ed è uno scrittore già molto popolare: al suo attivo può contare Oliver Twist, Il Circolo Pickwick, Nicholas Nickleby, La bottega dell’antiquario, Barnaby Roudge, le tanto discusse note del viaggio compiuto in America (le American Notes).

Sta scrivendo e pubblicando a puntate il Martin Chuzzlewit che però non sta ottenendo il successo di pubblico che si aspettava e che risulta notevolmente inferiore a quello ottenuto dalle sue precedenti opere.

Giovane e famoso, Dickens ha anche raggiunto una condizione economica più che agiata ma è continuamente assillato da richieste di denaro da parte del padre, si trova in periodo di impasse creativo, è stressato.

Spera, con questo viaggio, di recuperare tranquillità ed ispirazione.

Ha un’idea molto chiara su come impostare le sue impressioni del viaggio. Scarta esplicitamente l’idea di dilungarsi sulle bellezze ed i tesori artistici dell’Italia: “Io […] sebbene ardente ammiratore della scultura e della pittura, non mi diffonderò a scrivere di quadri e di statue celebri”.

Vuole privilegiare i luoghi dell’immaginario popolare, vuole che le sue note siano una sorta di “ombre sull’acqua”.

Scrive infatti: “Questo libro è una serie di vaghe immagini — mere ombre sull’acqua — di posti per i quali l’immaginazione della maggior parte delle persone è attratta in maggiore o minor misura, nei quali la mia ha dimorato per anni e che presentano qualche interesse per tutti”.

Le prime note ci mostrano una carrozza inglese da viaggio che, a Parigi, esce da Rue de Rivoli diretta a Genova. Dickens non è solo: con lui c’è tutta la numerosa famiglia che si porta appresso anche tre cameriere. E’ lo scrittore stesso che ci fornisce la composizione di quella che lui chiama la “Lista della Carovana”:

1. L’inimitabile Boz [cioè lui stesso N.d.R.]
2. L’altra metà dello stesso.
3. La sorella di costei.
4. Quattro rampolli, dai due anni e mezzo ai sette e mezzo (e questi sono i “porcelli”).
5. Tre cameriere

La prima città italiana in cui arriva la Carovana è Genova, che colpisce Dickens per “l’inesplicabile sudiciume” “lo sporco scoraggiante”, i vicoli strettissimi, il disordine dappertutto, le puzze (eppure Genova è considerata la città più pulita d’Italia!).

Affitta poi una casa ad Abaro in cui soggiorna parecchi mesi ed anche qui le note parlano di rovina e trascuratezza.
In viaggio per Bologna passa per la “scura, decadente, vecchia Piacenza, piena di erbacce sporcizia e pigrizia e da Parma.

A Roma Dickens arriva nel pieno del Carnevale, che descrive minuziosamente così come descrive minuziosamente la visita dei Musei Vaticani, il Colosseo (“una rovina, Dio sia ringraziato!”) la messa del Papa in San Pietro e… la decapitazione di un malvivente operata dalle autorità vaticane alla quale va ad assistere e dove nota un pubblico composto da “Romani dall’aspetto truce, del più basso ceto, in mantello blu, mantello ruggine o stracci senza mantello, andavano e venivano o parlavano tra loro. Donne e bambini starnazzavano ai margini della scarsa folla. Un largo spiazzo pieno di pozzanghere era stato lasciato completamente vuoto, come un punto di calvizie sulla testa di un uomo. Un mercante di sigari, con un recipiente di coccio pieno di cenere di carbonella in mano, andava su e giù gridando le sue mercanzie. Un pasticciere ambulante divideva la sua attenzione tra il patibolo e i suoi avventori. Dei ragazzi tentavano di arrampicarsi sui muri e ricadevano giù. Preti e monaci si facevano largo con i gomiti tra la folla e si alzavano sulla punta dei piedi, per dare un’occhiata alla lama; poi se ne andavano.”

Napoli delude profondamente Dickens, che in una lettera all’amico e biografo Foster scrive: “La vita per le strade non è pittoresca e insolita neanche la metà di quanto i nostri sapientoni giramondo amino farci credere […] Che cosa non darei perché solo tu potessi vedere i lazzaroni come sono in realtà: meri animali, squallidi, abietti, miserabili, per l’ingrasso dei pidocchi: goffi, viscidi, brutti, cenciosi, avanzi di spaventapasseri” .

La Napoli descritta da Dickens è tutta miseria, sporcizia, mendicità; pullula di storpi, cani randagi, la maggior parte delle porte e delle finestre dei palazzi sono fradice e cadenti, le vie miserabili e attraversate da luridi rigagnoli…
Una Napoli di mendicanti e borsaioli, in cui il popolino si droga e si rovina giocando al Lotto.

Prima di tornare in Inghilterra Dickens visita anche Firenze e dopo aver reso un rapido tributo alla bellezza di palazzi e di alcune prospettive, non trova di meglio da fare che raccontarci, di Firenze, l’omicidio di una ragazzina uccisa da un ottantenne.

Non è mia intenzione ripetere e descrivere qui i particolari di tutto l’itinerario e le tappe del tour dickensiano.

Mi interessa solo dire che Impressioni italiane, questa raccolta di “ombre sull’acqua” è un libro che sono molto contenta di aver letto ma che mi ha lasciata molto perplessa per la pervicace monocularità della visione che Dickens fornisce delle città italiane che vede solo di passaggio o nelle quali soggiorna anche per periodi piuttosto lunghi.

Dickens infatti vede dell’Italia solo ed esclusivamente gli aspetti negativi e ripugnanti.

Itlian landscape

E per quanto riguarda lo stile di scrittura? Non all’altezza del Dickens dei romanzi.

Intendiamoci: la “mano” del Maestro si coglie sempre, ed in particolare nelle pagine in cui descrive la scena della decapitazione o in cui si lascia andare al sarcasmo ed all’ironia (efficacissima la descrizione della Messa celebrata dal Papa in San Pietro e dell’entourage vaticano e della gente comune che assiste alla funzione).

Ma la sua penna sembra perdere ogni capacità descrittiva quando vorrebbe (raramente, per la verità) parlare di persone o cose che lo colpiscono positivamente.

Dickens sembra, in queste note di viaggio, essere assolutamente incapace di descrivere la bellezza.

Eppure, in una delle ultime note scritte alla fine, quando riparte per tornare in Inghilterra e sta già percorrendo le Alpi Svizzere Dickens scrive:

“Separiamoci dall’Italia, con tutte le sue miserie e i suoi errori, affettuosamente: nella nostra ammirazione delle bellezze naturali e artificiali di cui è piena fino a traboccarne e nella nostra tenerezza verso un popolo per la sua indole ben disposto, e paziente e mite. Anni d’incuria, d’oppressione e di malgoverno hanno esercitato la loro opera per cambiare la natura e piegarne lo spirito; meschine gelosie – fomentate da principi insignificanti per i quali l’unione significava la scomparsa – e la divisione delle forze, sono state il cancro alla radice della loro nazionalità e hanno imbarbarito il loro linguaggio; ma il buono che è sempre stato in loro è ancora in loro, e un grande popolo può, un giorno, sorgere da queste ceneri […] L’Italia ci aiuta ad imprimerci in mente la lezione che la ruota del Tempo gira per uno scopo, e che il mondo è, nei suoi caratteri essenziali, migliore, più gentile, più tollerante e più pieno di speranza a mano a mano che gira”

Itlian landscape
Dickens Impressioni italiane

Charles DICKENS, Impressioni italiane (Tit. orig. Pictures from Italy 1844-45), traduz., introduzione e note Carlo Maria Messina, p.353, ed. Robin, Collana La biblioteca del tempo, 2005, ISBN: 8873711782 ISBN-13: 9788873711780    >>

LA MADONNA A TREBLINKA – VASILIJ GROSSMAN

Raffaello Madonna Sistina

Questo dipinto di Raffaello, chiamato anche La Madonna di San Sisto è al centro di un breve ma intenso racconto di Vasilij Grossman.

Il dipinto apparteneva alla Pinacoteca di Dresda (dove si trova oggi), ma — scrive Grossman — “le truppe vittoriose dell’Esercito Sovietico ritornando in patria dopo avere sconfitto ed annientato l’esercito della Germania fascista portarono a Mosca i quadri della Pinacoteca di Dresda. A Mosca le tele vennero conservate per circa dieci anni. Nell’estate del 1955 il governo sovietico stabilì di restituirle alla città di Dresda. Prima di rispedirle in Germania, si decise di esporle al pubblico per un periodo di novanta giorni..

Fu così che in un freddo mattino, il 30 marzo 1955 […] entrai nel Museo Puskin, salii al primo piano e mi avvicinai alla Madonna Sistina”.

Questo è l’inizio del racconto di Vasilij Gossman La Madonna a Treblinka (il cui titolo originale è in realtà La Madonna Sistina), uno scritto che occupa si e no una ventina di pagine. Lo si legge in venti minuti ma lo si può meditare per ore.

Si tratta infatti di un testo così denso, commovente e significante che è difficilissimo parlarne. Soprattutto per chi conosca  Vita e Destino e Tutto scorre.

E’ anche difficile estrapolarne singole frasi: quando ho cercato di farlo, mi sono resa conto che per non tradire il testo avrei dovuto ricopiarlo tutto.

Il Grossman che sale le scale del Museo Puskin per andare a vedere il dipinto di Raffaello è un uomo che ha visto i gulag sovietici della Kolyma ed i lager nazisti, che è stato uno dei primi ad entrare, vedere e scrivere dell’inferno di Treblinka.

La Madonna ed il bambino che tiene in braccio (“il suo viso ha un aspetto più adulto di quello della madre”) gli evocano qualcosa che in primo momento non sa riconoscere ma che poi identifica con il ricordo e le immagini degli orrori dei gulag e dei lager: “Il ricordo di Treblinka aveva invaso la mia anima, e in principio non riuscii a capire… Era lei, la Madonna che camminava di un passo leggero, piedi nudi sulla terra tremante di Treblinka, dal luogo di scarico del treno fino alla camera a gas. La riconobbi dall’espressione del viso e degli occhi. Vidi suo figlio, e lo riconobbi dall’espressione straordinaria, non infantile. Così erano le madri e i bambini a Treblinka.”

Guardando la Madonna di Raffaello Grossman la pensa accanto ai contadini uccisi negli anni della carestia, ai figli dei bottegai ebrei uccisi nei pogrom, ai morti nelle cave di pietra, ai boscaioli della taiga, ai soldati nelle trincee allagate d’acqua e ai fratelli e le sorelle di Treblinka.

La Madonna diventa per Grossman l’immagine di tutte le madri che morirono e videro morire i loro figli a Treblinka ma è anche il simbolo delle madri dei soldati russi, e di tutti coloro che hanno sofferto durante lo stalinismo.

“l’umanità dell’uomo non può sfuggire al proprio destino, ed ogni epoca ha un destino particolare, diverso da quello dell’epoca precedente. Un solo fatto resta immutabile: si tratta sempre di un destino triste…”.

Eppure, e nonostante tutto, Grossman crede nell’umanità e, proprio guardando la Madonna Sistina “noi conserviamo” scrive “la fede che vita e libertà siano una cosa sola e non vi sia nulla di più alto dell’umano nell’uomo.”

Raffaello Madonna Sistina

Due piccole note a margine:

  • Nel suo racconto, Grossman ancora una volta accosta la barbarie dei lager nazisti agli orrori  dei gulag e degli stermini stalinisti.Non fu  sufficiente nemmeno il XX Congresso del PCUS del 1956 con l’avvio della destalinizzazione voluta da Krusciov (che, detto per inciso, non era nemmeno lui un angioletto) a  dare  il via libera alla pubblicazione del racconto.

    Che fu finalmente pubblicato solo con la perestrojka di Gorbaciov, nel 1989, sulla rivista Znamja.

    Vasilij Grossman non potè vederla: era morto nel 1964.

  • Non è un caso che Tzvetan Todorov abbia scelto, come epigrafi di tutti i capitoli del suo saggio Memoria del male, tentazione del bene   tutte  le citazioni tratte proprio da La Madonna a Treblinka di Grossman.
  • Il libro >>
  • La Madonna Sistina su Wikipedia >>
  • Il testo integrale di L’inferno di Treblinka di Vasilij Grossman (in francese)  >>

FANCIULLE IN FIORE

Jean Beraud Bd St Denis
Jean Béraud
Parigi, il Boulevard St. Denis

 

Ne L’assommoir di Émile Zola pubblicato nel 1877 compare quella che sarà poi la protagonista di uno degli altri capolavori del ciclo dei Rougon – Macquart: Nana, figlia di Gervaise Macquart ed Henri Coupeau.

C’è un brano, nel cap. XI de L’Assommoir, in cui Zola descrive Nana ancora quindicenne che, con alcune sue coetanee tra cui l’amica Pauline forma una vera e propria “banda” di fanciulle che va a scorazzare nei boulevard parigini.

Parecchi anni dopo Marcel Proust, ne Alla ricerca del tempo perduto e precisamente in All’ombra delle fanciulle in fiore pubblicato nel 1919, descrive la prima volta in cui il Narratore vede il gruppo di ragazzine tra le quali ci sono Albertine e la sua amica Andrée che, come una piccola “banda”, si diverte a passeggiare e correre lungo la diga di Balbec.

Sono rimasta colpita da alcune analogie (ma anche significative differenze) presenti nei due brani. Analogie e differenze tanto più interessanti in quanto si trovano in libri di due grandissimi scrittori che sulla natura e la funzione della scrittura e dell’arte avevano idee diametralmente opposte…

Inserisco anche il testo originale francese non solo per l’ovvio motivo che quando è possibile è sempre meglio gustarsi i testi in lingua originale, ma anche perchè nelle traduzioni italiane l’analogia di alcuni termini usati si perde.

I grassetti sono miei.

Émile Zola, L’assommoir, cap. XI

Elles venaient de se glisser dans la rue et de gagner les boulevards extérieurs. Alors, toutes les six, se tenant par les bras, occupant la largeur des chaussées, s’en allaient, vêtues de clair, avec leurs rubans noués autour de leurs cheveux nus. Les yeux vifs, coulant de minces regards par le coin pincé des paupières, elles voyaient tout, elles renversaient le cou pour rire, en montrant le gras du menton. Dans les gros éclats de gaieté, lorsqu’un bossu passait ou qu’une vieille femme attendait son chien au coin des bornes, leur ligne se brisait, les unes restaient en arrière, tandis que les autres les tiraient violemment ; et elles balançaient les hanches, se pelotonnaient, se dégingandaient, histoire d’attrouper le monde et de faire craquer leur corsage sous leurs formes naissantes. La rue était à elles ; elles y avaient grandi, en relevant leurs jupes le long des boutiques ; elles s’y retroussaient encore jusqu’aux cuisses, pour rattacher leurs jarretières.

Boulevaard Rochechouart
Il Boulevard Rochechouart in una cartolina d’epoca

 

Au milieu de la foule lente et blême, entre les arbres grêles des boulevards, leur débandade courait ainsi, de la barrière Rochechouart à la barrière Saint-Denis, bousculant les gens, coupant les groupes en zigzag, se retournant et lâchant des mots dans les fusées de leurs rires. Et leurs robes envolées laissaient, derrière elles, l’insolence de leur jeunesse ; elles s’étalaient en plein air, sous la lumière crue, d’une grossièreté ordurière de voyoux, désirables et tendres comme des vierges qui reviennent du bain, la nuque trempée.

Nana prenait le milieu, […] Elle donnait le bras à Pauline, […] Et comme elles étaient les plus grosses toutes les deux, les plus femmes et les plus effrontées, elles menaient la bande, elles se rengorgeaient sous les regards et les compliments. Les autres, les gamines, faisaient des queues à droite et à gauche, en tâchant de s’enfler pour être prises au sérieux.

Le ragazze erano sgattaiolate in strada e corse a raggiungere i boulevard esterni. Là, tenendosi tutte e sei a braccetto, occupando la strada quanto era larga, passeggiavano nei loro vestitini chiari, a testa coperta, i capelli annodati da bei nastri. Con la coda degli occhi vivacissimi lanciavano occhiatine così in tralice. Vedevano tutto, e rovesciando all’indietro, ad ogni scoppio di riso il collo, mostravano il grasso della gola. In quei grossi scoppi di allegria, ogni qualvolta passava un gobbo o una vecchia sostava ad aspettare il suo cane alla cantonata, la fila delle sei ragazze si spezzava; alcune rimanevano indietro, mentre le altre davano loro energici strattoni, e tutte avevano un gran dimenare i fianchi, si raggomitolavano, si sbracciavano tanto, da richiamare l’attenzione della gente e da far scricchiolare il busto sotto le forme nascenti. La strada era loro; vi erano diventate grandi tirandosi sù le sottanelle davanti alle botteghe; ancora adesso se le tiravano sù, e fino al grosso delle cosce, per riallacciare le giarrettiere. In mezzo alla folla lenta e scialba, fra gli alberi rachitici dei boulevard, scorrazzavano così dalla barriera di Rochechouart alla barriera di Saint-Denis, urtando la gente, fendendo i capannelli a zig-zag, voltandosi indietro e gettando qualche parola in mezzo a quelle grandi esplosioni di risate. E le loro vesti svolazzanti si lasciavano dietro l’insolenza della gioventù. Si esibivano così all’aria aperta, in piena luce, con la volgare grossolanità di gente di malaffare, desiderabili e tenere vergini che tornano grondanti dal bagno grondanti d’acqua dalla testa ai piedi.

Nanà stava sempre in mezzo alle altre […] Dava il braccio a Paolina […] E siccome erano loro due le più attempate, le più donne e le più sfrontate, guidavano la compagnia, impettendosi sotto gli sguardi e i complimenti; le altre, le monelle, facevano coda a destra e a sinistra

(Traduzione di Luigi Galeazzo Tenconi, BUR Classici Moderni)

Marcel Proust, À la recherche du temps perdu, À l’ombre des jeunes filles en fleurs

Seul, je restai simplement devant le Grand-Hôtel à attendre le moment d’aller retrouver ma grand’mère, quand, presque encore à l’extrémité de la digue où elles faisaient mouvoir une tache singulière, je vis s’avancer cinq ou six fillettes, aussi différentes, par l’aspect et par les façons, de toutes les personnes auxquelles on était accoutumé à Balbec, qu’aurait pu l’être, débarquée on ne sait d’où, une bande de mouettes qui exécute à pas comptés sur la plage, — les retardataires rattrapant les autres en voletant, — une promenade dont le but semble aussi obscur aux baigneurs qu’elles ne paraissent pas voir, que clairement déterminé pour leur esprit d’oiseaux.

Cabourg, la diga
Cabourg. La diga e il Grand Hôtel in una cartolina d’epoca

 

Une de ces inconnues poussait devant elle, de la main, sa bicyclette; deux autres tenaient des «clubs» de golf; et leur accoutrement tranchait sur celui des autres jeunes filles de Balbec, parmi lesquelles quelques-unes il est vrai, se livraient aux sports, mais sans adopter pour cela une tenue spéciale. […]

Telles que si, du sein de leur bande qui progressait le long de la digue comme une lumineuse comète, elles eussent jugé que la foule environnante était composée d’êtres d’une autre race et dont la souffrance même n’eût pu éveiller en elles un sentiment de solidarité, elles ne paraissaient pas la voir, forçaient les personnes arrêtées à s’écarter ainsi que sur le passage d’une machine qui eût été lâchée et dont il ne fallait pas attendre qu’elle évitât les piétons, et se contentaient tout au plus si quelque vieux monsieur dont elles n’admettaient pas l’existence et dont elles repoussaient le contact s’était enfui avec des mouvements craintifs ou furieux, précipités ou risibles, de se regarder entre elles en riant. […]

Mais elles ne pouvaient voir un obstacle sans s’amuser à le franchir en prenant leur élan ou à pieds joints, parce qu’elles étaient toutes remplies, exubérantes, de cette jeunesse

Da solo, me ne restai semplicemente ad aspettare davanti al Grand- Hôtel il momento di andare incontro alla nonna, quando, quasi ancora all’estremità della diga dove animavano, muovendosi, una macchia singolare, vidi avanzarsi cinque o sei ragazzine, tanto diverse per aspetto e comportamento da tutte le persone cui eravamo avvezzi a Balbec, quanto, sbarcato da chissà dove, uno stormo di gabbiani che avessero compiuto – con i ritardatari intenti a raggiungere gli altri svolazzando — una passeggiata il cui scopo, chiaramente definito nella loro testa d’uccelli, fosse rimasto oscuro ai bagnanti, a loro volta del tutto ignorato dai volatili.
Una delle sconosciute spingeva davanti a sé, con la mano, la sua bicicletta; alte due reggevano delle mazze da golf: e il loro abbigliamento contrastava nettamente con quello delle altre ragazze di Balbec , fra le quali ce n’era sì qualcuna che si dedicava agli sport, ma senza per questo adottare una speciale tenuta […]

Esattamente come se, dall’interno del loro gruppo che, simile ad una luminosa cometa, procedeva lungo la diga, avessero deciso che la folla circostante era composta d’esseri di un’altra razza, nei cui confronti nemmeno la sofferenza avrebbe potuto destare in loro un sentimento di solidarietà. Davano l’impresssione di non vederla, costringendo le persone ferme a farsi da parte come al passaggio di una macchina lanciata dalla quale non bisognava attendersi che schivasse i pedoni, e tutt’al più, se qualche anziano signore, la cui esistenza non ammettevano e dal cui contatto rifuggivano, scappava con gesti di timore o di rabbia, ma precipitosi o grotteschi, si limitavano a guardarsi tra loro ridendo […]

Ma non potevano scorgere un ostacolo senza divertirsi a superarlo di slancio o a piedi giunti, giacchè erano tutte esuberanti, traboccanti di […] giovinezza

(Traduzione di Giovanni Raboni, Mondadori)

NABOKOV PARLA DI NABOKOV

Sempre dalla miniera di YouTube, un prezioso video su Nabokov che credo sia tratto da una trasmissione televisiva francese, ma non so quale.

In esso vediamo Nabokov presentarsi (dice la voce fuori campo) “come un pittoresco cacciatore di farfalle”, e poi sentiamo parlare lo stesso Nabokov.

Legge il famosissimo incipit di Lolita prima nella versione originale inglese e poi nella versione russa (ricordiamo che Lolita venne scritto in inglese e che fu poi lo stesso Nabokov, anni dopo, a curarne la traduzione in russo).

Nabokov parla poi della Russia, del suo modo di lavorare, degli autori che ama e delle cose che detesta.

A proposito del suo paese di origine, la Russia, dice “Non ci tornerò mai, per la semplice ragione che la Russia che mi manca, di cui sento il bisogno è in me, è sempre dentro di me: la letteratura, la lingua e la mia infanzia in Russia. Non ci tornerò mai, e mai rinuncerò ad essa.”

1.54

Fa vedere il suo metodo di lavoro, le schede scritte a mano. Parla del progetto di uno scritto che ha per tema Il Tempo. Parla dei problemi che pone costruire un testo narrativo con al centro il Tempo, di quanto sia difficile scrivere del Tempo senza ricorrere alle metafore: “Voglio che la storia nasca dal flusso delle metafore”, dice.

3.25

E’ noto quanto selettivo fosse Nabokov nel giudicare libri ed autori e quanto  al vetriolo fossero spesso i suoi giudizi.

“Sono rimasto intrigato e divertito dalla nozione abituale di ciò che vengono chiamati “Grandi Libri” . Per esempio, Morte a Venezia di Mann, il melodrammatico e pessimo Dottor Zivago di Pasternak, o ancora le cronache a buon mercato di Faulkner non sono certo capolavori, e nemmeno “grandi libri”. E’ un’assurda illusione, è come pensare di poter fare l’amore con una sedia”.

I capolavori della letteratura del XX° secolo per Nabokov? Sono nell’ordine: Ulisse di Joyce, La Metamorfosi di Kafka, Petersbourg di Bély e la prima parte di quel “racconto di fate” che è Alla ricerca del tempo perduto di Proust.

4.29

Con aria sorniona, ci fa vedere un quaderno in cui, dice “Annoto le cose che detesto, le cose fastidiose, che mi irritano”.

Tra queste, ci sono “la musica di sottofondo, la musica di consumo, la musica da supermercato, la musica portatile, la musica cuscinetto, la musica imposta, i luoghi comuni dei giornalisti…il “momento della verità”….”

Molte delle cose che sentiamo dire a Nabokov in questo video si possono leggere nella raccolta di interviste pubblicata da Adelphi con il titolo Intransigenze, di cui avevo già parlato >> qui e che tengo sempre a portata di mano perchè è un libro che mi piace sfogliare spesso.

Ma se i contenuti di ciò che dice li conoscevo in gran parte, vedere e sentire parlare Nabokov è davvero delizioso, e non mi stupisce che i suoi studenti stravedessero, per il loro professore.

5.13

Nell’ultima parte del video ci sono alcune rare immagini di Vladimir e Véra ripresi in Svizzera, al Palace Hotel di Montreux dove la coppia trascorse gli ultimi anni della loro vita.

Si vede Véra a pranzo con Vladimir, mentre gioca a scacchi con Vladimir, la si vede scherzare e ridere.

Queste immagini di Véra varrebbero da sole il video, perchè sappiamo quanto questa donna straordinaria  non amasse per nulla mettersi in mostra, farsi fotografare, filmare.

Che altro dire? Spero vi godiate questo video almeno quanto me lo sono goduto io.

DUE OCCHI AZZURRI – THOMAS HARDY

Thomas Hardy Due occhi azzurri
Thomas HARDY, Due occhi azzurri (tit. orig. A pair of blue eyes), traduz. Maria Felicita Melchiorri, p.480., Fazi Editore, Collana Le Porte, 1999, ISBN: 888112114X, ISBN-13: 9788881121144

Due occhi azzurri si svolge nell’Inghilterra della piena età vittoriana, ha per scenario una sperduta canonica di campagna e descrive il triangolo amoroso tra la giovanissima Elfride Swancourt — figlia orfana del curato — e due corteggiatori.

Elfride non è una bellezza appariscente ma ha due occhi “azzurri come la distanza autunnale, come l’azzurro del cielo che si vede tra i profili sfuggenti delle colline e dei pendii boscosi che si perdono nella lontananza di un’assolata mattina di settembre.”

La ragazza si innamora di Stephen, un giovane architetto le cui umili origini non garbano al padre, il quale non solo nega il suo consenso al matrimonio ma proibisce alla figlia di continuare a frequentare il ragazzo.

Stephen decide allora di partire per l’India dove spera di far fortuna, riscattare così la sua nascita ed ottenere finalmente in questo modo il consenso del curato al matrimonio con Elfride.

Prima della partenza però i due giovani decidono di andare a Londra e sposarsi segretamente. Elfride fugge di casa, ma appena arrivata a Londra assieme a Stephen si pente della decisione presa. Stephen, se pure addolorato, comprende il suo ripensamento. I due ragazzi tornano indietro. L’assenza da casa di Elfride non è stata notata, tra i due giovani non è successo nulla e tutto potrebbe filar liscio.

Sono stati però visti nella carrozza del treno dalla madre di un ex innamorato di Elfride morto di dolore perchè la ragazza lo aveva respinto e questa donna — che la morte del figlio ha reso quasi folle — potrà in qualunque momento ricattare Elfride.

Elfride sa di non aver commesso nulla di male, ma sa anche che se il suo breve viaggio a Londra sola con Stephen diventasse di dominio pubblico verrebbe subito etichettata come una “ragazza perduta”.

Stephen parte per l’India. Durante la sua assenza ed a seguito di una serie di eventi arriva come ospite nella canonica un altro uomo, Knight.

Knight è un intellettuale maturo, molto rispettabile, appartenente alla buona società londinese. E’ stato per un certo periodo una sorta di tutore di Stephen ma non sa nulla della storia d’amore tra i due giovani. Si innamora di Elfride ed Elfride si innamora di lui. Knight però è un uomo tutto d’un pezzo, non ha mai amato né baciato una donna e di contro non accetterebbe mai di non essere lui il primo uomo della donna che scegliesse per moglie.

Elfride questo lo capisce bene e, per paura che lui l’abbandoni non si decide a raccontargli la sua pur innocentissima relazione con Stephen.

Gli avvenimenti precipitano, il “caso” (o per meglio dire il “fato”, come sempre avviene in tutti i romanzi di Hardy) fa in modo che gli avvenimenti prendano una brutta piega ed Elfride (“una ragazza impulsiva e incoerente, trascurata nella sua vita interiore dal suo unico genitore” e nella quale “l’inesperienza […] guida il desiderio convulso”) sarà alla fine l’unica vera vittima della storia mentre i due uomini, che se la sono contesa e se la contendono sino all’ultimo, usciranno tutto sommato indenni dalla vicenda.

Due occhi azzurri è un romanzo fosco ed in cui alcune delle scene più importanti sono ambientate in luoghi altamente simbolici.

Uno di questi è la torre di una chiesa in rovina sulla quale Elfride si diverte a camminare terrorizzando Knight che la rimprovera per la sua incoscienza ma l’ammira per il suo coraggio

A pair of blue eyes (Pasquier)

Un altro luogo-chiave è una scogliera a strapiombo sul mare

A pair of blue eyes (Pasquier)A pair of blue eyes (Pasquier)

Ma il luogo più significativo è una buia ed opprimente cripta funebre in cui si svolge una lunga e fondamentale scena del romanzo.
E’ forse proprio questa cripta che meglio simbolizza ed incarna, con la volta di pietra che incombe, il senso più profondo della storia narrata da Hardy.

A pair of blue eyes (Pasquier)

Questa cripta sembra infatti in qualche modo rappresentare l’oppressione della rigidissima morale vittoriana che pesa su questa fanciulla dagli occhi azzurri, di un “azzurro nebbioso e ombroso, senza principio né superficie, da scrutare in profondità e non, semplicemente, da guardare”

Due occhi azzurri, uno dei primi romanzi di Hardy, pubblicato nel 1873 e solo da pochi anni edito in Italia affronta i temi della passione amorosa e della gelosia.

Per chi abbia già letto tutti gli altri romanzi di Hardy, certamente molto più maturi e meglio strutturati di questo è comunque molto interessante riconoscere sia nel tema principale della gelosia che nella giovane, ingenua, bella e un po’ volubile Elfride una sorta di “prototipo” di quella che in seguito sarà Tess dei D’Uberville, l’indimenticabile protagonista del capolavoro di Hardy, scrittore detestato da Henry James, molto amato da Virginia Woolf ed apprezzato da Marcel Proust che lo cita nel suo epistolario e ne Alla ricerca del tempo perduto.

Due occhi azzurri, anche se alla luce di quelli che saranno i romanzi più maturi di Hardy (da Giuda l’oscuro a Via dalla pazza folla a Il Sindaco di Casterbridge) può apparire ancora acerbo ma è comunque di scorrevole e piacevole lettura.

E’ necessario però operare un continuo sforzo di contestualizzazione rispetto ad usi, costumi e valori dominanti dell’età vittoriana perchè altrimenti alcuni passaggi della vicenda potrebbero suscitare in lettori di oggi qualche sorrisino di incredulità…

La maggior parte dei romanzi di Thomas Hardy venne pubblicata per la prima volta in feuilleton con puntate mensili su riviste letterarie inglesi ed il primo di questi romanzi fu proprio A pair of blue eyes, pubblicato sul Tinsley’s Magazine tra il settembre 1872 luglio 1873.

Come avveniva in questi casi, le puntate contenevano illustrazioni che per questo romanzo di Hardy furono realizzate da James Abbott Pasquier.

Queste che ho inserito nel post le ho prese da quella vera miniera che è il ricchissimo sito Victorian Web

  • Thomas Hardy >>
  • Thomas Hardy su Victorian Web (in inglese) >>
  • Il libro >>

LASCIAMI ANDARE MADRE – HELGA SCHNEIDER

Lasciami andare madre
Helga SCHNEIDER, Lasciami andare, madre, p.130, Adelphi, La collana dei casi/Saggistica, 2001, ISBN 9788845915932

Quella che segue è una mia recensione scritta e pubblicata qualche anno fa a Palermo su MEZZOCIELO, una rivista bimestrale di politica cultura e ambiente pensata e realizzata da donne.

Berlino, luglio 1941.

La piccola Helga Schneider di quattro anni e il fratellino Peter vengono abbandonati dalla loro madre.

La donna, fanatica nazista, lascia anche il marito Stefan per andare ad arruolarsi nelle SS, l’ordine nero di Himmler.

Diventerà una delle più spietate guardiane del campo di sterminio di Birkenau.

Helga rivedrà sua madre solo altre due volte nella vita.

Il primo incontro (riportato in un altro bellissimo e terribile libro della Schneider Il rogo di Berlino) avviene trent’anni dopo. Nel corso di esso la madre mostra con fierezza, alla figlia annichilita e nauseata, la sua divisa di SS offrendole anche, in dono, manciate dell’oro rubato agli ebrei.
Helga fugge inorridita.

Lasciami andare madre è il racconto del secondo ed ultimo incontro, un drammatico e definitivo faccia a faccia che si svolge a Vienna nel 1998.

La madre è ormai prossima a morire.

Per la figlia, la conseguenza del brutale abbandono materno è stata una vita vissuta nel dolore dell’assenza. Dal 1963 si è trasferita in Italia dove tutt’oggi risiede e lavora.

Ha tentato in mille modi di spezzare il legame che, suo malgrado, la unisce alla madre “perfino rinunciando alla mia madre lingua” (la Schneider infatti non usa il tedesco e i suoi libri sono scritti in italiano).

In questo impietoso resoconto autobiografico di un “atroce sdoppiamento” Helga Schneider descrive da un lato la ripugnanza per le atrocità commesse dalla madre, dall’altro il bisogno di sapere, di conoscere tutto, per potere infine riuscire ad odiarla.

E la madre, questa donna “furba, sleale, ipocrita” parla. Incalzata dalla figlia, descrive senza un’ombra di pentimento e con abbondanza di agghiaccianti particolari le nefandezze di cui è stata responsabile.

“Fatti odiare, madre!” è il disperato urlo interiore di Helga “solo odiandoti sarei finalmente capace di strapparmi dalle tue radici. Ma non posso, non ci riesco”.

Helga si accorge infatti che, se certo non può amare sua madre, non riesce però nemmeno ad odiarla: la forza della procreazione vince sulle colpe materne.

“E’ pur sempre mia madre, e quando se ne andrà una parte di me se ne andrà con lei. Ma quale? Non trovo risposta a questa domanda”

Libro di grande tensione emotiva e non certo di facile lettura, “Lasciami andare madre” è un testo doloroso e prezioso.

Non solo, infatti, ci offre una della pochissime testimonianze dirette della tragedia vissuta dai figli – innocenti – dei carnefici.

Ci permette anche di scrutare all’interno di un complesso rapporto madre-figlia nel quale la figura materna, piuttosto che simbolo di dolcezza, creazione e vita si manifesta come dispensatrice di sofferenza, morte, tortura.

Dev’essere stato difficilissimo, per Helga Schneider, scrivere queste pagine.

Non si può che esserle grate per aver trovato la forza e il coraggio di parlarci di questa “storia mancata di una madre e di una figlia. Una non storia. Lasciami andare, madre”

Di aver trovato “le parole per dirlo”.

Con l’occasione voglio anche segnalare che è appena arrivato in libreria l’ultimo libro di Helga Schneider La baracca dei tristi piaceri. Il sesso forzato come strategia del nazismo. Io l’ho visto sugli scaffali della Feltrinelli, l’ho preso in mano ma confesso di  non avere  ancora il coraggio di affrontarlo…

Helga Schneider

Questa foto di Helga Schneider l’ho scattata io nel 2003 a Venezia, dove, nell’ambito della manifestazione “Fondamenta-Venezia città di lettori” Helga Schneider tenne una Lectio magistralis sul tema “Donne senza più”.

Nello  stesso giorno si svolse anche un incontro con un’altra scrittrice che ammiro moltissimo, l’ungherese Agota Kristof.

Alcune mie impressioni su quella giornata e gli  incontri con le due scrittrici tanto diverse ma che hanno anche molte cose in comune si possono leggere >> QUI

MARTIN CHUZZLEWIT – CHARLES DICKENS

Martin Chuzzlevit
Charles DICKENS, Martin Chuzzlewit, (tit. orig. The Life and Adventures of Martin Chuzzlewit), traduz. Bruno Oddera, Nota introduttiva di Piero Bertolucci, p.1289, Adelphi, Collana Gli Adelphi n.317, 2007, ISBN 9788845922145

Da quando, pochi anni fa, ho cominciato a leggere Dickens nelle edizioni italiane (finalmente!) integrali, i suoi libri hanno conquistato un posto privilegiato negli scaffali della mia libreria e la lettura di opere di cui sinora sconoscevo persino l’esistenza costituisce una ricchissima fonte di piacere e gran divertimento.

Questo Martin Chuzzlewit, pubblicato — credo per la prima volta in Italia — da Adelphi in un tomone di circa milleduecento pagine, è decisamente uno dei suoi libri meno conosciuti dai lettori italiani.

Ma chi decide di prendere in mano questo volumone senza lasciarsi spaventare dalla sua lunghezza e comincia a leggerlo comodamente seduto in poltrona o su un divano (non permettendo la sua mole di affrontarlo standosene sdraiati come ad esempio in genere a me piace fare con i romanzi) ha davanti a se ore ed ore di divertimento assicurato e ringrazierà ancora una volta le Divinità della Letteratura per averci regalato uno scrittore come Charles Dickens.

Martin Chuzzlewit, come quasi tutte le opere di Dickens, uscì per la prima volta a puntate. Per l’esattezza, le puntate furono in tutto 19 con cadenza mensile negli anni 1843 e 1844; ciascuna di esse costava uno scellino ed era composta di 32 pagine di testo e illustrazioni di Phiz.

Iniziare questo Dickens è come imbarcarsi per una lunga  e bella navigazione. Ci si installa nelle sue mille e passa pagine, si attraversa un oceano, si salta da un continente ad un altro, si passa alternativamente dall’Inghilterra all’America, ci si inoltra in una strepitosa galleria di personaggi dipinti in maniera così viva che molti di loro ci appaiono spesso più reali di persone reali.

Nella famiglia Chuzzlewit, ci viene spiegato nel primo capitolo, sono sempre stati presenti due tratti distintivi: i suoi membri sono egoisti ed ostinati.

Dickens aveva intenzione di scrivere sul frontespizio dell’edizione: “Scena: la vostra casa. Personaggi: voi stessi.” ma se ne astenne perché riteneva che sarebbe stata una cosa “troppo vera” perché i lettori la sopportassero.

Nel romanzo non si può individuare un unico protagonista ma in compenso i Martin Chuzzlewit del titolo sono ben due… e tutti e due egoisti e ostinati. Il vocabolo che entrambi pronunciano più spesso (almeno fino a tre quarti del libro) è “Io”.

Abbiamo infatti il vecchio Martin Chuzzlewit, il nonno, il quale ricco, ostinato ed egoista ama molto suo nipote Martin Chuzzlewit ma lo caccia di casa perchè il ragazzo — anche lui ostinato ed egoista —si è innamorato di Mary, l’ orfana diciassettenne che si prende cura del vecchio.

Ci sono poi Anthony Chuzzlewit e suo figlio Jonas, che per mettere le mani sull’eredità non arretra davanti a nessuna nefandezza; il buono, onesto Tom Pinch “spirito semplice e cuor puro” e la sua dolce e graziosa sorellina Ruth, Mark Tapley, l’uomo più felice della terra che cerca sempre di cacciarsi in situazioni orribili per mettere alla prova la sua capacità di rimanere allegro sempre e nonostante tutto; John Westlock, il leale amico di Tom…

Sarebbe davvero troppo lungo fare l’elenco dettagliato di tutti i personaggi del romanzo. Dico solo che più si va avanti nella lettura più ci si inoltra in un mondo letteralmente brulicante di caratteri spettrali, grotteschi, rappresentati con una forza descrittiva tale che a volte sembrano balzare letteralmente fuori dalle pagine del libro.

I personaggi più formidabili del romanzo però sono decisamente, a mio parere, Mr. Pecksniff e Mrs. Gamp.

Il mellifluo, viscido Mr. Pecksniff è una superba figura di ipocrita e di melensa canaglia.

Mr. Pecksniff è corredato di due figlie: Cherry dal mento lungo e Mercy dal naso rosso, antipatiche e detestabili quanto il padre.

Martin Chuzzlewit - Phiz
I Chuzzlewit riuniti attorno Mr. Pecksniff
e le sue figlie Mercy e Charity

Mrs. Gamp invece è una donna che di mestiere assiste gli anziani malati (oggi la chiameremmo badante), fa la levatrice, l’infermiera e si occupa di sistemare i cadaveri per metterli nella bara ma che — sporca, avida, pigra, semi alcoolizzata e brutale — è odiosamente indifferente sia ai misteri della nascita che a quelli della morte.

Martin Chuzzlewit
A casa di Mrs. Gamp

Due personaggi, Mr. Pecksniff e Mrs. Gamp, che da soli valgono tutto il romanzo. Straordinarie creazioni del genio di Dickens, per i quali egli “inventa” un linguaggio cui il traduttore Bruno Oddera è riuscito a restituire, in italiano, tutta l’eccentricità e la potenza esilarante.

Le scene del romanzo in cui compaiono Mr. Pecksniff e Mrs. Gamp sono pagine di grande vaudeville nel senso più alto del termine e il   comportamento di questi personaggi, i loro discorsi suscitano un formidabile miscuglio di ilarità e di indignazione.
I luoghi del romanzo sono la Londra dickensiana che ormai ci è familiare ma anche un villaggio a una giornata di diligenza dalla capitale e… gli Stati Uniti d’America. Si, perchè il giovane Martin — diseredato dal nonno — e Mark Tapley ad un certo punto vi si recano per cercare fortuna.

E’ l’occasione questa, per Dickens, di descrivere il “Nuovo Mondo” ed i suoi abitanti.

Dickens stesso era stato in America parecchi mesi appena l’anno prima e ne aveva ricavato una pessima impressione. Attacca quindi l’America con una ironia crudele, con una satira feroce della quale poi si scusa in un postscriptum alla fine del romanzo.

In questo turbinio di personaggi e di luoghi tutto va a gran velocità, la tensione (e l’attenzione del lettore) non cede mai, i colpi di scena si moltiplicano, la sapientissima scansione dei capitoli ci lascia sempre con la voglia irrefrenabile di voltar pagina per vedere ciò che succede in quella seguente, coppie di innamorati si formano ed altre coppie rompono il loro legame, ci sono assassini ed arresti…

Insomma e per farla breve: come dicevo all’inizio, il divertimento è assicurato, perchè non dobbiamo dimenticare lo stile di Dickens e la disinvoltura con cui maneggia umorismo (e qui di humor ne troviamo a palate), lirismo, poesia, abilità nella costruzione dei dialoghi.

Martin Chuzzlewit - Phiz
Tom Pinch lascia la casa di Mr. Pecksniff

Al suo amico e biografo John Forster Dickens aveva scritto: « Voi sapete con una certezza pari alla mia che io ritengo “Martin Chuzzlewit” la mia opera senza confronti migliore, sotto innumerevoli aspetti. Martin Chuzzlewit - PhizChe io sono cosciente delle mie forze come mai prima d’ora. Che io ho la certezza che, se la salute mi assisterà, conserverò un posto nel cuore dei miei lettori anche se cinquanta scrittori iniziassero a scrivere domani stesso. »

Chesterton, da parte sua, dette di Martin Chuzzlewit questo giudizio: « In tutta la sua vita Dickens non è mai stato folgorante come in queste pagine »

Se penso a tutti i romanzi di Dickens che ho letto sin’ora (e cominciano ad essere quasi tutti, me ne mancano solo tre) mi accorgo che è davvero difficile per me stabilire una graduatoria, e tutto sommato non mi interessa nemmeno molto, provarci. Ciascuno di essi presenta infatti delle specificità che me lo fanno amare.

Dickens è sempre immenso, le sue gallerie di personaggi sempre strepitose, quando prendi in mano un suo libro ti ripeti per l’ennesima volta che saper scrivere non è roba da qualunque pennivendolo o pennivendola di locali ed attuali premi letterari.

Dickens sta sempre lì a ricordarti che si può anche scrivere a cottimo e a puntate in feuilleton, ma che per fare questo e rimanere un long seller non solo nei decenni ma nei secoli occorre non solo mestiere, professionalità, abilità di manovalanza ma anche… genio.

Il romanzo contiene anche, come ho accennato, una feroce satira contro gli Stati Uniti, perchè il viaggio che Dickens vi aveva fatto mesi prima lo aveva deluso profondamente.

Nel Martin Chuzzlewit gli Americani sono visti come truffatori, ipocriti, venali e superbi. La stampa è vista come bugiarda e piena di “errori”. La Repubblica è descritta come “mutilata e zoppa, piena di piaghe e ulcere, falsa illusione per ciò che riguarda gli occhi e quasi senza speranza per il senso, al punto che i suoi migliori “amici” girano la testa da questa ripugnante creatura con disgusto”.

L’istituzione della schiavitù ripugna profondamente a Dickens, che l’attacca in parecchie pagine e scrive tra l’altro: “così le stelle ammiccano alle sanguinose strisce e la Libertà si cala il suo berretto sugli occhi.”

Anni dopo però, nel 1868, Dickens scrisse un Postscriptum in cui specifica che in occasione del pranzo offerto in suo onore il giorno sabato 18 aprile del 1868, avvenuto a New York e organizzato da duecento rappresentanti di tale Stato egli ritirò le accuse mosse agli Americani.

Egli sostiene poi di aver notato dei grandi cambiamenti morali, materiali, urbani, di sensibilità nei confronti delle città antiche, di distribuzione delle terre e della stampa, si scusa per eventuali gravi inesattezze che ha riscontrato; inoltre, afferma di non stare scrivendo un altro libro polemico verso gli Americani, come alcuni sostenevano, e garantisce di stare riferendo in Inghilterra questi suoi pensieri.

Importante la precisazione che troviamo verso la fine del Postscriptum. Dickens scrive infatti:

“Questa testimonianza, finchè vivrò, e finchè i miei discendenti avranno diritti legali sulle mie opere, dovrà essere ristampata come appendice ai miei due libri nei quali ho parlato dell’America. E in questo senso darò disposizioni e le farò rispettare, non soltanto per affetto e per gratitudine, ma in quanto lo ritengo doveroso per un ovvio senso della giustizia e dell’onore”.

Nell’edizione italiana Adelphi sono presenti 38 illustrazioni dell’edizione originale di “Chapman e Hall”, di Londra, realizzate da Phiz, uno dei più importanti disegnatori delle opere di Dickens.

Martin Chuzzlevit
Phiz (Hablot K. Browne)
Il frontespizio di Martin Chuzzlewit di Charles Dickens
1844

Queste immagini che ho inserito nel post le ho prese dal ricchissimo sito www.victorianweb.org

  • Un ottimo sito dedicato a Dickens (in inglese) >>
  • Il libro >>